André Gozier O.S.B.
UNA REGOLA ANTICA PER
TEMPI NUOVI
Ed.
Paoline
Due saranno i testi
fondamentali sui quali ci baseremo per queste meditazioni:
- la
Regola di san Benedetto, o
Regola dei monaci;
- la vita di san
Benedetto quale ci è stata narrata da san Gregorio Magno nei suoi
Dialoghi (ed è la sola biografia del Santo che ci sia
pervenuta).
La
Regola, scritta tra il 530 e il 540, è stata successivamente
riveduta e perfezionata a più riprese in base alla maggiore esperienza
acquistata da Benedetto. Vi si scoprirà un divario culturale rispetto al
nostro tempo e sarà necessario spezzarne la scorza per arrivare al frutto
nascosto. E questo frutto sarà la Sapienza che scaturirà da queste
riflessioni per farsi guida alla nostra vita, una Sapienza che potrà
risultare molto utile anche nel Duemila, come utile è stata in passato.
Trovandoci a vivere
in un’epoca di dialogo tra le religioni e tra le varie forme monastiche,
abbiamo avuto cura di segnalare qua e là accostamenti e corrispondenze con
il monachesimo dell’Asia (induismo, buddismo) e con il sufismo. Segnalazioni
che avrebbero potuto anche essere più numerose.
Come avviene nei
monasteri zen, il lettore è condotto a scoprire progressivamente quella che
è la verità del proprio essere, anche se in Benedetto a questo punto finale
si arriva per altre vie. Questa discesa verso il proprio niente però non è
fine a se stessa: nel cristianesimo essa diventa il punto di partenza di una
elevazione che conduce addirittura alla divinizzazione: « Colui che si
abbassa sarà innalzato », si legge nel Vangelo di Luca (14,11).
PREMESSA
« ...desiderando di piacere a Dio solo...»
(Dialoghi
di san Gregorio Magno, prol.)
San Benedetto (dal latino
benedictus) nacque in una famiglia agiata a Norcia, a nord-est
di Roma, presso Spoleto, verso il 480.
Morì a Montecassino, tra la Città eterna e Napoli, attorno al 547.
Conosciamo la sua vita attraverso quanto ce ne dice il libro II dei
Dialoghi
di san Gregorio Magno (540-604). Questi, già prefetto di Roma, si fece
monaco, per diventare poi ambasciatore del papa a Costantinopoli e poi
papa anche lui. Benedetto era morto da una cinquantina d’anni quando
Gregorio ne scrisse la vita.
Dopo aver studiato le « arti liberali » a Roma, Benedetto si diede dapprima
a una vita eremitica, quindi divenne capo di minuscole comunità di monaci («
laure ») a Subiaco, una cinquantina di chilometri a est di Roma, e
finalmente fondò il monastero di Montecassino, cento chilometri da Subiaco.
Qui, basandosi su una Regola preesistente (detta
Regola del Maestro), egli mette a punto quella che sarà la
magna charta
del monacheSimo in Occidente: la
Regola dei monaci, diffusa oggi in tutti i continenti.
San Benedetto è stato eletto patrono dell’Europa per l’azione
civilizzatrice svolta dai suoi monasteri. Egli è però pure il patrono
dei... fallimenti, perché nella sua esistenza ha praticamente fallito in
quasi tutto ciò che ha intrapreso.
Intanto, non riesce a portare a termine i suoi studi, perché abbandona la
città di Affile nella quale si era recato con l’intento di venirvi istruito
nelle scienze ecclesiastiche dal prete del luogo.
Quindi, in una grotta presso Subiaco, non lontano da Affile, egli vive da
eremita, ma abbandona presto questa forma di vita per trasferirsi a
Vicovaro, non molto lontano da Subiaco, per rispondere alla richiesta di un
gruppo di monaci che lo volevano come loro abate. E sarà un fallimento:
tutto preso dal fuoco e dal rigore tipici della giovinezza, dalla violenza
che caratterizza tutti coloro che intraprendono un cammino di « conversione
», si rivelerà del tutto sprovvisto di esperienza in quella che è la vita
in comune, con le difficoltà che essa comporta. Uscito da un periodo di
totale solitudine, assolutista com’era in quel periodo, non vedeva che linee
diritte, quando invece si sa che ove sono esseri umani sono inevitabili
percorsi tortuosi, intrecci vivaci, artifizi ostinati: ne derivò una
tensione, quindi un conflitto nei confronti della comunità, che ebbero come
estrema conseguenza un tentativo di eliminarlo.
Per togliere la vita a una persona i metodi sono diversi nelle varie epoche:
quelli che non mutano sono i moventi che a ciò spingono: gelosia,
rivalità... Fallimento? Senza alcun dubbio. Vicovaro è stato per Benedetto
quello che sarà per san Giovanni della Croce la cella del carcere di
Toledo. Là scoprì che cosa sono gli esseri umani, così meschini nel loro
modo di comportarsi, ma nello stesso tempo così trascinatori quando
accettano di unire le proprie azioni in vista di una grande causa quale è il
buon funzionamento di un « cenobio » (che è un monastero nel quale si fa
vita in comune sotto una Regola e sotto un abate).
Benedetto dunque tornò a Subiaco e riprese la sua vita di eremita, pur
continuando a ricevere discepoli che riuniva in « laure ». Fu probabilmente
a Vicovaro che Benedetto scoprì la
Regola del Maestro.
Si ha però la netta impressione che san Gregorio nei suoi
Dialoghi
ci nasconda qualcosa. Non furono sicuramente donne di malavita a far partire
Benedetto da Vicovaro. E così pure, bisogna ammettere che gli incidenti con
un prete dei dintorni, invidioso nei suoi riguardi, si innestarono tutt’al
più su divergenze di punti di vita tra monaci. Tant’è vero che l’«uomo di
Dio » quando seppe della morte del proprio persecutore non pensò affatto di
ritornare sui propri passi.
Siamo perciò di nuovo di fronte a difficoltà diverse dal « cesto di granchi
», come veniva chiamato Vicovaro; siamo di fronte a un fallimento, perché in
realtà la separazione ci fu, anche se avvenne in maniera amichevole.
Fallimento, perché Benedetto non riuscì a tirarsi dietro tutti i suoi
discepoli quando propose un rinnovamento di vita dopo aver scoperto sempre
più chiaramente le deficienze della
Regola del Maestro.
L’abbazia di Montecassino lo ripagherà di tutti i fallimenti precedenti? No:
san Gregorio ci descrive Benedetto che, col cuore spezzato, viene trovato da
«un nobil uomo, di nome Teoprobo, che aveva con lui una confidente
familiarità », « in amarissimo pianto » e a questi che gli domanda il
perché del suo cruccio, l’uomo di Dio risponde: « Tutto questo monastero
che io ho costruito, e tutte le cose che io ho preparato per i Fratelli,
sono, per giudizio di Dio onnipotente, destinate in preda ai barbari. A
gran fatica ho potuto ottenere che mi fossero risparmiate, di quanto è in
questo luogo, le vite» (Dialoghi,
11,17).
Benedetto ha dato ogni cosa, tutto ciò che costituiva la sua gioia, la
ragione stessa del suo vivere (della sua esistenza). Tra le mani non gli
resta nulla. La catastrofe arriverà, e sarà totale.
San Giovanni della Croce non ha forse dovuto soffrire tanto da parte di Dio
e degli uomini. San Benedetto è il patrono del fallimento. In un certo
senso, però, si possono considerare riuscite proprio le vite fallite. Gli
individui soddisfatti di se stessi non hanno realizzato la propria vita,
perché chi è soddisfatto di se stesso si accontenta di poco. E difficile
immaginare Benedetto soddisfatto di sé. Se lo fosse stato non avrebbe
superato i propri limiti, non sarebbe « morto » a se stesso, non sarebbe
santo. È prova di grandezza d’animo il riconoscere di aver fallito la vita.
Goethe a Weimar, Mauriac all’apice della sua gloria continuavano ad
affermare che passavano da una sconfitta all’altra. E così pure Malraux, il
quale ha sempre sperato di ottenere il premio Nobel e fare carriera in
politica; e così Simone de Beauvoir, che chiude i suoi ricordi con la
celebre frase: « Io? Io sono stata turlupinata! »
Questa stessa impressione si ritrova, a un altro livello, nella vita dei
santi, nella quale si trovano più desideri che realizzazioni, vi si trova
cioè quella divisione, quel iato particolarmente acuto tra « volontà che
vuole » e « volontà voluta ». Benedetto perciò, a quel punto, deve aver
pensato di avere compieta- mente sprecato la propria esistenza. E così
dovette soffrire nei giorni che seguirono al colloquio col monaco con cui
era in confidenza, al pensiero che Mon- tecassino, segno tangibile del
successo della sua vita agli occhi di Dio, era destinato a scomparire. Dio
chiede sovente, a quelli che sono suoi, di mettere in pratica il passo
evangelico secondo cui « se il chicco di grano caduto in terra non muore,
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Di madre Maria dell’Incarnazione si racconta che quando un incendio divampò
nella sua prima casa (interamente in legno) fondata in Canadà, ella salì
sulla collina di fronte, vi si mise in ginocchio e pregò: « Signore: tutto
ciò che fai è ben fatto ». Scesa dalla collina, si rese conto della rovina
della sua opera e si rimboccò le maniche per ricominciare. Benedetto ci
appare più umano: si mise a piangere.
In definitiva, le risposte che Gregorio diede alla domanda di Pietro
Diacono, quali risultano dai
Dialoghi, costituiscono una teologia della santità. Due
lezioni se ne possono dedurre:
Alla domanda: « Come Benedetto divenne l’uomo di Dio? » egli risponde:
attraverso le difficoltà, le prove e anche il fallimento. L’unione intima
con Dio aveva trasformato il suo spirito, il suo cuore, i suoi pensieri,
irradiandosi in tutto il suo agire e attraverso quell’umiltà che egli aveva
imparato proprio nell’umiliazione di quelle difficoltà e prove e sconfitte
di cui parla nel cap. 7 della sua
Regola. E questa è la seconda lezione di san Gregorio.
Chi realizza pienamente la propria vita? Chi è vicino a Dio, pur avendone
l’impressione contraria. Le due località ove visse Benedetto rivelano
perfettamente le due peculiarità della sua santità: Subiaco ha rivelato
che egli non era insensibile nei confronti di una certa montagna, a ciò che
essa rappresentava per lui: gusto per la solitudine, tensione verso le
altezze. Ma il panorama ne risulta limitato. A Montecassino invece egli non
poteva rammaricarsi di non poter spingere lontano il proprio sguardo, e il
suo pensiero vi si espandeva più agevolmente, come succede a molti grandi
spiriti quando il loro orizzonte non è chiuso. Benedetto a Montecassino
raggiunse quelle vette dello spirito che gli permisero di perfezionare il
testo della
Regola del
Maestro e di scrivere la sua
Regola, forte delle esperienze vissute. L’eterno gli si era
fatto vicino ed egli si aprì a tutto ciò che è grande, abbracciando
contemporaneamente le minuterie della vita quotidiana e le cose più
importanti con un amore carico di sollecitudine: le difficoltà, le prove e
i fallimenti lo avevano abituato a vedere e a giudicare gli eventi soltanto
alla luce del soprannaturale; non amava più l’agitazione degli uomini ma
soltanto il cielo e la sua pace; si era fatto attento più ai casi
particolari che ai principi, avendo acquisito quella profondità di visione
che fa capire rettamente i problemi della vita e tenta di risolverli. A
Montecassino il mondo sta tutto dentro di lui, e dentro di lui vi è Dio.
La sua perciò è una vita riuscita, anche se i Longobardi non tarderanno ad
arrivare. L’annientamento di Montecassino aprirà le porte a uno sviluppo
grandioso. « Colui che ama la propria vita (cioè colui che si attacca a se
stesso, che rifiuta di farsi dono, di superare se stesso), la perderà; chi
invece non la considera come il valore supremo in questo mondo, la
conserverà nella vita eterna» (cfr. Gv 12,25).
Chi è
veramente san Benedetto
San Benedetto non ha nulla del cosiddetto « intellettuale »: egli è
essenzialmente un uomo pragmatico, un organizzatore nato. Di indole decisa,
magnanimo, energico, riservato nel manifestare i propri sentimenti, può
diventare anche irascibile e focoso. Non ha eccessiva immaginazione ma molta
bontà e discrezione. Buon psicologo, è capace di concentrazione, con
tendenza all’autoritarismo. Predilige la gravità, nei pensieri e negli
atteggiamenti. Se talvolta può apparire un po’ freddo, è comunque
sensibile, affettuoso, delicato. Positivo per carattere, realizzatore, ama
l’ordine. Accetta di essere consigliato dai fratelli
(RB 3). E nello stesso tempo esigente e misericordioso (la
scena del suo colloquio con la sorella Scolastica sotto la pioggia è
sintomatica). L’Abate deve essere dotato di numerose qualità, quali sono
spiegate nei capp. 23 e 64 della sua
Regola, e sappiamo che egli « non ha potuto insegnare
diversamente da come ha vissuto ». E ugualmente, tutto ciò che egli scrive
sui monaci, sui malati, sui servizi da rendere nella comunità, rivela la
sua fisionomia morale. Questo « amante dell’ordine » sembrava destinato
naturalmente a essere un buon giurista o un grande architetto.
Come ha realizzato la sua opera? Vivendo egli stesso nelle profondità del
suo essere. Nella sua
Regola è condensata una esperienza spirituale vissuta
concretamente da un Abate con i suoi frati. Questa
Regola oggi, nel secolo XX, deve essere letta soltanto alla
luce della parola di Dio, ma in essa si è realizzata pure la sintesi più
equilibrata della dottrina monastica tradizionale.
Sono numerosi i fratelli e le sorelle, credenti e miscredenti, che sono
stati toccati dal messaggio di Benedetto nel pieno della loro esistenza nel
mondo, perché un destino umano e cristiano ha sovente una faccia nascosta,
intima, diremmo « monastica », che spinge a scavare in profondità.
Passiamo ora a esaminare la
Regola. Composta di un Prologo e da settantatré capitoli, ha
una delle sue fonti principali in un documento intitolato
Regola del Maestro, che fino al 1940 si era pensato fosse
stata compilata prendendo lunghi brani dalla
Regola di Benedetto. Oggi invece si è concordi nel ritenerla
anteriore a Benedetto, il che nulla toglie al genio e alla santità di
quest’ultimo. Non è dimostrato, invece, che la
Regola del Maestro fosse in vigore a Subiaco. La
Regola
di Benedetto si ispira liberamente a Cassia- no, a sant’Agostino, a san
Pacomio, a san Basilio, a san Girolamo, a san Leone Magno, senza
dimenticare le
Vite dei Padri
del deserto. Benedetto rimanda ai « libri dei santi Padri
cattolici » (oggi direbbe « i dottori della Chiesa»), che ci «insegnano il
retto cammino per arrivare al nostro Creatore»
(RB 73).
Una regola fatta per comunicare la vita. Questa è la sua ragion d’essere:
altrimenti, a che servirebbe? Sarebbe formalismo, legalismo. Essa è fatta
per condurre il soggetto a una certa esperienza di vita, sotto la guida
dello Spirito santo.
Comunità, Regola, Abate: ecco i tre pilastri dell’istituzione benedettina;
ma preghiera (liturgica e personale), lettura spirituale e lavoro sono i
tre grandi valori che permettono a chiunque non appartenga a un monastero
benedettino di vivere secondo lo spirito di san Benedetto.
« Noi speriamo di nulla stabilire di penoso, nulla di pesante. Se comunque
vi riconosci qualche cosa un po’ rigorosa, suggerita da un ragionevole
equilibrio..., non ti lasciare subito così cogliere dallo sgomento da
abbandonare la via della salute, che non può intraprendersi se non per uno
stretto imbocco (Mt 7,14). Ma con l’avanzare nelle virtù monastiche e nella
fede, il cuore si dilata, e la via dei divini precetti si corre
nell’indicibile soavità dell’amore »
(RB,
Prologo).
Non è possibile datare con precisione i principali avvenimenti della vita di
san Benedetto. Queste, comunque, sono le date che con un po’ di
approssimazione si possono fissare:
480 nascita
498 partenza da Roma
498-500 Affile
500-503 Subiaco, vita eremitica
503-506 Vicovaro
506-526 Subiaco, monasteri semi-indipendenti e semi-eremitici
526 arrivo a Montecassino
540 morte
577 distruzione di Montecassino
593 Gregorio scrive i
Dialoghi.
INTRODUZIONE
«Benedetto abitava con se stesso».
(Gregorio Magno, Dial.
3)
Nel libro II dei
Dialoghi («Vita del beato padre san Benedetto »), una sorta di
« fioretti benedettini », nei quali i miracoli hanno una parte
considerevole, san Gregorio Magno ci dice che dopo il fallimento della
riforma di Vicovaro « Benedetto tornò alla sua cara solitudine e, solo sotto
lo sguardo del Supremo Testimone, abitava con se stesso».
« Abitava con se stesso »: una formula meravigliosa che per nostra fortuna
il suo interlocutore, il diacono Pietro, non riuscì a comprendere.
E allora Gregorio comincia a spiegarglielo, partendo dalla parabola che si
legge in Le 15,11-32: « Diremo forse che abitava con se stesso quel figliol
prodigo che se ne andò in una regione lontana e si mangiò la sua parte di
eredità, riducendosi a pascolare i porci? Che dice la Scrittura? Tornato in
se stesso, egli si disse: Tornerò da mio padre. Se fosse rimasto con se
stesso, da dove sarebbe tornato? »
Sicuramente il figliol prodigo non abitava con se stesso. Era in uno stato
di falsità verso se stesso. Per abitare con se stessi occorre anzitutto
tornare in se stessi. E il primo passo, il primo livello di significato
della formula di Gregorio.
Ma ve ne sono altri: ed il secondo livello, il secondo passo è costituito
dalla solitudine. Occorre insistere sulla solitudine, perché in questo
ritorno essa ha una parte importante. E san Gregorio, un po’ più avanti, ci
dice: « Benedetto abitava con se stesso nel senso che teneva all’interno
delle barriere che egli stesso aveva imposto allo scorrimento dei suoi
pensieri ».
Siamo alla lotta contro i pensieri, così importante per i Padri del deserto
(Benedetto infatti si colloca nella scia di eredità di tutto il monacheSimo
orientale). Questa lotta è cara a tutta la tradizione monastica, perché
sorvegliando i pensieri noi vegliamo su tutti gli atti della vita quotidiana
e ce ne distacchiamo, perché l’umiltà ci farà comprendere che le loro
radici scendono a profondità che noi non immaginiamo
(RB
7), e così riferiremo a Dio tutto il bene che è in noi, imputando a noi
stessi, invece, tutto il male che in noi si alligna
(RB 4). Se ci si volesse riferire all’induismo, si potrebbe
dire che tutto questo significa porsi di continuo la domanda: Chi sono io?
E così che ci si radica nella verità.
Il primo passo dunque per
abitare con se stessi è di
tornare in se stessi, abbandonando le regioni della
dissomiglianza, cioè le regioni del peccato: noi infatti siamo stati creati
a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26).
Il secondo passo consiste nel vegliare sui propri pensieri e sulle proprie
azioni. E per questo, il grande mezzo sta nel « vivere sotto lo sguardo del
Supremo Testimone », cioè alla presenza di Dio. E così che a poco a poco
noi fissiamo la nostra dimora nella regione della rassomiglianza con Dio.
Da questa regione della rassomiglianza con Dio noi siamo in grado di
intravedere un terzo grado, un terzo livello di significato nella frase di
Gregorio sull’« abitare con se stessi ». Si tratta cioè di passare dal Dio
esteriore al Dio interiore, da una presenza divina esterna a noi stessi a
una presenza divina interna a noi stessi; meglio: a una percezione del
proprio sé (con la
esse
minuscola) investito, abitato dal Sé (con la
esse maiuscola), che è Dio. L’anima si ritrova sola con Dio,
ma in lui essa scopre il mondo. Sta qui il significato autentico della
grande visione di Benedetto, e su di essa ci soffermeremo nell’ultimo
capitolo.
A questo punto il diacono Pietro non comprende più nulla, e Gregorio
continua nelle sue spiegazioni: « Pietro, capisci bene quello che sto per
dirti: appena il contemplativo ha intravisto la luce di Dio, tutto ciò che
è creato gli diviene troppo angusto, perché la luce della contemplazione
sviluppa la capacità dell’anima e così tutto il suo spirito si dilata: egli
riceve una luce interiore che gli mostra come sia limitato tutto ciò che
non è Dio».
Tutta la vita soprannaturale è una progressione verso questo risveglio della
luce interiore e il suo arrivo è sicuro come la luce dell’aurora, per
rifarci a una espressione del profeta Osea (6,3).
Si tratta di permettere che Dio si risvegli nelle profondità dell’anima, di
permettergli di essere Dio nell’ anima, lasciare che egli trovi la propria
gioia nell'anima. Abitare con se stessi (con la
esse
minuscola) diventa allora abitare con il Sé (con la
esse maiuscola), perché « chi si unisce al Signore forma con
lui un solo spirito », come dice san Paolo ai Corinzi (ICor 6,17). E siamo
negli spazi dell’unione.
Può succedere di scoprire in questo ambito una certa rassomiglianza con lo
spirito dell’Islam: specialmente i più grandi sufi e Hallaj hanno capito il
tawhid
come unificazione del sé in se stesso e unificazione del sé in Dio, il che
ricorda la risalita dell’anima verso la sua Sorgente dell’essere. Benedetto
non parla forse di « ritorno a Dio »? Così pure si potrebbe tentare una
similitudine con
hesychia, un termine che si può tradurre con diverse parole
tutte tra loro collegate: solitudine, tranquillità del cuore, riposo,
distacco, raccoglimento nell’intimo di se stessi conservato per mezzo
della vigilanza che fa discendere nel profondo di sé ove abita Dio: quell’hesychia
così cara al monachesimo dell’Oriente cristiano e specialmente a quello del
Monte Athos.
Interiorizzazione
Il
monachesimo (nell’induismo, nel buddismo o
nel cristianesimo)
nella sua essenza più profonda può essere definito come un movimento di
interiorizzazione. E chiaro che la solitudine vi svolge una parte
primordiale, essenziale. Dicendo «interiorità» noi intendiamo il movimento
col quale lo spirito scandaglia se stesso alla ricerca del proprio
fondamento. Nel cristianesimo è più precisamente uno sforzo dello spirito
che cerca di andare oltre se stesso per raggiungere Dio, per trovare Dio in
se stesso, al di là di se stesso «per la via del Vangelo » vissuto
integralmente
(RB prol.).
Raggiungere il proprio principio è, per san Benedetto, un ritorno a Dio
(RB
prol.). Questo ritorno è subordinato alla ricerca di Dio, che ha come fine
l’unificazione.
In realtà, i monaci sono chiamati « monaci » (lo afferma lo Pseudo Dionigi
verso il 500 nel cap. 6 della sua
Gerarchia ecclesiastica) « perché esercitano in maniera pura
il culto, cioè il servizio di Dio e perché la loro vita, lungi dall’essere
divisa, rimane perfettamente una, perché essi si unificano attraverso un
santo raccoglimento che esclude qualsiasi diversione, in maniera da tendere
verso l’unità di una condotta conforme a Dio e verso la perfezione
dell’amore divino ». Si tratta perciò di scavare nel proprio profondo per
trovare la sorgiva, il Sé.
Il monachesimo ha assunto forme diverse in Oriente e in Occidente: in forma
eremitica con sant’Antonio abate (vissuto tra il 251 e il 356 ca.) e in
forma cenobitica (vita in comune sotto una regola e un Abate, più rigida che
nelle
ashrams
e inizialmente fino alla morte) con san Basilio (ca. 329-379) e san Pacomio
(ca. 287-347).
San Benedetto, pur avendo una grande stima degli eremiti, fissa la sua
Regola
soltanto per i cenobiti (« la più forte specie di monaci »:
RB
1) e parla di san Basilio come del «nostro Padre»
(RB 73).
Il cenobitismo si presenta perciò come una iniziativa che tende a liberare
gli eremiti da ogni preoccupazione di ordine materiale e temporale, dalla
loro volontà, per impedire loro di ripiegarsi su di sé e per dar loro una
formazione sotto la guida di un anziano (l’abate) che ha già fatto
esperienza di Dio, quello che in India è il
guru.
Il cenobitismo è costituito dalla relazione del tutto spirituale che si
instaura tra ciascuno dei suoi membri e un uomo (l’abate o il superiore)
che rappresenta Cristo, Da questa relazione derivano poi i rapporti dei
frati fra di loro.
Il cenobitismo si situa sul prolungamento dell’eremitismo nel senso che è
una struttura indirizzata ad aiutare i monaci a « cercare Dio veramente» (RB
58). E’ una organizzazione su scala comunitaria di quella che era la
paternità spirituale dei Padri del deserto, perché la missione dell’abate
deriva da un incontro solitario con Dio e tende a condurre le anime a
questo reincontro autentico, in una autentica solitudine.
Il termine
monaco deriva dal greco
monos, che significa, anzitutto, orientato in maniera
esclusiva verso un unico scopo, casto, non condiviso; di qui sono derivati
i significati successivi: uno, solo, solitario, infine unico, colui che ha
raggiunto l’unità, colui che tende all’unità.
Il tema centrale di queste meditazioni con san Benedetto sarà dunque quello
della « autentica ricerca di Dio»
(RB 58). Ma come «cercare Dio veramente »? E quanto
cercheremo di spiegare iniziando da un lavoro di « pulitura » dell’anima per
arrivare a una riscoperta del mondo, ma questa volta in Dio, attraverso la
contemplazione.
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
27 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net