DOROTEO DI GAZA

SCRITTI E INSEGNAMENTI SPIRITUALI

 VIII. IL RANCORE

Estratto da "Doroteo di Gaza, Comunione con Dio e con gli uomini, Vita di abba Dositeo, Insegnamenti spirituali, Lettere e Detti", a cura di Lisa Cremaschi - Edizioni Qiqajon 2014

 

89. Evagrio ha detto: “È cosa estranea ai monaci adirarsi e rattristare qualcuno” [1]. E ancora: “Se uno ha dominato la collera, ha dominato i demoni, ma se uno è vinto da questa passione, è del tutto estraneo alla vita monastica” [2], e ciò che segue. Che dobbiamo dunque dire di noi stessi che senza fermarci alla collera e all’ira, a volte ci spingiamo fino al rancore? Che altro dobbiamo fare se non fare lutto su questa nostra pietosa e disumana condizione? Siamo dunque vigilanti, fratelli, e veniamo in aiuto a noi stessi, dopo Dio, per essere liberati dall’amarezza di questa funesta passione. Uno, a volte, fa una metania (Ndr: metania: prostrazione, gesto liturgico che indica l'azione del prostrarsi) a suo fratello perché, evidentemente, i due si sono turbati o irritati l’uno contro l’altro, ma anche dopo la metania rimane rattristato e nutre cattivi pensieri contro quell’altro. Costui non deve considerare poca cosa questi pensieri, ma spezzarli al più presto. Si tratta di rancore ed è necessaria una grande vigilanza, come ho detto, è necessaria la conversione, è necessaria la lotta, per non indugiare in questi pensieri e correre rischi. Facendo la metania in obbedienza al comandamento, infatti, per il momento ha guarito l’ira, ma non ha ancora lottato contro il rancore e per questo rimane irritato contro il fratello. Una cosa infatti è il rancore, un’altra cosa l’ira, un’altra la collera e un’altra cosa ancora il turbamento [3].

90. Vi faccio un esempio perché possiate capire. Chi accende un fuoco dapprima ha soltanto un carboncino; questo carboncino è la parola del fratello che lo ha rattristato: ecco, è ancora soltanto un carboncino. Che cosa è infatti la parola di tuo fratello? Se la sopporti, spegni il carboncino. Se invece continui a pensare: “Perché mi ha detto questo? Ho di che rispondergli!”, e: “Se non avesse voluto ferirmi, non l’avrebbe detto”, e: “Credimi! Anch’io posso ferirlo!”, ecco che hai messo dei legnetti o qualcos’altro, come chi accende il fuoco, e hai fatto del fumo, cioè il turbamento. Il turbamento è quel movimento e quella folla di pensieri che eccita e rende arrogante il cuore. L’arroganza è l’impulso a rendere il contraccambio a chi ci ha fatto soffrire, ed essa diventa anche audacia, come ha detto abba Marco: “La cattiveria divenuta oggetto di meditazione nei pensieri rende arrogante il cuore; eliminata attraverso la preghiera e la speranza, lo rende contrito”[4]. Se avessi sopportato quella piccola parola di tuo fratello avresti spento il carboncino prima che nascesse turbamento. Ma anche questo, se vuoi, lo puoi spegnere facilmente non appena si presenta, attraverso il silenzio, la preghiera, una metania fatta con il cuore; se invece continui a fare del fumo, cioè a infiammare ed eccitare il tuo cuore pensando: “Perché mi ha detto questo? Ho anch’io qualcosa da dirgli”, da questo affollarsi e urtarsi dei pensieri, per così dire, il cuore si consuma e si surriscalda, e così si accende la collera. La collera infatti, come dice san Basilio, è l’ebollizione del sangue intorno al cuore[5]. Ecco, è nata la collera, quella che viene detta irascibilità. Se dunque vuoi, puoi spegnere anche questa prima che diventi ira; ma se continui a turbare e a lasciarti turbare, ti troverai a essere come chi ha messo legna nel focolare e il fuoco divampa ancor più, e così si forma il carbone, che è l’ira.

91. E questo è quello che diceva abba Zosima quando gli chiesero che cosa significa il detto: “Dove non c’è collera, si placa la battaglia”[6]. Se uno infatti, all’inizio del turbamento, quando, come abbiamo detto, il fuoco comincia a far fumo e a sprigionare scintille, prevenendo le conseguenze, rimprovera se stesso e fa una metania prima che si accenda e si formi la collera, si mette in pace. Ma se, dopo che è nata la collera, non si calma ma rimane turbato e irritato, si ritrova a essere simile, come abbiamo detto, a chi mette legna sul fuoco e continua a bruciare fino a produrre molta brace. Come dunque i tizzoni di brace diventano carbone, vengono messi da parte e durano una quantità di anni senza rovinarsi e non marciscono neppure se vi si versa sopra dell'acqua, così anche l'ira se permane nel tempo, diventa rancore, e allora, se non si versa il proprio sangue, non se ne è liberati.

Ecco, vi ho spiegato la differenza: capitela bene! Ecco, avete sentito che cos'è il turbamento iniziale, che cos'è la collera, che cosa l’ira e che cosa il rancore. Vedete come da una parola si giunge a un male così grande? Se infatti fin dall’inizio si fosse indirizzato il rimprovero a se stessi e si fosse sopportata la parola del fratello senza volersi vendicare e senza dire due o cinque parole al posto di una, se non si avesse voluto ricambiare il male con il male, si sarebbero potuti evitare tutti questi mali. Per questo vi dico sempre: tagliate le passioni finché sono giovani prima che si rafforzino dentro di voi e voi abbiate a soffrire. Altra cosa infatti è strappare una piantina, altra cosa sradicare un albero.

92. Niente mi sorprende tanto quanto il fatto che non ci rendiamo conto di quello che cantiamo nei salmi. Ogni giorno, mentre cantiamo i salmi, malediciamo noi stessi e non ce ne accorgiamo. Non dovremmo sapere quello che cantiamo? Diciamo sempre: Se ho reso il male a chi mi ha fatto del male, che io cada spogliato davanti ai miei nemici (Sal 7,5). Che cosa vuol dire che io cada? Finché uno sta in piedi, ha la forza di resistere al nemico: dà colpi e li riceve, vince ed è sconfitto, ma rimane pur sempre in piedi. Se invece arriva a cadere, come può lottare da terra contro il nemico? Eppure noi ci auguriamo non solo di cadere davanti ai nostri nemici, ma addirittura di cadere “spogliati”. E cosa significa “cadere spogliati davanti ai nemici”? Abbiamo già detto che cadere vuol dire non aver più la forza di resistere ed essere stesi a terra. “Essere spogliati”, invece, significa non avere in noi più niente di buono, neppure per poterci rialzare. Chi si rialza, infatti, può ancora riprendersi e prima o poi ritorna a combattere. Poi diciamo: Il nemico insegua e afferri la mia anima (Sal 7,6), non solo insegua, ma anche afferri; ci auguriamo cioè di cadere nelle sue mani, di essere completamente in suo potere e che egli ci getti a terra a ogni occasione, se rendiamo il male a chi ci ha fatto del male. E ci auguriamo non soltanto questo, ma anche che sia calpestata a terra la nostra vita. Che cos’è la nostra vita? La nostra vita sono le virtù, e noi ci auguriamo che la nostra vita sia calpestata a terra, cioè che diventiamo interamente terrestri, con tutti i pensieri rivolti in basso, verso la terra. E riduca a polvere la mia gloria (Sal 7,6). Che cos’è la nostra gloria se non la scienza che nasce in noi grazie all'obbedienza ai santi comandamenti[7]? Questo diciamo, dunque, che il nemico faccia della nostra gloria la nostra vergogna, come dice l’Apostolo (cf. Fil 3,19), che la riduca in polvere e che renda terrestre la nostra vita e la nostra gloria, che non abbiamo più pensieri secondo Dio, ma solo pensieri secondo il corpo, secondo la carne, come quelli di cui Dio diceva: Non rimarrà il mio spirito in questi uomini, perché essi sono carne (Gen 6,3).

Ecco tutte le maledizioni che pronunciamo[8] cantando contro noi stessi, se rendiamo male per male; e di fatto continuamente rendiamo male per male, ma non ci facciamo caso, né ce ne preoccupiamo affatto!

93. Si può rendere male per male non solo con le azioni, ma anche con le parole o con l’atteggiamento. L’uno in apparenza non rende il male con le azioni, ma si trova poi a farlo a parole, come ho detto, o con il suo atteggiamento. A volte infatti accade che uno turbi il fratello con un atteggiamento, un gesto, uno sguardo, poiché si può ferire il fratello anche con uno sguardo o un gesto: anche questo è rendere male per male. Un altro si sforza di non rendere male per male né con azioni, né con parole, né con atteggiamenti o gesti, ma cova tristezza nel suo cuore contro suo fratello e si rattrista contro di lui. Vedete quale differenza di situazioni! Un altro non prova tristezza alcuna contro il fratello, ma se sente dire che qualcuno l’ha fatto soffrire o ha mormorato contro di lui o lo ha offeso, gioisce all’udire questo, e anche costui si trova a rendere male per male nel suo cuore. Un altro non cova cattiveria alcuna nel cuore né gioisce al sentire che chi gli ha fatto del male viene offeso, anzi sta male se all’altro vien fatto del male, però non prova piacere se l’altro sta bene e, se vede che viene onorato o che è contento, si rattrista. Anche questa è una forma di rancore, seppure più lieve tuttavia lo è. Si deve invece gioire se il fratello è contento e fare tutto per servirlo e cercare di onorarlo e compiacerlo in ogni modo.

94. Abbiamo detto all’inizio del discorso che c’è qualcuno che fa la metania al fratello e dopo la metania continua a essere rattristato contro di lui, e diciamo che, facendo la metania, ha guarito con essa l’ira, ma non ha ancora lottato contro il rancore. Ce n’è un altro che, se accade che uno lo rattristi e i due si fanno vicendevolmente la metania e si riconciliano, si mette in pace con l’altro e non conserva nel suo cuore alcun cattivo ricordo riguardo a lui, ma se accade che quello, dopo qualche giorno, gli dice qualcosa che lo fa soffrire, comincia a ricordare anche le offese precedenti e a turbarsi non solo per le seconde, ma anche per le prime. Costui assomiglia a un uomo che ha una ferita e vi applica un impiastro e con l’impiastro ha guarito la ferita e l’ha cicatrizzata, ma quel punto resta più debole e se uno gli tira un sasso, quel punto è ferito più facilmente di tutto il corpo e comincia subito a sanguinare. Così avviene anche a quel tale: aveva una ferita, vi ha applicato un impiastro, che è la metania, e ha guarito la ferita; come pure il primo, che ha guarito l’ira, ha cominciato a curare anche il rancore cercando di non conservare alcun ricordo cattivo nel proprio cuore, e questo corrisponde alla cicatrizzazione della ferita. Non l’ha però ancora cancellata completamente, ma conserva ancora un resto di rancore, che è la cicatrice a partire dalla quale facilmente viene riaperta tutta la ferita quando riceve un piccolo colpo. Deve dunque lottare per cancellare completamente anche la cicatrice, così che su quel punto ricrescano i peli e non resti alcun brutto segno, e non ci si accorga che in quel punto c’è stata una ferita. Ma come può riuscirci? Pregando con tutto il cuore per chi l’ha fatto soffrire e dicendo: “O Dio, aiuta mio fratello e aiuta me grazie alle sue preghiere”. E si trova così a pregare per suo fratello, cosa che è segno di compassione e di amore, e a umiliarsi per il fatto di chiedere aiuto grazie alle sue preghiere. Là dove vi è compassione, amore e umiltà, come possono prevalere la collera, il rancore, o un’altra passione? Come ha detto anche abba Zosima: “Anche se il diavolo e tutti i suoi demoni mettono in atto tutti i sortilegi della loro malvagità, tutti i loro espedienti sono vani e vengono spezzati dall’umiltà del comandamento di Cristo” [9]. Anche un altro anziano dice: “Chi prega per i nemici non conoscerà il rancore” [10].

95. Mettete in pratica e capite bene quello che ascoltate. In realtà se non lo mettete in pratica, non potete ottenere queste cose con le parole. Quale uomo che voglia imparare un’arte se ne appropria soltanto con le parole? Certamente all'inizio continua a fare e a sbagliare, e di nuovo a fare e a disfare, e così poco a poco, faticando e pazientando, impara l’arte sotto lo sguardo di Dio che vede il suo proposito e la sua fatica e coopera con lui [11]. Noi invece vorremo ottenere “l’arte delle arti”  [12] con le parole, senza metterci all’opera? Come è possibile? Vegliamo dunque su noi stessi, fratelli, e lavoriamo con zelo finché ne abbiamo l’occasione. Dio ci conceda di ricordare e di custodire quello che abbiamo ascoltato, perché non sia per noi motivo di condanna nel giorno del giudizio.

 


[1] Il detto è attribuito a Macario il Grande da Zosima, Colloqui 13, p. 119; cf. Everghetinos II,35,7,3, p. 452.

[2] Evagrio Pontico, I diversi cattivi pensieri 14, PG 79,1216B-C.

[3] Per la distinzione dei diversi generi di collera cf. Basilio di Cesarea, Contro chi e adirato 6, PG 31,369A. Cassiano afferma: “Tre sono le specie della collera. La prima è quella che avvampa esteriormente, denominata in lingua greca thymós. La seconda è quella che prorompe in parole e gesti, denominata in greco orghé ... La terza è quella che non viene smaltita in breve tempo, ma è coltivata per giorni e giorni: essa è definita in greco ménis” (Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci 5,11, vol. I, p. 218).

[4] Marco l’Asceta, La legge spirituale 14, p. 173.

[5] La definizione, di derivazione aristotelica e ripresa dagli stoici, si trova anche in Basilio di Cesarea, Su Isaia 5,181, PG 30,424A; cf. anche Evagrio Pontico, Trattato pratico 11, p. 195.

[6] Everghetinos II,35,7,2, p. 451.

[7] Cf. Clemente di Alessandria, Stromati III,5,44,3, p. 330: “La gnosi, noi affermiamo, non è parola pura e semplice, ma una sorta di scienza divina: quella particolare luce che si accende nell’animo per l’obbedienza ai comandamenti”.

[8] Cf. Detti dei padri, Serie anonima, Nau 587, pp. 230-231, dove si racconta di un fratello che è triste perché si rende conto di non mettere in pratica ciò che prega ogni giorno nei salmi e di maledire se stesso quando recita: Maledetti quelli che deviano dai tuoi comandamenti (Sal 118,21), e conclude: “Tutta la mia liturgia e tutta la mia preghiera si ergono contro di me a mio rimprovero e a mia vergogna!”.

[9] La citazione esatta non è reperibile nei Colloqui di Zosima. L’ultima parte della citazione potrebbe fare riferimento alla frase finale di un detto di abba Daniele: cf. Detti dei padri, Serie alfabetica, Daniele 3, p. 167: “Accade sempre così alla superbia del diavolo, di cadere di fronte all’umiltà del precetto di Cristo”.

[10] Evagrio Pontico, Sentenze ai monaci 14, in Id., Per conoscere lui, p. 148.

[11] Troviamo un’immagine simile in Basilio di Cesarea, Regole diffuse 7,4 p. 105: “Se uno dicesse che basta apprendere la Scrittura per correggere i costumi, farebbe esattamente come uno che impara il mestiere del falegname e non fabbrica mai niente, come uno cui viene insegnato il mestiere del fabbro e non vuole mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti”.

[12] Gregorio di Nazianzo, Discorsi 2,16, p. 18.

 


Ritorno all'"Indice degli insegnamenti spirituali"


Ritorno alla pagina iniziale "Doroteo di Gaza"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


1 gennaio 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net