André Louf
MONACI ED ECUMENISMO
Estratto da: "La vita spirituale" - ed. Qiqajon
Ambivalenza del monachesimo
Per quelli tra voi che hanno tanta o poca familiarità con
la storia, l'accostamento suggerito dal titolo di questa conferenza -
monaci ed ecumenismo - non può
essere scontato. Di frequente, in occasione di scismi e di eresie, vi furono
monaci che si trovarono coinvolti nella mischia, o addirittura al centro di
essa, e non sempre il monachesimo seppe apparire l'elemento catalizzatore verso
l'unità. Da entrambi i lati delle mura di separazione che si sono
progressivamente elevate tra le chiese nel corso dei secoli, si sono visti
monaci che con il loro zelo, pieno di buone intenzioni ma poco efficace, spesso
più vicino al fanatismo che a un vero fervore di carità, ben lungi
dall'avvicinare le chiese hanno contribuito ad allargare il fossato che le
separava. Più in profondità, il monachesimo stesso si è sentito esplicitamente
chiamato in causa da certe controversie. L'oriente come l'occidente monastico
hanno dato luogo ciascuno alla sua eresia, conforme alla sua natura particolare.
Per l'oriente ci furono i messaliani, coloro che avevano la pretesa di non far
altro che pregare, eresia contro la quale parecchi concili si scagliarono
invano, dal momento che per molti secoli ne ricomparvero delle tracce.
L'occidente monastico conosce una sua eresia in senso contrario, quasi nello
stesso momento. Volendo sottolineare l'importanza dello sforzo ascetico, un
monaco bretone, Pelagio, arrivò in pratica a svuotare di contenuto il ruolo
della grazia. Il poderoso e radicale intervento di Agostino, poco apprezzato
dagli ambienti monastici, non riuscì affatto a pacificare questi ultimi, e
parecchie generazioni di monaci-teologi si adoperarono in seguito per precisare
il delicato equilibrio tra la grazia e l'ascesi in termini di cui forse si
ritrova ancora un'eco nella regola di Benedetto, due secoli più tardi.
In altre circostanze, chiese intere cominciarono o finirono
per dichiararsi contrarie alla vita monastica stessa. Una volta scavato il
fossato tra due chiese per motivi completamente diversi, la vita monastica
finiva per essere trascinata nello scisma, e, da una parte e dall'altra, i
monaci arrivavano a non comprendersi più, anche quando parlavano delle cose che
stavano loro più a cuore, come l'esperienza spirituale che, sui due versanti,
essi si sforzavano di vivere.
Un triste esempio tra tanti è la controversia che oppose nel XIV secolo il
monaco greco-calabrese Barlaam, abituato alle sottigliezze scolastiche, ai
discepoli di Gregorio Palamas, circa la natura della luce del Tabor: quella che
avvolge Gesù nel momento in cui si manifesta compiutamente la sua costante
unione con il Padre, quella stessa luce che, in oriente come in occidente, i
monaci vorrebbero predisporsi ad accogliere.
Un altro caso altrettanto triste, più vicino a noi, si trova direi proprio nel
punto di partenza della Riforma, ed è quello del monaco Lutero. Disperando di
uno sforzo ascetico che non gli sembrava abbastanza aperto alle meravigliose
possibilità della grazia, e credendo di portare alle estreme conseguenze le
intuizioni di Agostino, suo padre e maestro, Lutero giunse a mettere in dubbio
la credibilità stessa, alla luce dell'evangelo, di una vita fondata sull'impegno
irreversibile dei voti monastici.
Nei confronti delle separazioni tra le chiese, la vita monastica non gode quindi
di nessuna presunta innocenza. Essa porta la sua parte di responsabilità. Non
può neanche essere un antidoto infallibile o un rimedio miracoloso. Infatti la
vita monastica è anch'essa incessantemente chiamata
a un cammino di conversione alla luce dell'evangelo.
E’ solo avendo ben in mente questa esigenza che ci sarà possibile studiare le
reali possibilità di cui dispone oggi la vita monastica per contribuire allo
sforzo tendente alla riconciliazione tra le chiese.
Dai primi monaci a Benedetto
Per far questo può esser utile risalire brevemente il corso della storia, ancora
più indietro di Benedetto, fino alle origini del monachesimo. Queste erano già
segnate dall'ambivalenza che abbiamo segnalato all'inizio. Nei primi monaci si
può discernere allo stesso tempo una diffidenza quasi viscerale verso tutto
quello che si discosta dalla vera fede, e un atteggiamento di umile amore, porta
aperta all'eventuale miracolo dell'incontro. Se il solitario è famoso per essere
uno che accoglie tutti coloro che si presentano a lui, uno che fraternizza
persino con i banditi della regione, l'eretico che per caso bussasse alla sua
porta la troverebbe chiusa. Certi monaci si rifiutano persino di far visita al
loro padre spirituale, il grande Sisoes, se per raggiungerlo devono attraversare
una regione infestata dagli eretici. Abba Agatone, che si confessa gran
peccatore, accetterebbe qualsiasi rimprovero salvo quello di eterodossia, perché
coloro che non condividono la vera fede, spiega, sono separati da Dio. E tra i
consigli che abba Matoes dà ai suoi discepoli, menziona uno dietro l'altro:
"Non coltivare amicizia con un fanciullo, né conoscenza con una donna, né
avere per amico un eretico".
Una sfumatura più ecumenica si manifesta però nel grande
Poemen, uno dei maestri più antichi e forse il più universalmente rispettato nei
deserti d'Egitto. Il suo eccezionale discernimento rompe anche qui con il rigore
degli altri padri e inaugura la vocazione ecumenica dei monaci. Un giorno un
gruppo di eretici viene a rendergli visita. Questi cominciano a parlar male
dell'arcivescovo di Alessandria: non è forse stato ordinato dai presbiteri della
città? Poemen, saggiamente, non replica nulla, evita la discussione. Ma non
rompe la comunione. Chiama il discepolo e gli ordina di preparare la tavola per
i suoi visitatori: "Falli mangiare - gli dice - e poi rimandali a casa dopo aver
loro augurato la pace". L'espressione è già piena di amore e di speranza
ecumenica: prima parola pacifica, proprio all'alba del monachesimo, che s'ispira
molto da vicino alla lettera dell'evangelo.
Qualche secolo dopo, in piena controversia cristologica, quando punti di vista
complementari si sono irrigiditi in formule teologiche che ormai si escludono a
vicenda e i cui adepti si scomunicano reciprocamente, la stessa mitezza
evangelica compare nel deserto palestinese che, com'è noto, ha sempre conservato
una spiritualità molto vicina alla parola di Dio. Un fratello interroga
Barsanufio, il famoso recluso di Gaza, per sapere cosa rispondere se gli si
chiede di lanciare l'anatema su Nestorio. Anatematizzare un eretico, gli
risponde Barsanufio, non è compito del monaco, specie se, come nel caso di
Nestorio e dei suoi adepti, questi si trovano già sotto l'anatema della chiesa:
"Tu - risponde
Barsanufio - non ti affrettare a gettare l'anatema
su nessuno, giacché chi si giudica peccatore deve piangere i propri peccati
senza preoccuparsi d'altro". Sorprendente
connivenza, e del tutto evangelica, tra il monaco e l'eretico. Peccatore lui
stesso, come potrebbe il monaco arrogarsi il diritto di condannare chi professa
un'eresia, dal momento che sia l'uno che l'altro non hanno altra speranza che la
misericordia di Dio?
Lo stesso fratello insiste però presso il suo padre spirituale: per convincere
di errore l'eretico, non converrebbe entrare in discussione con lui per prendere
le parti della vera fede? Ancora una volta questo
non è, risponde Barsanufio,
salvo eccezioni, il compito del monaco:
"Se tu vuoi veramente venirgli in aiuto, parla nel
tuo cuore a Dio, che conosce le cose nascoste e che può fare più di quanto gli
domandiamo". Sono le prime tracce di una preghiera
per l'unità della chiesa, registrata nel cuore di qualcuno che ha lasciato tutto
per seguire il suo Signore fin nel cuore del deserto; quel deserto che coincide
in qualche punto, misteriosamente, con il cuore della chiesa.
Non abbiamo qui l'intento di proseguire questa ricerca lungo tutta la storia
monastica, ma dal momento che con questa conferenza s'intende celebrare in
particolare il quindicesimo centenario della nascita di Benedetto, ci
soffermeremo un istante sulla sua regola, che, come sapete, è divenuta molto
presto l'unica regola monastica in occidente. Essa costituisce già di per sé un
gesto ecumenico di eccezionale portata perché delinea un volto del monachesimo
occidentale per nulla dissimile da quello dell’oriente.
E’ noto che Benedetto non è il creatore della vita monastica: essa esisteva
prima di lui e si tramandava da parecchie generazioni di padre in figlio. Certo,
quando per la prima volta dei cristiani, in nome dell'evangelo, si separarono
dalla comunità dei credenti per ritirarsi nel deserto e ivi condurre una vita
solitaria, tagliati fuori dai sacramenti, il mondo ecclesiastico inizialmente
non comprese. Fu necessario che grandi vescovi prendessero la parola e la penna
per attestare che un tal genere di vita, per insolito che potesse apparire a
quel tempo, non per questo era meno ispirato dallo Spirito di Dio, e poteva
essere vissuto in piena armonia con la chiesa. Atanasio, tra gli altri, lo fece
a favore di Antonio, nell'Egitto del IV secolo.
Era nata una tradizione. Benedetto, dopo tanti altri, l'accoglieva a sua volta
per trasmetterla a coloro che sarebbero venuti dopo di lui. Dunque non aveva
bisogno di diventare quel che oggi chiameremmo il fondatore di un ordine, e tale
non era certamente il suo proposito. Tutt'al più aveva l'intento di riadattare
alle condizioni particolari dei suoi contemporanei il corpo di insegnamenti e di
usi monastici che aveva ereditato dai suoi padri. Questo corpo non era
appannaggio di nessuno: è un bene comune della chiesa, la cui luce in un primo
tempo ha brillato con intensità particolare in oriente. Arrivato in occidente,
questo corpo non assume un aspetto sostanzialmente diverso: sulle legittime
modifiche prevalgono sempre i tratti comuni, che sono quelli originali.
La preoccupazione di conservare il monachesimo d'occidente vicino alle sue fonti
orientali, ben prima di essere di Benedetto, era stata già di Giovanni Cassiano,
al quale Benedetto ama fare riferimento. È quasi un'idea fissa in Cassiano.
Inquieto per i segni di decadenza che, nel V secolo, il monachesimo nel sud
della Gallia offriva ai suoi occhi, egli intraprende un lungo viaggio, un vero e
proprio pellegrinaggio alle fonti monastiche d'Egitto e di Terra Santa. Più
tardi, scrivendo le Istituzioni cenobitiche
e le Conferenze,
Cassiano vorrà ricordare ai giovani abati di Gallia
qual è la grazia comune a ogni vita monastica, e come essa debba ispirare anche
la riforma che egli intende promuovere tra di loro.
Infatti, questa grazia monastica si esprime in un corpo di insegnamenti e di
usanze che, come suppone con un po' di audacia Cassiano, risalirebbe all'età
degli apostoli. Egli assegna a questo corpo un nome sorprendente e magnifico:
Regula catholica,
la Regola cattolica, nel senso antico della parola, cioè
universale e veramente ecumenica. Voi ricorderete il significato che Cipriano
attribuisce a questa parola, quando dice della chiesa che essa è allo stesso
tempo una e universale: Ecclesia quae, catholica,
una est. Perciò, a immagine della chiesa, oseremmo
dire, anche la vita monastica è una, cioè è ovunque la stessa, suscitata dallo
stesso Spirito, orientata verso una medesima ricerca. In modo tale che essa è
anche universale e, in tutte le chiese, qualunque forma assuma, perfettamente
riconoscibile, nel contempo criterio d'unità tra le chiese e segno, tra altri,
di quella ricca varietà che, a partire dalla diversità complementare dei popoli,
tesse la veste multicolore della sposa di Cristo, cioè della chiesa.
Benedetto si colloca senza possibilità d'equivoco al cuore
di questa tradizione, nel contempo una e universale. Non soltanto egli fa
esplicitamente appello a Giovanni Cassiano e agli apoftegmi dei padri ma, a due
riprese, e in modo piuttosto solenne, rimanda esplicitamente i suoi monaci a
quelli che egli saluta come i patres catholici et
orthodoxi, i padri
cattolici e ortodossi. Questi due aggettivi all'epoca non si opponevano
minimamente, ma designavano, com'è noto, due criteri correlativi che si devono
constatare in ogni teologo e in ogni spirituale: ortodosso, cioè che condivide
la vera fede; cattolico, cioè riconosciuto come tale dall'insieme delle chiese.
Basta citare la conclusione della regola di Benedetto per vedere come, avendo
appena portato a termine quella che egli chiama con modestia "questa minima
regola per principianti", egli stesso si faccia da parte davanti alla grande
tradizione che presenta ai suoi discepoli. E Benedetto che parla:
"Per chi si affretta verso il culmine della vita di
conversione, ci sono gli insegnamenti dei santi padri, la cui osservanza può
condurre l'uomo all'altezza della perfezione".
Doctrinae sanctorum patrum.
Chi sono questi santi padri? Benedetto precisa la loro identità. Sono di tre
tipi.
1) I santi padri sono innanzi tutto la parola di Dio stessa
con tutti coloro che essa sceglie come ministri: "Quale pagina, infatti -
continua Benedetto -, o quale parola di divina autorità dell'Antico e del Nuovo
Testamento non è rettissima norma di vita umana?”.
2) I santi padri sono poi i padri eminenti per la santità
della loro dottrina. Cito ancora Benedetto: "Quale libro dei santi padri
cattolici non risuona in modo tale che per una via diritta non giungiamo al
nostro Creatore?"
3) I santi padri infine, in senso più ristretto, perché si
tratta ora della vita monastica, sono i padri della tradizione monastica
ininterrotta dalle origini della chiesa. Scrive ancora Benedetto:
E Benedetto aggiunge un'ultima confessione che lo caratterizza in pieno: "Per
noi invece, che siamo pigri, viviamo male e siamo negligenti, c'è il rossore
della vergogna".
Questa gloriosa tradizione non è proprietà personale di Benedetto. Lo sorpassa
da ogni parte. Al cuore di essa Benedetto si colloca umilmente, erede di una
grazia che gli brucia le labbra. Per trasmetterla ad altri, egli fa più
affidamento sulla forza di Dio che sulla propria debolezza e su quella dei
fratelli ai quali si rivolge.
Un fermento naturale di unità tra le chiese
Non sembra, come abbiamo visto, che Benedetto abbia avuto
personalmente a che fare con uno scisma tra chiese. Il suo monachesimo è
pacificamente ecumenico. Quando le chiese sono unite, anche se nel corso dei
secoli si sono diversificate in qualche aspetto per motivi legittimi, possono
trovare nella cattolicità della vita monastica un fermento naturale d'unità.
Attraverso di essa, di chiesa in chiesa, i credenti si riconoscono nell'identità
di una medesima grazia. La vita monastica può così rivestire un carattere
ecumenico eccezionale. In un certo senso, che dovrebbe essere precisato
ulteriormente, spetta in modo particolare ai monaci, in seno al popolo di Dio,
attestare l'unità di tutte le chiese.
Purtroppo molto spesso, come abbiamo visto, è avvenuto, al contrario, che i
monaci ne annunciassero la rottura. Cosa succede allora? Una volta che le chiese
siano effettivamente separate, i monaci vengono quasi fatalmente trascinati
nello scisma facendo corpo con la chiesa alla quale appartengono al momento in
cui si crea la frattura. In certi casi possono arrivare a identificarsi con lo
scisma, e divenirne i difensori più fanatici. Malgrado tutto però, ovunque sia,
il monaco resta segnato dall'impronta dell'unità e dell'ecumenismo. Egli ha
ricevuto una certa esperienza e un gusto di Dio che vanno molto al di là delle
formule che cercano di circoscriverlo. Possiede quindi, attraverso la preghiera,
un senso della comunione universale in Cristo che supera le frontiere visibili
delle chiese, quali si sono assestate dopo gli scossoni dei grandi scismi. Egli
sente in modo confuso che deve esistere in ecclesiologia un qualche luogo ancora
indefinito, fino al quale le barriere della separazione non sono riuscite a
penetrare, e dove già vacillano quelle mura delle quali il metropolita Platone
di Kiev disse un giorno che non s'innalzano certo fino al cielo.
Anche quando è indotto a tener conto dell'inevitabile lentezza ecumenica delle
chiese, il monaco, per la grazia che ha ricevuto, porta in sé un appello
lancinante all'unità totale di tutti coloro che seguono lo stesso Signore.
Quest'unità, egli la possiede da qualche parte in se stesso. Gli è donata in
quello che Thomas Merton ha chiamato il "punto vergine" che si trova in ogni
uomo. L'invisibile così racchiuso nel suo cuore gli consente di intuire una
pienezza che gli scismi all'esterno non hanno scalfito, un punto di chiesa
indivisa che non è mai stato violato, a partire dal quale, se potessimo
ritrovarci in esso tutti insieme, non foss'altro che per un istante, ci
diverrebbe infinitamente più facile accogliere il dono dell'unità visibile che
il Signore è sempre pronto ad accordare alla sua chiesa.
Il monaco e i fratelli cristiani d'oriente e d'occidente
È possibile ora delineare più concretamente il ruolo che i
monaci possono giocare nell'ecumenismo? Se il monaco cattolico si volge dapprima
ai suoi fratelli d'oriente, la risposta sembra relativamente evidente. Già a
fine ottocento papa Leone XIII aveva intuito l'importanza di preparare il
monachesimo benedettino a un incontro con li monachesimo orientale. Come ci ha
ricordato il reverendo Roger Greenacre, sembra che sia stato proprio questo uno
degli obiettivi principali che s'intendeva perseguire con la creazione del
collegio Sant'Anselmo a Roma: formare monaci occidentali che potessero, con
simpatia e capacità di comprensione, entrare in contatto con le chiese
d'oriente. L'idea del pontefice, è vero, ebbe all'epoca poca risonanza. Verrà
ripresa, più di un quarto di secolo dopo, dalla lettera apostolica
Equidem verba, che Pio XI
indirizza all'abate primate dei benedettini il 21 marzo 1924, festa di san
Benedetto, per incoraggiare nuovamente i monaci latini a prepararsi, proprio in
nome della loro vocazione, a un apostolato ecumenico più incisivo. In questa
lettera il papa insiste lungamente sui legami naturali che esistono tra i due
monachesimi. L'ordine monastico ha visto la luce in oriente. Per di più
Benedetto, che è il padre dei monaci in occidente, è ancora venerato come tale
anche dalle chiese d'oriente, perché lo straordinario sviluppo del monachesimo
occidentale durante l'alto medioevo ebbe luogo prima che le due chiese fossero
separate da uno scisma. L'Ordine benedettino - continua il papa - ha conservato
sino a oggi le tradizioni dei santi padri e il loro zelo per la santa liturgia e
per gli elementi fondamentali del monachesimo antico.
All'epoca, nella mentalità inevitabilmente unionista, qual era quella
dell'ecumenismo cattolico nascente, l'appello lanciato in direzione delle
schiere dei monaci d'occidente non poteva non assumere accenti quasi da
crociata. La vita monastica rischiava di uscirne trasformata in una tattica
unionista, forse solo più efficace delle altre. Vi era chi sperava che le chiese
orientali, impressionate dal fervore monastico della chiesa di Roma, avrebbero
avuto meno riserve a riunirsi con essa.
Di fatto, dopo l'uscita della lettera apostolica di Pio XI, i monaci non hanno
mai giocato il loro ruolo in tale prospettiva. Padre Lambert Beauduin, il
discreto ispiratore del documento pontificio, colui che avrebbe realizzato in
parte il desiderio di Pio XI, vegliava affinché non fosse così. Il malinteso che
ne derivò tra lui e certi ambienti romani contribuì notevolmente a farlo cadere
in disgrazia per venti lunghi anni. Ma la posta in gioco era importante, e la
questione che allora si poneva si ricollega alla nostra di questa sera: qual è
la pertinenza ecumenica del monachesimo? E possibile servirsene per facilitare
il ritorno di una chiesa all'altra, come l'occidente poteva desiderare per
l'oriente, o l'oriente per l'occidente? O al contrario bisognerebbe, a partire
da una comunione sperimentata insieme il più profondamente possibile, cercare di
aprire una via del tutto nuova, fatta di incontri e di scambi?
Prima di rispondere a questa domanda, volgiamoci ora qualche istante alle chiese
nate dalla Riforma. Un'intesa tra queste ultime e l'antico monachesimo non è
immediatamente evidente: è il meno che si possa dire, e suppongo che più di uno
tra voi troverà paradossale anche solo l'enunciato di questa possibilità.
Eppure, benché nata dall'esperienza personale molto negativa che Lutero aveva
fatto della vita monastica, la Riforma non ha mai smesso d'interrogarsi su
quest'ultima. Molte volte dei teologi protestanti, ancora recentemente, hanno
percepito che la vita monastica in qualche modo interpella la Riforma, con
l'intima speranza peraltro che, anche da parte loro, i monaci si sentano
interpellati da alcune questioni che pone loro la Riforma.
Permettetemi di citare qui la valutazione di un famoso storico metodista, Gordon
Rupp, in una conferenza tenuta a Coventry nel 1967:
"La
Riforma protestante ha notevolmente contribuito alla costituzione dell'Europa, e
generalmente si ritiene che questo abbia comportato una flessione di quel che si
potrebbe chiamare lo spirito benedettino. Ammettiamo pure che sia così.
Nondimeno, nonostante alcune critiche dure e inesorabili rivolte al monachesimo,
le priorità che Lutero si era stabilito - Dio, la sua coscienza e la comunione
dei santi - sono state anche quelle di Benedetto. Martin Lutero si recò alla
Dieta di Worms per lo stesso motivo che spinse Benedetto a Subiaco: perché la
sua coscienza era vincolata dalla parola di Dio. Con l'aiuto di Dio restò in
quel luogo, perché non poteva agire altrimenti. E l'emblema della Riforma
protestante è sempre rimasto quello di un monaco che lotta nella preghiera,
chino sulla sua Bibbia, con l'inconscio brulicante d'immagini e di parole della
Scrittura, anzitutto quelle del Salterio".
Questo emblema che Gordon Rupp rivendica per la Riforma,
potrebbe essere anche quello della vita monastica interamente consacrata alla
parola di Dio nella lectio,
nella lode e nella preghiera. Sia da una parte che
dall'altra si rimane colpiti da un eguale bisogno di conversione e di riforma.
D'altronde nessun concetto riassume più adeguatamente lo svolgimento della
storia monastica di quello di riforma.
Questa storia è stata una lunga successione di riforme,
ognuna delle quali ha tentato di ricollocare l'esperienza monastica pienamente
nella luce della parola di Dio. Di riforma in riforma, d'aggiornamento in
aggiornamento, la vita monastica cerca di esplicitare a poco a poco tutte le
ricchezze della grazia che il Signore, attraverso di essa, ha affidato alla sua
chiesa. La vita monastica ha bisogno di riforma per essere fedele a se stessa: è
una legge della sua dinamica costitutiva. A ogni epoca, essa necessita di una
riforma per mantenere un filo diretto con l'evangelo. E qui si pone la
questione: Lutero avrebbe potuto diventare il riformatore che la vita monastica
del suo tempo attendeva? La sua strada fu diversa da questa, ma le rimase
vicina. In una penetrante analisi della straziante lotta interiore che portò
Lutero a rinunciare alla vita monastica, Dietrich Bonhoeffer ha scritto:
"In
questo naufragio dell'ultima possibilità di condurre una vita di profonda
devozione a Dio, Lutero afferrò la grazia. Nel crollo del mondo monastico egli
riconobbe la mano salvifica di Dio tesa in Gesù Cristo. Egli l'afferrò convinto
nella sua fede che “tutte le nostre opere sono inutili, anche nella migliore
delle vite”.
Oserei aggiungere: l'esperienza del monaco è dunque tanto
diversa da quella di Lutero, a parte forse il fatto che la mano salvifica della
grazia lo tocca e lo rialza proprio all'interno della sua vocazione?
D'altronde quello è un momento fondamentale della sua esperienza. Una certa
immagine della vita monastica, immagine pagana tutto sommato, che fa appello
alla sua abnegazione naturale, di punto in bianco non regge più. Come per
Lutero, viene un momento in cui il monaco non può più fidarsi delle proprie
forze, radicalmente insufficienti a mantenerlo saldo nel suo proposito
monastico. Egli si trova ridotto alla propria debolezza che, accettata
gioiosamente, a poco a poco fa nascere la vera umiltà. È alla mercé della
misericordia di Dio che lo ha raggiunto in quel punto di povertà in cui tutte le
sue energie naturali si sono esaurite. La mano salvifica della grazia può da
quel momento agire liberamente, e la vita monastica, ammesso che essa sia
possibile a un credente, diventa ora l'unica cosa che può davvero essere: un
miracolo della Parola e della Grazia in un credente ridotto alla sua miseria ma
- e qui cito non più Lutero ma santa Teresa di Lisieux - "che confida fino alla
follia nella misericordia di Dio". Benedetto ha riconosciuto il ritratto ideale
del monaco nell'immagine del pubblicano dell'evangelo, colui che, cosciente del
proprio peccato, non osa più levare gli occhi al cielo, ma senza sosta ripete
nel suo cuore: "Signore, abbi pietà di me, peccatore". E’ un capolavoro di
pentimento, di dolcezza, di amore autentico, umile e universale.
La Riforma non ha smesso di ricordare questa priorità assoluta della grazia, ma
senza che si arrivasse mai, se non di recente, a una ricomparsa della vita
monastica. Ci si può chiedere tuttavia se la grazia evangelica della Riforma non
costituisca una variante particolare della grazia monastica stessa, in una forma
molto spoglia e completamente interiore. Del resto periodicamente all'interno
del protestantesimo i revival sono arrivati molto vicino alla vita monastica, e
di alcuni movimenti si è potuto dire che erano movimenti monastici in nuce. John
Wesley stesso non ha forse confessato che, se non fosse stato l'iniziatore del
movimento metodista, non avrebbe potuto finire i suoi giorni altrimenti che come
abate di un monastero benedettino?
Scrive Karl Barth:
"Si possono nutrire ed esprimere molte serie obiezioni contro la teoria e la
pratica antiche e nuove del monachesimo orientale e occidentale; ma queste
obiezioni non toccano la volontà e l'intenzione che si trovano dietro tutto
questo ... Anche solo per il fatto che i monaci sembrano aver saputo almeno
qualcosa di quel che noi crediamo di sapere meglio di loro! Ma, inoltre, è
perché sanno altro, che dovrebbe darci da riflettere".
La vita monastica e la Riforma, nelle loro intuizioni fondamentali, sono
probabilmente più vicine l'una all'altra di quanto non sembri; in ogni modo,
sembrano aver bisogno l'una dell'altra. E’ la conclusione alla quale arrivava,
già una decina d'anni fa, un teologo della Chiesa d'Inghilterra, il canonico
Donald Allchin, che scriveva:
"Solo
quando la dottrina della giustificazione per la fede viene collocata nella
grande corrente della tradizione cattolica della vita sacramentale o monastica,
non per distruggerla ma per renderla più libera, solo allora tale tradizione può
liberamente espandersi come espressione dell'evangelo. Ma d'altro canto, solo
quando questa dottrina viene situata nel contesto a cui appartiene, liberata
dagli elementi mortiferi che porta in sé nella formulazione che ne ha fatto la
Riforma, essa può essere di nuovo veramente compresa e vissuta come espressione
autentica dell'evangelo".
Tale riflessione apre un largo orizzonte di scambi e di comunione tra la grazia
della vita monastica e quella della Riforma protestante. Come non sperare in
quella Parola che entrambe devono consegnarsi oggi reciprocamente, e che, se
fosse ben accolta, avvicinerebbe considerevolmente le nostre due confessioni?
L'intercomunione del cuore
Ho appena pronunciato due parole chiave: scambi e
comunione. Esse possono caratterizzare la forma precisa nella quale dei monaci
per la maggior parte del tempo si trovano, senza rendersene conto, ad essere
coinvolti nel processo ecumenico. Altro, con ogni probabilità, è il compito del
teologo, che sottomette a critica le formulazioni teologiche usate nello
scambio; altro ancora quello del responsabile di chiesa, che discerne i segni
dai quali prevede l'approssimarsi del momento dell'unione; altro infine il
compito dei monaci che, alla base e nel cuore della chiesa, impegnati in una
totale docilità alla parola di Dio e al suo Spirito, sono talora in grado di
riconoscere coloro che lo stesso Spirito guida per strade provvisoriamente
parallele, ma che tenderebbero già a convergere l'una verso l'altra.
Vi è qui lo spazio per un'autentica intercomunione di natura spirituale -
pneumatica - tra fratelli, ancora separati dalle strutture ecclesiali alle quali
appartengono, tra le quali, però, spesso può manifestarsi la scintilla dello
Spirito. Il fatto che una tale esperienza di comunione sia possibile ci fa
toccare con mano una realtà fondamentale alla quale abbiamo già fatto allusione:
quella della persistenza, al di là e al di sotto delle separazioni visibili in
superficie, di una sola chiesa ancora realmente indivisa e probabilmente mai
separata. Un solo Signore, un solo corpo, un solo battesimo, un unico Spirito:
tutti noi crediamo che questo mistero d'unità non sia venuto meno oggi e che le
nostre chiese, malgrado le apparenze, vi partecipino tutte in qualche modo. Ci è
più difficile discernere i luoghi concreti in cui questo mistero di unità si
tramanda e talora viene alla luce. Indubbiamente, da qualunque parte si trovi,
la santità costituisce uno di questi luoghi privilegiati, il cui irradiamento
ecumenico è incomparabile. Per riprendere le parole del metropolita Eulogio:
"Uomini come san Serafino, san Francesco d'Assisi e molti altri hanno realizzato
nella loro vita l'unione fra le chiese".
L'istituzione monastica e la vita secondo l'evangelo possono diventare un altro
luogo in cui la chiesa indivisa si rende già da ora visibile. La comunione nella
docilità allo stesso Spirito non può ingannare: tale esperienza è fondamentale.
A partire da essa si delineeranno delle strade per affrontare gli aspetti più
delicati della controversia, ma nelle quali le opposizioni teologiche appaiano
ormai meno irriducibili e possano portare a un approfondimento della grazia
specifica di ciascuno. L'occidente è chiamato in questa esperienza a ritrovare
il suo oriente, e l'oriente il suo occidente. I due insieme sono plasmati senza
sosta dal fermento della Riforma evangelica. Tale cammino, che parte da una
certa esperienza della chiesa indivisa, può sembrare il contrario di quello che
l'ecumenismo ufficiale ha l'abitudine di percorrere: attaccarsi frontalmente nei
punti divergenti con la speranza di ridurli a poco a poco fino a ritrovare la
comunione. La via dell'ecumenismo spirituale ha il privilegio di partire da una
comunione per così dire antecedente, già chiaramente sperimentata, ma della
quale restano ancora da esplorare tutte le conseguenze. Partendo da una simile
esperienza, l'operaio dell'ecumenismo possiede dall'inizio un criterio di
discernimento che gli permetterà di procedere speditamente, con audacia, ma in
una perfetta fedeltà allo Spirito santo. Non è mai stato scontato che il dialogo
ecumenico dovesse procedere anzitutto seguendo la via delle chiarificazioni
razionali successive, sempre più convincenti. L'esperienza attesta invece il
contrario. Questo dialogo segue da vicino la vita e da essa procede. Esso avanza
piuttosto per successivi slittamenti di terreno, che giungono a modificare
improvvisamente il paesaggio teologico o ecclesiastico per far apparire nuove
configurazioni del territorio che nessuno avrebbe osato prevedere. Questi
slittamenti di terreno alle superfici della chiesa sono provocati, senza alcun
dubbio, da un nuovo equilibrio sotterraneo, cioè, sempre, da un accrescimento di
santità e di amore.
Quando il cammino ecumenico emerge in questo modo dall’interno, assume più
facilmente i tratti di quello che potremmo chiamare un inesorabile progresso
verso l'unità, di cui la storia recente ci ha lasciato illustri esempi, tra i
più alti responsabili delle nostre chiese. E perché no? A coloro che sono
realmente guidati dallo Spirito di Dio, sfuggono dei gesti nella più totale
sorpresa reciproca, non foss’altro come attestazione che è proprio Dio in
persona a edificare e riunificare la sua chiesa.
E’ in questo modo che i monaci restano aperti e disponibili alla grazia
ecumenica che forgia le chiese. Il loro contributo non è spettacolare, ma
vorrebbe porsi alle sorgenti della chiesa, cioè nel più profondo dei loro cuori.
Uno dei monaci più celebri di questo secolo, Thomas Merton, ha meravigliosamente
intuito questo mistero, e probabilmente lo ha vissuto nel segreto della sua
solitudine. E vorrei terminare proprio con le sue parole:
“Se io riporto all'unità dentro di me il pensiero e la
devozione dei cristiani d'oriente e d'occidente, dei padri greci e di quelli
latini, dei mistici russi e di quelli spagnoli, io preparo nella mia anima la
riunificazione dei cristiani separati. Da questa segreta e inespressa unità che
è in me può finalmente scaturire un unità visibile e manifesta di tutti i
fratelli divisi. Se vogliamo riunire ciò che è diviso, non è imponendo una delle
parti divise all'altra, o facendone assorbire l'una dall'altra che riusciremo;
in questo modo otterremmo non un'unione cristiana, ma un'unione politica,
condannata ad altri conflitti. Noi dobbiamo inglobare in noi tutti i mondi
separati e trascenderli in Cristo”.
Conferenza tenuta a Parigi l’11 giugno 1980, nel quadro delle celebrazioni per il
quindicesimo centenario della nascita di san Benedetto, nella chiesa anglicana
di San Giorgio, al termine dell'Assemblea generale dell'Associazione per l'unità
dei cristiani. Pubblicata in Collectanea Cisterciensia 3 (1982), pp.
169-182
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net