La vita monastica in Africa e in Sardegna nel VI secolo
sulle
orme di S. Agostino
Di Pietro Meloni, vescovo
Estratto da “L’Africa romana”, Atti del VI convegno di studio Sassari, 16-18 dicembre 1988,
a
cura di Attilio Mastino,
Edizioni Gallizzi
-
Sassari 1989
Quando il vescovo Fulgenzio, esule dalla terra africana, sbarcò a Cagliari
nei primi anni del VI secolo, subito i Sardi si accorsero che la sua
«passione» era quella di creare una comunità monastica:
monasterium congregare
[1].
«Nei primi tempi del glorioso esilio» egli non riuscì pienamente nel suo
intento, poiché era troppo esiguo il numero dei monaci che lo avevano
seguito in Sardegna; ma «non potendo fare a meno di vivere in comunità con i
fratelli» convinse i due vescovi suoi compagni di esilio, Illustre e
Gianuario, ad «abitare con lui nella sua casa». Nasceva così il primo
monastero della Sardegna, nel quale la piccola comunità aveva in comune la
mensa, l’abitazione, la preghiera, l’ascolto della parola di Dio:
Erat quippe eis communis mensa, commune cellarium, communis oratio, simul et
lectio
[2].
Fulgenzio aveva poco più di vent’anni quando aveva bussato alla porta di un
monastero della Byzacena (oggi Tunisia), dove il vescovo Fausto, relegato
fuori della diocesi a causa della sua fede, aveva costituito una comunità
monastica. Al monaco-vescovo aveva domandato:
operi mihi ianuam monastero ... fac me unum de discipulis tuis
[3]. Il cenobio era vicino alla
diocesi di
Praesidium Diolele,
presso l’odierna Henchir es Samâa, non lontano da Capsa. In quella terra
Fulgenzio era nato nell’anno 467, a Thelepte (Medinet-el-Khedima), da una
famiglia ragguardevole, che lo aveva avviato a una profonda cultura.
Giovanissimo era diventato esattore delle imposte al servizio dei Vandali.
Ma la professione non lo soddisfaceva, ed egli cominciò a visitare i
monasteri del territorio e ad imparare lo stile di vita dei monaci,
dedicandosi alla preghiera, alla lettura, al digiuno[4].
La lettura di Sant’Agostino fu per lui la luce definitiva che lo spinse a
scegliere la vita monastica, segnata totalmente dalla spiritualità
agostiniana.
L’abate-vescovo Fausto rimase incerto se accoglierlo, nel timore che
Fulgenzio, abituato alla vita agiata, non riuscisse a sostenere la rigidità
della vita comunitaria, oppure si arrendesse alle suppliche della madre, che
non approvava la sua vocazione[5].
Ma il tempo del «noviziato» mostrò che il giovane, nel digiuno e nella
preghiera, era disposto a sacrifici maggiori di quelli prescritti dalla
regola[6].
Solo la persecuzione, che scacciò abate e monaci dal convento, obbligò
Fulgenzio, timoroso di rimanere solo, a trasferirsi nel vicino monastero
presieduto dall’abate Felice, suo amico d’infanzia[7].
Questi volle che Fulgenzio, dotato di cultura e di virtù, divenisse subito
abate della comunità. Il santo, che nella sua umiltà non avrebbe voluto
accettare tale ministero, acconsentì a condividere con Felice la
responsabilità del servizio:
Ita, duo viri sanctissimi, diligentes aequaliter Deum et proximum, ambo
moribus similes, ambo meliores proposito, conversatione aequales, unus
scientia superior, iugum bonum gubernandae congregationis excipiunt
[8].
Fulgenzio dimorò in questo monastero per dodici anni, dedicandosi
principalmente all’insegnamento della Scrittura, dal quale scaturirono poi
le sue opere teologiche, mentre Felice lavorava «nel servizio quotidiano»[9].
Le incursioni dei Mauri nel 496 costrinsero i monaci ad emigrare verso
l’Africa Proconsolare a Sicca Veneria (oggi Le Kef in Tunisia), donde però
fuggirono nuovamente per le molestie degli Ariani[10].
Giunsero così a Mididi (Henchir Midid); ma Fulgenzio, infiammato dalla
lettura delle meditazioni monastiche di Giovanni Cassiano, che aveva
visitato i prestigiosi monasteri egiziani, decise di partire per l’Egitto.
Non vi giunse perché il vescovo di Siracusa, dove aveva fatto scalo dopo la
partenza da Cartagine, lo mise in guardia dal pericolo del monofisismo dei
monaci egiziani. Rese allora visita al vescovo africano Rufiniano, esiliato
in Sicilia. Poi partì alla volta di Roma nell’anno 500, pellegrino ai
monasteri della città eterna e soprattutto ai
sacra martyrum loca
[11].
In quei giorni poté assistere all’ingresso trionfale di Teodorico a Roma, e
nella celebrazione liturgica della basilica di San Pietro gli parve di
vedere lo splendore della celeste Gerusalemme.
Tornò a Mididi, accolto dai fratelli con gioia. Poi fondò un nuovo monastero
verso il mare, nel terreno del ricco Silvestrio tra
Iunca
e
Ruspe,
divenendo
magnae congregationis pater
[12].
Desideroso di dedicarsi solo alla preghiera e al lavoro[13],
tentò di allontanarsi per lasciare la carica di abate, ma i suoi monaci lo
ricondussero al monastero con l’appoggio del vescovo Fausto, che lo ordinò
sacerdote
ut abbatis et presbyteri decoratus officio, nec monasterium relinqueret, nec
in alia posset Ecclesia ordinari fortuito
[14].
Infieriva in quel momento la persecuzione di Trasamondo, re dei Vandali,
strenuo difensore dell’arianesimo, che condannava all’esilio i vescovi
cattolici per fiaccare la fede del popolo. Fulgenzio, temendo di divenire
vescovo, stava per fuggire nuovamente, ma lo rassicurò l’editto del re
vandalo che vietava severamente l’ordinazione di nuovi vescovi[15].
I cittadini di Ruspe, però, convinsero il vescovo primate Vittore, che
partiva per l’esilio, a consacrare Fulgenzio nella dignità episcopale[16].
Il che avvenne, e Fulgenzio ottenne contemporaneamente l’episcopato e
l’esilio.
Fece appena in tempo a fondare l’ultimo monastero nella sua diocesi di
Ruspe, chiamandovi come abate l’antico amico Felice. I doni che i fedeli gli
offrirono a Cartagine, mentre partiva esule in Sardegna, li lasciò per la
costruzione del nuovo monastero[17].
Fu così che Fulgenzio giunse in Sardegna verso l’anno 502 e istituì a
Cagliari il primo nucleo monastico con i pochi monaci che lo avevano seguito
e con i vescovi Illustre e Gianuario: «mettendosi al loro servizio con
amorevole affetto, sapientemente costituì una comunità simile a quella di un
grande monastero, nell’armonia tra monaci e preti»[18].
A somiglianza di Sant’Agostino, sentendo la responsabilità episcopale unita
alla vocazione monastica, favorì la convivenza di monaci e chierici, con
l’unica differenza che i monaci «non possedevano assolutamente nulla di
proprio e non vivevano secondo le abitudini dei preti, pur abitando con
loro»[19].
Fulgenzio istruiva i monaci e anche altri uomini della città, distogliendoli
dai «piaceri terreni» e indirizzando tutti alle «beatitudini celesti», e
sovvenendo alle necessità materiali e spirituali dei poveri[20].
Molti credenti abbracciarono in quel tempo la vita monastica, tra i quali
quel discepolo di Fulgenzio che divenne più tardi biografo del maestro,
identificato da alcuni con Ferrando; egli si convertì all’ideale monastico
predicato da Fulgenzio
in ilio parvissimo monasterio quod sibi apud Sardiniam pro Christi nomine
relegatus effecerat
[21].
Gli altri vescovi africani esiliati in Sardegna, in numero di una sessantina
e tutti «intrepidi predicatori di Cristo», riconoscevano in Fulgenzio il
pastore più autorevole per cultura e santità[22].
Ma lui non desiderava essere chiamato «maestro o dottore dei fratelli»,
considerandosi soltanto loro «condiscepolo nella verità»[23].
«Chi potrebbe celebrare degnamente le lodi di quella comunità? Per la città
di Cagliari essa era un santuario: è là che andava a cercare consolazione
chi era afflitto da pene; là concludevano patti duraturi di pace e concordia
quanti erano lacerati da discordia; e a chi avesse desiderato approfondire
la conoscenza della Scrittura è là che il Signore procurava l’edificazione
di una sua più completa interpretazione. Quando poteva, la nobiltà assisteva
volentieri alle quotidiane conferenze del beato Fulgenzio. I poveri amavano
chiedere supplichevolmente l’elemosina materiale a lui, che poteva dar loro
anche il nutrimento spirituale. Spesso infatti il beato Fulgenzio, con i
suoi saggi moniti, induceva a rinunciare al mondo quanti aveva generosamente
liberato dalle sofferenze della fame; e benché non possedessero nulla, li
convinceva a sprezzare persino il desiderio del possesso»[24].
Il re Trasamondo, venuto a sapere che «tra i vescovi esiliati ce n’era uno,
il beato Fulgenzio, al quale nulla mancava in fatto di scienza e che
sovrabbondava in grazia», simulando l’intenzione di approfondire la fede
cattolica «inviò un emissario con il compito di prendere e riportare
indietro alla svelta il vescovo, il quale approdò lieto a Cartagine»[25].
Per circa due anni (dall’anno 510 o dal 515) Fulgenzio tenne testa al re
vandalo con la sua dottrina, componendo per lui il libro
Contro Arianos
e i tre libri
Ad Trasamundum,
e trasse occasione della sua permanenza in Africa per istruire i sacerdoti e
i fedeli, dimostrando «in qual modo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo,
nella distinzione delle tre persone, siano considerati dai credenti un solo
Dio»[26].
«Il re, quasi forzato da grande necessità, costrinse il beato Fulgenzio a
riprendere la via dell’esilio in Sardegna»
[27].
Fulgenzio, tornato nell’isola, «restituì alla gioia i cuori dei vescovi
esiliati e con la sua presenza fece brillare di luce viva tutto il
territorio, al quale conferiva già un bell’ornamento la presenza di tanti
sacerdoti»[28].
La «moltitudine dei confratelli che lo accompagnavano», sia africani che
sardi, non gli consentì di abitare a lungo «nella prima casa»[29].
Fu costruito perciò, con il consenso del vescovo di Cagliari Primasio, un
nuovo monastero «lontano dal rumore della città», nel luogo
iuxta basilicam sancti martyris Saturnini,
dentro il quale Fulgenzio radunò oltre quaranta monaci sotto la disciplina
cenobitica[30].
«Custodì perfettamente l’ordine della disciplina comunitaria; non diede a
nessuno il permesso di tralasciare la ‘regola’ della sacra professione, ma
comunicò ai monaci soprattutto questo precetto: che nessuno tra loro
rivendicasse qualche bene come proprio, ma tutto fosse comune a tutti»[31].
La principalità di questo precetto, e il suo linguaggio che raccomanda
omnibus omnia communio,
manifestano l’impronta agostiniana della «Regula» di Fulgenzio. La
Regula Sancti Augustini,
dopo aver raccomandato ai monaci di avere «un cuore solo e un’anima sola»,
al suo esordio proclamava: «E non chiamate proprio alcun bene, ma tutto sia
per voi comune»:
Et non dicatis aliquid proprium, sed sint vobis omnia communia
[32].
Tutto lo stile di vita dei monasteri fulgenziani, specialmente nel tempo
dell’episcopato, è improntato all’esperienza di Agostino che, dopo aver
sognato un monastero di laici contemplativi, divenuto sacerdote costituì un
monastero di laici e presbiteri, e consacrato poi vescovo lo trasformò in
una comunità di presbiteri accanto al vescovo. Fulgenzio, che nella sua
diocesi di Ruspe costituì il monastero sul perfetto ritmo agostiniano
strettamente legato alla comunità ecclesiale, a Cagliari, non esercitando il
ministero episcopale, poté tornare al gusto di una vita più strettamente
monastica, sempre in perfetta sintonia con il vescovo della città Primasio.
La morte del re Trasamondo, avvenuta il 28 maggio del 523, e l’avvento di
Ilderico, re di ammirabile bontà[33],
permise ai vescovi esiliati in Sardegna di tornare in patria. Fulgenzio,
accolto a Cartagine dai fedeli osannanti, ritornò poi alla diocesi e al
monastero di Ruspe nella sua Byzacena, fece in tempo a partecipare al
Concilio di Iunca nel 523, e si inchinò dinanzi all’autorità del vescovo
Quodvultdeus,
pur essendo stata affidata a lui la presidenza del Concilio. Per circa nove
anni guidò la diocesi di Ruspe, ma «non volle assumere la guida del proprio
monastero» e «rinunciò volontariamente ad ogni possibilità di comandare sui
monaci, volendo seguire non la propria volontà, ma quella di un altro»[34].
Abitò nel cenobio
nec pro potestate, sed pro caritate,
raccomandando ai sacerdoti di ispirarsi alla spiritualità monastica, come un
secolo prima aveva fatto Agostino: che abitassero vicino alla chiesa e
coltivassero l’orto con le proprie mani[35].
Il monastero aveva il suo
scriptorium,
la cui biblioteca si conservò a lungo. Nel monastero Fulgenzio morì, il 1°
gennaio del 532, mentre ricorreva «il 25° anno del suo episcopato e il 65°
della sua vita»[36].
«Non avendo eredi in questo mondo, lasciava ai poveri in eredità la sua
sollecita carità. E non privò i suoi sacerdoti della doverosa benedizione»[37].
L’esistenza di una
Regola
di S. Fulgenzio pare testimoniata dalla
Vita,
che ne parla in quattro occasioni, due delle quali si riferiscono al primo e
al secondo monastero di Cagliari[38].
Ma per «regola» è da intendere soprattutto il concreto stile di vita delle
sue comunità, che respiravano l’aria monastica ormai diffusa nell’Occidente
cristiano. La notizia del monachesimo, nato in Oriente e perfezionate
soprattutto in Egitto ad opera di S. Antonio e S. Pacomio, era giunta
nell’Occidente latino fin dal tempo di Atanasio, autore di quella regola
monastica in forma di biografia che è la
Vita di S. Antonio.
L’Africa cristiana era ambiente favorevole all’esperienza monastica, sia
maschile che femminile, poiché sempre aveva conosciuto la testimonianza
della consacrazione verginale. Ma fu Agostino, convertitosi al cristianesimo
anche per la testimonianza del monaco S. Antonio, a introdurre in Africa la
prima comunità monastica. Al ritorno da Milano, dove nel 387 aveva ricevuto
il Battesimo dal vescovo Ambrogio, Agostino trasformò la sua casa di Tagaste
in un cenobio. Ordinato sacerdote nel 391 fondò a Ippona un monastero per
chierici e monaci. Divenuto vescovo nel 395 (o 396) fece dell’episcopio un
monastero.
La
Regola di S. Agostino
rispecchia la vita delle sue comunità, anche se il testo giunto fino a noi
può aver ricevuto qualche ritocco in epoca posteriore[39].
Ne fanno fede le molteplici testimonianze monastiche presenti nelle sue
opere, e in particolare nella
Lettera
211 e nel
De opere monachorum.
Sulla scia di S. Antonio, ispirandosi alla Regola di vita comunitaria di
Pacomio e Basilio, Agostino trasfonde nelle sue comunità lo spirito della
prima chiesa apostolica descritta negli
Atti degli Apostoli,
dando risalto alla penitenza, all’umiltà, all’obbedienza, alla carità,
all’amicizia. La tendenza intellettuale, che esaltava l’amore alla sapienza,
spingeva Agostino a dare ampio spazio alla parola di Dio, senza
sottovalutare la dignità educativa e santificante del lavoro manuale: con
esso i ricchi si umiliano volentieri al lavoro artigiano e i poveri si
arricchiscono solo per mettere tutto in comune. Agostino mostra la naturale
armonia fra la preghiera e il lavoro:
Cantica divina cantare, etiam manibus operantes facile possunt, et ipsum
laborem tamquam divino celemate consolari
[40].
La cura della biblioteca era egualmente fondamentale, tanto che di Agostino
il biografo Possidio dice:
Ecclesiae bibliothecam omnesque codices diligenter posteris custodiendos
semper iubebat
[41].
Anche la nascita dei primi monasteri femminili fu propugnata dal Santo, la
cui sorella vedova, divenuta superiora del convento di Ippona, accoglieva le
orfane e gli orfani affidati al vescovo[42].
E sappiamo che dopo la morte di Agostino i suoi discepoli e le sue monache
diffusero la spiritualità monastica in tutta l’Africa.
Era trascorso un secolo dalla nascita del primo monastero agostiniano, e
poco più di cinquant’anni dalla morte del vescovo di Ippona, quando
Fulgenzio abbracciò la vita monastica, divenendone il più appassionato
divulgatore in Africa e il più significativo propagatore in Sardegna,
secondo le notizie del diacono Ferrando, che sono una fonte preziosa per la
storia del monachesimo. La vita dei monaci, che dopo la pace costantiniana
appariva come la prosecuzione ideale della testimonianza dei martiri,
divenne fra il IV e il VI secolo la luce più splendente della fede
cristiana. Tutti i credenti potevano aspirare a questo itinerario di ascesi
che innalzava al colloquio con Dio. Anche i presbiteri e i vescovi,
fortemente impegnati nell’azione pastorale, desideravano viverne lo spirito.
La maggior parte dei monaci rimanevano naturalmente laici. Ma Fulgenzio, che
da monaco laico era divenuto sacerdote e vescovo, come Agostino, scelse
spesso tra i suoi monaci i candidati al sacerdozio.
Il monastero di Cagliari fu edificato «lontano dallo strepito della città»,
secondo un principio ideale che valeva per tutti i monasteri[43].
Essi dovevano avere accanto un territorio
cuius gleba pinguis ac fertilis instituendis hortis optabili fecunditate
congrueret ...ut regnum Dei quaerentibus nulla cura saecularis transactionis
obstreperet[44].
Il monaco, non solo doveva avere la «volontà», ma anche l’«energia» di
renuntiare saeculo[45].
L’alloggio in piccole celle personali, spesso costruite in legno, favoriva
la contemplazione
[46].
Il vitto era costituito da cibi
viles,
soprattutto uova e verdure, che si potevano condire con l’olio[47].
Fulgenzio da giovane rinunziava spontaneamente all’olio[48]:
più tardi si lasciò convincere dalle sue qualità terapeutiche sugli occhi e
ne fece uso per favorire la lettura dell’ufficio:
postquam vero senuit, superfuso oleo manducavit.
Ideo plus suasus oleum accipere, ne caligo praevalens oculorum, lectionis
impediret officium[49].
Si astenne sempre dalla carne[50].
Rinunziava anche al vino, bevendone alquanto misto ad acqua in tempo di
malattia[51].
L’astinenza e il digiuno erano la regola quotidiana della comunità[52].
Fulgenzio si atteneva alle sapienti norme dei monaci, e del suo S. Agostino,
nel praticare la
discretio,
che era insieme «discernimento» e «discrezione». «Distribuiva con
grandissima discrezione ai servi di Dio le cose necessarie per vivere,
valutando la forza e la debolezza di ognuno»[53].
L’abito monastico era semplice e rude:
una tantum vilissima tunica, sive per aestatem, sive per hiemem
[54].
La veste era necessaria per indicare la «vita nuova», nascente dal battesimo
e dalla professione religiosa. Da vescovo, Fulgenzio non volle rivestire le
insegne pontificali e continuò a indossare l’abito del monaco, testimoniando
ai fratelli che bisogna «cambiare il cuore più che la veste»
[55].
Lo narra con soddisfazione Ferrando, delineando in Fulgenzio l’armonia tra
il vescovo e il monaco:
Nec ita factus est episcopus, ut esse desisteret monachus
[56].
Le insegne dei veri monaci sono la «povertà» e l’«umiltà»:
sola iuvat humilitas
perché educa a
nihil velle, nihil nolle
[57].
È questo un riflesso della spiritualità agostiniana, espressa nella Regola
con il linguaggio di Seneca : «È meglio avere meno bisogni che possedere più
cose»:
melius est enim minus egere, quam plus habere[58].
La preghiera comune era il cuore della comunità
[59], a ore determinate del giorno e
della notte, annunziate dal suono della campana. Non mancavano i monaci
infedeli alia regola, ma le testimonianze sottolineano soprattutto la
fedeltà. La severità di Fulgenzio era grande: il vescovo-abate al momento
della morte ne chiese perdono a chi se ne era sentito offeso[60].
Le virtù principali erano l’umiltà, la carità, l’austerità, la povertà,
l’obbedienza, la castità. Questa era considerata un «dono di Dio» per i
giovani, per gli anziani, e per lo stesso abate[61].
La «correzione fraterna» era praticata con semplicità e franchezza. Una
lettura sinottica delle testimonianze su Agostino e Fulgenzio mostra la loro
sostanziale affinità nella prospettiva ascetica e nella metodologia
monastica. Lo stesso Ferrando è lodato da Fulgenzio per il suo amore alle
parole di S. Agostino:
eius dicta sic acutissime ac frequentissime legis, ut in eis plurima possis
similia reperire?[62].
Il lavoro era agricolo, distribuito secondo le forze[63].
Lo studio era la
lectio,
coltivata nell’«amore della scienza dello spirito», per sviluppare la
conoscenza della fede e l’esercizio delle virtù. Il lavoro spirituale era
quello eccelso: «I fratelli che lavoravano ed esercitavano instancabilmente
le opere manuali, ma non si dedicavano allo studio e alla lettura, li
stimava meno e non li giudicava del massimo onore»[64].
A Cagliari Fulgenzio era contento di prolungare le conversazioni spirituali
nel monastero, e si dedicava anche alla predicazione rivolta al popolo[65].
E ci teneva ad attrezzare il monastero degli strumenti della scrittura:
nello
scriptorium
cagliaritano egli scrisse numerose lettere «sia a persone che vivevano in
Sardegna presso di lui, sia ad altre che vivevano in Africa», i libri
ad Euthymium, ad Monimum, ad Prcbam,
il trattato perduto
Contra Faustum Reiensem
ed altri sermoni e trattati[66].
L’arte della scrittura era come una preghiera:
scriptoris arte laudabiliter utebatur
[67].
Frutto dell’attività amanuense, a noi pervenuto, è anche il codice del
De Trinitate
di Ilario di Poitiers, che il
colophon
dichiara esser stato trascritto a Cagliari
anno quarto decimo Trasamundi regis
[68].
E dalla Sardegna, povera di libri per questi monaci assetati della verità,
Fulgenzio supplicava gli amici delle lontane comunità a trascrivere e
inviargli i sacri testi:
Obsecro ut libros quos opus habemus, servi tui describant de codicibus
vestris[69].
L’attività teologico-letteraria di Fulgenzio fu sapiente ed instancabile. Il
santo, che il
Martirologio Romano
alla data del I gennaio esalta per la
eximia doctrina,
è definito a ragione dal biografo:
Catholicae Ecclesiae singularis magister et doctor[70].
È significativo che tale definizione si riferisca al tempo della sua
presenza in Sardegna. Nell’isola, infatti, egli concepì e dettò una buona
parte dei suoi scritti per la «edificazione spirituale» dei fratelli[71].
Vi svolse i temi principali della discussione teologica del tempo,
soprattutto la dottrina trinitaria e cristologica in risposta
all’arianesimo, e la dottrina soteriologica sulla libertà e la grazia. Il
suo biografo vide nella liberazione di Fulgenzio dall’esilio, avvenuta alla
morte del re Trasamondo, il «meritato premio» al
magni operis labor
[72].
Il vescovo tornò nella sua Africa, e per altri dieci anni profuse la sua
scienza e la sua carità nella città di Cartagine e nella diocesi di Ruspe,
diffondendo la spiritualità monastica sulle orme di Sant’Agostino.
Felicemente il medioevo cristiano lo consegnò alla storia con il titolo di
Augustinus breviatus.
[1]
Vita Fulgentii 19. La Vita di Fulgenzio, attribuita al diacono
Ferrando dall’editore P.F. Chifflet nel 1649, fu pubblicata nel 1892
dal Migne in PL 65, coll. 117-150; l’edizione critica, con
traduzione francese, fu curata da G.G. Lapeyre, Vie de Saint
Fulgence de Ruspe, Paris 1929. Si veda ora la preziosa traduzione
italiana in: Pseudo-Ferrando di Cartagine, Vita di San Fulgenzio, a
cura di A. Isola, Roma 1987 (Collana di Testi Patristici di Città
Nuova).
Sulla personalità di Fulgenzio di Ruspe si vedano G.B. Proja,
Fulgenzio Claudio Gordiano,
in
Bibliotheca Sanctorum
V, Roma 1964, coll. 1304-1316 e M. Simonetti,
Fulgenzio di Ruspe,
in
Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane
I, Casale Monferrato 1983, coll. 1407-1409.
[2]
Vita Fulgentii 19. Sul monachesimo in Sardegna, e sulla cultura
suscitata da Fulgenzio e dai monaci nell’isola, si vedano E. Cau,
Fulgenzio s la cultura scritta in Sardegna agli inizi del VI secolo,
in «Sandalion» 2 (1979), pp. 221-229; Id., Note e ipotesi sulla
cultura in Sardegna nell’altomedioevo, in La Sardegna nel mondo
mediterraneo II, Sassari 1981, pp. 129-143; R. Turtas, Nota sul
monacheSimo in Sardegna tra Fulgenzio e Gregorio Magno, in «Rivista
di Storia della Chiesa in Italia» 41 (1987), pp. 92-110.
[3]
Vita Fulgentii 3. Sulla vita monastica in Africa al tempo di
Fulgenzio si veda il documentatissimo 1.1. Gavigan, De vita
monastica in Africa Septentrionali inde a temporibus S. Augustini
usque ad invasìones Arabum, Torino 1962.
[4]
Vita Fulgentii
2.
[5]
Vita Fulgentii
4.
[6]
Vita Fulgentii
5.
[7]
Ibidem.
[8]
Ibidem.
[9]
Ibidem.
[10]
Vita Fulgentii
7.
[11]
Vita Fulgentii
9.
[12]
Vita Fulgentii
10-11.
[13]
Vita Fulgentii
12.
[14]
Vita Fulgentii
13.
[15]
Ibidem.
[16]
Vita Fulgentii
14.
[17]
Vita Fulgentii
16-17.
[18]
Vita Fulgentii
19.
[19]
Ibidem.
[20]
Ibidem.
[21]
Il discepolo è, secondo alcuni, il monaco Ferrando, che divenne poi
diacono a Cartagine; altri non accolgono questa identificazione e
considerano anonimo l’autore della
Vita Fulgentii,
che presenta se stesso nel prologo. Sull’autore della attraente
biografia fulgenziana e sulla figura del diacono Ferrando si veda M.
Simonetti,
Note sulla
Vita Fulgentii, in «Analecta Bollandiana» 100 (1982), pp. 277-289;
A.
Isola,
Sulla paternità della
Vita Fulgentii, in «Vetera Christianorum» 23 (1986), pp. 63-71 e
l’introduzione alla
Vita di San Fulgenzio,
a cura di A. Isola, Roma 1987.
[22]
Vita Fulgentii
18 e
Ferr.,
Ep.
16, 22-23.
[23]
Fulg.,
Ad Monimum
IV, IV, 1.
L’edizione delle opere è in
Sancti Fulgentii episcopi Ruspensis opera,
cura et studio J. Fraipont, Corpus Christianorum Series Latina XCI
et XCI A, Turnholti 1968.
[24]
Vita Fulgentii
19.
[25]
Vita Fulgentii
20.
[26]
Ibidem.
[27]
Vita Fulgentii
21.
[28]
Vita Fulgentii
23.
[29]
Vita Fulgentii
24.
[30]
Ibidem.
Sulla proposta di chiamare
Saturno
il martire Saturnino, al quale era dedicata la chiesa attigua al
monastero di Fulgenzio secondo la notizia del biografo, si veda B.R.
Motzo,
S. Saturno di Cagliari,
in «Archivio Storico Sardo» 16 (1926), p. 3 ss. e P.
Meloni,
La Sardegna Romana,
Sassari 1975, pp. 364-366 e p. 445.
[31]
Vita Fulgentii
24.
[32]
Regula Sancti Augustini
1,4. Sulla tradizione monastica prima e dopo Agostino si veda: G.
Turbessi,
Ascetismo e
monachesimo
prebenedettino,
Roma 1961.
[33]
Vita Fulgentii 25.
[34]
Vita Fulgentii
27.
[35]
Ibidem.
[36]
Vita Fulgentii
28.
[37]
Ibidem.
[38]
Vita Fulgentii
19 e 24.
[39]
La
Regola di Agostino
si potrà trovare in:
Sant’Agostino,
La Regola,
a cura di A. Trapè, Milano 1971. Per una sintesi sulla vita
monastica e pastorale di S. Agostino si veda: P.
Meloni,
Parola, Sacramenti, Comunità nella pastorale di Sant’Agostino,
in «Atti della Settimana Liturgica Nazionale», Bergamo-Roma 1987,
pp. 28-43.
[40]
De opere monachorum
17,20.
[41]
Vita Augustini
31.
[42]
Vita Augustini
26,1 e 27,1. Cfr. anche la
Lettera
211, che è un vero e proprio trattato sul monachesimo ed una Regola
per la vita dei monasteri femminili.
[43]
Vita Fulgentii
24.
[44]
Vita Fulgentii
10.
[45]
Vita Fulgentii
3.
[46]
Vita Fulgentii
12; 14; 16.
[47]
Vita Fulgentii
3;5;16.
[48]
Vita Fulgentii
5.
[49]
Vita Fulgentii
16.
[50]
Ibidem.
[51]
Ibidem.
[52]
Vita Fulgentii
5 e 15.
[53]
Vita Fulgentii
24.
[54]
Vita Fulgentii
15.
[55]
Ibidem.
[56]
Ibidem.
[57]
Vita Fulgentii
24.
[58]
Regula Augustini
18; cfr.
Sen.,
Ad Lucilium
2,6.
[59]
Vita Fulgentii
19.
[60]
Vita Fulgentii
24.
[61]
Vita Fulgentii 2.
[62]
Ep. ad Ferrandum
14,14.
[63]
Vita Fulgentii
10.
[64]
Vita Fulgentii
24. Sul rapporto tra lavoro e preghiera nel monachesimo delle
origini si veda:
A. Quacquarelli,
Lavoro e ascesi nel monachesimo prebenedettino del IV e V secolo,
Bari 1982.
[65]
Vita Fulgentii
19.
[66]
Vita Fulgentii
25.
[67]
Vita Fulgentii
12.
[68]
Per un quadro aggiornato di tutti i problemi relativi a questo
manoscritto e per una visione dell’attività scrittoria nel monastero
fulgenziano di Cagliari si veda: E.
Cau,
Fulgenzio e la cultura scritta in Sardegna, cit.,
soprattutto alle pp. 225-227.
[69]
Ep. ad Eugippium abbatem
V, 12.
[70]
Vita Fulgentii
27.
[71]
Vita Fulgentii
25.
[72]
Ibidem.
Una presentazione della personalità di Fulgenzio, africano di razza
e sardo di adozione, si potrà trovare in G.G.
Lapeyre,
Saint Fulgence de Ruspe. Un évêque catholique africain sous la
domination vandale,
Paris 1929 e in F. Di
Sciascio,
Fulgenzio di Ruspe. Un grande discepolo di Agostino contro le
«reliquiae pelagianae pravitatis» nei suoi epigoni,
Roma 1941.
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21 aprile 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net