DOROTEO DI GAZA
SCRITTI E INSEGNAMENTI SPIRITUALI
89. Evagrio ha detto: “È cosa estranea ai monaci adirarsi e rattristare
qualcuno”
[1]. E ancora: “Se uno ha
dominato la collera, ha dominato i demoni, ma se uno è vinto da questa
passione, è del tutto estraneo alla vita monastica”
[2], e ciò che segue. Che
dobbiamo dunque dire di noi stessi che senza fermarci alla collera e
all’ira, a volte ci spingiamo fino al rancore? Che altro dobbiamo fare
se non fare lutto su questa nostra pietosa e disumana condizione? Siamo
dunque vigilanti, fratelli, e veniamo in aiuto a noi stessi, dopo Dio,
per essere liberati dall’amarezza di questa funesta passione. Uno, a
volte, fa una metania
(Ndr: metania: prostrazione, gesto liturgico che indica l'azione del
prostrarsi)
a suo fratello perché, evidentemente, i due si sono turbati o irritati
l’uno contro l’altro, ma anche dopo la metania rimane rattristato e
nutre cattivi pensieri contro quell’altro. Costui non deve considerare
poca cosa questi pensieri, ma spezzarli al più presto. Si tratta di
rancore ed è necessaria una grande vigilanza, come ho detto, è
necessaria la conversione, è necessaria la lotta, per non indugiare in
questi pensieri e correre rischi. Facendo la metania in obbedienza al
comandamento, infatti, per il momento ha guarito l’ira, ma non ha ancora
lottato contro il rancore e per questo rimane irritato contro il
fratello. Una cosa infatti è il rancore, un’altra cosa l’ira, un’altra
la collera e un’altra cosa ancora il turbamento
[3].
90. Vi faccio un esempio perché possiate capire. Chi accende un fuoco
dapprima ha soltanto un carboncino; questo carboncino è la parola del
fratello che lo ha rattristato: ecco, è ancora soltanto un carboncino.
Che cosa è infatti la parola di tuo fratello? Se la sopporti, spegni il
carboncino. Se invece continui a pensare: “Perché mi ha detto questo? Ho
di che rispondergli!”, e: “Se non avesse voluto ferirmi, non l’avrebbe
detto”, e: “Credimi! Anch’io posso ferirlo!”, ecco che hai messo dei
legnetti o qualcos’altro, come chi accende il fuoco, e hai fatto del
fumo, cioè il turbamento. Il turbamento è quel movimento e quella folla
di pensieri che eccita e rende arrogante il cuore. L’arroganza è
l’impulso a rendere il contraccambio a chi ci ha fatto soffrire, ed essa
diventa anche audacia, come ha detto abba Marco: “La cattiveria divenuta
oggetto di meditazione nei pensieri rende arrogante il cuore; eliminata
attraverso la preghiera e la speranza, lo rende contrito”[4].
Se avessi sopportato quella piccola parola di tuo fratello avresti
spento il carboncino prima che nascesse turbamento. Ma anche questo, se
vuoi, lo puoi spegnere facilmente non appena si presenta, attraverso il
silenzio, la preghiera, una metania fatta con il cuore; se invece
continui a fare del fumo, cioè a infiammare ed eccitare il tuo cuore
pensando: “Perché mi ha detto questo? Ho anch’io qualcosa da dirgli”, da
questo affollarsi e urtarsi dei pensieri, per così dire, il cuore si
consuma e si surriscalda, e così si accende la collera. La collera
infatti, come dice san Basilio, è l’ebollizione del sangue intorno al
cuore[5].
Ecco, è nata la collera, quella che viene detta irascibilità. Se dunque
vuoi, puoi spegnere anche questa prima che diventi ira; ma se continui a
turbare e a lasciarti turbare, ti troverai a essere come chi ha messo
legna nel focolare e il fuoco divampa ancor più, e così si forma il
carbone, che è l’ira.
91. E questo è quello che diceva abba Zosima quando gli chiesero che
cosa significa il detto: “Dove non c’è collera, si placa la battaglia”[6].
Se uno infatti, all’inizio del turbamento, quando, come abbiamo detto,
il fuoco comincia a far fumo e a sprigionare scintille, prevenendo le
conseguenze, rimprovera se stesso e fa una metania prima che si accenda
e si formi la collera, si mette in pace. Ma se, dopo che è nata la
collera, non si calma ma rimane turbato e irritato, si ritrova a essere
simile, come abbiamo detto, a chi mette legna sul fuoco e continua a
bruciare fino a produrre molta brace. Come dunque i tizzoni di brace
diventano carbone, vengono messi da parte e durano una quantità di anni
senza rovinarsi e non marciscono neppure se vi si versa sopra
dell'acqua, così anche l'ira se permane nel tempo, diventa rancore, e
allora, se non si versa il proprio sangue, non se ne è liberati.
Ecco, vi ho spiegato la differenza: capitela bene! Ecco, avete sentito
che cos'è il turbamento iniziale, che cos'è la collera, che cosa l’ira e
che cosa il rancore. Vedete come da una parola si giunge a un male così
grande? Se infatti fin dall’inizio si fosse indirizzato il rimprovero a
se stessi e si fosse sopportata la parola del fratello senza volersi
vendicare e senza dire due o cinque parole al posto di una, se non si
avesse voluto ricambiare il male con il male, si sarebbero potuti
evitare tutti questi mali. Per questo vi dico sempre: tagliate le
passioni finché sono giovani prima che si rafforzino dentro di voi e voi
abbiate a soffrire. Altra cosa infatti è strappare una piantina, altra
cosa sradicare un albero.
92. Niente mi sorprende tanto quanto il fatto che non ci rendiamo conto
di quello che cantiamo nei salmi. Ogni giorno, mentre cantiamo i salmi,
malediciamo noi stessi e non ce ne accorgiamo. Non dovremmo sapere
quello che cantiamo? Diciamo sempre:
Se ho reso il male a chi mi ha fatto del male, che io cada spogliato
davanti ai miei nemici
(Sal 7,5). Che cosa vuol dire
che io cada?
Finché uno sta in piedi, ha la forza di resistere al nemico: dà colpi e
li riceve, vince ed è sconfitto, ma rimane pur sempre in piedi. Se
invece arriva a cadere, come può lottare da terra contro il nemico?
Eppure noi ci auguriamo non solo di cadere davanti ai nostri nemici, ma
addirittura di cadere “spogliati”. E cosa significa “cadere spogliati
davanti ai nemici”? Abbiamo già detto che cadere vuol dire non aver più
la forza di resistere ed essere stesi a terra. “Essere spogliati”,
invece, significa non avere in noi più niente di buono, neppure per
poterci rialzare. Chi si rialza, infatti, può ancora riprendersi e prima
o poi ritorna a combattere. Poi diciamo:
Il nemico insegua e afferri la mia anima
(Sal 7,6), non solo
insegua,
ma anche
afferri;
ci auguriamo cioè di cadere nelle sue mani, di essere completamente in
suo potere e che egli ci getti a terra a ogni occasione, se rendiamo il
male a chi ci ha fatto del male. E ci auguriamo non soltanto questo, ma
anche che sia calpestata a terra la nostra vita. Che cos’è la nostra
vita? La nostra vita sono le virtù, e noi ci auguriamo che la nostra
vita sia calpestata a terra, cioè che diventiamo interamente terrestri,
con tutti i pensieri rivolti in basso, verso la terra.
E riduca a polvere la mia gloria
(Sal 7,6). Che cos’è la nostra gloria se non la scienza che nasce in noi
grazie all'obbedienza ai santi comandamenti[7]?
Questo diciamo, dunque, che il nemico faccia della nostra gloria la
nostra vergogna, come dice l’Apostolo (cf. Fil 3,19), che la riduca in
polvere e che renda terrestre la nostra vita e la nostra gloria, che non
abbiamo più pensieri secondo Dio, ma solo pensieri secondo il corpo,
secondo la carne, come quelli di cui Dio diceva:
Non
rimarrà il mio spirito in questi uomini, perché essi sono carne
(Gen 6,3).
Ecco tutte le maledizioni che pronunciamo[8]
cantando contro noi stessi, se rendiamo male per male; e di fatto
continuamente rendiamo male per male, ma non ci facciamo caso, né ce ne
preoccupiamo affatto!
93. Si può rendere male per male non solo con le azioni, ma anche con le
parole o con l’atteggiamento. L’uno in apparenza non rende il male con
le azioni, ma si trova poi a farlo a parole, come ho detto, o con il suo
atteggiamento. A volte infatti accade che uno turbi il fratello con un
atteggiamento, un gesto, uno sguardo, poiché si può ferire il fratello
anche con uno sguardo o un gesto: anche questo è rendere male per male.
Un altro si sforza di non rendere male per male né con azioni, né con
parole, né con atteggiamenti o gesti, ma cova tristezza nel suo cuore
contro suo fratello e si rattrista contro di lui. Vedete quale
differenza di situazioni! Un altro non prova tristezza alcuna contro il
fratello, ma se sente dire che qualcuno l’ha fatto soffrire o ha
mormorato contro di lui o lo ha offeso, gioisce all’udire questo, e
anche costui si trova a rendere male per male nel suo cuore. Un altro
non cova cattiveria alcuna nel cuore né gioisce al sentire che chi gli
ha fatto del male viene offeso, anzi sta male se all’altro vien fatto
del male, però non prova piacere se l’altro sta bene e, se vede che
viene onorato o che è contento, si rattrista. Anche questa è una forma
di rancore, seppure più lieve tuttavia lo è. Si deve invece gioire se il
fratello è contento e fare tutto per servirlo e cercare di onorarlo e
compiacerlo in ogni modo.
94. Abbiamo detto all’inizio del discorso che c’è qualcuno che fa la
metania al fratello e dopo la metania continua a essere rattristato
contro di lui, e diciamo che, facendo la metania, ha guarito con essa
l’ira, ma non ha ancora lottato contro il rancore. Ce n’è un altro che,
se accade che uno lo rattristi e i due si fanno vicendevolmente la
metania e si riconciliano, si mette in pace con l’altro e non conserva
nel suo cuore alcun cattivo ricordo riguardo a lui, ma se accade che
quello, dopo qualche giorno, gli dice qualcosa che lo fa soffrire,
comincia a ricordare anche le offese precedenti e a turbarsi non solo
per le seconde, ma anche per le prime. Costui assomiglia a un uomo che
ha una ferita e vi applica un impiastro e con l’impiastro ha guarito la
ferita e l’ha cicatrizzata, ma quel punto resta più debole e se uno gli
tira un sasso, quel punto è ferito più facilmente di tutto il corpo e
comincia subito a sanguinare. Così avviene anche a quel tale: aveva una
ferita, vi ha applicato un impiastro, che è la metania, e ha guarito la
ferita; come pure il primo, che ha guarito l’ira, ha cominciato a curare
anche il rancore cercando di non conservare alcun ricordo cattivo nel
proprio cuore, e questo corrisponde alla cicatrizzazione della ferita.
Non l’ha però ancora cancellata completamente, ma conserva ancora un
resto di rancore, che è la cicatrice a partire dalla quale facilmente
viene riaperta tutta la ferita quando riceve un piccolo colpo. Deve
dunque lottare per cancellare completamente anche la cicatrice, così che
su quel punto ricrescano i peli e non resti alcun brutto segno, e non ci
si accorga che in quel punto c’è stata una ferita. Ma come può
riuscirci? Pregando con tutto il cuore per chi l’ha fatto soffrire e
dicendo: “O Dio, aiuta mio fratello e aiuta me grazie alle sue
preghiere”. E si trova così a pregare per suo fratello, cosa che è segno
di compassione e di amore, e a umiliarsi per il fatto di chiedere aiuto
grazie alle sue preghiere. Là dove vi è compassione, amore e umiltà,
come possono prevalere la collera, il rancore, o un’altra passione? Come
ha detto anche abba Zosima: “Anche se il diavolo e tutti i suoi demoni
mettono in atto tutti i sortilegi della loro malvagità, tutti i loro
espedienti sono vani e vengono spezzati dall’umiltà del comandamento di
Cristo”
[9].
Anche un altro anziano dice: “Chi prega per i nemici non conoscerà il
rancore”
[10].
95. Mettete in pratica e capite bene quello che ascoltate. In realtà se
non lo mettete in pratica, non potete ottenere queste cose con le
parole. Quale uomo che voglia imparare un’arte se ne appropria soltanto
con le parole? Certamente all'inizio continua a fare e a sbagliare, e di
nuovo a fare e a disfare, e così poco a poco, faticando e pazientando,
impara l’arte sotto lo sguardo di Dio che vede il suo proposito e la sua
fatica e coopera con lui
[11].
Noi invece vorremo ottenere “l’arte delle arti”
[12]
con le parole, senza metterci all’opera? Come è possibile? Vegliamo
dunque su noi stessi, fratelli, e lavoriamo con zelo finché ne abbiamo
l’occasione. Dio ci conceda di ricordare e di custodire quello che
abbiamo ascoltato, perché non sia per noi motivo di condanna nel giorno
del giudizio.
[1]
Il detto è attribuito a Macario il Grande da Zosima,
Colloqui
13, p. 119; cf.
Everghetinos
II,35,7,3, p. 452.
[2]
Evagrio Pontico,
I diversi cattivi pensieri
14, PG 79,1216B-C.
[3]
Per la distinzione dei diversi generi di collera cf. Basilio di
Cesarea,
Contro chi e adirato
6, PG 31,369A. Cassiano afferma: “Tre sono le specie della
collera. La prima è quella che avvampa esteriormente, denominata
in lingua greca
thymós.
La seconda è quella che prorompe in parole e gesti, denominata
in greco
orghé
... La terza è quella che non viene smaltita in breve tempo, ma
è coltivata per giorni e giorni: essa è definita in greco
ménis”
(Giovanni Cassiano,
Conferenze ai monaci
5,11, vol. I, p. 218).
[4]
Marco l’Asceta,
La legge spirituale
14, p. 173.
[5]
La definizione, di derivazione aristotelica e ripresa dagli
stoici, si trova anche in Basilio di Cesarea,
Su Isaia
5,181, PG 30,424A; cf. anche Evagrio Pontico,
Trattato pratico
11, p. 195.
[6]
Everghetinos
II,35,7,2, p. 451.
[7]
Cf. Clemente di Alessandria,
Stromati
III,5,44,3, p. 330: “La gnosi, noi affermiamo, non è parola pura
e semplice, ma una sorta di scienza divina: quella particolare
luce che si accende nell’animo per l’obbedienza ai
comandamenti”.
[8]
Cf. Detti dei padri,
Serie anonima,
Nau 587, pp. 230-231, dove si racconta di un fratello che è
triste perché si rende conto di non mettere in pratica ciò che
prega ogni giorno nei salmi e di maledire se stesso quando
recita:
Maledetti quelli che deviano dai tuoi comandamenti
(Sal 118,21), e conclude: “Tutta la mia liturgia e tutta la mia
preghiera si ergono contro di me a mio rimprovero e a mia
vergogna!”.
[9]
La citazione esatta non è reperibile nei
Colloqui
di Zosima. L’ultima parte della citazione potrebbe fare
riferimento alla frase finale di un detto di abba Daniele: cf.
Detti dei padri,
Serie alfabetica,
Daniele 3, p. 167: “Accade sempre così alla superbia del
diavolo, di cadere di fronte all’umiltà del precetto di Cristo”.
[10]
Evagrio Pontico,
Sentenze ai monaci
14, in Id.,
Per conoscere lui,
p. 148.
[11]
Troviamo un’immagine simile in Basilio di Cesarea,
Regole diffuse
7,4 p. 105: “Se uno dicesse che basta apprendere la Scrittura
per correggere i costumi, farebbe esattamente come uno che
impara il mestiere del falegname e non fabbrica mai niente, come
uno cui viene insegnato il mestiere del fabbro e non vuole
mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti”.
[12]
Gregorio di Nazianzo,
Discorsi
2,16, p. 18.
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1 gennaio 2025 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net