Capitolo II

Il concetto di «Regola»

e lA REGULA BENEDICTI

NELLA TRADIZIONE

MONASTICA

 

Estratto da C’è qualcuno che desidera la vita? di Myriam Fiori O.S.B.

Edizioni Dehoniane Bologna 2009

 

1. Introduzione

 

Prima di entrare nel vivo della Regola per considerarne tutti gli aspetti antropologicamente rilevanti, è necessario approfondire il concetto di «regola» così come è nato ed è stato tramandato, e inserire la Regula Benedicti nella tradizione monastica, facendo un confronto, su alcuni punti di particolare interesse per la concezione antropologica, con le regole più importanti e che sappiamo aver influito sulla Regola di Benedetto.

Innanzitutto il concetto di «regola» era, nei primi secoli del monachesimo, molto diverso da quello che ne abbiamo noi oggi: essa, cioè, non era considerata uno strumento puramente legislativo, ma un aiuto alla vita monastica, una base che desse al singolo dei criteri oggettivi, liberandolo dal rischio di essere guidato dal proprio arbitrio.

«In verità il concetto antico di regola monastica è ben diverso dal nostro e lontano dal fare della regola un imperioso strumento legislativo. Il conseguimento della perfezione monastica non viene legato all’adempimento di norme precise, praticate in una comunità rigorosamente sottoposta a esse» (La Regola di San Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Mondadori, Verona-Milano, 1995, p. 162-163). La regola non è dunque uno strumento per imporre delle prescrizioni rigide, che soffocano l’iniziativa e la libertà del singolo, ma piuttosto una guida e uno strumento di liberazione dai propri criteri, per aprirsi alla ricerca di Dio.

«Antichi autori paragonavano s. Benedetto a un “nuovo Mosè”, non soltanto perché aveva promulgato una legge - che è nuova per il fatto di essere evangelica -, ma perché svolge nei confronti di coloro che la seguono il ruolo liberatore che Mosè ha rappresentato per il popolo liberato dalla schiavitù egiziana... Il suo valore fluisce a un tempo dal quadro legislativo che stabilisce e dal suo carattere evangelico: il primo elemento è in funzione del secondo; la Regola, nella misura in cui è una legge che fissa un’osservanza, educa il monaco a vivere il Vangelo» (J. LECLERCQ, «Obbedienza e liberazione», in Ora et Labora 4(1993)).

 

2.La Regola eco della Scrittura

 

Un altro aspetto da tenere in considerazione è che le regole rimandano sempre alla Scrittura, come norma di vita e Parola regolatrice dell’esistenza del monaco. Così si esprime Benedetto nell’ultimo capitolo della Regola: «Questa Regola noi l’abbiamo stesa perché osservandola nei monasteri possiamo dar in qualche misura prova almeno di un retto comportamento e di un inizio di vita monastica. Ma per chi vuole procedere in fretta verso la perfezione di tale vita sono a disposizione gli insegna- menti dei santi Padri che, messi in pratica, sono in grado di condurre l’uomo al culmine della perfezione. In verità quale pagina o quale parola d’autorità divina dell’Antico e del Nuovo Testamento non è la norma più retta per la vita umana?» (RB 73, 1-3).

Le regole si presentavano dunque come tentativi di incarnare in modo autentico i valori e i precetti della Scrittura e in particolare del Vangelo; nascendo da un’esperienza concreta di vita monastica, miravano a trasmettere tale sapienza a coloro che volevano intraprendere il medesimo cammino: «Tutta la Regola non vuole essere altro che “umile rinvio al Vangelo”. Il Vangelo resta dunque, anche per il monaco, la guida essenziale sulla via della vita. Questo fatto non dovrebbe stupirci se pensiamo che nell’Antichità le regole monastiche non avevano il carattere giuridico al quale noi, invece, siamo abituati, ma che è stato assunto solo in epoca moderna. Le regole generalmente sono nate da un’esperienza di vita; sono quindi testimonianza di un’esperienza di vita evangelica, più vicine al genere letterario delle parabole evangeliche che a quello dei codici giuridici» (P.A. Montanari,   «Perché la Regola di San Benedetto possa parlarci ancora», in Ora et Labora 2(2005), 49).

Date queste premesse si capisce anche perché non sia stato avvertito da parte dei redattori di tali regole il bisogno di originalità. Infatti, «se un dato emerge con sicurezza e continuità dagli scritti monastici, è la convinzione dei monaci che fonte di ogni loro comportamento è la Bibbia... Le regole non sono testi esclusivi, ma complementi dell’unica grande regola che è la Scrittura. Si spiega così come apparisse normale leggere e confrontare più regole, mescolarle, parafrasarle, travasarne parti o precetti» (La Regola di San Benedetto e le Regole dei Padri, XVI).

Non c’è, in questi autori, nessuna pretesa di cominciare in modo radicalmente innovativo un’esperienza, anzi, c’è una forte consapevolezza della tradizione e un desiderio di rimanere nel suo alveo. Ecco che allora diventa necessario, accostandoci alla Regola di Benedetto, non cadere nel pregiudizio a lungo accreditato, secondo il quale questa è stata l’unica regola del medioevo, ma leggerla nel contesto delle numerose esperienze di vita monastica fiorite in quei secoli prima in oriente e poi in occidente e cercare di cogliere ciò che di originale c’è in essa.

 

3. Pacomio:

il servizio di Dio nella koinonìa

 

Pacomio è considerato il fondatore del cenobitismo cristiano. Visse tra la fine del III e la prima metà del IV secolo nella Tebaide, nel medio Egitto, fondò la sua prima koinonìa a Tabennesi, alla quale se ne aggiunsero altre in seguito al sopraggiungere di nuove reclute e all’aggregarsi di colonie di anacoreti già esistenti. Man mano che le comunità crescevano, Pacomio sentì il bisogno di scrivere dei regolamenti precisi per governarle, per questo sono stati tramandati diversi precetti, norme e giudizi nati dalle circostanze concrete e dall’esperienza nel cenobio, e non una regola unica e coerentemente strutturata.

 

3.1. L’autorità: un servizio all’uomo

 

Molto importante all’interno di tali comunità era il carisma spirituale dell’abba, a partire dal fondatore. Questi si distinse per le qualità di padre spirituale, cioè capace di generare uomini nella vita secondo lo Spirito Santo. Pacomio era per i suoi monaci davvero un padre pieno di carità e fermezza, attento alla salvezza di ciascuno: «Per Pacomio la paternità spirituale si definisce anzitutto in termini di servizio, di diaconia', essa è una partecipazione alla missione di Cristo, venuto per servire gli uomini... E così nell’esercizio delle sue funzioni di padre della koinonìa, Pacomio evita qualsiasi atteggiamento di dominio o semplicemente ogni affermazione troppo decisa della sua autorità. Il suo agire è improntato a un umile amore nei confronti di tutti, un amore di cui diede esempio fin dalle origini della vita comune» (P. DESEILLE - E. BIANCHI, Pacomio e la vita comunitaria, 58-59, Qiqajon).

 

Omissis….

 

3.3. La koinonìa, vera scuola di carità

 

Molto importante è inoltre la concezione della vita comunitaria di Pacomio, riflesso della primitiva comunità di Gerusalemme: i fratelli sono considerati davvero membri di un unico corpo, chiamati a portare i pesi gli uni degli altri, a rispettarsi e perdonarsi vicendevolmente: «L’insistenza di Pacomio sulla vita comune deriva da una teologia della Chiesa quale corpo di Cristo, che egli dovette scoprire molto presto»; «L’unità dei membri della koinonìa in Cristo deve evidentemente tradursi in atteggiamenti concreti. Pacomio insiste instancabilmente sulla carità fraterna... Misericordia, rispetto della persona altrui, perdono vicendevole, spirito delle beatitudini: ecco le componenti essenziali del clima che Pacomio vuol veder regnare nelle sue comunità» (P. DESEILLE - E. BIANCHI, Pacomio e la vita comunitaria, 58-59, Qiqajon). Così anche Benedetto, specialmente negli ultimi capitoli, insiste sulla carità vicendevole, sull’aspetto comunitario della vita monastica: «Si prevengano l’un l’altro nel rendersi reciprocamente onore; sopportino con massima pazienza le loro infermità sia fisiche sia morali: facciano a gara nel prestarsi reciproca obbedienza; nessuno ricerchi quello che è utile a sé, ma piuttosto quello che è utile all’altro; vivano con cuore casto l’amore fraterno». (RB 72, 4-8) Di questa carità Pacomio sottolinea in particolare l’aspetto di responsabilità vicendevole: «Vi sono alcuni che vigilano su se stessi e vivono secondo il precetto di Dio, eppure dicono tra sé e sé: “Che c’è tra me e gli altri? Io cerco di servire Dio e osservare i suoi comandamenti, quello che fanno gli altri non mi riguarda”... Dopo aver reso conto della nostra vita, dovremo ugualmente rendere conto anche degli altri, di quelli che ci sono stati affidati. E questo è da intendersi non solo riguardo ai priori delle case, ma anche riguardo ai capi dei monasteri e a ciascun fratello della comunità»(P. DESEILLE - E. BIANCHI, Pacomio e la vita comunitaria, 58-59, Qiqajon).

Da ultimo è importante sottolineare che, come per Pacomio, anche per Benedetto la vita comune non significa mancanza di solitudine, anzi nei cenobi pacomiani la vita rimane piuttosto simile a quella dei solitari: celle individuali, lavoro nella cella, silenzio, possibilità di fare digiuni particolari rimanendo nella propria cella invece che mangiare con i fratelli. Anche per Benedetto ineliminabile è la dimensione di solitudine, di silenzio per la vita del monaco, dimensione che gli permette di sviluppare con equilibrio anche l’aspetto comunitario.

 

4. Basilio: la fraternità monastica

Benedetto lo chiama «il nostro santo Padre Basilio»: vissuto nel IV secolo, nato da una famiglia profondamente cristiana, fratello di Gregorio di Nissa, fu vescovo di Cesarea di Cappadocia, moderatore e riformatore in Asia Minore del monachesimo, che per l’influsso di Eustazio di Sebaste fu spesso in conflitto con la Chiesa gerarchica, a causa delle sue esigenze inflessibili di purezza e austerità e delle sue tendenze messaliane. Basilio cercò di convogliare queste forze spirituali verso un monachesimo più profondamente radicato nella Chiesa e nell’insegnamento delle sacre Scritture, mettendo l’accento sul valore della fraternità, sul modello della Chiesa primitiva, sull’obbedienza e sulla continua attenzione alla presenza di Dio nell’anima.

 

4.1. La vita in comune

è la via per un monachesimo

autenticamente cristiano

Basilio fu sostenitore convinto della superiorità della vita cenobitica su quella solitaria e così ne indica i vantaggi: «Io trovo che per molti aspetti è più utile vivere insieme. Innanzitutto perché nessuno di noi basta a se stesso neppure per le necessità del corpo, ma abbiamo bisogno gli uni degli altri per provvedere a quanto ci occorre... Ma oltre a questo anche a motivo dell’amore di Cristo non è lecito che ciascuno badi al proprio interesse. Sta scritto: L’amore non cerca le cose proprie. La vita solitaria invece ha un unico scopo: che ciascuno provveda alle proprie necessità. Questo è in evidente contrasto con la legge dell’amore che l’Apostolo adempiva cercando non l’utile suo, ma quello dei molti, perché fossero salvati» (Basilio di Cesarea, Le Regole, a cura di L. CREMASCHI, Qiqajon, Bose 1993, Regole Diffuse, D. 7, 99-100).

È dunque appoggiandosi all’autorità della Scrittura che Basilio afferma la necessità della vita comune, come segno di autenticità cristiana della vita monastica. Prosegue ancora elencando i numerosi vantaggi della vita comune: «In secondo luogo in una vita separata dagli altri non avverrà facilmente che ciascuno riconosca il proprio peccato, poiché non avrà chi lo rimproveri e lo corregga con dolcezza e misericordia... Anche i comandamenti vengono facilmente osservati in numero maggiore da più persone insieme e non da una sola, perché il fatto stesso di adempiere un comandamento impedisce di adempierne un altro» (Basilio di Cesarea, Le Regole, a cura di L. CREMASCHI, Qiqajon, Bose 1993, Regole Diffuse, D. 7, 100).

Come già Pacomio, anche Basilio mette in evidenza la necessità di condividere i pesi e le gioie degli altri, come segno dell’appartenenza al medesimo corpo, quello di Cristo, e la maggiore fruttificazione dei doni dello Spirito quando sono messi a servizio della comunità: «E se noi tutti che siamo stati attirati a una sola speranza, quella della vocazione, che formiamo un solo corpo e siamo ciascuno membra gli uni degli altri, non prendiamo parte concordemente all’edificazione dell'unico corpo nello Spirito Santo, ma ciascuno di noi sceglie la solitudine, senza servire l’interesse generale a utilità comune, come è gradito a Dio, ma appagando la propria passione di autocompiacimento, come potremo, separati e divisi, custodire la mutua connessione delle membra e il servizio reciproco o la sottomissione al nostro capo, cioè a Cristo? Non sarà possibile rallegrarsi con chi riceve gloria, né soffrire con chi soffre, se si vive separati dagli altri, poiché ciascuno non potrà certo conoscere ciò che accade al prossimo. Inoltre nessuno da solo può bastare a ricevere tutti i doni dello Spirito, poiché lo Spirito Santo li distribuisce nella misura della fede di ciascuno; ma nella vita comune il carisma proprio di ciascuno diventa comune a quelli che vivono con lui».

Benedetto è meno categorico di Basilio riguardo alla vita solitaria e ne parla come di una vocazione particolare, riservata a chi si è già allenato nel cenobio nel combattimento contro i vizi ed è pronto a sostenerlo da solo.

 

4.2. La strada maestra: l’obbedienza

 

Anche per Basilio pilastro della vita cenobitica è l’obbedienza, strumento di ascesi primario e insostituibile: «Per quanto riguarda i lavori ammessi, non bisogna di certo consentire che ciascuno si eserciti in quello che vuole imparare, ma in quello per il quale è stato giudicato adatto. Chi infatti ha rinnegato se stesso e ha deposto ogni volontà propria non fa quello che vuole, ma quello che gli viene insegnato... Chi vuole soddisfare i propri desideri personali non ha rinnegato se stesso e non ha neppure rinunciato agli affari di questo mondo...»  (Basilio di Cesarea, Le Regole, a cura di L. CREMASCHI, Qiqajon, Bose 1993, Regole Diffuse, D. 7, 101-103)..

Omissis….

Da ultimo prendiamo in considerazione l’importante precetto dell’obbedienza vicendevole: Benedetto vi dedica un intero capitolo, il 71: «Il bene che è l’obbedienza non solo tutti lo devono praticare nei confronti dell’abate: anche tra loro i fratelli devono obbedirsi a vicenda, nella consapevolezza che per questa via dell’obbedienza andranno a Dio».

L’obbedienza vicendevole è strumento di umiltà, carità e imitazione di Cristo, fattosi per amore servo obbediente. Così ne parla Basilio: «In che modo bisogna obbedire gli uni agli altri? Come dei servi ai loro padroni, secondo quanto ci ha ordinato il Signore: Chi vuol essere grande tra di voi, sia ultimo di tutti e servo di tutti; egli aggiunge poi queste parole ancora più impressionanti: Come il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire; e secondo quanto dice l’Apostolo: Per mezzo dell’Amore dello Spirito, siate servi gli uni degli altri» (Basilio di Cesarea, Le Regole, a cura di L. CREMASCHI, Qiqajon, Bose 1993, Regole Brevi, D. 115, 306).

 

5. Cassiano:

un ponte tra Oriente e Occidente

 

Nato verso il 360 e morto verso il 435. Cassiano visse nel periodo dei più grandi padri della Chiesa d’Occidente (s. Ambrogio, s. Gerolamo, s. Agostino, s. Leone Magno) e d’Oriente (s. Basilio, s. Gregorio di Nazianzo, s. Gregorio di Nissa, s. Giovanni Crisostomo), a cavallo tra il mondo greco e latino: i suoi viaggi nell’ambiente monastico orientale gli fecero conoscere molto accuratamente le tradizioni e la dottrina dei padri del monachesimo, che poi egli cercò di far conoscere e praticare in Occidente. Fondò in Gallia un monastero maschile, intitolato ai SS. Pietro e Vittore, e uno femminile, dedicato a S. Salvatore. È quindi a giusto titolo considerato il punto di congiunzione tra le tradizioni monastiche occidentali e quelle orientali: per questo motivo abbiamo deciso di trattarlo subito dopo Pacomio e Basilio e prima dei grandi autori monastici d’Occidente.

Cassiano era certamente conosciuto da Benedetto, che lo cita in modo un po’ indiretto nell’ultimo capitolo della Regula; laddove parla di: «Le collazioni dei Padri, le Istituzioni» (RB 73, 5) sembra proprio riferirsi a Cassiano e, in ogni caso, se ne può dedurre l’influsso a partire da un confronto su diversi temi di grande spessore. Cercheremo di mettere in rilievo i più salienti.

 

5.1. La liturgia, forma essenziale della preghiera monastica

 

Innanzitutto la rilevanza data alla liturgia, alla quale Cassiano dedica ben due libri delle sue Istituzioni, nei qua-li si premura di fissare il numero dei salmi a 12 per ogni ora liturgica, contro ogni eccesso in entrambi i sensi: «Adunque, come abbiamo detto, in tutto l’Egitto e in tutta la Tebaide, si recitano 12 salmi sia alle ore vespertine, come nelle notturne solennità, seguiti da due lezioni, una dell’Antico e una del Nuovo Testamento. Questo modo di salmeggiare è assai antico, e perciò si conserva da tanti secoli sino a oggi in quasi tutti i monasteri di quelle province. Dicono che non per umana invenzione sia stato stabilito dai seniori, ma dato dal cielo ai Padri, mediante l’insegnamento di un Angelo».

Omissis….

 

6. Agostino: il primato della carità

 

Agostino condusse vita monastica in Africa, prima a Tagaste poi a Ippona, dopo il suo battesimo prima come laico e poi come sacerdote. Con la sua nomina a vescovo di Ippona nel 395 non rinunciò all’ideale di vita cenobitica, tanto che la sua Regula ad servos Dei è perlopiù collocata dagli studiosi attorno al 400 o poco prima. Egli trasferì nel suo episcopio il modello di vita conventuale che aveva vissuto precedentemente.

 

6.1. «Vivere insieme

con un cuor solo e un’anima sola»

 

La Regola di Agostino è la più antica regola monastica dell’Occidente latino: i capisaldi della sua osservanza sono la povertà e la carità fraterna. Per Agostino «monaco» è colui che è un cuor solo e un’anima sola con i suoi fratelli, più ancora che un uomo solo con Dio: «Per Agostino il monaco è, infatti, colui che forma un’inscindibile unità con i fratelli. Fondando la propria concezione del monachesimo sul modello della Chiesa primitiva di Gerusalemme, come appare in At 4,32, il vescovo insiste sull’importanza di vivere insieme con un cuor solo e un’anima sola» (P.A. Montanari, «Perché la Regola di San Benedetto possa parlarci anco­ra», in Ora et Labora 2(2005), 51).

Si ritiene infatti che la Regola di Agostino abbia influito soprattutto sugli ultimi capitoli della Regola di Benedetto, quelli cioè che mettono in risalto la dimensione comunitaria della vita monastica; anche se nella Regola di Agostino essa ha un ruolo di primo piano più evidente rispetto alla Regola di Benedetto: «Lo scopo essenziale per cui vi siete raccolti in unità è di abitare unanimi nella casa e di avere un’anima sola e un cuore solo tesi verso Dio»; (Regola di Agostino 17)  «E nulla dite vostro; ma ogni cosa sia tra voi comune, e cibo e vestiario sia distribuito a ciascuno di voi dal vostro preposito. Non però in misura uguale per tutti (non sono uguali in tutti le forze fisiche), ma piuttosto a ciascuno secondo il bisogno» (Regola di Agostino 17).

 

Omissis….

 

7. La Regola dei Quattro Padri:

una risposta alle esigenze

del monachesimo in Gallia

 

È un testo redatto attorno al 400-410 nell’ambiente della Gallia del sud, molto probabilmente a Lérins, dove era sorto un grande cenobio, grazie alla fama di Onorato (futuro vescovo di Arles), che lì svolgeva vita monastica insieme ad alcuni compagni. La Regola fu probabilmente redatta da un solo autore, come sintesi degli interventi delle maggiori autorità spirituali della comunità leriniana, e tramandata con il nome di Regola dei Quattro Padri dell’ambiente monastico egiziano, a sottolineare la continuità di tradizione tra le due realtà. Questa Regola, più che un testo scritto a tavolino, è una risposta alle esigenze di una comunità e ai suoi problemi pratici. Non essendo un testo organico e completo, col tempo si creò la necessità di scrivere altre regole per rispondere ai nuovi bisogni, via via che la comunità stessa o altre comunità della zona crescevano e si creavano nuovi problemi o necessità: la Seconda Regola dei Padri (450 ca.), la Regola di Macario (fine V secolo), l’Orientale (520 ca.) e infine la Terza Regola dei Padri (metà VI secolo ca.).

Prenderemo in considerazione soltanto la Seconda Regola dei Padri, oltre naturalmente alla Regola dei Quattro Padri, perché ci sembra che in essa si riscontrino elementi di un significativo cambiamento nella concezione della vita monastica.

 

7.1. Analogie e differenze tra

la Regola dei Quattro Padri e la RB

 

La Regola dei Quattro Padri nasce anzitutto dall’esigenza di organizzare la vita cenobitica, come si legge nell’esordio di Serapione: «Serapione disse: “La terra è piena della misericordia del Signore”, folte schiere muovono verso la perfezione della vita e la desolazione dell’eremo e il terrore dei mostri ostili non consentono che i fratelli vivano soli»; essa si deve solidamente poggiare sulla base dell’obbedienza: «Vogliamo dunque che uno solo sia a capo di tutti e che niente si allontani deviando dai suoi consigli o dai suoi ordini, ma tutti obbediscano, come a ordini del Signore, con incondizionata letizia» (Regola dei Quattro Padri, in La Regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. PRICOCO, Mondadori, Verona-Milano 1995, 1, 1-2). Obbedienza che, come in Benedetto, ha il carattere della gioia: «E i discepoli devono obbedire con animo lieto perché Dio ama chi dona con gioia» Altro tema comune alle due Regole, sempre a proposito dell’obbedienza, è il monito contro la mormorazione: «Da terza sino a nona si adempia senza mormorare a tutto quello che sia stato ordinato. Coloro che ricevono un ordine debbono ricordare le parole dell’Apostolo: “Tutto quello che fate fatelo senza mormorare”». L’obbedienza monastica è infatti essenzialmente un mezzo di unione a Dio, o meglio, al Cristo obbediente al Padre, perciò deve essere un’obbedienza non solo del corpo, ma della volontà e della libertà, in piena adesione ai comandi del superiore. Bisogna aggiungere, però, che questo richiamo contro la mormorazione dipende anche dall’abitudine della maggior parte dei monaci della Gallia di non lavorare manualmente, il che faceva probabilmente pesare molto questa imposizione di sei ore consecutive di lavoro manuale.

Per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità nel monastero è interessante notare che nella Regola dei Quattro Padri prevale la preoccupazione che non si facciano favoritismi su quella, preponderante in Benedetto, di sapersi adattare al carattere di ciascuno: «Il superiore deve distinguere come mostrare a ciascuno i suoi sentimenti di bontà. Egli deve mantenere l’imparzialità e non dimenticare ciò che dice il Signore: “Con la misura con la quale misurate sarete misurati”»; «A voi che adempite a questo ufficio, prescriviamo anzitutto questo, che non facciate favoritismi a nessuno, ma tutti siano amati con pari affetto e tutti siano guariti dalle vostre correzioni, poiché a Dio piace l’imparzialità, secondo le parole del Profeta: “Se davvero parlate di giustizia, giudicate giustamente, o figli degli uomini”».

Si possono rilevare ancora due brevi punti di somiglianza tra le due Regole, quasi a sottolineare la costanza e il radicamento nella tradizione di certi temi: il primo è come trattare gli arnesi da lavoro, considerati alla stregua dei vasi sacri dell’altare: «I fratelli debbono anche sapere che tutto quello che si adopera nel monastero, sia vasi che utensili e il resto, sono tutti oggetti consacrati» pressoché identico a ciò che ne dice s. Benedetto: «Tutti gli utensili e i beni del monastero li consideri allo stesso modo dei vasi sacri dell’altare».

Il secondo è la severità circa i discorsi inutili, la facilità nel riso o le parole sconvenienti: «Se qualcuno dei fratelli avrà fatto un discorso inutile, stabiliamo, perché non sia sottoposto al consiglio, che per tre giorni stia in disparte dalla comunità dei fratelli e non comunichi con loro, sicché nessuno abbia rapporti con lui. Se invece uno sarà trovato a ridere o a dire scurrilità - come dice l’Apostolo “Le cose che non si addicono al tema” - ordiniamo che sia messo a freno per due settimane nel nome del Signore con ogni tipo di sferzante umiliazione».

Ugualmente Benedetto sottolinea più volte l’importanza del silenzio e l’assoluta interdizione di aprire bocca per cose sconvenienti. Il silenzio è, in tutta la tradizione monastica, elemento essenziale al raccoglimento e alla preghiera poiché c’è una grande consapevolezza dei danni spirituali che le parole inutili o fuori posto possono provocare.

 

7.2. La Seconda Regola dei Padri:

più attenzione alla vita fraterna

e al silenzio

 

Nella Seconda Regola dei Padri è importante soprattutto rilevare la maggiore sottolineatura della carità fraterna, come dimensione fondante della comunità; elemento che segna una riflessione sul modello della Chiesa primitiva e quindi un passaggio graduale, ma effettivo, dal modello comunitario esclusivamente verticale al modello più complesso nel quale sono integrate anche le relazioni tra fratelli. Già la Regola dei Quattro Padri sosteneva l’importanza della gioia nel vivere comune: «Vogliamo dunque che i fratelli vivano nella stessa casa in piena concordia e nella gioia», ma ne sottolineava soprattutto la condizione essenziale, cioè l’obbedienza di tutti a un superiore. La Seconda Regola dei Padri comincia così: «E ciò affinché tutti, essendo, come è scritto, unanimi, avendo lo stesso sentire e onorandosi a vicenda, custodiscano con costante vigilanza ciò che è stato stabilito dal Signore. Anzitutto avendo carità, umiltà, pazienza, mansuetudine e le altre virtù che insegna il santo Apostolo, così che nessuno rivendichi alcunché come suo, ma “abbiano tutto in comune” come è scritto negli Atti degli Apostoli» (Seconda Regola dei Padri, in La Regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. PRICOCO, Mondadori, Verona-Milano 1995).

 

In questa Regola inoltre si insiste maggiormente e fin dall’inizio sull’importanza del silenzio: «Badando anche che non si facciano danno a vicenda con chiacchiere vane, ma ciascuno si applichi al proprio lavoro e allo studio e tenga il pensiero rivolto al Signore» anche nell’accogliere gli ospiti: «Quando arriva un forestiero, gli si offra soltanto un’accoglienza piena di umiltà e il saluto di pace. Per il resto non ci si preoccupi di chiedere da dove è venuto, perché è venuto o quando si rimetterà in cammino, e non ci si unisca a lui nelle chiacchiere». Questo tratto è sottolineato anche da Benedetto quando vieta ai suoi monaci di parlare senza autorizzazione con gli ospiti: «Inoltre non deve accompagnarsi né conversare con gli ospiti chi non ne sia incaricato; ma se uno li incontra o li vede, li saluti umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione, passi oltre dicendo che non gli è permesso conversare con chi è ospite».

Questo divieto è segno di una pratica effettiva dell’ospitalità e di una coscienza della separazione dal mondo che lo stato monastico richiede.

E’ anche certo che le numerose ammonizioni rivolte a chi per il sonno eccessivo è tentato di non seguire la preghiera liturgica, indicano che la lunghezza degli uffici in quella regione era assai superiore alla norma sobria dei monaci egiziani, portata in Occidente da Cassiano, il che creava talvolta la necessità di dedicare le ore previste per la lettura delle Scritture al lavoro manuale: «I fratelli attendano allo studio in modo da leggere fino all’ora terza, purché non si presenti un motivo per cui sia necessario tralasciare lo studio per fare un lavoro in comune». Benedetto mantiene un criterio di maggiore sobrietà nel numero dei salmi, fermo restando che il Salterio deve essere recitato integralmente in una settimana. Questa discrezione permette senz’altro ai monaci di non trascurare né il lavoro né le ore di lectio divina.

 

8. Cesario di Arles: la prima regola

a misura di un cenobio femminile

 

La Regola per le vergini venne redatta nel 534 per il monastero femminile fondato da lui stesso ad Arles, dedicato a S. Giovanni Battista, a capo del quale mise sua sorella Cesaria.

È la prima Regola scritta esplicitamente per un monastero femminile e non semplicemente adattata per le donne. Essa fu applicata non soltanto nel monastero di S. Giovanni Battista, ma anche in altri monasteri femminili della Gallia, fino a che non fu sostituita dalla Regola di s. Benedetto.

Cesario era stato monaco a Lérins prima di divenire, a soli 33 anni, nel 502, vescovo di Arles. Per questa sua formazione monastica ebbe sempre una viva attenzione, come pastore, per le realtà di vita contemplativa, fino appunto a fondare un monastero femminile nella sua stessa città. Le fonti di questa Regola sono in modo particolare quella di Agostino, le opere di Cassiano e le consuetudini apprese a Lérins; essa è composta di 65 articoli disposti non in ordine preciso e sistematico, che si presentano come norme e prescrizioni, a volte anche minuziose, dettate dalle necessità di quel preciso monastero.

 

8.1. L’importanza della stretta clausura

 

Peculiare aspetto di tale legislazione è la strettissima clausura: essa era motivata dalla preoccupazione di tutelare la castità, di evitare qualsiasi contatto non indispensabile delle monache con uomini, anche di Chiesa, e qualsiasi coinvolgimento in affari mondani o che potesse distrarre le monache dalla preghiera. Molto comprensibile questa preoccupazione se pensiamo che la società di quei tempi era costituita in gran parte dall’elemento barbarico e che il monastero, essendo in città, poteva subire condizionamenti di vario genere che avrebbero potuto nuocere alla serietà della vita monastica che vi si conduceva.

Sentiamo come Cesario parla della stabilità: «Ecco quanto conviene per prima cosa alle vostre anime: se una, lasciata la sua famiglia, ha voluto rinunciare al mondo ed entrare nel santo ovile, per poter sfuggire con l’aiuto di Dio alle fauci dei lupi spirituali, non esca fino alla morte dal monastero; neppure per accedere alla Basilica, verso la quale c’è una porta». Stabilità è quindi intesa soprattutto come permanenza nello stesso luogo, ben delimitato fisicamente, per tutta la vita, dal momento dell’entrata in monastero fino alla morte.

Mentre per Benedetto è di maggiore importanza la stabilitas in congregatione che la stabilità di luogo in senso stretto: egli prevede infatti che ci possano essere delle uscite, anche se dipendenti sempre dalla necessità e dall’obbedienza.

Dettagliatamente regolamentati sono anche tutti i rapporti con i secolari e con il clero della città  e, come Agostino, Cesario dà grande importanza alla custodia della purezza dello sguardo in vista della castità: «Non nasca in voi, per istigazione diabolica, concupiscenza alcuna degli occhi verso qualsiasi uomo. E non dite di avere animo pudico se avete impudichi gli occhi. Perché l’occhio impuro è indizio di impuro cuore. E non deve creder colei che volge lo sguardo su un uomo non a caso, di non essere vista da altri quando fa questo; è vista in pieno da chi meno se lo immagina»  e alla responsabilità reciproca: «Quando dunque siete insieme, se arriva l’amministratore del monastero o qualcuno degli uomini alle sue dipendenze, custodite reciprocamente la vostra modestia. Il Signore infatti, che abita in voi, vi custodisce anche con questo mezzo».

Molto accentuata in Cesario è dunque la preoccupazione per il valore della castità, per la separazione dagli affari mondani e per la povertà; meno sviluppata invece risulta, rispetto a Benedetto, la dottrina dell’obbedienza.

Difatti la prima preoccupazione nell’accogliere aspiranti alla vita monastica è che lascino tutte le loro sostanze, non riservandosene nemmeno la gestione: «Quelle che vengono in monastero da vedove o avendo lasciato i loro mariti o mutato già d’abito, non si ricevano se non abbiano prima fatto, nei riguardi dell’intero patrimonio anche modesto, delle carte intestate a chi vogliono, atti di donazione o di vendita, in modo da non serbare in loro potere nulla che possa sembrare da loro amministrato o posseduto personalmente... Anche quelle che si presentano per la vita monastica da nubili, se non vorranno adempiere quest’obbligo non siano accolte». Mentre assai scarna è la norma dell’obbedienza  rispetto ai lunghi ammonimenti sulla sobrietà e sulla comunione dei beni.

Da ultimo notiamo una piccola, ma importante somiglianza tra questa Regola e la Regula Benedicti: nel caso che delle sorelle siano state scomunicate, si prevede per esse il sostegno di una sorella capace di aiutarle a ravvedersi: «Se qualcuna per qualsiasi colpa sia stata scomunicata, se ne stia separata dalla comunità, nel luogo che l’abbadessa le avrà comandato, con una delle sorelle che siano delle vere spirituali, fino a che, facendo umile penitenza, riceva il perdono», così come Benedetto prevede l’aiuto di anziani capaci di sostenere il fratello scomunicato e di indurlo a riparare il suo peccato: «Egli [l’abate] deve quindi servirsi di ogni rimedio come medico sapiente e inviare [al fratello scomunicato] conforti speciali, cioè dei saggi fratelli anziani che parlandogli riservatamente sostengano il fratello esitante e lo sollecitino a fare umile riparazione». (Regola per le vergini di S. Cesario di Arles, in Regole monastiche antiche, a cura di D. G. TURBESSI O.S.B., Studium, Roma, 1974).

 

9. La Regola del Maestro:

il verticalismo della struttura monastica

 

Questa regola fu redatta con ogni probabilità tra il 500 e il 525, in un ambiente a sud-est di Roma, verso Capua, da un autore anonimo. E stata chiamata in tal modo perché è strutturata in forma di dialogo mediante la formula: Interrogatio discipuli; respondet Dominus per Magistrum.

Fino al 1938 era convinzione condivisa da tutti i medievisti che la Regula Benedirti fosse anteriore alla Regula Magistri; con gli studi di Génestout prima e poi di Penco e del de Vogué fu chiaro che era la Regola del Maestro a essere il testo-fonte per la Regola di Benedetto. Prove decisive per sostenere tale tesi furono il confronto del vocabolario, il maggior grado di complessità della struttura monastica nella Regola di Benedetto, la più grande aderenza ai testi biblici, patristici e apocrifi citati nella Regola del Maestro, la mancanza, nella Regola di Benedetto, di alcune citazioni che erano state considerate non ortodosse dal Decretum Gelasianum, de libris recipiendis et non recipiendis, redatto probabilmente verso la fine del V secolo e diffusosi nei primi decenni del VI.

Essa si presenta come un testo tre volte più lungo della Regola di Benedetto, molto più sistematico e minuzioso, dalla quale quest’ultima ha preso senza dubbio la struttura dei primi capitoli, quelli cioè che riguardano i fondamenti spirituali della vita monastica, rimaneggiando invece più liberamente i capitoli successivi fino a quello conclusivo sui portinai del monastero, per emanciparsi completamente negli ultimi, nei quali Benedetto sviluppa la dimensione orizzontale della vita monastica, rifacendosi alla Regola di Agostino e attingendo certamente anche alla sua esperienza di vita.

Noi ci proponiamo semplicemente di prendere in esame quei punti che mettono in evidenza elementi importanti della concezione antropologica di entrambi gli autori e soprattutto l’originalità di Benedetto.

 

Omissis….

 

9.2. Il rapporto tra vita presente

e vita eterna

 

Profondamente legato a questo tema (Vedere capitolo precedente: 9.1. L’atteggiamento verso chi vuole intraprendere la vita monastica Ndr.) è quello del rapporto tra vita presente e vita futura: per Benedetto la vita presente è caratterizzata dalla rinuncia e dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, ma la vita eterna, nel monaco che si lascia plasmare dallo Spirito Santo, comincia già su questa terra e si manifesta come gioia, slancio del cuore, amore fraterno disinteressato. Il Maestro insiste molto di più sulla netta separazione tra i due tempi e questo lo si vede ad esempio nel finale del capitolo sugli strumenti delle buone opere, nel quale vi è una lunga e dettagliata descrizione del Paradiso, come ricompensa per coloro che avranno messo in pratica gli insegnamenti dell’arte spirituale: «Nel fulgore di questa terra ci “sono preparati fiumi di latte e di miele, di vino e di olio, fluenti” in eterno. Sulle loro rive “frutti variopinti e diversi di diversi alberi che maturano dodici volte l’anno”, non per coltura d’uomo, ma per divina “munificenza” (Visio Pauli 21-23); non la fame li rende piacevoli a mangiarsi, né il bisogno li fa desiderare per nutrirsene, ma quando gli occhi dei beati “si saziano” solo a vederli, “ciascuno per di più sente” in bocca “il sapore che gli è gradito”». Questo tema ricorre anche alla fine del capitolo sull’umiltà e nel capitolo dedicato all’ammissione dei novizi, dove il Maestro sottolinea in modo esplicito che la vita in monastero è come un carcere accettato volontariamente per essere poi felici nella vita futura: «Se per Dio un carcere tenebroso ci tiene rinchiusi, ci aspetta però l’eterna Gerusalemme, costruita d’oro e di gemme e ornata di pietre preziose (Ap 21,18-21). Se per Dio l’oscurità di una prigione ci rende ciechi, potrà immergerci nel buio per un momento, ma dopo ci accoglierà nella vita eterna quella luce che risplende non per il fulgore del sole o della luna, delle stelle del cielo o di una lampada, ma della maestà eterna di Dio stesso». Benedetto nel suo stile sempre sobrio e conciso non ama le lunghe descrizioni e lo stile pittoresco: «Quello che occhio non vide, né orecchio udì, questo Dio ha preparato per coloro che lo temono». Questa differenza indica evidentemente anche una concezione della vita eterna nella Regula Benedicti meno immaginosa e antropomorfica, che si colloca decisamente su un piano spirituale, diverso da quello delle gioie della terra.

 

9.3. La concezione della «regola»

 

Altra importante differenza tra le due Regole è l’idea stessa di «regola»: per Benedetto la Regola non è che un inizio, il minimo per una vita monastica degna di questo nome; rimanda alla Scrittura, ma non è sul suo stesso piano e non può sostituirla: «Questa Regola noi l’abbiamo stesa perché osservandola nei monasteri possiamo dare in qualche misura prova almeno di un retto comportamento e di un inizio di vita monastica... Tu dunque, chiunque tu sia, che ti affretti verso la patria celeste, metti in pratica con l’aiuto di Cristo questa Regola minima scritta per i principianti. E allora soltanto potrai raggiungere con la protezione di Dio quelle più alte vette di sapienza e di virtù che abbiamo sopra indicato». Egli lascia maggiore spazio all’iniziativa personale (nel senso positivo del termine, non come volontà propria) e all’azione della grazia che opera in modo diverso in ciascuno; sa inoltre che le sue direttive, nella loro applicazione concreta, potranno essere anche modificate, senza che per questo venga meno la serietà della vita monastica: «Ci preme però avvertire che se a qualcuno non piacerà questa distribuzione dei salmi, ne può stabilire una diversa come riterrà meglio, purché tenga in ogni caso fermo che in ogni settimana sia recitato l’intero salterio con i suoi centocinquanta salmi e che ogni domenica nelle veglie si ricominci sempre da capo». Il Maestro invece considera la Regola come condizione necessaria e sufficiente per andare a Dio, facendo praticamente coincidere i suoi ordinamenti con ciò che Dio dice e sottolineando il parallelismo tra abate e vescovo, tra Chiesa e monastero.

 

9.4.L’autorità dell’abate

e il suo rapporto con i monaci

 

Legata alla concezione della Regola è quella dell’autorità e del tipo di pedagogia emergente dai rapporti tra monaci e abate.

Il Maestro dedica il secondo capitolo alla descrizione del compito dell’abate: troviamo in questo capitolo diverse somiglianze con il corrispondente della Regola di Benedetto, specialmente l’accento sulla responsabilità dell’abate, che dovrà rendere conto a Dio nel giorno del giudizio di ciascuno dei fratelli affidatigli, sulla necessità che egli insegni non solo a parole, ma con la sua stessa condotta di vita e che non faccia preferenza di persone, anche se maggiormente accentuato in Benedetto è il richiamo alla necessità per l’abate di adattarsi ai singoli temperamenti.

Elemento caratteristico del Maestro è il considerare l’abbaziato come un privilegio, oltre che come una responsabilità onerosa, tanto che i fratelli sembrano essere ingaggiati in una gara per dimostrare di essere adeguati successori dell’abate: «L’abate si guardi bene dal prendersi mai qualcuno come secondo e dal mettere persona al terzo posto. Perché? Perché non dando a nessuno occasione d’insuperbirsi per tale dignità e lasciando sperare l’onore della sua successione a chiunque si comporti santamente, li renderà tutti a gara disposti all’agire bene e all’umiltà»; «Oltre a impartire di frequente alla comunità questi avvertimenti e a non dare ad alcuno la certezza della carica, l’abate scambi continuamente i loro ranghi, a turno li faccia sedere accanto a sé a tavola, a turno li inviti tutti quanti a prendere posto accanto a sé nell’oratorio e tutti quanti a turno a intonare dopo di lui i salmi, in modo che nessuno si insuperbisca perché ha ormai la dignità di secondo e nessuno si demoralizzi di stare all’ultimo posto».

Nel rapporto tra abate e discepoli il Maestro dà meno rilievo alla responsabilità personale di ciascuno, ritenendo invece che il monaco deve semplicemente fare ciò che l’abate comanda, e a quest’ultimo sarà chiesto conto di ciò che ha ordinato. Manca infatti nella Regula Magistri il capitolo sulle obbedienze impossibili, che presuppone appunto un dialogo tra abate e monaco e una maturità del discepolo, capace di valutare le situazioni e invitato ad assumersene le conseguenze con coscienza e responsabilità: «Sciat iunior ita sibi expedire, et ex caritate confidens de adiutorio Dei oboediat».

Un altro segno di distanza tra i due autori è la tendenza del Maestro a essere piuttosto sospettoso nei confronti dei suoi monaci, tanto che i prepositi sono tenuti a sorvegliare in tutto i fratelli della loro decania: «Questi prepositi dunque, quando assumono sotto la loro cura i fratelli nel suddetto numero di dieci, devono esercitare su di essi la loro sollecitudine in questo modo: tanto di giorno che di notte o in qualsiasi lavoro, siano per prima cosa sempre presenti con loro e con loro lavorino in qualsiasi occupazione... Questi prepositi, mentre quotidianamente, nella giornata e nella notte, a ogni istante spiano con cura tali mancanze nei fratelli a loro affidati... Abbiano i propri letti vicini ai loro, per poterli correggere durante la notte, se si rendano colpevoli di qualche mancanza»; molto più discreto risulta Benedetto: egli considera i decani persone di fiducia che dividono i pesi di responsabilità dell’abate e così ammonisce quest’ultimo: «Non sia invidioso e troppo sospettoso, perché non avrebbe pace mai».

 

Omissis….

 

9.8. La liturgia:

centro della vita del monaco

 

Da sottolineare è inoltre la centralità della liturgia nella Regula Benedicti, centralità che si esprime soprattutto nella disposizione dei capitoli dedicati all'ufficio divino. Benedetto, che pure ha sostanzialmente seguito l’ordine della Regula Magistri, decide di porre l’ordinamento dell’Opus Dei subito dopo i capitoli dei fondamenti spirituali, mentre il Maestro lo pone fra gli atti della vita comune, dopo il riposo notturno dei monaci e prima del lavoro manuale. Questo fa senz’altro dell’Opus Dei, nella concezione di Benedetto, l’occupazione più importante del monaco, quella che dà senso a tutti gli altri lavori, come d’altronde egli stesso riassumerà nella massima: «Niente dunque deve essere anteposto all’Opera di Dio».

 

9.9. Una diversa concezione antropologica

 

Infine, per concludere questo breve confronto bisogna citare un passo nel quale si esprime la concezione antropologica del Maestro: «Questa carne del nostro misero corpo è una specie di casa dell’anima, messa a servizio della vita, come il fodero è a servizio della spada. La sede poi di quest’anima la riteniamo posta in quella radice che è il cuore.

Questa radice possiede nel corpo due rami più alti e più fragili agli assalti del peccato: uno mediante i fori degli occhi come attraverso finestre praticate nel muro del corpo, riteniamo che l’anima guardi dal di dentro, e ci rendiamo conto che continuamente sollecita essa stessa dall’interno le sue concupiscenze; un altro ramo, dal quale essa dà voce in noi ai feti che ha concepito e plasmato il cuore, partorendo mediante la lingua il discorso, in modo che uscendo dalla porta della bocca, vada a occupare l’udito altrui. Tutto ciò che in noi si agita e si muove è atto dell’anima nel corpo». Questa descrizione immaginosa, secondo lo stile tipico del Maestro, è di stampo piuttosto dualistico, poiché considera il corpo una casa dell’anima, quasi che tra i due elementi non vi sia intima unione, ma giustapposizione temporanea. Nella Regola di Benedetto non si trovano discorsi teorici sull’uomo, ma piuttosto una continua attenzione, nel disporre le norme di vita, all’aspetto spirituale, alla qualità dell’agire: «Del resto, è una caratteristica generale della RB, l’interesse che si manifesta per l’aspetto soggettivo e qualitativo dell’osservanza. Benedetto si preoccupa meno di precisare ciò che bisogna fare, che di indicare in quale modo e con quali sentimenti bisogna agire. Ai regolamenti minuziosi che il Maestro tracciava per il cellerario, gli ebdomadari e i portinai, egli sostituisce dei riassunti abbastanza vaghi, ma arricchiti di preziose annotazioni spirituali sulla sollecitudine e la carità che devono animare questi servizi».(Regola del Maestro; citazioni dall’edizione a cura di M. Bozzi osb, Paideia, Brescia 1995)

 

10. Conclusione

 

Abbiamo visto come Benedetto sia l’erede di una tradizione antica e solida, dalla quale riceve i capisaldi della vita monastica cenobitica: l’obbedienza, la preghiera, la lectio divina, la memoria Dei, la povertà, la vita fraterna e la comunione dei beni, il servizio reciproco all’interno della comunità e tutte le strutture portanti del cenobitismo. La Regula Benedicti può essere allora vista come una mirabile sintesi, come si esprime il de Vogué (La Règle de Saint Benoît, Les Editions du Cerf, Paris, 1972): «Essa è una sintesi, non soltanto per il suo carattere relativamente metodico e completo, come abbiamo appena visto, ma anche per la diversità di sorgenti alle quali attinge, e particolarmente perché realizza una combinazione tra due tipi di cenobitismo: uno più “verticale” (Cassiano, il Maestro), e l’altro più “orizzontale” (Agostino)».

Sintesi che però è anche espressione di una maturità umana e cristiana del suo autore, con la sua irripetibilità e i suoi tratti caratteristici; maturità che abbiamo cercato di mettere in evidenza e che ha formato generazioni di monaci a vivere il Vangelo in tutta la sua radicalità.



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31 dicembre 2014               a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net