Il monachesimo in prospettiva ecumenica
Linee storiche e aspetti propositivi di un’esperienza
per l’unità della Chiesa
Nell’ambito monastico italiano,
nel 1980 – in occasione del XV centenario della nascita di S. Benedetto – si
svolse a Novalesa un importante convegno dal titolo «S. Benedetto e l’Oriente
cristiano»[1]
da cui emerse che non solo il monachesimo orientale esercitò un sensibile
influsso sulla Benedicti Regula
ma anche come il patriarca dei monaci d’Occidente segnò la spiritualità
dell’Oriente.
Riprendendo la stessa
prospettiva di ricerca delle reciproche influenze tra monachesimo latino e
greco, nonché di quello protestante, risulta significativo non solo a livello
propriamente monastico ma anche in un più ampio orizzonte ecclesiale, riscoprire
«il ruolo del monachesimo nell’Ecumenismo», ed è questo il tema del Simposio
organizzato nell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (30 agosto – 1° settembre
2000) in cui noti studiosi hanno presentato dettagliate analisi storiche e
convincenti sintesi relative all’ottica monastica dell’ecumenismo.
Con il presente contributo
intendiamo evidenziare previamente (prima parte), attraverso una breve analisi,
le diverse prospettive con le quali il Simposio ha voluto esprimere il carattere
ecumenico del monachesimo lungo la storia. Successivamente (seconda parte)
proponiamo le implicazioni che a nostro avviso suscita l’analisi storica del
monachesimo in ottica ecumenica, sia nel ricomprendere la stessa identità
monastica, sia nello stimolo ecclesiale e teologico che suscita tale
comprensione.
1. La storia
1.1. Aspetti ecumenici del monachesimo
Il Simposio di Monte Oliveto ha
voluto porre l’attenzione sull’esperienza monastica latina, greca e protestante,
per coglierne la dimensione ecumenica attraverso un’ottica storica.
A nostro avviso l’articolazione
degli interventi, al di là dell’ordine e dei titoli delle relazioni, ha
evidenziato cinque aspetti.
Cosimo Damiano Fonseca, Albert Schmidt, Pasquale
Corsi e Salvatore Manna, mediante un’analitica indagine storica, soprattutto
relativa al primo millennio, hanno colto nei
fatti remoti i rapporti tra il monachesimo latino e quello greco.
Lambert Vos, Giorgio Picasso e Pascal Devriese
attraverso lo studio di alcune esperienze monastiche ecumeniche a noi
contemporanee, hanno individuato, nei
fatti prossimi, una modalità concreta di dialogo che ha permesso la
realizzazione di significativi ambiti di vita ecumenica.
Andrè Louf e Michel Stavrou hanno evidenziato
l’importanza del monachesimo orientale per quello occidentale.
Giorgio Pasini, Pompiliu Teodor e Donald Allchin
hanno concentrato il loro intervento nell’indagine storica relativa allo
sviluppo del monachesimo in ambito cristiano non cattolico.
Infine, Enzo Bianchi, Adalberto Mainardi, Mons. Casian Constantin Craciun e Mons. Giuseppe Chiaretti hanno proposto articolate visioni sintetiche e non pochi spunti che meriterebbero un successivo approfondimento teologico.
In estrema sintesi quindi, le prime due prospettive hanno analizzato la storia remota e prossima del rapporto tra monachesimo latino e greco e, anche se in modo minore, protestante. Le seconde due invece hanno cercato di cogliere l’importanza del monachesimo non cattolico.
Cerchiamo ora brevemente di illustrare ciascuna delle
cinque linee prospettiche cogliendone quelle che a nostro avviso sono le
conclusioni.
La prima prospettiva ha evidenziato come il
monachesimo latino del primo millennio abbia mantenuto sempre un atteggiamento
di simpatia verso la vita monastica orientale la cui presenza, specie nel Sud
d’Italia, fu un dato rilevante (C.D. Fonseca). Un’analisi diacronica relativa al
monachesimo nelle controversie monofisita e iconoclasta, ha anche fatto emergere
fattori determinanti situazioni di crisi e di contrasti, evidenziando tuttavia
come nei momenti in cui i monaci realizzavano una solida produzione teologica e
culturale si assisteva, nel contempo, ad una maggiore comunione tra gli spiriti
(A. Schmidt). La singolare osmosi che si era venuta a creare tra monachesimo
latino e greco soprattutto nell’Italia meridionale (S. Manna) non sembra che sia
stata alterata da una politica normanna filo greca o filo latina, in quanto
l’unico principio politico con cui si tentò di controllare il territorio fu
quello di affidare i monasteri piccoli ai monasteri grandi (P. Corsi).
La seconda prospettiva, sempre di orientamento
storico, ha preso in esame diverse tipologie monastico-ecumeniche recenti.
Dall’esperienza dell’abbazia de la sainte Croix di Chevetogne (Belgio) è emerso
come sia importante studiare la teologia, la liturgia, la lingua, la cultura, la
storia e la psicologia del mondo orientale per comprenderlo togliendo pregiudizi
secolari. La preghiera liturgica e l’ospitalità reciproca, nonché la
sensibilizzazione dell’opinione pubblica costituiscono altrettanti pilastri su
cui poggia l’ecumenismo (L. Vos). Inoltre le due figure di monaci benedettini di
Monte Oliveto Emanuel Andrè e Costantino Bosschaerts hanno evidenziato, nel
primo, l’aspetto mariano, la sensibilità liturgica, l’attenzione
biblico-patristica, la consapevolezza della necessità della conversione e
l’importanza della circolazione delle idee attraverso la fondazione di una
rivista[2]
(G. Picasso). Nel secondo, la liturgica come fonte centrale della spiritualità,
l’attenzione e l’accettazione della volontà di Dio nelle diverse circostanze
della vita, l’importanza della Sacra Scrittura[3],
il coinvolgimento dei laici (P. Devriese).
La terza prospettiva ha colto l’importanza del
monachesimo orientale per quello occidentale. Infatti la Regola di S. Benedetto
– punto sorgivo del monachesimo latino – venne composta quando vi era ancora
l’unità politico-culturale tra occidente e oriente in un unico impero con un
unico imperatore e S. Benedetto si servì in modo eclettico sia di autori
occidentali come di quelli orientali (A. Louf). Inoltre l’importanza essenziale
che l’Oriente dà al monachesimo costituisce, per l’Occidente cristiano, un
richiamo significativo verso questa forma di sequela di Cristo nella quale
considerare il monaco come colui che è il separato da tutti ma al tempo stesso
il più unito a tutti (M. Stavrou).
Con la quarta prospettiva si è svolta un’indagine
relativa al monachesimo non cattolico, da cui ne è emerso l’importanza nei
diversi contesti geografici non solo religiosi, ma anche culturali e sociali.
Infatti la forma monastica acquista legittima e autorevole cittadinanza fin
dalla primitiva evangelizzazione della Russia (G. Pasini). Inoltre il peso
culturale del monachesimo è stato sottolineato nella formazione della cultura e
della società nazionale rumena soprattutto nel XVIII secolo (P. Teodor). Infine
da una sguardo storico analitico nella
Communio anglicana è emerso come nonostante la vita religiosa e quindi anche
quella monastica sia rimasta completamente assente per secoli, gradualmente
sorsero piccole comunità che in seguito vennero riconosciute in modo ufficiale e
proprio queste comunità oggi hanno un peso sempre maggiore nell’ambito anglicano
(D. Allchin).
La quinta prospettiva si pone su un piano globale,
sintetico e propositivo, ed è stata colta, a nostro avviso, trasversalmente
l’intero Simposio, nel senso che molti
dei relatori che abbiamo schematicamente individuato nelle precedenti analisi
hanno anche offerto contributi, nel corso della loro esposizione, di
orientamento verso il futuro non solo di sguardo retrospettivo al passato.
Potremo sintetizzare quest’ultima prospettiva nel
tentativo di cogliere il monachesimo come «luogo ecumenico» (E. Bianchi). È
stato evidenziato infatti come la vita monastica non sia tanto una realtà
geografica quanto invece si qualifichi per l’obbedienza a Dio ed i monaci sono i
profeti dell’unità in quanto nell’incontro fraterno, nella conversione e nella
preghiera si hanno le basi essenziali per un fruttuoso ecumenismo. È allora la
spiritualità la base comune, il fermento e lo stimolo per l’unità (Mons. C.C.
Craciun). Il monachesimo inoltre è un fenomeno anteriore al cristianesimo perché
si pone già a livello antropologico in cui uomini e donne hanno un orizzonte di
valori e di ideali comuni. Si tratta poi di una realtà precedente le divisioni,
collocandosi su un’unità liturgico-patristica e non devozionale. Il monachesimo
è sorto in vista di una radicale sequela di Cristo, ossia in vista della santità
che è azione di unità. Non sono proponibili pertanto tentativi di comunione
fondati sull’affettività. La vita monastica in quanto è in ogni tempo vita di
conversione richiama all’unità, e soprattutto il monachesimo è
epiclesi, invocazione dello Spirito
per l’unità (E. Bianchi). Insomma la prima radice del monachesimo è la
preghiera, quindi l’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi) non disgiunta da un reale cammino di conversione (A.
Mainardi). La stessa regola di S. Benedetto presenta delle qualità ecumeniche
perché è stata e può ancora essere strumento di dialogo tra Oriente e Occidente.
Infatti oltre ad essere cristocentrica, orientando quindi in Cristo l’unità
della comunità, offre una sorta di ecumenismo ad uso interno al monastero in
diverse situazioni, in cui, per esempio, coloro i quali entrano nella vita
monastica vengono accolti senza alcuna distinzione sociale; oppure la pedagogia
utilizzata da S. Benedetto nel recupero del peccatore a cui tutta la comunità
partecipa; o lo spazio lasciato all’abate che può adattare la regola secondo le
esigenze della propria comunità; ed infine è significativo ed ecumenico che ai
pellegrini, sempre accolti fraternamente, per la Regola non sia richiesta la
professione di fede comune ma la preghiera comune (A. Louf).
In questa visione sintetica non sono mancate analisi
che hanno guardato con occhio critico (A. Schmidt), senza superficiali visioni
idilliache con le quali proporre una storia monastica come ambito senza colpa.
Infatti i monaci sono stati certamente costruttori di unità ma si sono mostrati,
al contempo, protagonisti di polemiche e di divisioni dovute all’infiltrarsi,
anche nel monachesimo, della mentalità mondana segnata dall’orgoglio e dalla
superbia (E. Bianchi). L’ecumenismo monastico allora necessità di
purificare la memoria in cui
riconoscere umilmente davanti a Dio anche le proprie colpe e chiusure.
2. Le
Prospettive
2.1. Il
monachesimo tra
profezia e storia
Nel tentativo di ri-comprendere il Simposio
attraverso un bilancio sintetico, crediamo che le linee emerse evidenzino alcune
modalità concrete con le quali operativamente proporre un cammino di unità. A
nostro avviso sono esprimibili attraverso due categorie: la
profezia e la
storia.
La profezia
si pone nell’ottica del dono di Dio, ottenuto nella preghiera di invocazione
dello Spirito Santo (Mons. G. Chiaretti) accettando però il monachesimo come un
vivere nella fede non nella visione, ponendolo umilmente nella marginalità della
storia. La profezia insomma non può essere un pretesto per nascondere una crisi
d’identità (E. Bianchi). Significa allora che la partecipazione alle sofferenze
di Cristo diventa fonte di ecumenismo il quale si attua mediante una
nuova umanità in Cristo Risorto (L.
Vos).
La storia
nell’ecumenismo monastico, invece, si colloca in un ambito esperienziale
costituito da incontri, visite formative, convegni, pubblicazioni,
collaborazioni ad azioni comuni, nei quali risulta importante rispettare una
deontologia dell’incontro caratterizzata dal lasciare che sia
l’altro a definirsi (A. Mainardi).
Questi due orizzonti – la
profezia e la storia –
crediamo possano essere situati alla luce della spiritualità benedettina dell’ora
(la profezia) e del labora (la
storia).
La profezia
vuole cogliere il monachesimo nella sua dimensione teologica più propria quale
invocazione dello Spirito Santo (epiclesi)
il quale non è solo
Spirito di verità (Gv 14,17) ma guida
alla verità tutta intera (Gv
16,13). L’ora però non è semplicemente
orale, ossia una richiesta con la bocca fatta di parole rivolte a Dio, ma è
verbale in quanto invocazione al Padre
per mezzo del Figlio (il Verbo) nello
Spirito Santo. La preghiera allora esprime la profezia quando è l’offerta della
propria vita «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» per diventare
autentico «culto spirituale» (Rm
12,2). Affinché il culto, la preghiera, siano graditi a Dio è necessario che
avvengano per mezzo di Gesù Cristo (1Pt
2,5) vale a dire occorre essere in Cristo, ossia morti (al peccato) e risorti (a
vita nuova) con lui (Rm 6,4;
Col 2,12), quindi vivere uniti a Lui
come la vite ai tralci (Gv 15,1-6)
fino a partecipare delle sue sofferenze (1Pt
4,13). Qui ritorna allora una duplice dimensione. Da un lato la
liturgia come luogo fontale
dell’essere una «vita in Cristo»[4]
e dall’altro l’importanza della
conversione, della croce e in
definitiva del martirio come strumenti
privilegiati dell’ecumenismo.
La storia
invece si pone in un’ottica più antropologica in cui emergono le affinità
relative all’orizzonte dei valori di riferimento. Sono gli incontri fraterni e
lo studio reciproco che permettono di cogliere il dato antropologico comune[5],
base dalla quale far scaturire una medesima prospettiva esistenziale di
cercatori di Dio[6].
Il dialogo dovrà avvenire in un contesto per cui risulterà importante
«soprattutto conservare una grande carità» (1Pt 4,8) perché lo scopo non è di piacere agli uomini ma a Dio (1Tess
2,4), quindi l’esperienza dell’incontro dovrà avvenire nella carità fraterna
segnata dall’ospitalità gli uni verso gli altri (1Pt
4,10) nella quale si esprimeranno le proprie ragioni sempre con dolcezza e
rispetto (1Pt 3,15).
Come il labora
materiale e intellettuale esprime il momento “sensibile” della vita monastica
costituendo lungo i secoli un punto di riferimento culturale e sociale per il
mondo, così il labora del dialogo e
dell’incontro spirituale e intellettuale tra monaci di diversa professione di
fede, diventa l’ambito “visibile” di un’esperienza comune.
Il monachesimo orientale sembra essere maggiormente
profetico-teologico di quello
occidentale, più storico-antropologico.
Infatti il primato dell’azione di Dio che interviene come Mistero soprattutto
nell’ambito liturgico ha determinato e determina per l’Ortodossia un punto di
riferimento assoluto dal quale acquista valore proprio la vita monastica come
luogo in cui il Mistero avviene e diventa profezia. In Occidente invece (almeno
dalla modernità in poi) la sottolineatura è data dall’azione dell’uomo il quale
può anche fare a meno di Dio fino a dichiararlo
morto[7]. In questo
orizzonte, la vita monastica perde di valenza socio-culturale divenendo
insignificante[8]. È allora sul
piano dell’azione, del fare, che il
monachesimo occidentale ha cercato una propria identità divenendo
storia ma perdendo, a volte, la
profezia.
Il secolo XX ha forse espresso una duplice modalità
di realizzazione dell’ecumenismo. L’Oriente attraverso il
martirio, la sottolineatura della
liturgia e l’esperienza della
fuga mundi (Monte Athos) ha evidenziato la propria vocazione di monachesimo
di profezia. L’Occidente mediante la
nascita di luoghi e occasioni di dialogo e di incontro posto in risalto una
caratterizzazione che richiama la storia.
Il primo accentua il Mistero
dell’intervento di Dio, il secondo sottolinea l’imitazione da parte dell’uomo. Il primo sottolinea la
speranza il secondo la
fede entrambi sono fondati nell’amore
costituendo come un solo «popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo»[9].
2.2.
Prospettive per un orizzonte teologico sapienziale
A livello metodologico l’ecumenismo monastico parte
da una comunione che precede le divisioni, quindi non si colloca a partire dai
punti dottrinali diversi che successivamente, per approssimazione, si cercano di
appianare. Questo stimola una riflessione credente che abbia sempre al centro
una visione d’unità, di sintesi al di là delle analisi e dei particolari perché
l’unità è anteriore alla distinzione. Si tratta di un’unità che coinvolge
colui che ricerca la verità. Il
soggetto deve quindi essere uno in se stesso affinché dall’unità dell’io
venga pensata la fede. Questa esigenza di
radicale unità della persona non può che essere
radicata in Cristo, fonte prioritaria
di unità (Gal 3,29). La frammentazione
dell’unità della persona e del sapere (teologico)[10],
tipici dell’epoca postmoderna[11],
trova allora una risposta concreta nell’adesione della persona (e del sapere
teologico) al mistero di Cristo.
L’ecumenismo monastico, inoltre, stimola un orizzonte
della riflessione teologica maggiormente attento alla prospettiva
sapienziale di cui proprio il monachesimo, nel cui ambito si è formata la
teologia monastica[12], dovrebbe
essere un costante richiamo per il pensiero credente. Si tratta in sostanza
della comprensione del mistero di Dio che si rivela all’uomo non semplicemente
in un’ottica speculativa, derivante dallo sforzo
razionale
dell’io, ma che discenda dalla comunione
ontologica con Dio, risultando quindi veramente
teo-logico e non solo
logico. Insomma la
riflessione su Dio (teologia) non è semplicemente un
parlare di Dio (teodicea) ma deriva
dall’essere in Dio (santità) fondato
dalla Parola efficace di Dio
(orizzonte sacramentale, anche se, a volte, in senso analogico) per cui la
riflessione teologica diventa un parlare
con Dio perché esprime un parlare in
Dio: l’intellectus fidei è
espressione dell’auditus fidei e dell’auditus
temporis ma configura la propria origine come
participatio cum Christo in fide[13].
Nella ricerca della veritas infatti è
certamente uno stimolo la curiositas –
termine spesso usato dai Padri della Chiesa[14]
e dagli autori medievali[15]
– la quale però non deve appiattirsi in se stessa perché allora diventerebbe,
come si esprime S. Bernardo, turpis
curiositas[16] ma deve
diventare sanctum desiderium[17]
e questo si realizza solo perché consideriamo «quell’unzione[18]
(ad illam unctionem), che insegna
interiormente (intus docet) ciò che a
parole non possiamo esprimere, (quod loqui
non possumus)». Pertanto «non potendo voi ora vedere questa visione, vostro
impegno sia desiderarla (in desiderio sit)»[19].
La scientia
fidei, in forza del suo oggetto, non è semplicemente un
cogitatio fidei (pensare sistematico
della fede) ma è una sapientia fidei
(comprensione della fede dalla/alla santità). La riflessione sull’esperienza
in/con Dio non può derivare, in prima istanza, se non dall’intensa e vitale
comunione in Dio nella quale il rapporto Creatore/creatura assume tutta la
profondità della «partecipazione della natura divina» (2Pt 1,4) per cui la riflessione credente non appartiene solo alla
ricerca razionale perché «avere un retto giudizio su queste cose mediante una
certa connaturalità appartiene alla sapienza che è un
dono dello Spirito Santo»[20].
La teologia come sapienza cristiana
diventa allora via di accesso alla comprensione
di Dio e dell’uomo partendo da
Dio e dell’esperienza che l’uomo compie
in/con Dio perché «giungerà ad intendere nella maggior misura colui che in
modo più puro si è aperto allo Spirito Santo e si è messo a sua disposizione, il
santo»[21].
Le implicanze sono notevoli perché una teologia
sapienziale non si limita solamente di cogliere alcuni
paradigmi sapienziali, ossia figure, scuole, movimenti, epoche
storiche, in cui questa prospettiva ha assunto una particolare importanza, come
nei Padri e nel monachesimo, ma si tratta di orientare la teologia
sic et simpliciter verso un’ottica
sapienziale.
In questo orizzonte, il
fondamentale approfondimento biblico-patristico – fonte comune della
spiritualità – dovrebbe porre l’esegesi scientifica aperta ad un’ermeneutica
sapienziale.
Occorre una teologia
occidentale che sappia guardare all’Oriente cristiano non come a qualcosa di
esotico ma come
uno stimolo a mantenere l’attenzione ai
Padri come principali interpreti della Rivelazione
del mistero di Dio.
Inoltre bisognerebbe avere una maggiore
consapevolezza a livello epistemologico che la fede nella sua dimensione
soggettiva (fides qua) si pone nello
statuto formale della teologia. In altri termini il teologo
di professione deve, per essere
veramente teologo, non solo pensare la fede ragionando correttamente ma credere
vivendo santamente (è l’agostiniana prospettiva di
credo ut intellegam e
intellego ut credam). Il pensiero credente dev’essere frutto di una ragione
redenta in cui alla riflessione su Cristo
si deve anteporre il credere in Cristo.
Allora la riflessione sarà teo-logica
e non ideo-logica partirà da
Dio e non dalla mia
idea di Dio. Inoltre la formulazione del pensiero, pur nella
rigorosità dell’articolazione delle argomentazioni, dovrebbe essere aperta ad
una espressione simbolica perché la
mente sia sempre spinta a riflettere e non a riposarsi troppo sulla verità che
crede di aver raggiunto perché ha capito un concetto. «Infatti se comprendi non
è Dio» direbbe S. Agostino[22].
Non si ha una radicale opposizione – come in alcuni si immagina (fingitur)
– tra una forma mentis logica occidentale e una
forma mentis simbolica orientale, come ha opportunamente ribadito
l’ultima Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede[23].
Sarà importante inoltre che il
cammino verso la verità avvenga soltanto attraverso un ambito comunitario
nel quale e
dal quale la tensione della comunione
intratrinitaria diventa sorgente di
koinonia ecclesiale. Infatti il fondamento ontologico dell’amore trinitario
pone nell’altro una diversità complementare, un mistero invalicabile che accolto
nella sua identità profonda di un
tu,
permette di leggere la storia come
noi.
Qui si colloca la fondazione teologica di quella deontologia dell’incontro – a
cui abbiamo fatto riferimento precedentemente – nella quale all’altro
deve essere data l’opportunità di definirsi perché resti sempre un
tu non riducibile al mio
io.
A livello di riflessione più propriamente
ecclesiologica si rende necessario non ridurre la prospettiva della
communio alla semplice dimensione
sociologico-orizzontale ma si dovrà coglierla nella sua valenza di
mistero di cui la
communio intratrinitaria è il
fondamento e della quale la ecclesia
partecipa[24].
Infine sull’esempio degli autori medievali monastici
– nei quali per sottolineare il rapporto tra
sapientia, sapere e
sapor si amava giocare con questi
termini[25],
in cui a sapor si richiamava poi la
dulcedo e l’affectus e quindi l’amor –
condurre una riflessione nella quale tutta la persona aderisca nella ricerca
della Verità coinvolgendo quindi anche la sfera affettiva pur non rimanendo
sentimentale ma
spirituale, ossia fondata sacramentalmente in Cristo.
3. Dall’unità della persona in Cristo all’unità dei cristiani
Il Simposio di Monte Oliveto ha mostrato come sia
importante lo studio della storia da cui scorgere il punto di partenza di un
confronto serio e profondo tra il monachesimo latino, greco e protestante,
perché la conoscenza che parte da un analogo vissuto spirituale permette di
sviluppare un dialogo fatto di incontri fraterni, di scambi culturali, di
amorevole ospitalità, in cui si facilitano le reciproche comprensioni,
indispensabili presupposti nel cammino verso l’unità.
L’ambito storico però nell’aprirsi ad un necessario
orizzonte teologico stimola, a nostro avviso, un monachesimo (occidentale)
maggiormente significativo come profezia
in cui è essenziale accogliere con radicalità la propria vocazione di vita
in/con Cristo anche se questa sequela/scelta significasse assumere una posizione
apparentemente marginale nella storia.
È la «sapienza della croce» (1Cor
1,17-31) che deve essere riproposta in tutta la sua ampiezza sacramentale di
morte/risurrezione con Cristo (Rm
6,1-11) e di totale donazione a Dio nella vita (Rm 12,2). Allora realmente il monachesimo diventa
epiclesi invocazione dello Spirito per
l’unità della Chiesa, anzi di più, diventa
epifania manifestazione dello Spirito perché proprio dalla sapienza della
croce si ha «la manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1Cor 2,4). Resta sempre da approfondire tutta l’ampiezza delle parole
del S. Padre nell’esortazione apostolica postsinodale sulla vita consacrata, in
cui proprio riferendosi alla vita monastica in Oriente e in Occidente dopo aver
affermato che uomini e donne si sono posti alla sequela del Verbo incarnato
«vivendo in modo specifico e radicale […] le esigenze derivanti dalla
partecipazione battesimale», proprio per questa sequela radicale, «in questo
modo, facendosi portatori della Croce, si sono impegnati e diventare portatori
dello Spirito, […] capaci di fecondare segretamente la storia con la lode e
l’intercessione continua»[26].
Inoltre una sottolineatura
della profezia significa anche un minor legame alla lettera della storia per una
maggiore apertura del cuore allo Spirito[27].
D’altro lato, proprio la dimensione profetica della
vita monastica (e di tutte le vocazioni), nel suo essere radicata in Cristo,
dovrebbe costituire uno stimolo per la riflessione credente verso una
comprensione sapienziale del mistero di Dio e dell’uomo, in cui vi sia
distinzione ma non
separazione tra ragione e
intelletto, tra
scienza e sapienza[28]
e più ancora tra ragione e fede[29].
Concludendo
Alla luce di quanto detto circa
l’identità storico-profetica del monachesimo, sull’opportunità dell’orizzonte
sapienziale della riflessione credente e infine sulla imprescindibile necessità
della radicale incorporazione a Cristo per realizzare l’unità dei cristiani,
possiamo affermare innanzitutto che solo una storia purificata nella memoria può
essere l’ambito in cui si può generare, nello Spirito, la profezia. Possiamo
inoltre sinteticamente concludere che se la vita monastica saprà abbracciare
come propria identità più profonda l’essere una
nuova umanità (2Cor 5,17;
Gal 6,15) datale
solo da Cristo (Ef 3,15) allora il
monachesimo realizzerà proprio “nella storia” tutta la “sua portata profetica” e
perciò ecumenica tra Oriente e Occidente perché solo in questo modo sarà una
costante
epiclesi/epifania
invocazione/manifestazione dello Spirito
per fecondare segretamente la storia nel «riconciliare tutti e due con Dio
in un solo corpo, per mezzo della croce» di Cristo (Ef 3,16).
Roberto Nardin
Abbazia di Monte Oliveto Maggiore
Note
[1] Cf. S. Benedetto e l’Oriente cristiano. Atti del Simposio tenuto all’abbazia della Novalesa (19-23 maggio 1980), a cura di P. Tamburrino, Novalesa 1981.
[2] Si tratta di Revue de l’Eglise greque-unie, divenuta poi Revue des Eglise d’Orient (1885-1893).
[3] Fonderà la comunità ecumenica dal nome Vita et Pax ispirandosi a Rm 8,6: «i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace».
[4] Peri tes ev Christoi zoes (Vita in Cristo) è anche il titolo della teologia sacramentaria del teologo bizantino Nicolas Cabasilas (PG 150, 493-726; Sources Chétiennes, 355). Per la traduzione italiana di questa opera, cf. La vita in Cristo di Nicolas Cabasilas, a cura di U. Neri, UTET, Torino 1971 ripubblicato in “Fonti cristiane per il terzo millennio”, 11, Città Nuova, Roma 19942.
[5] Il monachesimo è stato definito infatti «un fenomeno mondiale»: J. Leclercq, “Le monachisme comme phénomène mondial”, in Le Supplément 26 (1973) 461-478; 27 (1974) 93-119, tr. it. in Ora et labora 31 (1976) 20-34; 73-82.
[6] Il monaco anche se difficilmente si può definire, tuttavia lo si può descrivere come colui che cerca Dio, infatti «L’espressione quaerere deum, destinata ad una grande fortuna nella posterità spirituale, diventerà anzi una parola chiave della Regola di S. Benedetto (in particolare nel c. 58,7) in corrispondenza all’importanza che l’autore ha annesso ad un simile concetto. […] Tutta la vita monastica è quindi come assorbita e riassunta in simile espressione, divenuta come una formula programmatica di valore universale»: G. Penco, “«Qaerere Deum» dal mondo biblico alla tradizione monastica”, in Ora et labora 38 (1983) 121-132, ripubblicato in G. Penco, Spiritualità monastica. Aspetti e momenti, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia 1988, 160-175, qui 162-163. Cf. anche A. de Vogüé, “«… si revera Deum quaerit»: la ricerca di Dio in S. Benedetto”, in Parola, Spirito e Vita 35 (1997/1) 239-252.
[7] Si tratta della nota conclusione nichilista, cf. M. Heidegger, “La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto»”, in Id., Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, 101-246. Cf. anche C. Magris - W. Kaempfer (edd.), Problemi del nichilismo, Rosenberg & Sellier, Milano 1981; A. Bausola, “Radici culturali della civiltà dell’indifferenza (dall’Illuminismo al nichilismo)”, in Aa. Vv., Indifferenza o impegno? La società contemporanea e i suoi esiti, Vita e Pensiero, Milano 1983, 15-30.
[8] Non dimentichiamo che le soppressioni cominciarono alcuni decenni prima di Napoleone e in contesti cattolici: Repubblica di Venezia, Impero d’Austria.
[9] Lumen gentium, 4.
[10] Cf. A. Scola, “Frammentazione del sapere teologico e unità dell’io. Note di metodo”, in Rassegna di teologia 38 (1997) 581-595; G. Lorizio - S. Muratore (edd.), La frammentazione del sapere teologico, San Paolo Cinisello Balsamo (MI) 1998.
[11] Sulla postmodernità la bibliografia comincia ad essere notevole, segnalo solo la sezione bibliografica curata da A. Sabetta in G. Lorizio, Rivelazione cristiana. Modernità. Post-modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, 185-201.
[12] Si tratta di una riscoperta avvenuta negli ultimi decenni del XX secolo «in cui tutta l’esperienza spirituale del monachesimo rivela ancora una volta la sua vitalità e attualità»: G. Penco, “Profilo storico della spiritualità benedettina”, in Dizionario enciclopedico di spiritualità, I, Studium, Roma 1975, 227-234, ripubblicato in G. Penco., Il monachesimo fra spiritualità e cultura, Jaca Book, Milano 1991, 55-65, qui 65. Generalmente si fa risalire la sua data di nascita al 1953, dallo studio su S. Bernardo di J. Leclercq dal titolo: “S. Bernard et la théologie monastique du XIIe siècle” (in Saint Bernard théologien. Actes du Congrès de Dijon, 15-19 septembre 1953, Ediciones Cistercienses, Roma 1955, 7-23). Questo studio venne ripreso e ampliato nel capitolo “La théologie monastique”, in L’amour des lettres et le désir de Dieu, Cerf, Paris 1957, 179-218 (tr. it. Cultura monastica e desiderio di Dio, Sansoni, Firenze 1983, 247-305. Di fatto è questo libro che diede diffusione al termine). In realtà la primissima comparsa del sintagma teologia monastica si ebbe qualche anno prima come lo stesso Leclercq afferma (cf. J. Leclercq, “Teologia tradizionale e teologia monastica”, in Id., Esperienza spirituale e teologia. Alla scuola dei monaci medievali, Jaca Book, Milano 1990, 27-49, qui 29; J. Leclercq, Di grazia in grazia. Memorie, Jaca Book, Milano 1993, 71) in un suo libro su Pietro il Venerabile (cf. Pierre le Vénérable, Fontenelles, Saint Wandrille 1945; tr. it. Pietro il Venerabile, Jaca Book, Milano 1991. L’espressione “Teologia monastica” si trova a p. 366 dell’edizione francese e a p. 269 dell’edizione italiana).
[13] Così si espresse il S. Padre nel discorso di apertura nell’Anno Accademico 1996/97 della Pontificia Università Lateranense: «[Occorre] riaffermare il primato di Dio, entrando nella controversia sull’humanum, che ha caratterizzato gran parte del XX secolo e su cui il Concilio Vaticano II si è molto soffermato, particolarmente con la Costituzione pastorale Gaudium et spes. Tutto ciò è possibile grazie ad una continua conversione a Cristo, mai disgiunta dallo studio attento della teologia e delle scienze ad essa collegate. Questo domanda a tutti un costante orientamento al mistero divino, alla partecipazione a Cristo e al “pensiero di Cristo”. Come insegna l’apostolo: “Noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). L’esercizio della teologia, infatti non può essere prospettato solo come scientia fidei, bensì e ancor più come participatio cum Christo in fide»: “Messaggio del S. Padre dal Vaticano, 8 novembre 1996”, in Nuntium. Rivista della Pontificia Università Lateranense 9 (1997/1) 11-15, qui 15.
[14] Tra i
numerosi studi in proposito, cf. A.
Labhardt, “Curiositas.
Notes pour l’histoire d’un mot et d’une notion”,
in Museum Helveticum 17 (1960)
206-225.
[15]
Cf. P. Blanchard, “Studiosité
et curiosité. Le vrai savoir d’après S. Thomas”, in
Revue thomiste 53 (1953)
551-562.
[16] S. Bernardo, Super Cantica Canticorum. Sermo 36,3.
[17] S. Agostino, In Ioannis Epistolam. Tractatus 4,6.
[18] Poco prima Agostino considerava l’unzione dono dello Spirito.
[19] S. Agostino, In Ioannis Epistolam. Tractatus 4,6. Sul desiderio in rapporto all’amore e all’azione cf. il significativo studio di L. Melina presentato al Primo Colloquio sullo Statuto della Teologia morale (13-14 novembre 1998) organizzato dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia di Roma e pubblicata: L. Melina, “Amore, desiderio e azione”, in L. Melina - J. Noriega (edd.), Domanda sul bene e domanda su Dio, Pul-Mursia, Roma 1999, 91-108.
[20] «rectum iudicium habere de eis secundum quandam connaturalitatem ad ipsa pertinet ad sapientiam secundum quod donum est Spiritus Sancti» S. Tommaso, Summa Theologiae IIa-IIae, q. 45, a. 2.
[21] H.U. von Balthasar, Verbum caro, tr. it., Morcelliana, Brescia 19702, 27.
[22]
«si enim comprehendis non est Deus» S.
Agostino,
Sermo 117,3,5.
[23] Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede. Dichiarazione Dominus Iesus (05.09.2000), 4.
[24] Il fondamento dell’ecclesiologia di comunione scaturito dal Concilio Vaticano II ha nel Mistero di Dio la sua origine assoluta: non si dà Chiesa come comunione e come missione se antecedentemente (in senso logico e ontologico) non si ha la Chiesa come mistero inteso come presenza operante e salvifica di Dio per il Signore Risorto nello Spirito Santo. Infatti «il senso teologico originario di communio è non “comunione” o “comunità”, ma “comunione partecipazione” (participatio) a Gesù Cristo (1Cor 1,9; 1Gv 1,3.6) e alla sua passione (Fil 3,10), al suo Spirito (2Cor 13,13; Fil 2,1) al suo Evangelo (Fil 1,5) alla sua fede (Fm 6) e al suo servizio (1Cor 8,4). È solo tale partecipazione comune all’unica realtà di Gesù Cristo a dar fondamento alla communio vicendevole (1Gv 1,7)»: M. Semeraro, “La Chiesa comunione”, in Rivista di scienze religiose 4 (1990/2) 347-387, qui 352 [l’autore esplicitamente cita W. Kasper, “Il ruolo soteriologico della Chiesa e i sacramenti della salvezza”, in Euntes docete 41 (1988) 403-404]; J.-M.-R. Tillard, “L’Église de Dieu est une communion”, in Irénikon 53 (1980) 451-468; Id., Chiesa di chiese. L’ecclesiologia di comunione, tr. it., Queriniana, Brescia 1989; E. Scognamiglio, “L’ecclesiologia di comunione nella teologia post-conciliare”, in Miscellanea francescana 98 (1998) 719-790; J. Hamer, “Dix théses sur l’Église comme communion”, in Nova et vetera (1984/3) 162-167.
[25] Tommaso ne farà una critica, cf. Summa Theologiae IIa-IIae, q. 45, a. 2, ad 2um.
[26] Vita consecrata, 6. La riflessione teologica, allora, dovrebbe esplicitare con maggiore profondità il rapporto tra la croce portata per Cristo e il dono dello Spirito Santo, non solo a livello trinitario-cristologico ma anche intrinsecamente antropologico, alla luce del mistero pasquale. Per una prospettiva trinitaria dell’evento pasquale, cf. P. Coda, Evento pasquale. Trinità e storia, Città Nuova, Roma 1984.
[27] Così come nel rapporto lettera/spirito circa l’interpretazione della Regola di S. Benedetto è preferibile Pietro il Venerabile (vicino allo spirito) a Bernardo (vicino alla lettera) come afferma Benedetto Calati, cf. la bella presentazione di Calati fatta dal suo confratello-discepolo Innocenzo Gargano: I. Gargano, “Padre Benedetto Calati: sapienza di un monaco a Camaldoli”, in B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, a cura di A. Ghislaghi - G. Reimondi. Introduzione di I. Gargano, Pontificio Ateneo S. Anselmo, Roma 1994, 15-65, qui 35.
[28] Per Agostino «alla sapienza appartiene la conoscenza intellettiva delle cose eterne (aeternarum rerum cognitio intellectualis), alla scienza la conoscenza razionale delle cose temporali (temporalium rerum cognitio rationalis)»: De Trinitate 12,15,25. «Quando dunque trattiamo della natura dello spirito umano parliamo di una sola realtà (de natura mentis humanae, de una quadam re disserimus): il duplice aspetto che ho distinto è solo in relazione alle due funzioni»: De Trinitate, 12,4,4.
[29] Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio (14 settembre 1998) ha posto bene in rilievo questo «dramma della separazione tra fede e ragione» a partire dal tardo Medio Evo, cf. Fides et Ratio, 45-48,
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net