I GESUITI – LE ORIGINI
Estratto da “I Gesuiti – Dall’origine
alla soppressione”, di Sabina Pavone
Ed. Laterza 2004
I. Le origini (1540-1580)
1. Ignazio di Loyola e
i primi gesuiti
Ignazio nacque probabilmente nel 1491 nella casa di Loyola, nella provincia
basca di Guipúzcoa. Al battesimo gli venne imposto il nome di Iñigo e solo molti
anni più tardi, a Parigi, decise di cambiarlo in Ignazio, forse per devozione a
sant’Ignazio di Antiochia. Il padre lo aveva inizialmente avviato senza successo
alla carriera ecclesiastica, ma poco prima di morire lo destinò alla carriera
militare. Ignazio giunse così ad Arévalo presso Juan Velázquez de Cuéllar,
tesoriere capo della corte imperiale, e lì ricevette la sua educazione, dalla
chiara impronta cortigiana, divisa fra la vita militare e la compagnia
femminile. Passarono così alcuni anni, finché nel 1516, dopo la morte del re
Ferdinando, Juan Velázquez cadde in disgrazia e morì di lì a poco. Ignazio passò
quindi al servizio del duca di Nájera in Navarra. Membro della guarnigione nella
difesa di Pamplona, assediata dai francesi (1521), venne gravemente ferito a una
gamba e trasferito nuovamente a Loyola. Lì egli dovette subire una dolorosissima
operazione, che lo lasciò leggermente claudicante e lo costrinse a una forzata
inattività per parecchio tempo:
Poiché si appassionava molto alla lettura di libri mondani e falsi, che si
chiamano comunemente libri di cavalleria, sentendosi bene chiese che gliene
dessero alcuni per passare il tempo; ma in quella casa non trovarono nessuno di
quei libri ch’egli leggeva, e così gli diedero una
Vita Christi
[di Ludolfo di Sassonia] e un libro sulla vita dei santi in volgare [la
Legenda aurea
di Jacopo da Varagine]
(Autobiografia).
Queste letture furono inizialmente interpretate da Ignazio in chiave tutta
cavalleresca (le vite di san Domenico e di san Francesco gli ispiravano «sempre
imprese grandi e ardue») finché, poco alla volta, «arrivò a conoscere la
diversità degli spiriti che si agitavano in lui, l’uno del demonio e l’altro di
Dio». La sua fu una lenta conversione spirituale che lo portò - appena guarito -
alla scelta di votare la sua vita a Dio.
Deciso a partire per la Terra Santa, si recò inizialmente presso il monastero di
Monserrat e di lì si diresse a Manresa, dove rimase quasi un anno. Fu questo
l’inizio del suo vero e proprio percorso spirituale; una vita all’insegna
dell’ascesi più severa, con l’intento di allontanarsi da ogni passione terrena e
con la continua sensazione di non essere all’altezza del tipo di vita
intrapreso. Fu a Manresa che egli cominciò ad assistere gli ammalati, e fu lì
che ebbe le sue prime visioni mistiche e cominciò anche ad appuntare quelli che
sarebbero diventati gli
Esercizi spirituali, «più che un libro, un metodo» (A. Longchamp)
di ‘mistica attiva’, un sistema di preghiera e azioni per entrare in connubio
con Dio basato sull’esame di coscienza (da ripetersi due volte al giorno), sulla
preghiera, sulla confessione e sulla comunione almeno ogni otto giorni. Nel 1523
Ignazio intraprese il suo primo pellegrinaggio in Terra Santa, ma venne
sconsigliato dal superiore dei francescani, custodi dei Luoghi Santi, di
rimanere a Gerusalemme. Da quest’esperienza maturò la decisione di votarsi
all’«aiuto delle anime», all’apostolato, secondo forme e metodi che si sarebbero
precisati solo negli anni seguenti. Ritornò così in Spagna, ad Alcalà, per
iniziare la sua preparazione e seguire i corsi universitari (1526-1527). Ben
prestò però - con un gruppo di giovani che si erano uniti a lui a Barcellona -
iniziò a predicare e a ‘dare’ gli
Esercizi spirituali, suscitando l’attenzione dell’Inquisizione.
Loyola fu imprigionato sotto il sospetto di aderire all’alumbradismo,
movimento di rinnovamento spirituale assai diffuso nella Spagna del tempo, che
insisteva sul valore dell’orazione mentale richiamandosi a una radicata
tradizione di spiritualità mistica. Agli occhi del tribunale spagnolo, l’enfasi
posta sull’aspetto contemplativo (visionario e profetico) aveva una ricaduta
negativa sulla morale, al punto da assumere un carattere decisamente eterodosso
che portò alla ripetuta condanna di testi sospetti. Il Loyola, d’altro canto,
non fu l’unico a cadere nelle maglie dell’Inquisizione perché quasi tutti i
classici della mistica spagnola furono allora esaminati attentamente. Tuttavia
non pochi erano i punti di contatto tra la predicazione e l’esperienza religiosa
del Loyola e l’alumbradismo: le insistenze sull’orazione mentale, sulle
consolazioni interiori, sulla comunione frequente (pratica allora molto
controversa) disegnano i contorni di un magistero, rivolto al mondo dei laici e
delle donne, fondato non sul sapere teologico e scolastico, ma su una personale,
soggettiva esperienza religiosa, al cui centro stava un percorso di esperienze
visionarie e soprattutto di illuminazioni interiori.
Quello di Alcalá fu il primo di una serie di processi inquisitoriali che Ignazio
dovette subire in Spagna, pur venendo sempre scagionato dall’accusa di eresia:
tali episodi rivelano tuttavia come una certa immagine apologetica del Loyola
campione di ortodossia sia lungi dall’essere esaustiva e si sia formata solo in
seguito alla nascita della Compagnia. Va detto, inoltre, che i sospetti di
alumbradismo - come vedremo più avanti - continuarono a pesare sulla provincia
gesuita spagnola, in particolare negli anni Ottanta del Cinquecento.
Da Alcalá Ignazio si spostò a Salamanca, dove fu nuovamente incarcerato e subì
un altro processo per la presunta eterodossia degli
Esercizi: fu questa una tappa importante dell’evoluzione
spirituale e intellettuale di Ignazio che, proprio rispondendo alle domande
dell’inquisitore sulla distinzione tra peccato veniale e peccato mortale, si
rese conto della grave carenza delle sue nozioni teologiche e più in generale
della sua scarsa cultura, a partire dalla conoscenza della lingua latina. Per
questo, ma anche perché irritato da alcune limitazioni poste alla sua
predicazione, nel 1528 partì per Parigi dove, a trentasette anni, s’iscrisse ai
corsi universitari presso il collegio di Santa Barbara. Nel marzo del ’33
ricevette la licenza e due anni dopo il grado di maestro
in artibus. Egli iniziò anche il corso di teologia tenuto dai
domenicani di rue Saint-Jacques, arricchendo la sua cultura con lo studio di san
Tommaso e degli scolastici. L’ammirazione per il cosiddetto
modus Parisiensis, cioè il sistema di studi in vigore
nell’università, avrà poi un risvolto nell’elaborazione della
Ratio studiorum.
Nella capitale francese Loyola fece conoscenza con i compagni destinati a
fondare insieme con lui la Compagnia di Gesù. Il primo incontro importante fu
quello con Pierre Fabre, proveniente dalla Savoia, e con il navarrese Francesco
Saverio, entrambi molto più giovani di lui, che iniziarono sotto la guida di
Ignazio gli
Esercizi spirituali ma esitarono a lungo, soprattutto il Saverio,
prima di seguire la loro vocazione. Gli altri compagni furono il portoghese
Simão Rodrigues e gli spagnoli Diego Laínez, Alfonso Salmerón, Nicolas
Bobadilla. Il 15 agosto 1534, a Montmartre, dopo la celebrazione della messa da
parte di Fabre (l’unico del gruppo già ordinato sacerdote), essi - non ancora
consci del fatto che la comunità che stavano creando sarebbe diventata presto un
nuovo ordine religioso - pronunciarono i tre voti di povertà, castità e
obbedienza, aggiungendo il proposito di recarsi in Terra Santa. Inoltre, qualora
un simile progetto non si fosse potuto realizzare, giurarono di presentarsi al
pontefice per offrirgli la loro obbedienza. Fu questa
in nuce l’origine del quarto voto della Compagnia di Gesù:
l’obbedienza al papa
circa missiones. Di questa primissima fase di vita della Compagnia
- seppure non ancora formalizzata - è importante sottolineare la dimensione
internazionale dei compagni di Montmartre nonché la collegialità delle
decisioni: Ignazio ebbe sempre un ruolo di guida ma la coesione del gruppo fu un
fattore di rilievo nelle origini e nella prima espansione dell’ordine.
Dopo Parigi, la sua malferma salute obbligò Ignazio a ritornare temporaneamente
in Spagna, mentre i sette compagni - ai quali nel frattempo si erano aggiunti
Pascase Broët, Claude Jay e Jean Codure - si ritrovarono a Venezia nel 1536,
dove rimasero fino al ’38: furono gli anni del progetto abortito di trasferirsi
in Terra Santa e della creazione del nucleo originario dei cosiddetti
‘ministeri’ della Compagnia. Accanto alla preghiera, Ignazio e i suoi compagni -
ordinati tutti sacerdoti nel 1537 - si occuparono degli ammalati, visitarono le
carceri, impartirono lezioni di catechismo. Vissero insomma quell’opzione di
«servire Dio nel mondo» che sarà il tratto caratteristico della Compagnia di
Gesù: un tratto non sempre compreso, che comporterà in futuro le maggiori
critiche contro i gesuiti. A Venezia Ignazio ebbe poi modo di conoscere Gian
Pietro Carafa, il vescovo di Chieti fondatore dei teatini, assurto al soglio
pontificio nel 1555 con il nome di Paolo IV. L’animosità del Carafa nei
confronti dei gesuiti va fatta risalire proprio all’incontro veneziano, in
occasione del quale Ignazio non si trattenne dall’esprimere perplessità sulla
congregazione fondata dal vescovo e da Gaetano da Thiene. Fu questo, inoltre,
l’unico periodo che il gruppo originario trascorse quasi sempre insieme: presto
infatti Francesco Saverio sarebbe partito per le Indie, Rodrigues - su
insistenza del sovrano Giovanni III - sarebbe stato richiamato in Portogallo e
gli altri si sarebbero sparpagliati per l’Italia e poi per l’Europa.
Ancora formalmente senza nome, nel 1540 questo gruppo ricevette da papa Paolo
III l’approvazione ufficiale come ordine religioso con il nome di Compagnia di
Gesù. L’agiografia gesuita ha sempre sottolineato l’importanza della «visione de
La Storta» (1538) come momento chiave per la presa di coscienza di Ignazio che,
in procinto di entrare a Roma, avrebbe visto il Signore che lo invitava a
servirlo: di qui anche la scelta del nome di Compagnia di Gesù. Giunti nella
capitale Ignazio e i suoi ricevettero subito segni di benevolenza da parte del
papa, che affidò loro alcuni incarichi: Ignazio diede gli
Esercizi spirituali al dottor Ortiz, conosciuto ai tempi di
Salamanca e allora a Roma come inviato di Carlo V, a Lattanzio Tolomei (parente
del cardinal Ghinucci) e al cardinale veneziano Gasparo Contarini; Fabre e
Laínez insegnarono invece alla Sapienza, rispettivamente Sacra Scrittura e
teologia. Conobbero anche Rodolfo Pio di Carpi che nel 1545 divenne - unico
nella storia dell’ordine - cardinale protettore della Compagnia. A riprova
dell’ostilità da cui erano comunque circondati, essi dovettero subire un
ennesimo processo inquisitoriale da cui uscirono nuovamente assolti.
Nel 1539, dopo una serie di animate
discussioni, decisero infine di fondare un nuovo ordine religioso e, per tramite
del cardinale Gasparo Contarini, sottoposero al pontefice i cinque articoli
fondamentali - meglio conosciuti come la
Formula dell’Istituto - in cui erano presenti i punti chiave poi
sviluppati nelle
Costituzioni: lo spirito apostolico per il progresso delle
anime, la lealtà e l’obbedienza nei confronti della Santa Sede, la dedizione
alla povertà, l’obbedienza a un preposito generale, l’abolizione della preghiera
corale per poter dilatare il tempo destinato ai propri ministeri. Sul versante
istituzionale, il riconoscimento del nuovo ordine provocò non pochi dissensi in
seno alla curia. Il cardinale Girolamo Ghinucci era restio ad accettare le
novità distintive del nuovo ordine religioso, convinto che l’abolizione del
canto durante l’Ufficio divino fosse indizio di criptoluteranesimo; il cardinal
Guidiccioni era contrario all’approvazione di nuovi ordini religiosi maschili, e
a maggior ragione di un ordine con caratteristiche tanto simili a quelle del
clero secolare. Nonostante tutto, il prestigio personale di Ignazio e dei suoi
confratelli e probabilmente le pressioni spagnole fecero sì che
il 27 settembre 1540 Paolo III
promulgasse la bolla
Regimini militantis Ecclesia, con la quale sanciva formalmente la
nascita della Compagnia di Gesù. L’unico vincolo che gli oppositori
riuscirono a far passare fu di limitare a sessanta il numero dei soci, anche se
tale clausola venne abolita pochi anni dopo (1544). La Compagnia crebbe infatti
a ritmo vertiginoso, e dai dieci confratelli al momento della fondazione passò a
circa un migliaio alla morte di Ignazio (1556).
Un successo strepitoso, attestato anche
dalla solenne conferma dell’ordine nel 1550 con la bolla
Exposcit debitum di Giulio III.
Un passaggio fondamentale fu la scelta di eleggere a vita il generale. Ignazio
venne ovviamente eletto all’unanimità (escluso il suo voto) il 5 aprile 1541, ma
per una quindicina di giorni si rifiutò di accettare l’incarico, dichiarandosi
inadeguato a sostenere un tale ruolo. Assunta la carica, egli governò con un
forte senso della gerarchia, pur mantenendo un atteggiamento paterno nei
confronti dei suoi sottoposti (o per meglio dire sudditi, come spesso si legge
nei documenti della Compagnia). Ha scritto Franco Motta che «quello dei gesuiti
non è un apostolato dell’improvvisazione o della spontaneità»: l’esigenza di
rinsaldare un forte spirito di corpo così come di mantenere l’unione tra il capo
e le membra (altri termini consueti nel vocabolario ignaziano) spiega la
fermezza del generale nell’insistere sul valore dell’obbedienza nonché il ruolo
imprescindibile attribuito alla corrispondenza come mezzo di governo. Ignazio ha
lasciato più di seimila lettere (senza contare le duemila e più risposte a lui
inviate) che testimoniano dell’uso costante che egli fece dello strumento
epistolare quale mezzo per la direzione dell’ordine. Alcune di queste lettere
sono assai note, come quella sull’obbedienza del 1553, che costituisce una
pietra miliare per comprendere il pensiero di Ignazio.
La lettera venne inviata ai membri della provincia portoghese, scossa dalla
sostituzione del provinciale Rodrigues, accusato di favorire pratiche
penitenziali particolarmente severe, contrarie alla prassi della Compagnia, e di
governare la provincia - grazie all’appoggio reale - in maniera autonoma
rispetto alle scelte di Roma. L’arrivo del nuovo provinciale Diego Mirón era
stato accolto con grande sconcerto e fastidio, al punto che la provincia aveva
subito una forte emorragia di adepti (una percentuale che oscillava fra il 20 e
il 25% aveva preferito abbandonare l’ordine). Era urgente dunque che il generale
ribadisse l’importanza dell’obbedienza per tutti i membri, tanto che la lettera
sarebbe diventata una lettura obbligatoria in tutti i refettori delle case e dei
collegi della Compagnia. L’obbedienza ai superiori - scriveva Ignazio - era
necessaria «non perché il superiore sia particolarmente prudente, o buono, o
possieda qualsiasi altro dono di Dio Nostro Signore, quanto perché ne fa le veci
e ne possiede l’autorità»; essa è dunque un principio divino:
Chi vive nell’obbedienza deve lasciarsi condurre e dirigere dalla divina
provvidenza per il tramite del superiore quasi fosse un cadavere
[perinde ac cadaver],
il quale si lascia portare dovunque e in qualunque modo, o come il bastone di un
anziano che gli serve dovunque e comunque egli voglia servirsene.
Se da un lato la storiografia gesuita ha continuato a ribadire che tale
principio (spesso frainteso dai detrattori della Compagnia) non implicava un
«sottomettersi a un
potere assoluto, ma
un’adesione assoluta al servizio apostolico che è lo scopo della
Compagnia» (Longchamp), e che esso garantiva l’unica forma possibile di coesione
per un ordine religioso che stava facendo della mobilità il suo principio guida,
è indubbio che esso avesse anche un risvolto pratico nell’esercizio del potere
all’interno della Compagnia. Tale principio disegnava infatti una gerarchia di
ruoli, di lì a poco codificata dalle
Costituzioni, in cui il generale era a capo di tutto il sistema,
seguito dai provinciali, dai rettori dei collegi e dagli altri superiori locali.
Perfettamente in linea con i dibattiti politici del suo tempo, Ignazio sosteneva
che il principio della
subordinación era valido «in tutti gli Stati ben regolati così
come nella gerarchia ecclesiastica», e che senza di esso poteva esserci solo il
caos.
In ogni caso, non si comprenderebbe fino in fondo la struttura della Compagnia
di Gesù se non si partisse dal testo delle
Costituzioni, divise in dieci parti e promulgate solo nel 1558,
dopo la morte d’Ignazio. Esse si presentano come una sorta d’itinerario: dalla
scelta dei candidati, al periodo di probazione, alla vera e propria
«incorporazione» attraverso il meccanismo dei gradi fino alla carica più
importante di tutte, quella di preposito generale. Ampio spazio è dato anche
alle regole da seguire con coloro che vengono dimessi, a testimonianza del fatto
che all’interno dell’ordine non c’era nessuna condizione che fosse data per
sempre. Al grado più alto di quest’assetto gerarchico erano i professi dei
quattro voti, coloro cioè che oltre ai tre voti classici (castità, povertà,
obbedienza) facevano il voto di obbedienza al papa
circa missiones. Potevano accedere ai quattro voti coloro che
avevano concluso l’intero corso di teologia, mentre un gradino più in basso
stavano i professi dei tre voti, che ne avevano superato solo una parte. La
novità era rappresentata dai coadiutori spirituali, cioè da coloro che, privi di
una cultura adeguata, non erano ammessi alla professione, pur possedendo una
conoscenza del latino sufficiente all’ascolto delle confessioni. All’ultimo
livello vi erano quindi i coadiutori temporali, laici che svolgevano le mansioni
più umili (come quelle di cuoco o di contabile). I coadiutori, tanto spirituali
quanto temporali, pronunciavano comunque anch’essi i tre voti canonici,
inizialmente in forma privata e poi pubblicamente di fronte al superiore. Questa
struttura composita, che prevedeva un periodo di noviziato assai più lungo
rispetto a quello degli altri ordini religiosi, era stata pensata da Ignazio
come una tappa destinata ad esaurirsi con il passare del tempo. Di diversa
opinione era Jerónimo Nadal, figura importante nella costruzione dell’assetto
definitivo dell’ordine, convinto che potessero essere ammessi alla professione
dei quattro voti solo coloro che avessero un’ottima preparazione teologica
(Lukács). Nella pratica, dunque, il peso quantitativo della figura del
coadiutore spirituale fu destinato a crescere con il passare degli anni: l’8%
del numero totale dei gesuiti al tempo del generalato di Ignazio, il 24,9 %
sotto Borgia, il 47% sotto Acquaviva.
Questo semplice dato spiega il sorgere di molti problemi in seno alla Compagnia
sin dagli anni Cinquanta: la distinzione tra professi e coadiutori non era solo
nominale, ma aveva una ricaduta diretta sulla carriera interna. Le cariche
direttive (assistenti, provinciali, rettori) venivano infatti affidate ai
professi suscitando malumori e senso di inadeguatezza nei coadiutori spirituali,
che mal sopportavano l’esistenza di simili privilegi. Oltretutto, la scelta
della promozione ai quattro voti - che ricadeva in ultima istanza tra le
competenze del generale - veniva spesso imputata a favoritismi che esulavano dal
merito effettivo dei singoli padri. Parleremo più avanti dello scontro violento
tra alcune province e il generale Claudio Acquaviva, ma già ai tempi di
Francesco Borgia (1565-1572) l’assistente d’Italia ed ex provinciale di Milano
Benedetto Palmio in uno scritto rimasto inedito lamentava che la «banda degli
spagnoli», con l’unico intento di fare carriera e con il beneplacito del
generale, si fosse messa a studiare teologia per avere accesso alla professione
dei quattro voti. Dietro questa polemica si annidavano evidentemente gelosie
interne i cui contorni appaiono oggi sfuggenti, ma è chiaro che esse esprimevano
anche un malessere reale e diffuso, destinato a crescere in relazione anche alla
questione dei cristiani vecchi e nuovi.
Da Laínez a Polanco, infatti, molti fra gli spagnoli erano quelli che
discendevano da famiglie di conversi
(conversos e
moriscos, ebrei e mori convertiti), cosa che non destò né
preoccupazioni né idiosincrasie da parte di Ignazio. Ma il problema era
destinato ad acuirsi con le generazioni successive, soprattutto in quella
provincia spagnola strettamente legata alle logiche politico-religiose della
corte di Filippo II, assai restia ad accettare a pieno titolo i conversi nella
società spagnola. Sotto Laínez e poi sotto Borgia l’accrescersi del peso del
partito dei ‘cristiani nuovi’ nella Compagnia suscitò forti critiche all’interno
della stessa curia romana. Non è un caso che uno dei primi libelli antigesuiti
prodotti in ambito cattolico - i
Novi advertimenti del vescovo Ascanio Cesarini - insistesse nel
criticare proprio tale politica dell’ordine. Anche questo - come altri problemi
- era destinato a risolversi (negativamente per i cristiani nuovi) durante il
generalato di Acquaviva, vero e proprio momento di ridefinizione di una serie di
questioni lasciate aperte da Ignazio e codificate negli anni dalla pratica e
dalle discussioni interne alla Compagnia. Secondo lo storico gesuita John
O’Malley, autore di un recente studio sui
Primi gesuiti, già nel 1565 «la Compagnia era diversa per
importanti aspetti da ciò che era nel 1540. [...] I gesuiti di questa
generazione lasciarono dietro di sé la documentazione necessaria allo studio di
un notevole caso di transizione da un gruppo carismatico a un’istituzione».
Nell’elaborazione di questo ingente
corpus non va dimenticato il ruolo di Juan de Polanco (1517-1576),
primo cronista della Compagnia e segretario di Ignazio dal 1547, ruolo che
ricoprirà anche sotto i successivi generalati di Laínez e di Borgia. Polanco è
stato a lungo lasciato in ombra dalla storiografia gesuita, per paura di
oscurare la figura del fondatore, ma alcuni suoi testi - come le
Industrias con que se ha da ajudar la Compañia para que mejor procede para su
fin (1548) - risultano centrali per comprendere le tappe di
elaborazione delle
Costituzioni.
Il periodo che va dalla morte di Ignazio al 1580 è segnato dai tre generalati di
Diego Laínez (1558-1565), Francesco Borgia (1565-1572) ed Everardo Mercuriano
(1573-1580). Ognuna di queste figure ha una sua specificità di cui è difficile
dare conto in poche righe. In linea generale, si può dire che Laínez cercò di
seguire da vicino le orme del fondatore, la cui guida ferma e autoritaria non
mancò di suscitare malumori destinati a esplodere alla sua morte. Si formarono
infatti due partiti, uno più ligio alla concezione di governo fortemente
centralistico formalizzato dalle
Costituzioni, l’altro deciso ad appellarsi al papa (Paolo IV) per
limitare lo strapotere del generale, rivendicando un governo collegiale affidato
ai «padri fondatori»: del primo, oltre ovviamente al Laínez, facevano parte
Nadal, Salmerón e Polanco, del secondo Bobadilla e Cogordan. Nonostante la
benevolenza di Paolo IV (contrario all’elezione a vita del generale), la fronda
del partito di Bobadilla era destinata al fallimento. L’episodio inaugurò però
una serie di scontri con il papato destinati a emergere soprattutto con Pio V
(che cercò di abolire la distinzione tra professi e coadiutori spirituali) e con
Clemente VIII (favorevole a una convocazione regolare della congregazione
generale, sempre allo scopo di limitare il potere del generale). Nonostante il
quarto voto, il papato si mostrò infatti ripetutamente preoccupato di fronte
alla manifesta autonomia di giudizio della Compagnia, tentando di mitigarne
l’indipendenza, specie in relazione allo spirito nazionalistico delle singole
province.
Con l’elezione di Francesco Borgia, ex duca di Gandía, si accentuò (specie nelle
province spagnole) uno zelo ascetico, per certi versi distante dalla tradizione
ignaziana di «cercare Dio in tutte le cose» e, quindi, soprattutto
nell’esercizio dei ministeri apostolici. Pur contrastata dai francesi e dai
tedeschi, infatti, passò la norma auspicata dagli spagnoli che prevedeva un’ora
di meditazione mattutina, che rimase in vigore fino al 1966. Nel 1573, con
l’elezione di Mercuriano, s’interruppe l’egemonia spagnola sul generalato: era
stato papa Gregorio XIII (per tramite del cardinale Alessandro Farnese,
appartenente a una delle famiglie più legate alla Compagnia) a premere sui
vertici dell’ordine affinché venisse eletto un generale non spagnolo. Si voleva
così spezzare il legame privilegiato tra la corona e la Compagnia, ma
soprattutto - su invito del Portogallo - escludere i cristiani nuovi dal
generalato. Sembrò che la decisione di Gregorio XIII si rivolgesse
specificamente contro il potente segretario Juan de Polanco ma, nonostante
questi si autoescludesse dall’elezione per facilitare la nomina di un altro
spagnolo, la scelta finale cadde sul belga Mercuriano. Il nuovo generale si
adoperò soprattutto per consolidare la normativa relativa alle diverse cariche
di governo dell’ordine e per definire le nuove regole dei collegi, valendosi per
questo compito del contributo di Diego de Ledesma, per lunghi anni professore
presso il Collegio Romano. Nel complesso, la caratteristica di questo trentennio
- nonostante le
Costituzioni rendessero difficile l’ingresso e la carriera
nell’ordine - fu quella di una vorticosa espansione della Compagnia in termini
sia di uomini sia di paesi in cui essa riuscì a insediarsi. Nel 1556, si è
detto, essa contava circa 1000 membri, alla morte di Laínez (1565) essi erano
arrivati a 3500 e nel 1580 a circa 5000, per un totale di 144 collegi, 10 case
professe, 12 noviziati e 33 residenze. I motivi di un tale successo in termini
di vocazioni rimangono, d’altro canto, ancora da indagare in maniera
appropriata. Le province più estese continuarono a essere quelle in Italia,
Spagna e Portogallo; ma, nonostante i dissidi dovuti alle guerre di religione,
nel 1552 l’ordine fondò una provincia in Francia, mentre nel 1564 l’assistenza
tedesca comprendeva già la provincia del Reno, quella della Germania superiore e
quella austriaca. In queste regioni la fondazione dei collegi gesuiti diventò
una pietra angolare della ricattolicizzazione romana, e così avvenne in tutte
quelle terre di frontiera dove i gesuiti si stabilirono negli anni Sessanta:
dall’Ungheria (1561) ai Paesi Bassi (1562) alla Polonia (1565). Più deludente fu
la penetrazione in Svezia (dove Antonio Possevino giunse nel 1579) e in
Inghilterra (dove la clandestinità fu la scelta obbligata per personaggi quali
Edmund Campion e Robert Parsons). Fuori dall’Europa fu in questi decenni che si
rafforzò la presenza gesuitica in Asia, a Goa, mentre Alessandro Valignano
sbarcava in Giappone (1579) e nell’America meridionale si fondavano missioni in
Brasile, Perù, e Messico. Se la decisione primitiva di partire per la Terra
Santa aveva fatto identificare i gesuiti con gli apostoli in viaggio, ben presto
essi «cominciarono a vedere i vantaggi di opere continuate nello stesso luogo
per un lungo periodo» (O’Malley); differenziando i loro ministeri ma mantenendo
sempre come principio basilare quel «modo nostro di procedere» teorizzato da
Ignazio, da Polanco e da tutti i successivi dirigenti dell’ordine.
La «cura delle anime» fu il principio ispiratore e la parola chiave dell’impegno
dei gesuiti, che si occupassero nell’assistenza ospedaliera, nelle carceri,
nella redenzione delle prostitute (una delle prime imprese di Ignazio fu la
fondazione dell’Ospizio di Santa Marta a Roma) così come nel predicare,
nell’insegnare la dottrina cristiana e nel fondare nuove missioni. Intorno agli
anni Cinquanta a questi ministeri si aggiunse quello educativo, che rafforzò
ulteriormente il legame della Compagnia con la società secolare fino a renderlo
la cifra caratteristica dei gesuiti. Occorre tuttavia sottolineare che tutti i
ministeri della Compagnia nacquero, per così dire, ‘sul campo’: furono cioè il
frutto di un’esperienza via via maturata da Ignazio e dai suoi compagni nel loro
concreto agire quotidiano, più che una scelta dettata dall’alto. Fu nel
confronto con la complessa e mutevole realtà circostante che si formò l’identità
gesuita, composita, flessibile a seconda dei tempi, delle circostanze e delle
coordinate sociali, culturali e geografiche, ma sempre ispirata a quel principio
dell’accomodatio
che ben si legava all’universalismo e alla mobilità del nuovo ordine religioso.
In questa stessa ottica la Compagnia affinò la sua capacità di conquistare
sempre nuovi consensi, non solo all’interno del partito spagnolo presente nella
città pontificia, ma più in generale negli ambienti curiali, la qual cosa
indubbiamente facilitò l’apertura di sempre nuove case e collegi, grazie anche
all’esistenza di appoggi locali nelle singole città. All’interno di questa
strategia intesa al rafforzamento della presenza dell’ordine nel corpo sociale e
della sua immagine esterna, grande rilievo assunse nel 1622 la canonizzazione di
Ignazio e di Francesco Saverio. Negli ultimi anni questa capacità di creare
consenso è stata al centro di numerose ricerche, che hanno messo in risalto il
variegato fronte che i gesuiti riuscirono a creare a loro favore, ma anche i
profondi contrasti che la loro presenza produsse in seno ai gruppi di potere -
laici ed ecclesiastici - all’interno di singoli contesti urbani e regionali
(Hufton, Rurale, Sangalli).
Ritorno alla pagina su "Ignazio di Loyola"
Ritorno alla pagina sulla "Regole monastiche"
|
Ora, lege et labora |
San Benedetto |
Santa Regola |
Attualità di San Benedetto
|
Storia del Monachesimo |
A Diogneto |
Imitazione di Cristo |
Sacra Bibbia |
29 luglio 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net