PROFEZIA E MISTICA DI
ILDEGARDA
DI BINGEN
di
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estratto da: "Ildegarda di Bingen - Il centro della ruota Spiegazione della Regola di San Benedetto"
a cura del Centro Studi St. Idelgarda e Ass. Culturale Nimesis - Milano, 1997 |
Questa illustrazione rappresenta l'amore divino del figlio di Dio. I
fuochi dell'amore e del giudizio bruciano sul suo petto, segnando i
limiti esterni dell'universo, nel quale l'uomo prende posto come
coronamento della creazione.
Tratto da "Liber Divinorum Operum", Lucques, Biblioteca Statale, Codex Latinum n. 1942, dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia |
“C’era in Germania una vergine mirabile cui la forza
divina aveva dato tali grazie che, benché essa fosse laica (‘Laico’ si intende
qui in opposizione a ‘chierico’, ovvero significa ‘colui che non ha frequentato
delle scuole’)
e
illetterata, tuttavia in maniera meravigliosa aveva imparato, spesso trasportata
in sogno, non soltanto a esprimersi, ma anche a dettare in latino, in modo tale
che dettando ha composto libri sulla fede cattolica”.
Così nel XIII secolo viene descritta s. Ildegarda di
Bingen da Vincenzo di Beauvais in quella grande enciclopedia del sapere
medievale che è lo
Speculum historiale.
Veramente straordinaria fu la vastità del sapere di Ildegarda, una delle figure
più affascinanti del Medioevo, in gran parte ancora del tutto da scoprire e da
inquadrare nella sua complessità, poiché la mole delle sue opere e la
poliedricità delle materie da lei trattate hanno talora indotto a privilegiare
solo alcuni aspetti e non sempre, purtroppo, nel quadro della generale
riscoperta della sua figura con l’approssimarsi dei 900 anni della sua nascita
(Ildegarda nacque nel 1098 a Bermersheim, m. 1179), sono i più importanti ad
aver goduto di considerazione.
Fino al XIII secolo, periodo in cui si può a buon diritto individuare
addirittura una ‘mistica femminile’ e tutto un fiorire di movimenti religiosi
promossi o legati a figure femminili, ben poche donne emergono nel panorama
della letteratura; nel XII secolo, poi, con l’eccezione di Eloisa, in campo
religioso ne compaiono solamente altre due oltre ad Ildegarda di Bingen, ossia
Elisabetta di Schonau († 164), che fu amica di Ildegarda, e Herrade di Landsberg
(† 191 ). Nessuna di queste due, però, esercitò durante la sua vita l’influsso e
il carisma della santa di Bingen.
Certo Ildegarda si segnalò all’attenzione dei suoi
contemporanei innanzitutto per la straordinaria forza delle sue visioni, che le
acquistarono già in vita fama di santità e la resero una delle figure più
carismatiche, tanto da indurre papi e imperatori a ricorrere al suo consiglio.
Ildegarda parla, perché costretta dall’invito imperioso e irrifiutabile (una
magna pressura, una stretta acuta e
dolorosa, la definisce) di una voce, che sente dentro di sé sin dalla più tenera
età, la voce della Luce vivente. È facendosi eco e cassa di risonanza di questa
voce che la badessa di Rupertsberg dispensa consigli e indirizzi di vita pratica
e spirituale, ma anche, più di ogni altra cosa, illustra una sua cosmologia e
tratta questioni teologiche. Altrettanto vasta e profonda è la sua conoscenza
del mondo naturale, la sua competenza nel campo della medicina e della
fisiologia.
Davvero impressionante ci appare ancor oggi l’estensione del suo sapere e tanto
più degne di nota mostrano di essere la sua scienza e la sua saggezza
trattandosi di una donna, una monaca reclusa in monastero inoltre, che, per sua
stessa definizione, è “una povera, piccola figura” che “nulla sa di umane
lettere”.
Con queste parole, infatti, si presenta Ildegarda nell’esordio della risposta ad
alcuni monaci che, per restituire disciplina al proprio convento, le chiedono
una spiegazione e un commento alla Regola di San Benedetto:
“... io, una povera donna che nulla sa di umane lettere, rispondendo alla vostra
richiesta volsi lo sguardo al vero lume ed alla memoria del beato Benedetto,
perché quanto nella dottrina della Regola di San Benedetto si presenta
all’intelletto umano alquanto difficile e oscuro, mi si manifestasse per divina
grazia. Ed io udii una voce dal vero Lume dirmi...”.
In parecchi punti dei suoi scritti Ildegarda torna a
ripetere questa professione di ignoranza e di scarsa istruzione (anche se tale
affermazione sembra in parte smentita ad un attento esame delle fonti delle sue
opere). Si definisce una
“paupercula forma”, una “povera,
piccola figura”; non solo, ma ripete dei luoghi comuni sull’inferiorità e sulla
subordinazione costituzionale delle donne agli uomini, che dall’esempio della
sua vita sembrerebbero contraddetti.
Non è sufficiente pensare, come ha fatto qualcuno,
che queste affermazioni siano semplicemente dei luoghi comuni; è pur vero che
sono piuttosto frequenti nella cultura dell’epoca e non solo in testi scritti da
donne. Se si leggono le prefazioni alle opere di alcuni autori del XII secolo,
per esempio il prologo dello
Speculum caritatis di Aelredo di
Rievaulx o quello di Ruperto di Deutz al
De victoria Dei, si ricava
l’impressione che spesso la decisione di scrivere sembri necessitare di una
giustificazione formale, soprattutto quando lo scrittore non è un maestro di
scuola, quindi non ha una motivazione professionale del suo scrivere: può essere
l’utilità del contenuto, il proposito di fornire un
exemplum o delle esortazioni di vita
morale (come nel caso delle vite di santi), il desiderio di sperimentare le
proprie capacità letterarie, sovente l’ordine di un superiore, al quale si
risponde magari controvoglia.
Una componente di queste affermazioni può essere
ricercata in convenzioni letterarie e
topos, così come le dichiarazioni di
inadeguatezza al compito e all’impegno richiesto possono essere indotte
dall’impegno monastico a praticare la virtù dell’umiltà.
Se tutto questo valeva per gli uomini, ancora di più doveva essere vero per le
donne che sceglievano di scrivere. Nel caso di Ildegarda, poi, la necessità di
un’approvazione e convalida autorevole era ancora più sentita, per il fatto che
ella scrisse su argomenti, quali quelli teologici, fino ad allora di stretta
pertinenza maschile.
Il Medioevo, sia la società civile sia le gerarchie ecclesiastiche, riservò ben
poco spazio all’azione delle donne. S. Tommaso d’Aquino, la cui speculazione
teologica è certamente la più importante di tutta l’età di mezzo, liquida
brevemente il ruolo della donna nell’ordine della creazione definendola
“ausiliaria all’opera dell’uomo nella procreazione”, dal momento che l’uomo
“trova migliore aiuto in un altro uomo che nella donna”.
La stessa Ildegarda, in un passo del
Liber divinorum operum, forse la più
importante delle sue opere teologiche, scrive in merito al rapporto fra uomini e
donne:
“L’uomo rappresenta la divinità, la donna l’umanità del figlio di Dio. L’uomo,
perciò, presiede il tribunale del mondo e governa ogni creatura, mentre la donna
è sottoposta al suo arbitrio e soggetta a lui”.
Questa professione d’inferiorità potrebbe sembrare un pedaggio necessario da
pagare, per poter godere di credito in un mondo dove alla donna viene lasciato
ben poco spazio, ma Ildegarda pare realmente convinta che questo sia lo stato
naturale delle cose.
Una prova di questo fatto può essere data dall’uso
che ella fa dell’aggettivo
muliebris; in più di un punto della sua
opera esso viene impiegato con connotazione decisamente dispregiativa;
interessante, in proposito, un passaggio del
Liber vitae meritorum, dove, parlando
della fedeltà, Ildegarda dice espressamente:
“Una creatura che desidera essere fedele, rigetti la
leggerezza e debolezza propria delle donne (muliebris)
e cerchi di ottenere con impegno una fortezza virile, anche apparentemente
mite”.
Per citare un caso analogo, cronologicamente non molto distante da Ildegarda,
anche Eloisa protesta con Abelardo quando il filosofo, in una lettera a lei
indirizzata, compie l’atto inaudito e “contrario all’ordine naturale” di mettere
il nome di lei prima del suo; ciò significherebbe anteporre “la donna all’uomo,
la moglie al marito, la serva al padrone”; eppure Eloisa è una donna colta e
riconosciuta come tale da molti uomini, primo fra tutti lo stesso Pietro
Abelardo. Nel caso di Eloisa, però, proprio la vicinanza e il confronto con un
uomo della statura di Abelardo potrebbe giustificare l’uso di tali espressioni.
Per Ildegarda invece tale problema non si pone; vi
furono accanto a lei figure maschili di un certo rilievo, in particolare il
monaco Vollmar, che fu un suo prezioso e fidato collaboratore, e Guiberto di
Gembloux, con cui intrattenne un fecondo scambio epistolare; in entrambi i casi,
però, Ildegarda ha un ruolo di evidente superiorità, che questi uomini stessi in
qualche modo le riconoscono. Ildegarda, poi, a differenza di Eloisa, scrive
abbondantemente e non si limita all’invio di epistole, ma, oltre che spaziare in
diversi campi del sapere, con lo
Scivias, il
Liber vitae meritorum e il
Liber divinorum operum, concepisce una
trilogia alquanto sistematica in materia di teologia e morale.
Eloisa, invece, non andò aldilà della stesura di
alcune lettere. Anche l’opera di Elisabetta di Schönau, che in larga misura
esiste nella redazione del fratello Egberto, non può essere confrontata con
quella di Ildegarda, trattandosi perlopiù di visioni cui manca la grandiosità
degli scenari ildegardiani; nell’epistolario, poi, ancor più evidente è la
distanza fra le due figure, dove in Ildegarda è soprattutto la virtù della
discretio, della moderazione e del
discernimento, a dare l’impronta principale, e, unitamente alle sue doti di
chiaroveggenza, a costituirla un’insuperabile direttrice spirituale. (Quanto, ad
Herrade di Landsberg, per rimanere nell’ambito di scrittrici religiose del XII
secolo, il suo
Hortus deliciarum, per quanto sia una
grande enciclopedia, rimane pur sempre una compilazione di testi biblici,
patristici e di autori medievali).
Le donne avevano minori opportunità di istruzione rispetto agli uomini e quando
ciò avveniva il più delle volte era frutto del caso; una istruzione rudimentale
di base veniva spesso impartita, sia ai maschi sia alle femmine, dalla madre; in
un secondo tempo, gli uomini avevano la possibilità di venire istruiti da
istitutori o in monasteri dove erano entrati come oblati; per le donne ciò era
molto meno probabile. Per questo motivo è eccezionale l’istruzione che Eloisa
possiede già prima di conoscere Abelardo; furono forse le monache
dell’Argenteuil ad impartirgliela.
Le uniche notizie relative all’istruzione di
Ildegarda forniteci dai suoi biografi si riferiscono agli anni della reclusione
nel romitorio femminile fondato da Giuditta di Spanheim sul Disibodenberg. Nella
più importante
Vita di Ildegarda, ossia quella la cui
redazione finale è opera di Teodorico da Echternach, si legge in proposito:
“Giuditta [...] la educava diligentemente sotto le vesti dell’umiltà e
dell’innocenza, istruendola solamente nei Salmi di David e le indicava come
lodare Dio sul salterio a dieci corde. Per il resto oltre alla conoscenza
basilare dei Salmi nessuno le impartì alcuna altra formazione letteraria o
musicale”.
Giuditta, dunque, non solo, come pare di comprendere da questo passo, le insegnò
a leggere, ma le impartì anche una formazione musicale, cosa piuttosto
singolare, ma che certo giocò una notevole influenza su Ildegarda, che in
seguito divenne essa stessa compositrice di melodie per testi liturgici e di
argomento religioso.
Quando Ildegarda si dichiara illetterata, in realtà,
non mente; molto probabilmente in questo modo vuole semplicemente indicare di
non aver avuto accesso ad una istruzione di tipo tradizionale secondo le arti
del trivio e del quadrivio e di non aver studiato a fondo la sintassi latina, di
non aver avuto, insomma, accesso a scuole nel senso proprio del termine. In uno
dei passi della
Vita in cui la santa parla in prima
persona, Ildegarda dice infatti di aver
“compreso gli scritti dei profeti, dei vangeli e di
altri santi e
di alcuni filosofi (corsivo mio) senza
alcuna istruzione da parte di uomini e (di aver) esposto alcune cose provenienti
da quelli, benché possedessi una scarsa conoscenza delle lettere, secondo quanto
appreso da una donna non istruita”.
La mancanza di una approfondita istruzione rende allora ancora più degno di
rilievo il fatto che la lingua adoperata da Ildegarda per descrivere le sue
visioni sia proprio il latino, lingua dei dotti, e non il tedesco, sua lingua
madre. Nella lettera a s. Bernardo di Chiaravalle, Ildegarda dice espressamente
di non ricevere l’ammaestramento in lingua tedesca.
È particolarmente interessante che Ildegarda si serva
del latino per divulgare le sue visioni; in questo modo non si presenta
semplicemente come una mistica che, forzata a parlare delle sue visioni dovrebbe
preferire il ricorso alla lingua materna. Le sue visioni, come lei stessa
afferma, non avvengono in stato di estasi, di
raptus, non interessano solo la sua
anima, ma sono quasi insegnamenti rivolti a tutta la comunità, che lei, in
quanto dotata del dono della profezia, deve necessariamente divulgare.
Utilizzando il latino, anche se stilisticamente poco raffinato, per i suoi
scritti teologici, Ildegarda entra a far parte della cerchia ristretta, fino ad
allora rigorosamente maschile, degli scrittori di teologia. Come far accettare
questa sua collocazione, se non affermando che proprio in latino lei viene
interiormente istruita?
A Ildegarda, badessa e fondatrice di monasteri, si
rivolsero, per avere un consiglio e una guida non solo semplici religiosi e
laici, ma anche papi (Anastasio IV e Alessandro III) e imperatori (Corrado III e
Federico Barbarossa), che si rivolgevano alla
prophetissa teutonica - così venne
chiamata Ildegarda - per ricevere illuminazione e consiglio. Fu la fama delle
sua visioni a confermarla sempre più nel ruolo di consigliera e direttrice
spirituale, cui spesso si rivolsero abati e vescovi per ricevere lumi sulla
propria condotta spirituale e sulle responsabilità legate ai loro incarichi. Le
risposte fornite da Ildegarda, benché sempre riferite all’autorità della Luce
vivente, mostrano un’acuta capacità di discernimento e una sicurezza, che
mostrano la sua intima unione con il volere divino.
Il dono della profezia e della veggenza fu la caratteristica che più contribuì a
far crescere la fama di santità di Ildegarda, la quale scrive quanto lei stessa
riceve principalmente perché vi è costretta, ma anche perché secondo quanto dice
Paolo nella prima lettera ai Corinzi “l’assemblea ne riceva edificazione”. Anzi,
sostiene Paolo, proprio per questo motivo è meglio possedere il dono della
profezia che quello delle lingue, perché “chi parla con il dono delle lingue
edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea”.
Ildegarda non si limitò ad “edificare l’assemblea”
con i suoi scritti di materia teologica e con lettere di direzione spirituale.
Ancora più degno di nota, specialmente per l’epoca in cui visse, è il fatto che
a questa donna fu concesso di uscire dalla sua clausura. Ildegarda in quanto
benedettina era tenuta a rispettare il voto di
stabilitas loci, che la vincolava a
rimanere sempre nello stesso convento; ella, invece, ne uscì, non solo per
andare a fondare nuovi monasteri, ma anche, e questo è il fatto più
straordinario, per predicare in pubblico.
Nel Medioevo, d’altro canto, le visioni, quasi sempre attribuite ad una realtà
extrapsichica ed ultraterrena, spingono, molto più che nella età moderna,
all’azione. Nel caso specifico di visioni a carattere religioso, l’azione può
esplicarsi nell’indurre conversioni, nel fondare conventi o anche nella
predicazione in pubblico.
L’attività predicatoria di Ildegarda è un fatto unico
per il Medioevo, in quanto, come si è già detto, si tratta di una donna e di una
monaca benedettina di clausura, che, per svolgere questa attività (una consegna
ricevuta da Dio) viene meno al voto di
stabilitas loci.
Ciò si verificò in quattro occasioni, durante le
quali Ildegarda si spinse in Franconia, in Lorena, in Svevia e lungo il corso
del fiume Reno. Fu, come si legge nella
Vita, lo Spirito di Dio a spingerla,
anzi a costringerla a predicare in pubblico. L’amore per le sorti della Chiesa
non la fa esitare a riprendere vigorosamente le debolezze del clero, a
intervenire contro l’eresia catara, a ricondurre monaci e monache al rispetto
della loro Regola. Ciò che è più interessante, in tale contesto, è forse il
fatto che mai Ildegarda incontrò ostacoli o critiche per la sua predicazione,
neppure da parte di coloro che attaccava apertamente. Quando si verificarono
attriti con le gerarchie ecclesiastiche, non fu certo per un mancato
riconoscimento dell’attività visionaria; al contrario, Ildegarda riuscì, a volte
dopo un certo periodo di tempo, a far accettare le proprie decisioni (come nel
caso della nuova fondazione del monastero di Rupertsberg o nella questione della
sepoltura del nobile scomunicato) proprio appellandosi all’autorità della voce
della Luce divina. In altre parole, fu proprio l’essere divenuta famosa per aver
ricevuto parecchie visioni che le consentì di essere accettata, se non
acclamata, quale predicatrice itinerante.
Questo fu certamente un privilegio e un fatto singolare per il XII secolo,
periodo in cui la predicazione dei monaci va gradatamente sostituendosi a quella
dei canonici regolari, fino ad allora considerati gli unici ‘depositari’ di
questo compito. In questo periodo, invece, la predicazione dei monaci si va
affermando al punto che “occasionalmente perfino monache come Ildegarda di
Bingen predicarono, anche se i canonisti del XII secolo obiettavano che le
donne, per quanto istruite e sante, non devono pensare di poter insegnare agli
uomini. Un famoso canonista ecclesiastico, infatti, Graziano, ammonisce
severamente le donne a intraprendere qualsiasi attività di predicazione, anche
se si trattasse di donne colte e di vita santa:
“La donna, anche se colta e santa, non abbia la presunzione di dare insegnamenti
a uomini nei conventi”.
Un passo delle Sacre Scritture in particolare, rafforzava la Chiesa nella
convinzione che le donne dovessero astenersi dal parlare nelle assemblee. Si
tratta di un passo della prima lettera ai Corinzi di s. Paolo:
“Come in tutte le comunità di fedeli, le donne nelle
assemblee tacciano, perché non è loro permesso parlare (gr.
laleîn); stiano invece sottomesse, come
dice anche la legge” (1 Cor 14,34).
La parola greca impiegata da Paolo, ovvero
laleîn, di fatto non significa
semplicemente ‘parlare’, bensì ‘insegnare’ e, nel contesto, ‘esercitare un
carisma profetico’; la traduzione latina della
Vulgata rese però questo verbo con il
semplice
loqui, cioè, appunto, ‘parlare’.
Fondandosi su questo passo, molti uomini ebbero buon gioco a criticare e
contrastare l’esercizio della profezia e dell’attività predicatoria da parte di
donne, che, ciononostante, proprio in questo campo trovarono, paradossalmente,
maggiori opportunità di esprimersi su temi, quali appunto quelli teologici, che
non sarebbero stati di loro pertinenza.
Un decreto come quello di Graziano non poté comunque
fermare Ildegarda, la cui produzione teologica e la cui attività apostolica
venne approvata all’epoca anche da un pontefice, Eugenio III. Questa
approvazione le fu certo altamente utile, per non dire necessaria; se nel
Medioevo già l’attività scrittoria degli uomini aveva bisogno di
auctoritates per convalidare le proprie
affermazioni, quanto più dovette averne bisogno una donna, incolta per sua
stessa ammissione, per riuscire in primo luogo ad eliminare ostacoli e possibili
opposizioni, in secondo luogo per essere ascoltata efficacemente.
Ancor più del richiamo all’approvazione papale, però, doveva suonare
determinante e convincente appellarsi all’autorità più alta di tutte, quella di
Dio.
Poiché Dio stesso è la fonte delle visioni e colui che spinge Ildegarda a
scrivere, non solo la sua attività di scrittrice e predicatrice è giustificata,
ma anche il contenuto delle sue opere non può essere messo in discussione, tanto
più che Ildegarda, professando la sua ignoranza, conferisce un rilievo ancor
maggiore alla rivelazioni di cui e beneficiaria.
“Tu mi hai istruito, o Dio, fin dalla giovinezza e
ancora oggi proclamo i tuoi prodigi” (v.17) “Sono parso a molti quasi un
prodigio, eri tu il mio rifugio sicuro” (v.5): questi versi del salmo 70
sembrano adattarsi in modo particolare all’esperienza di Ildegarda e insieme a
questi, ancora più pertinente è il v. 15 dello stesso salmo, che nella sua
versione latina (quella della
Vulgata, cioè il testo ufficiale della
Chiesa che, è bene ricordare, Ildegarda leggeva e pregava, e che fu anche, in un
certo senso, l’unico manuale scolastico che poté accostare) sembra essere
riecheggiato nel passo della
Vita succitato e quindi convalidare,
per così dire, le frequenti attestazioni, da parte di Ildegarda, di ignoranza e
di mancanza di istruzione: “Os
meum narrabit iustitiam tuam, tota die salutem tuam, quia non cognovi
litteraturam (“La mia bocca annunzierà
la tua giustizia, tutto il giorno la tua salvezza, che non so misurare”). “Quia
non cognovi litteraturam” (‘perché non ho conosciuto [o ‘compreso’] le lettere’,
traduzione letterale di un punto di difficile interpretazione nel testo ebraico,
ufficialmente tradotto in italiano con “che non so misurare”.) sembra trovare
corrispondenza in
‘cum uix noticiam litterarum haberem ’
(‘benché possedessi una scarsa conoscenza delle lettere’) di
Vita 11,2.
A questo punto, secondo il testo del salmo 70, che
certo Ildegarda conosceva, la scarsità di istruzione, non sembra più solo
giustificabile, ma quasi necessaria all’annuncio dei messaggi profetici di
provenienza divina: anche dalle Scritture, perciò, giungeva alla monaca di
Bingen un’ulteriore conferma dell’utilità della propria condizione di
indocta.
La validità e veridicità del suo modello profetico viene ulteriormente
rafforzata da un’altra caratteristica, che va ad aggiungersi al fatto di essere
donna e di essere incolta, cioè la lunga serie di infermità che prostrano
Ildegarda per la maggior parte della sua vita.
Ildegarda sembra far rivivere in sé le parole di Paolo nella seconda lettera ai
Corinzi, dove l’apostolo, proprio parlando delle visioni e delle rivelazioni di
cui è stato fatto beneficiario dice:
“(Il Signore) mi ha detto «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si
manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle
mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio
nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle
angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.(2 Cor
12,9-10)
Se la forza coincide con la debolezza, come contestare la debolezza insita nella
condizione femminile? Essere donna, essere incolta ed essere inferma sono dunque
condizioni che anziché impedire la visionarietà e l’attività profetica, la
confermano e la autenticano.
Ildegarda è una “visionaria per natura”. In vari passi delle sue opere la monaca
accenna alle visioni, avute fin da giovanissima e tenute nascoste fino all’età
di quarantadue anni, quando a lei una
“luce vivissima come di fuoco, proveniente dal cielo, trafisse la mente, il
cuore e il petto, avvolgendo(la) con il suo calore come una fiamma”.
costringendola a divulgarle e a metterle per iscritto.
E’ interessante in proposito leggere quanto lei stessa dice di questo dono
naturale nella lettera indirizzata a san Bernardo di Chiaravalle. In questa
epistola Ildegarda apre il suo animo lasciandosi andare ad alcune confidenze:
“Padre, io sono molto preoccupata per questa visione, che mi apparve nello
spirito del mistero, e che non vidi mai con gli occhi esteriori corporali. Io,
infelice e più che infelice nel mio nome di donna, ebbi sin dall’infanzia delle
visioni grandi e meravigliose, che la mia lingua non sa esprimere, se non quanto
mi ha insegnato lo Spirito di Dio, perché vi presti fede. O Padre così saldo e
così mite, rispondi nella tua bontà a me, tua indegna ancella, che mai ho potuto
vivere, da quando ero piccola, un’ora sola al sicuro; nella tua pietà e
saggezza, scruta la mia anima, secondo quanto lo Spirito Santo ti ha donato
[...]. Io, di fatto, so nel testo l’intelligenza interiore di quanto è esposto
nei salmi, nel Vangelo e in altri volumi, che mi appaiono in questa visione che
tocca il mio cuore come una fiamma ardente, istruendomi in quanto vi è di
profondo in quella visione. Ma non mi istruisce nella lingua tedesca in
argomenti, che non conosco; io so solamente leggere in semplicità il testo, non
con precisione. Rispondimi dunque in merito, perché sono una persona ignorante,
completamente priva di istruzione in materie esterne, mentre sono istruita
all'interno, nella mia anima”.
Ildegarda parla delle rivelazioni e delle visioni di
cui gode come di qualcosa che Dio le dona direttamente, senza intermediazioni
umane; non sono pochi i passi in cui sottolinea la sua ignoranza e mancanza di
istruzione. In realtà la lettura delle sue opere e l’analisi delle fonti rivela
una conoscenza non indifferente di autori cristiani e, probabilmente, influssi
anche di autori classici. E’ frequente nelle vite di santi e di mistici il
richiamo al fatto che illuminazioni o visioni divine provengano direttamente da
Dio senza intermediazioni. Si pensi, per esempio, al passo del
Testamento di san Francesco d’Assisi in
cui il santo, parlando della propria esperienza dice:
“[...] nessuno mi mostrava cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò
che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo [...]”.
Ciò che preme a Ildegarda, d’altro canto, è non solo dare una spiegazione della
propria esperienza di visionaria e di mistica, ma anche fondare le rivelazioni e
le visioni di cui è beneficiaria su una salda e inoppugnabile autorità, che
possa convalidare la sua attività di consigliera e predicatrice.
Ad Ildegarda si possono bene adattare le parole usate a proposito di s. Chiara
d’Assisi e delle sue visioni:
“Il linguaggio delle visioni era infatti [...] il linguaggio più proprio per
indicare le verità del profondo, il linguaggio proprio dell’esperienza
religiosa, il linguaggio proprio del sentimento e del desiderio. E questo uno
degli aspetti più tipici della spiritualità monastica femminile; a partire dal
XII secolo e dalle grandi visionarie tedesche, la mistica femminile affiancò la
grande teologia monastica maschile e si sviluppò secondo variegate prospettive
sino a diventare una sorta di particolarità del l’esperienza religiosa femminile
del XIII e XIV secolo”.
Ildegarda dà una compiuta descrizione, anche se non sempre perspicua, della sua
esperienza visionaria, in una lettera indirizzata al monaco Guiberto di Gembloux
datata 1175: da essa si ricavano alcune informazioni essenziali sulla natura
delle sue visioni:
a) Le visioni si verificano disgiuntamente dai sensi corporei, in stato però di
veglia e di assoluta coscienza, ad occhi aperti, di notte e di giorno, in uno
stato, perciò, differente da quello di estasi comunemente associato ai mistici.
Così, infatti, spiega a Guiberto di Gembloux:
“Queste cose non le ascolto con le orecchie del corpo, né sono frutto di mie
elucubrazioni, né le percepisco attraverso i cinque sensi, ma avvengono nella
mia anima, mentre gli occhi corporei sono ben aperti, così che non cado mai
nello stato di svenimento proprio dell’estasi, ma le vedo di notte e di giorno
rimanendo pienamente cosciente”.
“Tutto ciò che imparo e vedo in visione, rimane per lungo tempo nella mia
memoria, così che ricordo ciò che ho visto e udito una volta. Contemporaneamente
vedo, ascolto e comprendo, e quasi simultaneamente imparo ciò che comprendo”.
c) L’anima di Ildegarda è costantemente abitata dall’ “ombra della luce
vivente”, con cui la visione si identifica, e in cui è immanente “la luce
vivente”.
“Le parole che vedo e sento in questa visione, non sono come le parole
pronunciate per bocca di uomo, ma come una fiamma ardente e una nube che si
muove nell’aria pura. In alcun modo riesco a scorgere la forma di questo lume,
così come non sono in grado di discernere perfettamente il disco solare. E nello
stesso lume vedo talvolta, non di frequente, un’altra luce, che mi è stato detto
chiamarsi luce vivente.... (...) La mia anima non è mai abbandonata da quel
lume, che viene chiamato ombra della luce vivente”.
Alcuni autori sostengono, in base a queste
affermazioni, che Ildegarda non debba essere considerata propriamente una
mistica. Kurt Ruh, nella sua
Storia della mistica occidentale,
contro l’opinione generale, esclude Ildegarda dalla storia della mistica
tedesca, perché non è inserita in una tradizione mistica e non ha dato origine a
una tradizione mistica, ma soprattutto perché ritiene che le sue visioni siano
di tipo profetico e non estatico, fondandosi in ciò sulla distinzione operata da
s. Tommaso d’Aquino fra visione estatica e profezia.
Secondo la definizione data da s. Tommaso nella
Summa theologica, la profezia è una
rivelazione divina (“prophetia est revelatio divina”). Nei capitoli dedicati
alla profezia Tommaso afferma che “la certezza che proviene dalla luce divina è
maggiore di quella proveniente dal lume della ragione naturale” e che “chi
possiede la profezia proveniente dalla luce divina è molto più certo”.
Altri autori, invece, inseriscono di diritto Ildegarda nella storia della
mistica, cercando di collegarla ad una tradizione risalente a Scoto Eriugena,
Anselmo d’Aosta e sensibile agli influssi dei contemporanei Bernardo di
Chiaravalle e Ugo di san Vittore.
A. Führkötter e J. Südbrack notano che proprio
l’aspetto della ‘doppia luce’ che Ildegarda vede in visione la colloca
nell’ambito della mistica cristiana: «In questo discorso della doppia luce si è
sedimentata l’esperienza fondamentale della mistica cristiana, sotto tre
aspetti. Anzitutto, all’uomo che si volge e dedica a Dio può essere fatto dono
di una chiarezza che per lui significa dilatazione mistica. In Ildegarda si
trattava della visione in profondità nella realtà della creazione. In secondo
luogo, questa luce, che Ildegarda chiama “ombra della luce vivente”, è
esperimentata come un riflettersi di Dio nel cuore dell’uomo. In terzo luogo,
questo riflettersi è valido soltanto quando l’uomo lo riconosce come tale, come
riverbero, e nello stesso tempo considera se stesso “simile a un nulla” e “si
protende verso il Dio vivente”».
Solo in chi ha fatto il vuoto in se stesso Dio può
veramente entrare; la Parola, per citare Guglielmo di Saint-Thierry, si genera
solo “in
mundo corde”, in un cuore puro, e
quindi libero da ogni legame con il mondo.
Certamente la profezia è l’aspetto più singolare ed
evidente dell’attività mistica di Ildegarda, in cui, del resto, lo spessore
della trama del discorso è più marcatamente intellettuale che mistico in senso
stretto, o, per meglio dire, estatico. Le visioni di Ildegarda sono nel contempo
intellettuali e spirituali: intellettuali, perché riguardano le realtà sensibili
insieme a quelle sovraterrene e tracciano il quadro di una cosmologia, con
afflato quasi epico (tanto che uno storico gesuita, Alois Dempf, paragona la
potenza espressiva di Ildegarda a quella di Dante, giungendo a sostenere che la
forza poetica della sua cosmologia, in particolare nel
Liber divinorum operum, è anche ‘più
grande e penetrante’ di quella della Commedia), e con un certo intento
ordinatore, mostrando, in alcuni passaggi di conoscere, se non di rielaborare,
alcuni concetti filosofici sia di testi antichi sia di trattati a lei
contemporanei; sono spirituali, perché tutte le visioni vengono accolte da
Ildegarda all’interno della sua anima ed espresse per la salvezza delle altre
anime. Certamente Ildegarda uguaglia Dante il quale forse ebbe modo di
consultare a Lucca, dove tuttora è conservato, un codice del
Liber divinorum operum per
l’immediatezza e la profondità delle sue percezioni, ma le manca il rigoroso
ordine razionale che governa tutta la struttura della Commedia, forse per via
degli influssi esercitati dal suo continuo stato di malattia e infermità,
strettamente legato, a suo dire, alla sua ispirazione poetica:
“Dal giorno della sua nascita, infatti, è avviluppata da dolorose infermità come
se fosse presa in una rete, così da essere continuamente prostrata da dolori che
le colpiscono la carne e le viscere; tuttavia Dio non volle che ella venisse
meno, perché all’interno della sua anima razionale vede in spirito gli arcani di
Dio”.
La particolarità dell’esperienza mistica di Ildegarda
è che le visioni che riceve in dono dalla luce divina non la distaccano dalla
realtà sensibile, né sono limitate nel tempo, come avviene per le estasi, ma
sono una realtà che accompagna continuamente la monaca e che la conducono a
percepire in modo sempre più netto l’unità di tutte le parti del cosmo.
L’assenza in Ildegarda di fenomeni e manifestazioni psicosomatiche frequenti in
alcuni mistici (come
raptus, svenimenti ecc.) non escludono
la natura mistica delle rivelazioni di Ildegarda, che anche e, forse, proprio
nel non fare esperienza di queste manifestazioni mostra di conformarsi in pieno
alle doti di equilibrio e moderazione
“perno e centro” di una ruota ideale
che rappresenta la Regola benedettina.
Discretio,
che si potrebbe ben tradurre come ‘misura, equilibrio’, è una virtù
personificata, descritta nello
Scivias
come “la più abile vagliatrice (cribratrix)
di tutte le cose, che trattiene ciò che va trattenuto ed elimina ciò che deve
essere tagliato, come il grano dal loglio”.
Nella cosmologia ildegardiana la ruota occupa un
posto importante, quale simbolo della creazione. In uno dei passi di apertura di
Causae et curae
descrive la creazione come una ruota in cui è contemporaneamente presente l’uomo
e la divinità.
“Dio rimase integro come una ruota
(rota). [...] Uomo, guarda l’uomo! Egli
contiene in sé cielo e terra e le altre creature, ed è una forma, e in lui tutte
le cose sono nascoste. Questa è la paternità. In che modo? Il giro della ruota è
paternità, la pienezza della ruota è divinità”.
Rappresentando simbolicamente la Regola benedettina
come una ruota, dunque, Ildegarda indica nell’equilibrio e nella moderazione -
centro ideale della ruota -
e nel dominio di sé le virtù da praticare
eminentemente perché l’uomo, armonicamente inserito nell’universo, possa
condurre una vita conforme al volere di Dio.
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net