DOROTEO DI GAZA
VII. DELL'ACCUSA DI SE STESSI
(Tratto da “Doroteo di Gaza, Scritti e insegnamenti spirituali”,
a cura di Lisa Cremaschi - ed. Paoline, 1980)
79. Conviene investigare,
fratelli, sul perché del fatto che talvolta uno sente una parola
spiacevole, e la sente senza turbarsi, come se non avesse udito nulla; e
altre volte uno subito si turba. Dove sta la causa di tale differenza?
Credo che ci siano molte ragioni, ma penso che sia una sola quella che
genera, per così dire, tutte le altre. Mi spiego: un fratello, per
esempio, conclude la sua preghiera o una buona meditazione e, di
conseguenza, si trova in una buona forma; sopporta il fratello e
continua ad accudire alle sue faccende senza turbarsi. Un altro, invece,
che ha affetto per il suo fratello, in forza di questa simpatia sopporta
tranquillamente tutto ciò che da questo fratello gli viene. E accade
anche che un fratello disprezzi colui che gli causa qualche tristezza,
non tenga in alcun conto tutto quello che viene da lui e neppure gli
presti attenzione come persona, poiché non lo considera né in quello che
dice né in quello che fa.
80. C’era nel monastero, prima
che io lo lasciassi, un fratello che non vedo mai turbato né adirato con
chicchessia. Allo stesso tempo, osservavo che molti dei fratelli lo
trattavano male e l’offendevano in diversi modi. Quel giovane monaco
sopportava ciò che gli altri gli facevano come se nulla, assolutamente,
lo molestasse. Io non cessavo di ammirare la sua eccessiva pazienza, e
desideravo sapere come avesse acquisito quella virtù. Un giorno lo
chiamai in privato e facendogli un inchino lo invitai a dirmi quali
erano i pensieri che custodiva nel suo cuore, nel dimostrare tanta
pazienza in mezzo agli oltraggi e ai castighi che doveva sopportare. Mi
rispose semplicemente e senza giri di parole: «Ho l’abitudine di
tenermi, di fronte a quelli che mi trattano in quel modo, come i
cagnolini con i loro padroni». Davanti a quelle parole, misi la coda fra
le gambe e dissi a me stesso: «Questo fratello ha trovato il cammino».
Dopo essermi fatto il segno della croce lo lasciai, domandando a Dio
protezione per entrambi.
81. Talora uno non si turba a
motivo del disprezzo: sarebbe manifestamente disastroso. Quando uno però
si turba a causa di un fratello che ci infligge una pena, l’origine di
tale turbamento può venire sia da una cattiva disposizione del momento,
sia dall’avversione che si prova per quel fratello. Si possono anche
sostenere ragioni molto diverse. Ma se cerchiamo con cura la causa del
turbamento, ci ritroviamo sempre con qualcosa in comune: il fatto di non
accusare se stessi. Da lì viene il nostro abbattimento e il fatto di non
saper trovare pace nella contraddizione. Non c’è da stupirsi se tutti i
santi dicono che non c’è altra strada all’infuori di questa. Nessuno ha
trovato riposo seguendo un altro cammino, né possiamo noi pensare di
trovarlo per seguire un cammino retto, se mai acconsentiamo ad accusare
noi stessi. Uno, certo, può fare mille opere buone, ma se non segue
questa strada non smetterà mai di far soffrire e di soffrire egli
stesso, perdendo così ogni merito.
Che gioia, invece, che riposo
non gusterà, ovunque egli vada, colui che accusa se stesso, come ha
detto Abba Pimen! Di qualsiasi danno, oltraggio o pena che possa venire
su di lui, si giudicherà degno a priori, e mai si turba. Esiste uno
stato più esente da preoccupazioni di questo?
82. Qualcuno però dirà: se un
fratello mi molesta e − esaminandomi − verifico di non avergli dato
alcun pretesto, come potrei accusarmi? In realtà, se uno si esamina
onestamente e con timor di Dio, certamente si renderà conto che avrà
dato qualche pretesto, con un atto, una parola o un atteggiamento. E se
egli giungerà a vedere che nulla di tutto ciò ha costituito un minimo
pretesto per il caso attuale, è verosimile che abbia mancato alla carità
contro quel fratello in un’altra occasione per la stessa causa o per
un’altra, o che abbia fatto soffrire un altro fratello, e precisamente
per questo o per un altro peccato diverso che abbia commesso merita
l’attuale sofferenza. Pertanto, chi si esamina con timor di Dio e scruta
accuratamente la propria coscienza si troverà sempre in qualche modo
responsabile.
Avviene anche che un fratello,
credendo di stare in pace e tranquillità, si turba per una parola
urtante che un altro gli ha appena detto, e ritiene di aver ragione ad
arrabbiarsi, poiché pensa: «Se questo fratello non fosse venuto a
parlarmi o turbarmi, non avrei peccato». Questa è un’illusione, un falso
ragionamento. È colui che ha detto quella parola che vi ha immesso della
passione? Semplicemente, con quella parola gli ha rivelato la
passione che già parlava in lui, affinché si penta, se lo vuole.
Quel fratello assomiglia a un
pane di puro frumento di bell’aspetto fuori, ma che − una volta spezzato
− lascia vedere il suo marciume interiore. Si credeva in pace, ma c’era
in lui una passione che egli ignorava o che non teneva in
considerazione. Una sola parola del suo fratello ha portato alla luce il
marcio occulto del suo cuore. Se vuole ottenere misericordia, che si
penta, si purifichi e − alla fine − si accorgerà di dover piuttosto
ringraziare il suo fratello, che è stato per lui causa di tanto
beneficio.
83. Su questo cammino, le prove
non lo fiaccheranno troppo e, quanto più progredirà, tanto più leggere
gli sembreranno. Nella misura, infatti, in cui l’anima cresce, diventa
più forte e capace di sopportare quanto le succede. È come un animale da
soma: se è robusto, porta agevolmente il pesante fardello di cui viene
caricato. Se anche perde l’equilibrio, si rialza subito, non ne soffre.
Se è debole, però, ogni carico lo sfianca e − una volta caduto − gli
sarà necessario molto aiuto per tornare ad alzarsi.
Così per l’anima. S’indebolisce
ogni volta che pecca, giacché il peccato esaurisce e corrompe il
peccatore. Una difficoltà da niente, ed è subito sfinita. Se invece un
uomo avanza nella virtù, quello che in passato lo stremava diviene per
lui progressivamente più lieve. Questo rappresenta per noi un grande
vantaggio, una sorgente abbondante di riposo e di progresso, che rende
responsabili noi stessi, e non quello che accade, una volta che nulla ci
può capitare senza la Provvidenza di Dio.
84. Qualcuno, però, potrà dire:
come non tormentarmi, se ho necessità di una cosa e non la ricevo? In
tal caso sarebbe spinto dalla necessità. Anche qui non ci sarebbe allora
spazio per accusare l’altro, né per essere disgustato nei confronti di
qualcuno. Chi pensa di avere realmente necessità di una cosa e non la
riceve, deve dire a se stesso: «Cristo sa meglio di me se io devo
ottenere soddisfazione, e lui stesso si occuperà di questa cosa o di
questo alimento». I figli d’Israele mangiarono la manna nel deserto per
quarant’anni e, benché essa fosse la stessa per tutti, per ciascuno
quella manna si trasformava in ciò che desiderava: salata per chi la
voleva salata, dolce per chi la desiderava dolce, adattandosi all’indole
di ognuno (cfr. Sapienza 16,21). Se poi uno ha bisogno di
mangiare uova e riceve solo verdura, dica a se stesso: «Se mangiare un
uovo mi fosse stato utile, Dio certamente me lo avrebbe inviato. E poi,
è possibile che questa verdura sia per me come se avessi mangiato un
uovo». Sono certo che il Signore glielo terrà in conto, come se fosse
martirio. Perché, se è davvero degno di essere ascoltato, Dio inclinerà
il cuore dei saraceni ad essere misericordiosi a misura della sua
necessità. Ma se lui non è degno, o ciò che chiede non gli è utile, non
avrà soddisfazione fino a quando Egli non faccia un cielo nuovo e una
terra nuova.
È certo che a volte uno riceve
più delle sue necessità e a volte meno. Posto che Dio, nella sua
misericordia, provvede a ognuno ciò che gli è necessario, se Egli dà il
superfluo è per mostrargli il suo eccesso di tenerezza, e insegnargli ad
essere grato. Quando invece Egli non dà il necessario, supplisce con la
sua parola alla cosa di cui si ha bisogno, e gli insegna la pazienza.
Così in tutto − che riceviamo il bene o il male − dobbiamo guardare in
alto, e render grazie a Dio per tutto quello che accade, senza mai
cessare di accusare noi stessi, e dire con i Padri: «Se ci succede
qualcosa di buono, è per disposizione divina; se ci avviene il male, è a
causa dei nostri peccati».
Davvero tutte le nostre
sofferenze vengono dai nostri peccati. I santi, quando soffrono,
soffrono per il nome di Dio o per la manifestazione della sua virtù, per
il vantaggio di molti o per l’aumento della ricompensa che verrà loro da
parte di Dio. Ma come potremmo fare lo stesso noi, poveri miserabili?
Ogni giorno pecchiamo e ci lasciamo portare dalle nostre passioni;
abbiamo abbandonato il retto cammino che ci hanno mostrato i
Padri e che consiste nell’accusare noi stessi; al contrario,
seguiamo il cammino tortuoso in cui ognuno accusa il prossimo.
Ognuno di noi, in ogni circostanza, si affretta a buttare la colpa sul
fratello e a caricarlo di pesi. Viviamo nella negligenza, senza curarci
di niente, e − per un altro lato − domandiamo conto al prossimo di come
lui compie i comandamenti.
85. Due fratelli in lite tra di
loro un giorno vennero a vedermi. Il più anziano diceva dell’altro:
«Quando gli do un ordine si infastidisce, e io pure, poiché penso che se
lui avesse fiducia e carità verso di me rispetterebbe di buon grado
quello che gli dico». Il più giovane diceva: «Che la tua Reverenza mi
perdoni: è indubbio che egli non mi parla con timore di Dio ma con la
volontà di comandarmi, ed è per questo − penso io − che il mio cuore non
ha fiducia, secondo la parola dei Padri».
Notiamo come quei due fratelli
si accusassero mutuamente, senza che né l’uno né l’altro accusasse se
stesso.
Altri due, irritati l’uno contro
l’altro, si facevano inchini ma nutrivano reciproca diffidenza. Il primo
diceva: «Non mi ha fatto l’inchino di buon grado, e per questo non ho
avuto fiducia, secondo la parola dei Padri ». L’altro diceva: «Non aveva
nei miei riguardi nessuna disposizione caritatevole, prima che gli
presentassi le mie scuse; per questo nemmeno io ho fiducia in lui».
Vedete la perversione dello spirito umano? Sa Dio come mi preoccupa
vedere che utilizziamo perfino le parole dei Padri per servire le nostre
cattive volontà e perdere le nostre anime. Occorreva che ciascuno
accusasse se stesso. L’uno doveva dire: «Non è di buon grado che ho
fatto l’inchino al mio fratello; per questo il Signore non ha riposto la
sua fiducia in lui». E l’altro: «Io non avevo alcuna disposizione
caritatevole nei suoi confronti prima del suo inchino; per questo Dio
non ha riposto la propria fiducia in lui». E sarebbe stato necessario
che anche i primi due facessero lo stesso. L’uno avrebbe dovuto dire:
«Io parlo con sufficienza, per questo Dio non dà fiducia al mio
fratello». E l’altro: «Il mio fratello mi dà ordini con umiltà e carità,
ma io sono indocile e non ho timore di Dio». In realtà, nessuno dei due
trovò la strada… nessuno accusò se stesso. Anzi, ognuno accusò il suo
prossimo.
86. È questa la ragione per cui
non riusciamo a progredire e non arriviamo ad essere, anche solo un
poco, utili. Passiamo piuttosto il nostro tempo a corromperci con
pensieri reciprocamente ostili, e a tormentarci noi stessi. Ognuno si
giustifica, ognuno si trascura, come ho detto, senza osservare niente; e
− per un altro lato − preferiamo chiedere conto al prossimo della sua
osservanza dei comandamenti.
Per questo non ci abituiamo al
bene: non appena riceviamo un poco di autorità, immediatamente chiediamo
conto al prossimo e lo accusiamo dicendo: «Dovrebbe fare questo; perché
ha agito così?». Invece, perché non domandiamo conto a noi stessi dei
comandamenti e non ci accusiamo di non osservarli?
Ricordiamo quel santo vegliardo
al quale domandavano: «Qual è la cosa più grande che trovi in questo
cammino?». E avendo risposto «accusare se stessi in tutto », chi lo
aveva interrogato lo elogiò: ed egli soggiunse: «Non c’è altro cammino
all’infuori di questo».
Allo stesso modo Abba Pimen
diceva con gemiti: «In questa casa sono entrate tutte le virtù eccetto
una, e senza di essa a malapena l’uomo può reggersi in piedi». E
avendogli domandato gli astanti quale fosse quella virtù, egli rispose:
«Accusare se stessi».
Anche sant’Antonio diceva che il grande lavoro dell’uomo è farsi carico
del proprio peccato davanti a Dio, e aspettarsi tentazioni fino
all’ultimo sospiro.
Da ogni parte troviamo che i
Padri, osservando questa regola e riferendo tutto a Dio, anche le
piccole cose, hanno incontrato la pace.
87. Così si comportò quel santo
anziano che era ammalato, e al quale il discepolo mise nel cibo olio di
lino, che è molto nocivo, al posto del miele. L’anziano non disse nulla,
mangiò in silenzio una prima e una seconda porzione, quello che gli era
necessario, senza accusare interiormente il suo fratello né pensare che
avesse agito con trascuratezza, e senza nemmeno dire una sola parola che
potesse rattristarlo. Quando il fratello si rese conto di quello che
aveva fatto, cominciò ad affliggersi e a dire: «Ti ho dato la morte,
abate, e sei tu che mi hai fatto commettere questo peccato, con il tuo
silenzio». Ma l’anziano gli rispose con dolcezza: «Non ti affliggere,
figlio mio. Se Dio avesse voluto che io mangiassi miele, sarebbe stato
miele quello che tu mi avresti presentato ». E in quel modo riferì
immediatamente tutto l’affare a Dio. Però, buon vecchio, che cos’ha a
che vedere Dio con questo assunto? Il fratello ha commesso un errore e
tu dici: «Se Dio avesse voluto…»? Dov’è il rapporto tra le due cose? «Se
Dio − aggiunse il vegliardo − avesse voluto che io mangiassi miele, il
fratello avrebbe messo il miele». Egli era malato, aveva passato molti
giorni senza toccare cibo; eppure non si adirò con il fratello:
riportando la cosa a Dio, conservò la calma. Bene parlò l’anziano, visto
che sapeva che se Dio avesse voluto che egli mangiasse miele avrebbe
trasformato in miele anche quell’olio infetto.
88. Quanto a noi, fratelli,
con quanta frequenza non ci scagliamo contro il nostro prossimo
opprimendolo di rimproveri e accusandolo di disprezzo e di agire contro
la sua coscienza! Abbiamo udito una parola? Subito la prendiamo per
male e diciamo: «Se non avesse voluto ferirmi, non avrebbe parlato
così». Dov’è quel santo che diceva, rispetto a Semei, «se maledice, è
perché il Signore gli ha detto: “Maledici Davide!” »? Forse che Dio
ordina a un assassino di maledire il profeta? In che modo Dio glielo
avrebbe detto? Nella sua sapienza, però, il profeta ben sapeva che nulla
attrae tanto la misericordia di Dio sull’anima come le tentazioni,
soprattutto quelle che sopravvengono in tempi di oppressione e di
persecuzione. E rispose: «Lasciatelo maledire, poiché glielo ha ordinato
il Signore». Ma per quale motivo? «Forse il Signore guarderà la mia
afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione» (2 Samuele
16,10-12). Vedi con quale sapienza il profeta agiva. Si arrabbiava con
quelli che volevano castigare Semei che lo malediceva: «Che ho io in
comune con voi, figli di Seruià? − diceva lui −. Lasciatelo maledire,
poiché glielo ha ordinato il Signore».
Quanto siamo lontani, noi, dal
dire, riguardo a un nostro fratello: «Glielo ha ordinato il Signore»!
Anzi al contrario, non appena abbiamo udito una sua parola, abbiamo la
stessa reazione di un cane cui si tira un sasso: lascia stare quello che
l’ha scagliato e va a mordere il sasso. Così facciamo noi: abbandoniamo
Dio che permette che siamo sottoposti a prove per purificarci dai nostri
peccati e ci avventiamo sul nostro prossimo dicendogli: «Perché mi hai
fatto questo?». E quando potremmo trarre un gran profitto da queste
sofferenze, ci perdiamo in trappole che tendiamo a noi stessi, e non
riconosciamo che tutto accade per Provvidenza divina, secondo quanto è
buono per ognuno. Che Dio ci dia intelligenza attraverso le preghiere
dei santi. Amen.
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9 dicembre 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net