Parte V - Cap. XIV

LA MORTE DI GESÙ

Tratto dal libro "Il Signore" di Romano Guardini - Soc. Ed. Vita e Pensiero 1964

Pronunziata la sentenza, tutto segue il suo corso spietato... Il lettore non ha che da aprire il Vangelo ed ascoltarne il racconto: lo trova in san Matteo al capo ventisettesimo, in Marco al capo decimoquinto, in Luca al capo vigesimoterzo, in Giovanni al capo decimonono. Lo faccia subito, prima di andare avanti in questa lettura. Non rifugga dal dato tremendo che vi si narra, ma, pensando invece che fu sopportato per lui, vi si disponga con tutta la forza del suo cuore.

Perché è morto Gesù?

Quando un uomo cade combattendo per la sua patria, o quando lo coglie un destino qualunque, la risposta all’interrogativo, perché avvenga così, è chiara. Di certo, anch’essa, in ultima analisi, si perde in un mistero, ma nel mistero della esistenza, semplicemente. Fin là è noto. Qui invece le cose stanno diversa- mente: Gesù non cade combattendo; le sue forze non soccombono a circostanze avverse schiaccianti; non lo tocca nessun destino perfido. Senza dubbio, anche tutto questo coopera, ma non vi si trova il vero perché. Tutto potrebbe andare anche diversamente... Per trovare quel perché dobbiamo penetrare più nel profondo. Esso risiede nelle parole pronunciate nell’ultima cena sul pane: « Questo è il mio corpo il quale è dato per voi », e sul calice: « Questo calice è il nuovo testamento nel sangue mio che per voi si spargerà » (Lc 22,19 ss.). Il perché della morte di Gesù va ricercato in questo dato per voi e sparso per voi; nell’annunzio che ricorre continuamente nelle lettere degli apostoli e pervade tutti i misteri dell’Apocalisse: che Gesù Cristo ci ha redenti con la sua morte.

Ma che cosa significa redimerei Nel capitolo intorno alla lavanda dei piedi considerammo un pensiero che ora dev’essere ripreso. Esso non ha la pretesa di portare delle chiarificazioni; può anche darsi che non dica molto di più di un’immagine. Tuttavia può forse guidare la nostra mente e il nostro cuore a un che di conclusivo, che conferisce a tutto il resto il suo vero e tremendo significato.

All’inizio della Sacra Scrittura si dice: « In principio Iddio creò il cielo e la terra », e il catechismo spiega: « li creò dal nulla », il che vuol dire: prima che Dio creasse — sappiamo che questo prima., detto così semplicemente, è falso; sappiamo però anche che la realtà da esso significata in breve non può essere altrimenti bene espressa, anzi non può essere espressa, semplicemente —, prima che Dio pensasse e volesse la creazione, non c’era nessun elemento, nessuna energia, nessuna immagine, nessun motivo. Non vi era neppure un impulso arcano verso l’esistenza: appunto nulla!

Vi era Dio. Che Dio sia, basta. Al di fuori di lui non esiste nulla necessariamente. Egli è l’Uno e il Tutto. Ciò che altrimenti è, deriva da Dio: energia, materia, figure, finalità, ordinamenti, cose, avvenimenti, piante, animali, uomini, angeli, tutto. L’uomo può, sul terreno della realtà, modellare oppure dallo spazio irreale della fantasia dedurre immagini. Conferire 1’essefe a ciò che ancora non è, creare dal nulla, non può. Il nulla è per lui mistero, muro, impenetrabilità. Un vero e proprio rapporto al nulla, per vero, ha solo Iddio, poiché egli solo ha potere di far si che qualche cosa realmente sia. Ciò che l’uomo sperimenta intorno al nulla, è soltanto la rottura di ogni rapporto.

Dio, dunque, ha creato l’uomo. Unicamente da Dio è stato dato all’uomo di esistere, e unicamente in ordine a Dio egli sarebbe potuto vivere. Ma peccò, cercando di scalzare questa verità fondamentale della propria esistenza, per farsi centro di se stesso. Andò lontano da Dio — realmente, in un senso terribile. Si allontanò dall’essere-reale, verso il nulla. Quel primo nulla, dal quale Iddio aveva tratto l’universo, era stato, per così dire, il buono, puro, schietto nulla: il semplice non esserci nulla. Ora appare il nulla maligno: della colpa, del pervertimento, della morte, dell’assurdo, del vuoto. L’uomo decaduto gli va precipitando sopra —- senza peraltro poter mai effettivamente raggiungerlo, che allora egli sarebbe esinanito, mentre non può, lui che non si è creato da sé, distruggere se stesso.

Dio nella sua grazia ininvestigabile non ha voluto lasciare l’uomo in tale abbandono, ma lo ha voluto ricondurre a casa. Non spetta a noi il dire come altrimenti egli avrebbe potuto farlo. Noi ci atteniamo alla sua parola, la quale ci dice come egli ha fatto: in una forma di magnanimità e di potenza così sacra, che ora, una volta rivelata, oseremmo affermare non poter avvenire altrimenti: in forma di carità.

Iddio è andato in traccia dell’uomo — come sta scritto nella parabola della pecorella e della dramma smarrita (Lc 15) — nel regno dello smarrimento, nel nulla maligno spalancato sotto l’azione dell’uomo. Dio non s’è accontentato di guardare giù con uno sguardo di amore, di chiamare e attrarre l’uomo, ma — come dice in modo così potente Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo — vi è entrato egli stesso. Ecco, ora, nella storia dell’umanità, uno il quale era Dio e uomo: puro come Dio, oppresso di responsabilità come l’uomo.

Costui ha percorso tutto il cammino dell’essere colpevole, fino alla fine. Chi è puramente uomo non lo può. Egli è più piccolo della colpa che commette, perché la colpa si oppone a Dio. Egli la può commettere; rappresentarsi però, con una perspicacia adeguata al suo tremendo significato, che cosa essa implica, non è in suo potere. Non sa misurarla. Non può sopportarla in tutte le sue conseguenze. Egli, che pure l’ha commessa, non può introdurla nella propria esistenza per esaurirla vivendo. Dinanzi ad essa si confonde, si turba, si dispera, ma rimane inerte. Per la colpa ce solo Iddio. Egli solo ha potere di scrutarla, di misurarla, di giudicarla. Con questo essa riceverebbe la parte sua, ma l’uomo che l’ha commessa ne rimarrebbe schiantato. Grazia significa che Iddio ha voluto far giustizia, ma salvando l’uomo: che ha voluto amare. Egli s’è fatto uomo, e così, ecco un Essere che attua in un’esistenza umana l’adequazione di Dio di fronte alla colpa. In uno spirito, in un cuore, in un corpo d’uomo si opera il saldo di Dio con il peccato. Ecco l’esistenza di Gesù.

Quella caduta dell’uomo nel nulla, determinata con la ribellione a Dio, e in cui alla creatura non rimanevano se non sfacelo e disperazione, Egli l’ha vissuta a grado a grado nell’amore di uno spirito vigilante, di una volontà libera e di un cuore sensibile. L’annichilimento è tanto più profondo quanto più grande è colui che ne è colpito. Nessuno è morto così come è morto Cristo, perché egli era la stessa Vita. Nessuno è stato colpito per il peccato come lui. Nessuno ha sperimentato la caduta nel perfido nulla come lui — fino a quella tremenda realtà che si cela dietro le parole: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?... » — perché egli era il Figlio di Dio (Mt 27,46).

Egli è stato realmente esinanito. Ha dovuto soccombere — pur tanto giovane. La sua opera gli fu troncata nel momento in cui sarebbe dovuta fiorire. I suoi amici gli furono tolti, e il suo onore distrutto... Non aveva più nulla. Non era più nulla: « un verme, e non un uomo ». Così, in un senso impensabile, egli « discese agli inferi », che sono il regno in cui domina il nulla perverso. Non solamente per frangere i vincoli — anche questo, ma unicamente dopo di averlo fatto in un’altra tremenda maniera, che a pena si può intravvedere.

Ivi il Figlio infinitamente amato dall’eterno Padre toccò l’abisso assoluto, il fondo del male, andando avanti fino a quel nulla, dal quale sarebbe dovuta sorgere la nuova creazione: la recreatio, come dicono gli antichi; la ri-creazione dell’uomo nuovo, al nuovo cielo e alla nuova terra.

Cristo pendente sul patibolo — nessuno mai potrà concepire come ciò fosse. Si principia ad averne un’idea nella misura in cui si diviene cristiani e s’impara ad amare il Signore... Come cessasse ogni azione, ogni lavoro, ogni lotta. Come non ci fosse nessuna via di scampo, nessuna riserva, ma tutto, corpo e cuore e spirito, fosse immolato in una fiamma di patimento infinito che tutto investiva, votato a un giudizio sulla colpa assunta come propria colpa, che proseguiva, senza soluzione, fino alla morte... Là egli toccava quel fondo, da cui l’onnipotenza dell’amore strappava la nuova creazione.

Si comprende qualche cosa di ciò, di cui ora si tratta, raffigurandosi una persona cara divenuta cieca o debole od offuscata od ostinata... volerla salvare e non averne la possibilità — allora si sente che bisognerebbe poter dominare tutto quanto il suo essere, penetrare fino al midollo, toccare l’estrema profondità dove giacciono le radici del suo essere, dove quella persona confina col nulla... Oppure guardando in se stessi e constatando: questo è avvenuto; questo l’ho vissuto io; ho fatto e trascurato questo e questo; avrei dovuto far quello; qui vengo meno; sono oppresso da cecità, debolezza, viltà, abitudine, ostinazione. Allora si sente: dovrei uscir da me stesso, via da me, verso Dio, verso la libertà, verso la santità. Ma non posso. Dovrebbe intervenire una forza che, afferratomi, mi lanciasse verso quel termine ultimo d’intimità, lontano dal mondo e ad un tempo sovranamente proprio...

Spingiamo la mente di qui nel Cristo: ciò che gli stava a cuore erano gli uomini. Tutti gli uomini e ciascuno di essi col suo intero destino. Il mondo che deriva il suo senso supremo dal- l’uomo; resistenza. Tutto ciò, nel suo impenetrabile inganno, nel suo indistricabile smarrimento, nel suo allontanamento da Dio, destinato a determinare tutto quanto l’essere; nel suo indurimento tenace come le radici di un monte — tutto questo egli doveva redimere a Dio, prendendolo sopra di sé, per comprenderlo, viverlo, patirlo senza riserva. Doveva, soffrendo, ardendo, immergersi fino a quell’ultimo fondo, a quella distanza, a quel punto centrale donde la sacra potenza, che dal nulla ha tratto il mondo, potesse nuovamente erompere. Là, da quel nulla, è sorta la nuova creazione.

Da che il Signore è morto, questo appartiene alla realtà, e dal momento che è così, tutto è mutato: noi ne viviamo nella misura in cui realmente viviamo al cospetto di Dio.

Se uno domanda: Che vi è dunque di certo? Di così certo da potervi consacrare la vita e la morte? Di cosi certo da potergli affidare tutto? — la risposta dice: l’amore di Cristo... La vita c’insegna che questa realtà suprema non sono uomini, fossero anche i migliori e i più cari; neppure scienza o filosofia o arte, o che altro mai forza umana sia. in grado di produrre. Neppure la natura, così piena di profondo inganno, o il tempo, o il destino... Neppure Dio, semplicemente, che sul peccato grava l’ira di Dio — e come potremmo, senza Cristo, sapere che cosa ci possiamo attendere da lui? Certo è unicamente l’amore di Cristo. Non ci è nemmeno possibile dire: l’amore di Dio, perché che Dio ci ama lo sappiamo definitivamente solo attraverso Cristo. E quand’anche lo sapessimo senza Cristo — amore può anche essere inesorabile, e tanto più duro quanto più è nobile. Solo attraverso Cristo sappiamo che Dio ama perdonando. Anzi, saldo sta solo ciò che si è rivelato sulla Croce: l’intenzione che vi regna, la forza che riempie quel cuore. È proprio vero ciò che sovente si annuncia in maniera così inadeguata: il cuore di Gesù Cristo è principio e fine di tutto. E ciò che altrimenti ha consistenza — là dove si tratta di vita eterna e di morte eterna — ha consistenza da lui.


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


20 marzo 2016              a cura di Alberto "da Cormano"     Grazie dei suggerimenti      alberto@ora-et-labora.net