La vita monastica in Africa e in Sardegna nel VI secolo
sulle orme di S. Agostino

Di Pietro Meloni, vescovo

Estratto da “L’Africa romana”, Atti del VI convegno di studio Sassari, 16-18 dicembre 1988,

 a cura di Attilio Mastino, Edizioni Gallizzi - Sassari 1989

 

Quando il vescovo Fulgenzio, esule dalla terra africana, sbarcò a Cagliari nei primi anni del VI secolo, subito i Sardi si accorsero che la sua «passione» era quella di creare una comunità monastica: monasterium congregare [1]. «Nei primi tempi del glorioso esilio» egli non riuscì pienamente nel suo intento, poiché era troppo esiguo il numero dei monaci che lo avevano seguito in Sardegna; ma «non potendo fare a meno di vivere in comunità con i fratelli» convinse i due vescovi suoi compagni di esilio, Illustre e Gianuario, ad «abitare con lui nella sua casa». Nasceva così il primo monastero della Sardegna, nel quale la piccola comunità aveva in comune la mensa, l’abitazione, la preghiera, l’ascolto della parola di Dio: Erat quippe eis communis mensa, commune cellarium, communis oratio, simul et lectio  [2].

Fulgenzio aveva poco più di vent’anni quando aveva bussato alla porta di un monastero della Byzacena (oggi Tunisia), dove il vescovo Fausto, relegato fuori della diocesi a causa della sua fede, aveva costituito una comunità monastica. Al monaco-vescovo aveva domandato: operi mihi ianuam monastero ... fac me unum de discipulis tuis [3]. Il cenobio era vicino alla diocesi di Praesidium Diolele, presso l’odierna Henchir es Samâa, non lontano da Capsa. In quella terra Fulgenzio era nato nell’anno 467, a Thelepte (Medinet-el-Khedima), da una famiglia ragguardevole, che lo aveva avviato a una profonda cultura. Giovanissimo era diventato esattore delle imposte al servizio dei Vandali. Ma la professione non lo soddisfaceva, ed egli cominciò a visitare i monasteri del territorio e ad imparare lo stile di vita dei monaci, dedicandosi alla preghiera, alla lettura, al digiuno[4]. La lettura di Sant’Agostino fu per lui la luce definitiva che lo spinse a scegliere la vita monastica, segnata totalmente dalla spiritualità agostiniana.

L’abate-vescovo Fausto rimase incerto se accoglierlo, nel timore che Fulgenzio, abituato alla vita agiata, non riuscisse a sostenere la rigidità della vita comunitaria, oppure si arrendesse alle suppliche della madre, che non approvava la sua vocazione[5]. Ma il tempo del «noviziato» mostrò che il giovane, nel digiuno e nella preghiera, era disposto a sacrifici maggiori di quelli prescritti dalla regola[6]. Solo la persecuzione, che scacciò abate e monaci dal convento, obbligò Fulgenzio, timoroso di rimanere solo, a trasferirsi nel vicino monastero presieduto dall’abate Felice, suo amico d’infanzia[7]. Questi volle che Fulgenzio, dotato di cultura e di virtù, divenisse subito abate della comunità. Il santo, che nella sua umiltà non avrebbe voluto accettare tale ministero, acconsentì a condividere con Felice la responsabilità del servizio: Ita, duo viri sanctissimi, diligentes aequaliter Deum et proximum, ambo moribus similes, ambo meliores proposito, conversatione aequales, unus scientia superior, iugum bonum gubernandae congregationis excipiunt [8].

Fulgenzio dimorò in questo monastero per dodici anni, dedicandosi principalmente all’insegnamento della Scrittura, dal quale scaturirono poi le sue opere teologiche, mentre Felice lavorava «nel servizio quotidiano»[9]. Le incursioni dei Mauri nel 496 costrinsero i monaci ad emigrare verso l’Africa Proconsolare a Sicca Veneria (oggi Le Kef in Tunisia), donde però fuggirono nuovamente per le molestie degli Ariani[10]. Giunsero così a Mididi (Henchir Midid); ma Fulgenzio, infiammato dalla lettura delle meditazioni monastiche di Giovanni Cassiano, che aveva visitato i prestigiosi monasteri egiziani, decise di partire per l’Egitto. Non vi giunse perché il vescovo di Siracusa, dove aveva fatto scalo dopo la partenza da Cartagine, lo mise in guardia dal pericolo del monofisismo dei monaci egiziani. Rese allora visita al vescovo africano Rufiniano, esiliato in Sicilia. Poi partì alla volta di Roma nell’anno 500, pellegrino ai monasteri della città eterna e soprattutto ai sacra martyrum loca [11]. In quei giorni poté assistere all’ingresso trionfale di Teodorico a Roma, e nella celebrazione liturgica della basilica di San Pietro gli parve di vedere lo splendore della celeste Gerusalemme.

Tornò a Mididi, accolto dai fratelli con gioia. Poi fondò un nuovo monastero verso il mare, nel terreno del ricco Silvestrio tra Iunca e Ruspe, divenendo magnae congregationis pater [12]. Desideroso di dedicarsi solo alla preghiera e al lavoro[13], tentò di allontanarsi per lasciare la carica di abate, ma i suoi monaci lo ricondussero al monastero con l’appoggio del vescovo Fausto, che lo ordinò sacerdote ut abbatis et presbyteri decoratus officio, nec monasterium relinqueret, nec in alia posset Ecclesia ordinari fortuito [14]. Infieriva in quel momento la persecuzione di Trasamondo, re dei Vandali, strenuo difensore dell’arianesimo, che condannava all’esilio i vescovi cattolici per fiaccare la fede del popolo. Fulgenzio, temendo di divenire vescovo, stava per fuggire nuovamente, ma lo rassicurò l’editto del re vandalo che vietava severamente l’ordinazione di nuovi vescovi[15]. I cittadini di Ruspe, però, convinsero il vescovo primate Vittore, che partiva per l’esilio, a consacrare Fulgenzio nella dignità episcopale[16]. Il che avvenne, e Fulgenzio ottenne contemporaneamente l’episcopato e l’esilio.

Fece appena in tempo a fondare l’ultimo monastero nella sua diocesi di Ruspe, chiamandovi come abate l’antico amico Felice. I doni che i fedeli gli offrirono a Cartagine, mentre partiva esule in Sardegna, li lasciò per la costruzione del nuovo monastero[17].

Fu così che Fulgenzio giunse in Sardegna verso l’anno 502 e istituì a Cagliari il primo nucleo monastico con i pochi monaci che lo avevano seguito e con i vescovi Illustre e Gianuario: «mettendosi al loro servizio con amorevole affetto, sapientemente costituì una comunità simile a quella di un grande monastero, nell’armonia tra monaci e preti»[18]. A somiglianza di Sant’Agostino, sentendo la responsabilità episcopale unita alla vocazione monastica, favorì la convivenza di monaci e chierici, con l’unica differenza che i monaci «non possedevano assolutamente nulla di proprio e non vivevano secondo le abitudini dei preti, pur abitando con loro»[19]. Fulgenzio istruiva i monaci e anche altri uomini della città, distogliendoli dai «piaceri terreni» e indirizzando tutti alle «beatitudini celesti», e sovvenendo alle necessità materiali e spirituali dei poveri[20].

Molti credenti abbracciarono in quel tempo la vita monastica, tra i quali quel discepolo di Fulgenzio che divenne più tardi biografo del maestro, identificato da alcuni con Ferrando; egli si convertì all’ideale monastico predicato da Fulgenzio in ilio parvissimo monasterio quod sibi apud Sardiniam pro Christi nomine relegatus effecerat [21]. Gli altri vescovi africani esiliati in Sardegna, in numero di una sessantina e tutti «intrepidi predicatori di Cristo», riconoscevano in Fulgenzio il pastore più autorevole per cultura e santità[22]. Ma lui non desiderava essere chiamato «maestro o dottore dei fratelli», considerandosi soltanto loro «condiscepolo nella verità»[23].

«Chi potrebbe celebrare degnamente le lodi di quella comunità? Per la città di Cagliari essa era un santuario: è là che andava a cercare consolazione chi era afflitto da pene; là concludevano patti duraturi di pace e concordia quanti erano lacerati da discordia; e a chi avesse desiderato approfondire la conoscenza della Scrittura è là che il Signore procurava l’edificazione di una sua più completa interpretazione. Quando poteva, la nobiltà assisteva volentieri alle quotidiane conferenze del beato Fulgenzio. I poveri amavano chiedere supplichevolmente l’elemosina materiale a lui, che poteva dar loro anche il nutrimento spirituale. Spesso infatti il beato Fulgenzio, con i suoi saggi moniti, induceva a rinunciare al mondo quanti aveva generosamente liberato dalle sofferenze della fame; e benché non possedessero nulla, li convinceva a sprezzare persino il desiderio del possesso»[24].

Il re Trasamondo, venuto a sapere che «tra i vescovi esiliati ce n’era uno, il beato Fulgenzio, al quale nulla mancava in fatto di scienza e che sovrabbondava in grazia», simulando l’intenzione di approfondire la fede cattolica «inviò un emissario con il compito di prendere e riportare indietro alla svelta il vescovo, il quale approdò lieto a Cartagine»[25]. Per circa due anni (dall’anno 510 o dal 515) Fulgenzio tenne testa al re vandalo con la sua dottrina, componendo per lui il libro Contro Arianos e i tre libri Ad Trasamundum, e trasse occasione della sua permanenza in Africa per istruire i sacerdoti e i fedeli, dimostrando «in qual modo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella distinzione delle tre persone, siano considerati dai credenti un solo Dio»[26].

«Il re, quasi forzato da grande necessità, costrinse il beato Fulgenzio a riprendere la via dell’esilio in Sardegna» [27]. Fulgenzio, tornato nell’isola, «restituì alla gioia i cuori dei vescovi esiliati e con la sua presenza fece brillare di luce viva tutto il territorio, al quale conferiva già un bell’ornamento la presenza di tanti sacerdoti»[28]. La «moltitudine dei confratelli che lo accompagnavano», sia africani che sardi, non gli consentì di abitare a lungo «nella prima casa»[29]. Fu costruito perciò, con il consenso del vescovo di Cagliari Primasio, un nuovo monastero «lontano dal rumore della città», nel luogo iuxta basilicam sancti martyris Saturnini, dentro il quale Fulgenzio radunò oltre quaranta monaci sotto la disciplina cenobitica[30].

«Custodì perfettamente l’ordine della disciplina comunitaria; non diede a nessuno il permesso di tralasciare la ‘regola’ della sacra professione, ma comunicò ai monaci soprattutto questo precetto: che nessuno tra loro rivendicasse qualche bene come proprio, ma tutto fosse comune a tutti»[31]. La principalità di questo precetto, e il suo linguaggio che raccomanda omnibus omnia communio, manifestano l’impronta agostiniana della «Regula» di Fulgenzio. La Regula Sancti Augustini, dopo aver raccomandato ai monaci di avere «un cuore solo e un’anima sola», al suo esordio proclamava: «E non chiamate proprio alcun bene, ma tutto sia per voi comune»: Et non dicatis aliquid proprium, sed sint vobis omnia communia [32].

Tutto lo stile di vita dei monasteri fulgenziani, specialmente nel tempo dell’episcopato, è improntato all’esperienza di Agostino che, dopo aver sognato un monastero di laici contemplativi, divenuto sacerdote costituì un monastero di laici e presbiteri, e consacrato poi vescovo lo trasformò in una comunità di presbiteri accanto al vescovo. Fulgenzio, che nella sua diocesi di Ruspe costituì il monastero sul perfetto ritmo agostiniano strettamente legato alla comunità ecclesiale, a Cagliari, non esercitando il ministero episcopale, poté tornare al gusto di una vita più strettamente monastica, sempre in perfetta sintonia con il vescovo della città Primasio.

La morte del re Trasamondo, avvenuta il 28 maggio del 523, e l’avvento di Ilderico, re di ammirabile bontà[33], permise ai vescovi esiliati in Sardegna di tornare in patria. Fulgenzio, accolto a Cartagine dai fedeli osannanti, ritornò poi alla diocesi e al monastero di Ruspe nella sua Byzacena, fece in tempo a partecipare al Concilio di Iunca nel 523, e si inchinò dinanzi all’autorità del vescovo Quodvultdeus, pur essendo stata affidata a lui la presidenza del Concilio. Per circa nove anni guidò la diocesi di Ruspe, ma «non volle assumere la guida del proprio monastero» e «rinunciò volontariamente ad ogni possibilità di comandare sui monaci, volendo seguire non la propria volontà, ma quella di un altro»[34]. Abitò nel cenobio nec pro potestate, sed pro caritate, raccomandando ai sacerdoti di ispirarsi alla spiritualità monastica, come un secolo prima aveva fatto Agostino: che abitassero vicino alla chiesa e coltivassero l’orto con le proprie mani[35]. Il monastero aveva il suo scriptorium, la cui biblioteca si conservò a lungo. Nel monastero Fulgenzio morì, il 1° gennaio del 532, mentre ricorreva «il 25° anno del suo episcopato e il 65° della sua vita»[36]. «Non avendo eredi in questo mondo, lasciava ai poveri in eredità la sua sollecita carità. E non privò i suoi sacerdoti della doverosa benedizione»[37].

L’esistenza di una Regola di S. Fulgenzio pare testimoniata dalla Vita, che ne parla in quattro occasioni, due delle quali si riferiscono al primo e al secondo monastero di Cagliari[38]. Ma per «regola» è da intendere soprattutto il concreto stile di vita delle sue comunità, che respiravano l’aria monastica ormai diffusa nell’Occidente cristiano. La notizia del monachesimo, nato in Oriente e perfezionate soprattutto in Egitto ad opera di S. Antonio e S. Pacomio, era giunta nell’Occidente latino fin dal tempo di Atanasio, autore di quella regola monastica in forma di biografia che è la Vita di S. Antonio. L’Africa cristiana era ambiente favorevole all’esperienza monastica, sia maschile che femminile, poiché sempre aveva conosciuto la testimonianza della consacrazione verginale. Ma fu Agostino, convertitosi al cristianesimo anche per la testimonianza del monaco S. Antonio, a introdurre in Africa la prima comunità monastica. Al ritorno da Milano, dove nel 387 aveva ricevuto il Battesimo dal vescovo Ambrogio, Agostino trasformò la sua casa di Tagaste in un cenobio. Ordinato sacerdote nel 391 fondò a Ippona un monastero per chierici e monaci. Divenuto vescovo nel 395 (o 396) fece dell’episcopio un monastero.

La Regola di S. Agostino rispecchia la vita delle sue comunità, anche se il testo giunto fino a noi può aver ricevuto qualche ritocco in epoca posteriore[39]. Ne fanno fede le molteplici testimonianze monastiche presenti nelle sue opere, e in particolare nella Lettera 211 e nel De opere monachorum. Sulla scia di S. Antonio, ispirandosi alla Regola di vita comunitaria di Pacomio e Basilio, Agostino trasfonde nelle sue comunità lo spirito della prima chiesa apostolica descritta negli Atti degli Apostoli, dando risalto alla penitenza, all’umiltà, all’obbedienza, alla carità, all’amicizia. La tendenza intellettuale, che esaltava l’amore alla sapienza, spingeva Agostino a dare ampio spazio alla parola di Dio, senza sottovalutare la dignità educativa e santificante del lavoro manuale: con esso i ricchi si umiliano volentieri al lavoro artigiano e i poveri si arricchiscono solo per mettere tutto in comune. Agostino mostra la naturale armonia fra la preghiera e il lavoro: Cantica divina cantare, etiam manibus operantes facile possunt, et ipsum laborem tamquam divino celemate consolari [40]. La cura della biblioteca era egualmente fondamentale, tanto che di Agostino il biografo Possidio dice: Ecclesiae bibliothecam omnesque codices diligenter posteris custodiendos semper iubebat [41]. Anche la nascita dei primi monasteri femminili fu propugnata dal Santo, la cui sorella vedova, divenuta superiora del convento di Ippona, accoglieva le orfane e gli orfani affidati al vescovo[42]. E sappiamo che dopo la morte di Agostino i suoi discepoli e le sue monache diffusero la spiritualità monastica in tutta l’Africa.

Era trascorso un secolo dalla nascita del primo monastero agostiniano, e poco più di cinquant’anni dalla morte del vescovo di Ippona, quando Fulgenzio abbracciò la vita monastica, divenendone il più appassionato divulgatore in Africa e il più significativo propagatore in Sardegna, secondo le notizie del diacono Ferrando, che sono una fonte preziosa per la storia del monachesimo. La vita dei monaci, che dopo la pace costantiniana appariva come la prosecuzione ideale della testimonianza dei martiri, divenne fra il IV e il VI secolo la luce più splendente della fede cristiana. Tutti i credenti potevano aspirare a questo itinerario di ascesi che innalzava al colloquio con Dio. Anche i presbiteri e i vescovi, fortemente impegnati nell’azione pastorale, desideravano viverne lo spirito. La maggior parte dei monaci rimanevano naturalmente laici. Ma Fulgenzio, che da monaco laico era divenuto sacerdote e vescovo, come Agostino, scelse spesso tra i suoi monaci i candidati al sacerdozio.

Il monastero di Cagliari fu edificato «lontano dallo strepito della città», secondo un principio ideale che valeva per tutti i monasteri[43]. Essi dovevano avere accanto un territorio cuius gleba pinguis ac fertilis instituendis hortis optabili fecunditate congrueret ...ut regnum Dei quaerentibus nulla cura saecularis transactionis obstreperet[44]. Il monaco, non solo doveva avere la «volontà», ma anche l’«energia» di renuntiare saeculo[45]. L’alloggio in piccole celle personali, spesso costruite in legno, favoriva la contemplazione [46]. Il vitto era costituito da cibi viles, soprattutto uova e verdure, che si potevano condire con l’olio[47]. Fulgenzio da giovane rinunziava spontaneamente all’olio[48]: più tardi si lasciò convincere dalle sue qualità terapeutiche sugli occhi e ne fece uso per favorire la lettura dell’ufficio: postquam vero senuit, superfuso oleo manducavit. Ideo plus suasus oleum accipere, ne caligo praevalens oculorum, lectionis impediret officium[49]. Si astenne sempre dalla carne[50]. Rinunziava anche al vino, bevendone alquanto misto ad acqua in tempo di malattia[51]. L’astinenza e il digiuno erano la regola quotidiana della comunità[52].

Fulgenzio si atteneva alle sapienti norme dei monaci, e del suo S. Agostino, nel praticare la discretio, che era insieme «discernimento» e «discrezione». «Distribuiva con grandissima discrezione ai servi di Dio le cose necessarie per vivere, valutando la forza e la debolezza di ognuno»[53]. L’abito monastico era semplice e rude: una tantum vilissima tunica, sive per aestatem, sive per hiemem [54]. La veste era necessaria per indicare la «vita nuova», nascente dal battesimo e dalla professione religiosa. Da vescovo, Fulgenzio non volle rivestire le insegne pontificali e continuò a indossare l’abito del monaco, testimoniando ai fratelli che bisogna «cambiare il cuore più che la veste» [55]. Lo narra con soddisfazione Ferrando, delineando in Fulgenzio l’armonia tra il vescovo e il monaco: Nec ita factus est episcopus, ut esse desisteret monachus [56]. Le insegne dei veri monaci sono la «povertà» e l’«umiltà»: sola iuvat humilitas perché educa a nihil velle, nihil nolle [57]. È questo un riflesso della spiritualità agostiniana, espressa nella Regola con il linguaggio di Seneca : «È meglio avere meno bisogni che possedere più cose»: melius est enim minus egere, quam plus habere[58].

La preghiera comune era il cuore della comunità [59], a ore determinate del giorno e della notte, annunziate dal suono della campana. Non mancavano i monaci infedeli alia regola, ma le testimonianze sottolineano soprattutto la fedeltà. La severità di Fulgenzio era grande: il vescovo-abate al momento della morte ne chiese perdono a chi se ne era sentito offeso[60]. Le virtù principali erano l’umiltà, la carità, l’austerità, la povertà, l’obbedienza, la castità. Questa era considerata un «dono di Dio» per i giovani, per gli anziani, e per lo stesso abate[61]. La «correzione fraterna» era praticata con semplicità e franchezza. Una lettura sinottica delle testimonianze su Agostino e Fulgenzio mostra la loro sostanziale affinità nella prospettiva ascetica e nella metodologia monastica. Lo stesso Ferrando è lodato da Fulgenzio per il suo amore alle parole di S. Agostino: eius dicta sic acutissime ac frequentissime legis, ut in eis plurima possis similia reperire?[62].

Il lavoro era agricolo, distribuito secondo le forze[63]. Lo studio era la lectio, coltivata nell’«amore della scienza dello spirito», per sviluppare la conoscenza della fede e l’esercizio delle virtù. Il lavoro spirituale era quello eccelso: «I fratelli che lavoravano ed esercitavano instancabilmente le opere manuali, ma non si dedicavano allo studio e alla lettura, li stimava meno e non li giudicava del massimo onore»[64]. A Cagliari Fulgenzio era contento di prolungare le conversazioni spirituali nel monastero, e si dedicava anche alla predicazione rivolta al popolo[65]. E ci teneva ad attrezzare il monastero degli strumenti della scrittura: nello scriptorium cagliaritano egli scrisse numerose lettere «sia a persone che vivevano in Sardegna presso di lui, sia ad altre che vivevano in Africa», i libri ad Euthymium, ad Monimum, ad Prcbam, il trattato perduto Contra Faustum Reiensem ed altri sermoni e trattati[66]. L’arte della scrittura era come una preghiera: scriptoris arte laudabiliter utebatur [67]. Frutto dell’attività amanuense, a noi pervenuto, è anche il codice del De Trinitate di Ilario di Poitiers, che il colophon dichiara esser stato trascritto a Cagliari anno quarto decimo Trasamundi regis [68]. E dalla Sardegna, povera di libri per questi monaci assetati della verità, Fulgenzio supplicava gli amici delle lontane comunità a trascrivere e inviargli i sacri testi: Obsecro ut libros quos opus habemus, servi tui describant de codicibus vestris[69].

L’attività teologico-letteraria di Fulgenzio fu sapiente ed instancabile. Il santo, che il Martirologio Romano alla data del I gennaio esalta per la eximia doctrina, è definito a ragione dal biografo: Catholicae Ecclesiae singularis magister et doctor[70]. È significativo che tale definizione si riferisca al tempo della sua presenza in Sardegna. Nell’isola, infatti, egli concepì e dettò una buona parte dei suoi scritti per la «edificazione spirituale» dei fratelli[71]. Vi svolse i temi principali della discussione teologica del tempo, soprattutto la dottrina trinitaria e cristologica in risposta all’arianesimo, e la dottrina soteriologica sulla libertà e la grazia. Il suo biografo vide nella liberazione di Fulgenzio dall’esilio, avvenuta alla morte del re Trasamondo, il «meritato premio» al magni operis labor [72]. Il vescovo tornò nella sua Africa, e per altri dieci anni profuse la sua scienza e la sua carità nella città di Cartagine e nella diocesi di Ruspe, diffondendo la spiritualità monastica sulle orme di Sant’Agostino. Felicemente il medioevo cristiano lo consegnò alla storia con il titolo di Augustinus breviatus.



[1] Vita Fulgentii 19. La Vita di Fulgenzio, attribuita al diacono Ferrando dall’editore P.F. Chifflet nel 1649, fu pubblicata nel 1892 dal Migne in PL 65, coll. 117-150; l’edizione critica, con traduzione francese, fu curata da G.G. Lapeyre, Vie de Saint Fulgence de Ruspe, Paris 1929. Si veda ora la preziosa traduzione italiana in: Pseudo-Ferrando di Cartagine, Vita di San Fulgenzio, a cura di A. Isola, Roma 1987 (Collana di Testi Patristici di Città Nuova).

Sulla personalità di Fulgenzio di Ruspe si vedano G.B. Proja, Fulgenzio Claudio Gordiano, in Bibliotheca Sanctorum V, Roma 1964, coll. 1304-1316 e M. Simonetti, Fulgenzio di Ruspe, in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane I, Casale Monferrato 1983, coll. 1407-1409.

[2] Vita Fulgentii 19. Sul monachesimo in Sardegna, e sulla cultura suscitata da Fulgenzio e dai monaci nell’isola, si vedano E. Cau, Fulgenzio s la cultura scritta in Sardegna agli inizi del VI secolo, in «Sandalion» 2 (1979), pp. 221-229; Id., Note e ipotesi sulla cultura in Sardegna nell’altomedioevo, in La Sardegna nel mondo mediterraneo II, Sassari 1981, pp. 129-143; R. Turtas, Nota sul monacheSimo in Sardegna tra Fulgenzio e Gregorio Magno, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» 41 (1987), pp. 92-110.

[3] Vita Fulgentii 3. Sulla vita monastica in Africa al tempo di Fulgenzio si veda il documentatissimo 1.1. Gavigan, De vita monastica in Africa Septentrionali inde a temporibus S. Augustini usque ad invasìones Arabum, Torino 1962.

[4] Vita Fulgentii 2.

[5] Vita Fulgentii 4.

[6] Vita Fulgentii 5.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Vita Fulgentii 7.

[11] Vita Fulgentii 9.

[12] Vita Fulgentii 10-11.

[13] Vita Fulgentii 12.

[14] Vita Fulgentii 13.

[15] Ibidem.

[16] Vita Fulgentii 14.

[17] Vita Fulgentii 16-17.

[18] Vita Fulgentii 19.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Il discepolo è, secondo alcuni, il monaco Ferrando, che divenne poi diacono a Cartagine; altri non accolgono questa identificazione e considerano anonimo l’autore della Vita Fulgentii, che presenta se stesso nel prologo. Sull’autore della attraente biografia fulgenziana e sulla figura del diacono Ferrando si veda M. Simonetti, Note sulla Vita Fulgentii, in «Analecta Bollandiana» 100 (1982), pp. 277-289; A. Isola, Sulla paternità della Vita Fulgentii, in «Vetera Christianorum» 23 (1986), pp. 63-71 e l’introduzione alla Vita di San Fulgenzio, a cura di A. Isola, Roma 1987.

[22] Vita Fulgentii 18 e Ferr., Ep. 16, 22-23.

[23] Fulg., Ad Monimum IV, IV, 1. L’edizione delle opere è in Sancti Fulgentii episcopi Ruspensis opera, cura et studio J. Fraipont, Corpus Christianorum Series Latina XCI et XCI A, Turnholti 1968.

[24] Vita Fulgentii 19.

[25] Vita Fulgentii 20.

[26] Ibidem.

[27] Vita Fulgentii 21.

[28] Vita Fulgentii 23.

[29] Vita Fulgentii 24.

[30] Ibidem. Sulla proposta di chiamare Saturno il martire Saturnino, al quale era dedicata la chiesa attigua al monastero di Fulgenzio secondo la notizia del biografo, si veda B.R. Motzo, S. Saturno di Cagliari, in «Archivio Storico Sardo» 16 (1926), p. 3 ss. e P. Meloni, La Sardegna Romana, Sassari 1975, pp. 364-366 e p. 445.

[31] Vita Fulgentii 24.

[32] Regula Sancti Augustini 1,4. Sulla tradizione monastica prima e dopo Agostino si veda: G. Turbessi, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, Roma 1961.

[33] Vita Fulgentii 25.

[34] Vita Fulgentii 27.

[35] Ibidem.

[36] Vita Fulgentii 28.

[37] Ibidem.

[38] Vita Fulgentii 19 e 24.

[39] La Regola di Agostino si potrà trovare in: Sant’Agostino, La Regola, a cura di A. Trapè, Milano 1971. Per una sintesi sulla vita monastica e pastorale di S. Agostino si veda: P. Meloni, Parola, Sacramenti, Comunità nella pastorale di Sant’Agostino, in «Atti della Settimana Liturgica Nazionale», Bergamo-Roma 1987, pp. 28-43.

[40] De opere monachorum 17,20.

[41] Vita Augustini 31.

[42] Vita Augustini 26,1 e 27,1. Cfr. anche la Lettera 211, che è un vero e proprio trattato sul monachesimo ed una Regola per la vita dei monasteri femminili.

[43] Vita Fulgentii 24.

[44] Vita Fulgentii 10.

[45] Vita Fulgentii 3.

[46] Vita Fulgentii 12; 14; 16.

[47] Vita Fulgentii 3;5;16.

[48] Vita Fulgentii 5.

[49] Vita Fulgentii 16.

[50] Ibidem.

[51] Ibidem.

[52] Vita Fulgentii 5 e 15.

[53] Vita Fulgentii 24.

[54] Vita Fulgentii 15.

[55] Ibidem.

[56] Ibidem.

[57] Vita Fulgentii 24.

[58] Regula Augustini 18; cfr. Sen., Ad Lucilium 2,6.

[59] Vita Fulgentii 19.

[60] Vita Fulgentii 24.

[61] Vita Fulgentii 2.

[62] Ep. ad Ferrandum 14,14.

[63] Vita Fulgentii 10.

[64] Vita Fulgentii 24. Sul rapporto tra lavoro e preghiera nel monachesimo delle origini si veda: A. Quacquarelli, Lavoro e ascesi nel monachesimo prebenedettino del IV e V secolo, Bari 1982.

[65] Vita Fulgentii 19.

[66] Vita Fulgentii 25.

[67] Vita Fulgentii 12.

[68] Per un quadro aggiornato di tutti i problemi relativi a questo manoscritto e per una visione dell’attività scrittoria nel monastero fulgenziano di Cagliari si veda: E. Cau, Fulgenzio e la cultura scritta in Sardegna, cit., soprattutto alle pp. 225-227.

[69] Ep. ad Eugippium abbatem V, 12.

[70] Vita Fulgentii 27.

[71] Vita Fulgentii 25.

[72] Ibidem. Una presentazione della personalità di Fulgenzio, africano di razza e sardo di adozione, si potrà trovare in G.G. Lapeyre, Saint Fulgence de Ruspe. Un évêque catholique africain sous la domination vandale, Paris 1929 e in F. Di Sciascio, Fulgenzio di Ruspe. Un grande discepolo di Agostino contro le «reliquiae pelagianae pravitatis» nei suoi epigoni, Roma 1941.



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21 aprile 2022   a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti   alberto@ora-et-labora.net