Enzo Bianchi -
Priore della Comunità
monastica di Bose
Ecumenismo: profezia della vita religiosa
Prima
conferenza annuale in onore di Padre Paolo Wattson e Madre Lurana White
fondatori
della Congregazione Francescana dell’Atonement
Trentennale
della morte di Thomas Merton e Karl Barth
Quando, in vista di
questa relazione, ho iniziato la ricerca e la meditazione sul rapporto tra
vita religiosa ed ecumenismo ho subito percepito la novità
del tema. Cent’anni or sono, quando padre Paul Wattson e madre Lurana White
davano inizio a una forma vitae segnata dall’ansia ecumenica, si
sarebbero potute raccogliere solo rarissime testimonianze di riconciliazione
e di unità
da parte della vita religiosa in seno alla chiesa.
Da circa un secolo non solo l’ecumenismo
è apparso come via possibile di
comunicazione tra le chiese ed
è stato accolto dalla vita religiosa
come un segno dei tempi, ma la vita religiosa, soprattutto quando ha assunto
forme inedite attraverso nuove fondazioni, ha sentito l’ecumenismo non come
un’opzione possibile tra le tante, ma come istanza con la quale si
è intrecciata in modo radicale e
indissolubile, a tal punto che, in molti dei suoi protagonisti, sarebbe
difficile fare distinzioni tra testimonianza di vita religiosa e di
ecumenismo.
Il titolo della mia relazione indica l’ecumenismo come “profezia
della vita religiosa”, ma certamente non vuole significare che l’ecumenismo
sia la sola valenza profetica possibile della vita religiosa, né
tanto meno vuole leggere questa vita, così
com’è
vissuta realisticamente e quotidianamente, come vita profetica. Non voglio
pormi nel novero di quei religiosi che parlano sovente con entusiasmo della
qualità
profetica della loro vita per sentirsi investiti di un ruolo, per
attribuirsi di diritto un’identità
che invece può
derivare solo dall’autenticità
del loro essere e del loro vissuto quotidiano. Per questo, pur convinto che
la vita religiosa
è chiamata a essere profetica,
nell’itinerario che vi propongo vorrei evidenziare anche le contraddizioni,
le inadeguatezze che vanno assunte come peccati, anche se sovente peccati
inconsapevoli, come tradimenti di quel Vangelo che si
è scelto come “guida”: per ducatum
Evangelii1,
affermava Benedetto, e gli fa eco il documento del Vaticano II sulla vita
religiosa: “essendo norma fondamentale della vita religiosa il seguire
Cristo come viene insegnato dal Vangelo, questa norma deve essere
considerata … come regola suprema”2.
Ritengo e spero di non essere facile alle mode e dunque non voglio
entrare nel coro di quelli che ricercano quasi per vezzo le colpe antiche
ma, semplicemente come amante della verità,
devo acconsentire alla lettura della vita religiosa del passato, soprattutto
del monachesimo, come vita segnata da contraddizioni gravissime allo spirito
di comunione e di riconciliazione. La vita religiosa si
è trovata sovente compromessa nella
mischia, nelle battaglie degli scismi e delle eresie e, in nome della verità,
per servire la pretesa verità
cristiana, ha usato anche le armi della violenza, della persecuzione
dell’altro, del disprezzo e della negazione della diversità.
Senza la vicenda monastica la storia delle divisioni non sarebbe
intelligibile e ancora oggi sono sovente i monaci a opporsi a tentativi di
riunificazione o riconciliazione. Si potrà
dire che quelli erano altri tempi, che tutte le chiese erano coinvolte in
atti e comportamenti che noi oggi capiamo come contraddicenti il Vangelo, ma
io credo che una lucida confessione sia necessaria, a partire da questo
interrogativo fondamentale: qual era quella “verità”
cristiana – o quella concezione di verità
– che accettava di lasciarsi servire dalla violenza? Quanto avvenne va letto
come una ferita inferta al “veritatem facere in caritate” di Ef 4, 15, al
rendere ragione della speranza che abita il cristiano con franchezza, con
dolcezza e con rispetto verso tutti, con retta coscienza, come dice
l’apostolo Pietro (1Pt 3, 15-16) alle comunità
cristiane in diaspora nel mondo.
Già
al fiorire del monachesimo nel IV secolo, il grande padre con cuore
ecumenico, Basilio il Cappadoce, evitava il termine “monaco” non solo perché
lo sentiva come una possibile ferita all’unità
del pleroma ecclesiale, ma anche perché
quel termine indicava asceti con atteggiamenti di intolleranza e di
violenza, uomini più
fanatici che zelanti, che facevano opera più
di divisione e di disprezzo dell’altro differente che non di koinônia.
Ma ancora oggi, sarebbe inutile tacerlo, ci sono ambienti monastici
che resistono all’ecumenismo, soprattutto nell’oriente cristiano. La
certezza di essere la vera chiesa toglie il desiderio di poter ricevere
qualche dono dalle altre tradizioni cristiane e coltiva una diffidenza verso
ogni tipo di incontro, di confronto, di dialogo e di possibile cammino verso
l’unità.
Certamente occorre comprensione perché
si possono dare diverse spiegazioni a questa diffidenza che a volte giunge
anche ad atteggiamenti di aperta ostilità
verso l’ecumenismo. Durante i settant’anni della cattività
comunista l’attività
ecumenica delle chiese dell’est era uno strumento usato dal potere statale
che si serviva del dialogo tra cristiani sulla pace per un’operazione di
propaganda e di immagine ad uso esterno: in certi ambienti quindi
“ecumenismo”
è oggi un termine infangato, carico
di significati ambigui. Inoltre i cristiani di quelle chiese, nel riscoprire
oggi le proprie radici, subiscono la tentazione di riaffermare un’identità
del passato, sovente etnica e confessionale nel contempo, un’identità
“contro”; di conseguenza finiscono per sentire l’ecumenismo come modernità
portatrice di sincretismo, come un prodotto dell’occidente che invade le
loro terre. E tuttavia a questi monaci – sovente infatti, come in Georgia e
i Grecia, sono i monaci i protagonisti di questa ostilità
verso l’ecumenismo – va ricordato, pur comprendendo le loro ragioni, che
un’attitudine difensiva e negativa verso l’altro fratello nella fede
contraddice l’agape, il grande e nuovo comandamento lasciatoci dall’unico
Signore.
Per quel che riguarda la vita religiosa in occidente un’opposizione
netta e chiara all’ecumenismo
è rara, patrimonio solo di poche
comunità
legate al cattolicesimo post-tridentino assunto come “norma immutabile”, le
quali temono l’ecumenismo vedendo in esso un irenismo che minaccia
l’integrità
del dogma cattolico. Tuttavia dobbiamo confessare che molte comunità
religiose semplicemente ignorano questa via di riconciliazione, la
considerano un optional, un carisma specifico, proprio delle comunità
ecumeniche, e comunque progettano la loro forma vitae senza tener
conto delle altre confessioni sia nella vita spirituale, sia, soprattutto,
nella loro missione e nella loro presenza. Si pensi a quante congregazioni
religiose, dopo la caduta della cortina di ferro, hanno trovato naturale
lanciarsi in iniziative in territori in cui non erano presenti fedeli
cattolici bensì
chiese ortodosse sorelle: questa loro presenza, caratterizzata da
efficienza, organizzazione, mezzi economici consistenti, appoggi
sovranazionali, nei fatti non si sottrae all’accusa di proselitismo.
Ma se questa
è una confessione doverosa per non
leggere in modo idilliaco il rapporto tra ecumenismo e vita religiosa,
occorre ora mettere in evidenza ciò
che noi oggi – grazie al Vangelo che comprendiamo meglio di ieri e grazie
alla storia in cui Dio continua a operare – riusciamo a comprendere della
vita religiosa come luogo ecumenico o di ecumenismo....
Una premessa
è necessaria: la vita religiosa, e in
particolare il monachesimo, costituisce un fenomeno umano prima ancora
che cristiano. Presente in tutte le grandi religioni, anche in quelle come
l’islam che hanno cercato di negarlo di fatto, si nutre di un’antropologia
propria: il celibato, la vita comunitaria o la solitudine, la ricerca
dell’assoluto, l’ascesi nelle differenti forme sono tutti elementi di una vita
così
segnata nella carne, nel corpo, in tutta la persona, che di fatto inducono alla
consapevolezza di una somiglianza, di una “monotropia” tra quelli che li vivono
pur in contesti religiosi differenti. Non a caso Thomas Merton poteva dire di
sentirsi più
vicino a un monaco buddista che a un ecclesiastico dell’apparato cattolico...
Proprio per questo il dialogo interreligioso
è praticato soprattutto nei monasteri e a
partire dalla seconda metà
degli anni sessanta (è
del 1968 il convegno monastico interreligioso di Bangkok nel corso del quale
Merton trovò
la morte proprio in questo 10 dicembre) cresce e si intensifica in modo poco
appariscente ma reale, soprattutto attraverso la pratica cortese dell’alterità
e degli scambi reciproci di soste in monasteri e di condivisione della vita
quotidiana. Non
è forse anche per questa ragione
antropologica che il monachesimo e la vita religiosa sono restati a lungo
presenti nelle chiese della Riforma nonostante l’avversione dei riformatori,
fino a riapparire – timidamente nel secolo scorso e con sempre più
forza in questo – come forma vitae avente pieno diritto di esistenza e a
raggiungere un irradiamento sorprendente?
a) Limitando tuttavia il nostro esame alla vita religiosa presente nelle
diverse chiese d’oriente e d’occidente, le ragioni che la fanno luogo ecumenico
sono diverse e non possono essere eluse, pena il tradimento del Vangelo, regola
ultima e ispiratrice della vita religiosa.
Innanzitutto la vita religiosa – e in particolare la sua forma più
antica, il monachesimo – risale a monte delle divisioni della chiesa: le
sue radici si trovano addirittura nella ecclesia ex judaeis, presente in
Siria come erede diretta delle comunità
giudeo-cristiane neotestamentarie.
È infatti in seno all’unica chiesa nel
III e IV secolo che la vita religiosa
è nata e ha assunto quei tratti
essenziali e definitivi che la costituiscono. Di conseguenza nella vita
religiosa restano come impressi indelebilmente i caratteri della chiesa
indivisa: sovente caratteri liturgici e teologico-patristici, ma anche
ecclesiologici. Come dimenticare, per esempio, che la testimonianza carismatica
della vita religiosa nei tempi della chiesa indivisa era inserita nella koinônia
della chiesa locale, il cui cuore era l’eucarestia presieduta dal vescovo? E
come dimenticare che la vita monastica era vita di semplici battezzati,
nient’altro che una diaconia tra le diverse presenti in una chiesa, una
diaconia i cui membri si professavano impegnati semplicemente a vivere e
sviluppare la vocazione battesimale, senza bisogno di definirsi “consacrati” né
di vantare una specificità
che non può
aggiungere nulla al battesimo e che rischia di offuscare l’unità
del pleroma ecclesiale? Come tacere che il monachesimo occidentale ha
sempre riconosciuto la sua fonte in quello orientale dei padri del deserto, di
Pacomio, di Basilio, percependolo sempre come orientale lumen? Esiste
dunque questa prima ragione per fare della vita religiosa un luogo ecumenico, ed
è una ragione iscritta nella sua origine,
una ragione che porta ogni comunità
a dire alla chiesa unita: “in te le nostre fonti” (Sal 87, 7). Vale la pena di
ricordare a questo proposito la finale della Regola di Benedetto che invita il
monaco che vuole progredire oltre lo stadio del principiante ad abbeverarsi alla
“regola del nostro santo padre Basilio” e agli insegnamenti dei padri orientali
contenuti nelle Collationes, nelle Vitae e negli Instituta3.
Pierre Miquel, abate benedettino e profondo conoscitore della patristica, ha
potuto affermare: “È
nei monasteri che si può
ritrovare meglio che altrove la chiesa indivisa”4.
Del resto, nel corso della storia, le principali riforme della vita religiosa
hanno cercato un ritorno alle fonti, alla “forma primitivae ecclesiae”,
alla comunità
degli Atti degli apostoli, contrassegnata innanzitutto dalla koinônia.
b) La vita religiosa, non va dimenticato,
è sorta in vista di una radicale sequela
di Cristo, dunque come via di santità,
ed
è certo che la santità
perseguita nella vita religiosa anche se in confessioni diverse
è azione di unità
anzi, usando l’espressione di san Bonaventura,
è “sursum actio”, l’azione per
eccellenza, quella più
efficace in vista dell’unità.
Chi ricordava questo con forza profetica e autorevolezza carismatica era Matta
el Meskin, il padre spirituale del monastero di San Macario in Egitto, in un
famoso scritto del 1967: l’unità
vera della chiesa dev’essere perseguita innanzitutto nella vita spirituale come
cammino che accetta la debolezza della croce in cui può
trionfare la forza di Dio, come santità
plasmata da Dio sul volto dei cristiani;
è da rifuggire invece un’unità
fondata solo sulla spinta affettiva, vissuta come protagonismo oppure come
coalizione di forze “contro” qualcuno o ancora come desiderio di accrescere il
numero e la forza5.
Questa coscienza che la santità
unisce al di là
delle barriere confessionali
è condivisa da tutte le chiese e tutti
sottoscriverebbero le parole del metropolita Eulogio: “Uomini come san Francesco
d’Assisi e san Serafim di Sarov nella loro vita hanno compiuto l’unità
delle chiese”. Di fronte alla santità
ci si accorge che i muri confessionali non salgono fino al cielo e che la
paradosis del carisma monastico, vera trasmissione dello Spirito santo,
è passata nelle diverse chiese. Le
comunità
religiose di tutte le chiese sono un eloquente segno dell’azione dello Spirito
santo sempre all’opera e della grazia che malgrado le divisioni continua a
dimorare in ciascuna di esse, segno questo della santificazione in atto.
Oggi poi, in questa fine di millennio, siamo sempre più
sovente testimoni della santità
dei martiri sotto i regimi totalitari, e tra essi numerosissimi sono i
religiosi. Giovanni Paolo II nella Tertio Millennium Adveniente auspica
un martirologio ecumenico, strumento di consapevolezza di un’unità
vissuta più
in profondo di quanto ci si potesse immaginare: in quel “libro dei testimoni” di
tutte le chiese gli appartenenti alla vita religiosa sono una presenza narrante
il dono della vita per Cristo, ben al di là
delle divisioni confessionali.
Santità
allora come forza di convergenza, di comunione e di lode comune: chi può
dimenticare, per esempio, ciò
che rappresenta in occidente – nell’occidente cattolico e riformato – un santo
come il monaco Silvano dell’Athos? E come dimenticare che nella chiesa
ortodossa della “Panaghia Kera” di Creta si può
ammirare un antico affresco raffigurante Francesco d’Assisi con la scritta “O
Aghios Franziskos”? Se il monaco e il religioso rispondono davvero alla loro
vocazione di unificazione interiore, di comunione vissuta, di riconciliazione
sempre rinnovata, di misericordia continua – solo di questo infatti si deve
nutrire la loro vita quotidiana – allora saranno servitori di unità,
ministri e servi della comunione anche ecclesiale. “I santi – diceva ancora il
metropolita Eulogio – sono cittadini della chiesa una e universale e abbattono i
muri di separazione eretti da cristiani non fedeli al comandamento nuovo”.
c) Un’altra ragione che fa della vita religiosa un luogo ecumenico,
ragione a mio parere non sufficientemente rilevata,
è il dato che la vita religiosa si vuole
in ogni tempo vita di conversione, di ritorno alle fonti, al Vangelo. Non
è un caso che si attribuisca ad Antonio,
il padre dei monaci, un apoftegma in cui il santo afferma: “Oggi ricomincio!”.
Proprio per questa dinamica la vita monastica, in oriente come in occidente,
è caratterizzata dal sopraggiungere di
“riforme”, come se la sua identità
consistesse in una successione di riforme senza fine. Conversione e riforma
fanno parte del cammino personale e comunitario della vita religiosa sicché
questa deve essere costantemente rinnovata.
È vero che l’adagio suona “ecclesia
semper reformanda”, ma questo si
è concretizzato poche volte nella storia
della chiesa, e a volte con una lentezza tale da vanificare gli sforzi. Nella
vita religiosa invece si può
dire che ogni secolo – e a volte addirittura ogni generazione – ha conosciuto
una riforma in cui si
è cercato di ripartire da capo, di
ricominciare in un’obbedienza e fedeltà
al Vangelo più
profonda e rinnovata. Sì,
nella vita religiosa, nonostante le contraddizioni dei suoi membri, lavora il
fermento della parola di Dio, così,
di riforma in riforma, il carisma e la diaconia della vita religiosa
accompagnano la chiesa. Noi chiamiamo “fondazioni” queste dinamiche perché
amiamo enfatizzare la persona dei fondatori, ma in realtà
sovente essi sono solo “riformatori” perché
la vita religiosa, e quella monastica in particolare,
è paradosis, “tradizione” e non
fondazione di qualcosa di nuovo. Basilio riforma il monachesimo eustaziano
esistente, Benedetto riforma la vita monastica presente nella regione di Roma,
Romualdo, Bruno, Bernardo riformano un monachesimo già
strutturato… Analogamente in oriente in ogni monastero
è sempre un uomo pneumatico che, senza
bisogno di nuove “regole”, fa ripartire con rinnovato vigore la carovana
monastica nel deserto…
Questo dinamismo della riforma non risponde a quello stesso dinamismo
presente nella vicenda delle chiese che, appunto, si dicono “della Riforma”? Il
primato della parola di Dio – ascoltata, cantata, ruminata, vissuta – non
è lo stesso fermento che impone un
cambiamento di quelle forme di vita che, assunte, si sono indurite e svuotate
della loro qualità
evangelica? Se oggi le chiese della Riforma hanno accolto nel loro seno comunità
di vita religiosa e monastica
è forse proprio perché
hanno intravisto nel loro sorgere quella stessa causalità
che sta all’origine delle proprie identità
ecclesiali. Per la centralità
della parola di Dio e la conseguente dinamica della riforma, i religiosi possono
essere autentici interlocutori con le chiese della Riforma, nativamente capaci
di parlare lo stesso linguaggio.
Non sorprende allora che uno dei massimi teologi riformati del nostro
secolo – quel Karl Barth di cui per singolare coincidenza ricorre proprio oggi
il trentesimo anniversario della morte – abbia potuto affermare: “L’esistenza
monastica sussiste per il fatto che il Signore vuole questa vita, la fonda e la
modella in ogni epoca e in ogni situazione, e per il fatto che l’esistenza
monastica
è sempre aperta al nuovo, disposta a
vivere della libera grazia del Signore e a obbedire al suo libero comando”6.
d) Infine scorgo un’altra ragione che fa della vita religiosa un luogo
ecumenico, ed
è quella dell’essere un’epiclesi,
un’invocazione continua dello Spirito, vissuta nelle chiese. Questa
definizione di monachesimo come “epiclesi”
è propria di Paul Evdokimov, ma sovente
la si ritrova sotto la penna di Olivier Clément;
sì,
la vita del monaco o religioso
è incastonata nel risuonare della parola
di Dio durante il giorno e la notte e la comunità
religiosa
è innanzitutto un luogo d’ascolto: la
stessa Regola di Benedetto non si apre forse con “Ausculta, filii…”?7
Ora, questo ascolto richiede una risposta: innanzitutto l’obbedienza della
fede, accompagnata dalla confessione di fede, dalla lode e dall’intercessione
per la chiesa e per il mondo.
È qui che avviene l’epiclesi,
l’invocazione della discesa dello Spirito santo che come nella Pentecoste
è forza di unità
plurale, comunione nella distinzione dei doni e nelle differenze delle energie.
In questa epiclesi – in cui nessuno
è escluso, in cui si prega perché
tutti gli altri fratelli e sorelle ricevano lo Spirito per essere più
fedeli a Cristo e raggiungere la statura del cristiano maturo – l’anelito, il
desiderio di comunione non può
essere assente. Desiderio di unità,
preghiera per l’unità
che viene vissuta quotidianamente soprattutto attraverso l’accoglienza,
l’ospitalità.
Se il monachesimo
è “accoglienza di Cristo che viene” (O.
Clément),
questa non si esaurisce in una dimensione soltanto escatologica, ma si invera
nell’accoglienza di colui che viene: “ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt
25, 35). Accoglienza di chi giunge anche inaspettato, non annunciato,
accoglienza di chi diventa fratello anche se per la sua provenienza fosse
ostile, accoglienza che non chiede la confessione di appartenenza… Le comunità
religiose non dovrebbero forse avere impresse sulle loro porte e nei cuori dei
loro membri quelle parole scritte da Angelo Roncalli nel 1934 quando era nunzio
in Bulgaria: “Se qualcuno passa dinanzi alla mia casa di notte, costui troverà
alla mia finestra un lume acceso: bussa, bussa! Non ti domanderò
se sei cattolico o ortodosso, fratello: entra! Due braccia fraterne ti
accoglieranno, un cuore caldo di amico ti farà
festa”? In quegli anni forse i religiosi non erano sentinelle vigilanti, ma Dio
preparava chi li avrebbe svegliati e invitati a scorgere i nuovi segni dei
tempi: papa Giovanni!
Accoglienza dell’altro, del diverso, dello sconosciuto, e riconoscimento
della sua qualità
di fratello nella fede quando
è cristiano sono attestati ovunque oggi
nella vita religiosa. Si avvera quello che diceva nel 1968 – lo stesso anno
della morte di Merton e Barth – padre Paissios, il grande carismatico
dell’Athos: “Quando dei monaci latini verranno all’Athos, vengano qui: ci
capiremo subito!”8.
Davvero quando dei monaci di diverse confessioni si incontrano in fraternità,
sovente accade l’evento della comunione: ci si sente uno, non esistono più
barriere confessionali, ci si sente monaci cristiani che condividono la stessa
esperienza e si riconoscono, nel senso forte del termine, in una stessa grazia,
in uno stesso spirito, in una stessa ricerca con uno stesso fine: l’acquisizione
dello Spirito santo per essere trasfigurati in Cristo e prendere parte al regno
di Dio. Sì,
i monaci che si incontrano in verità
si scoprono fratelli mai separati e, anzi, vicinissimi.
III. La profezia
dell’ecumenismo nella vita religiosa
Sul tema specifico dell’ecumenismo come profezia della vita religiosa
ribadisco di voler restare discreto perché
con troppa enfasi in questi ultimi decenni – in realtà
segnati proprio dalla crisi della vita religiosa – si invoca questa qualità
profetica per ritrovare un’identità
in molti casi smarrita. I religiosi non hanno qualità
profetica “ex officio”, ma la loro testimonianza può
diventare profetica se
è in obbedienza al Vangelo e ai segni dei
tempi manifestatisi nell’oggi. Quando i religiosi non pretendono di camminare
alla luce della visione (cf. 2Cor 5,7) ma sanno vivere con speranza, quando
riguadagnano la consapevolezza della provvisorietà
e dell’incompletezza di ogni forma vitae, quando hanno l’audacia di far
prevalere sempre l’agape e la riconciliazione nei conflitti in cui sono
implicati, quando accettano la loro marginalità
e la loro debolezza come un dono e non come una perdita da saturare al più
presto, allora appare anche in loro la profezia.
Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 69) indicava
nell’incarnazione radicale delle beatitudini il carattere profetico della vita
religiosa, ma questo significa vita religiosa povera, umile, mite, affamata di
giustizia, operatrice di pace, perseguitata a causa di Cristo… E Giovanni Paolo
II indica come profezia dei religiosi anche “l’esplorazione di vie nuove per
mettere in pratica il Vangelo nella storia in vista del regno di Dio” (Vita
consecrata n. 84), arrivando ad affermare che “la vita fraterna stessa
è profezia in atto” (n. 85). Sì,
occorre essere chiari: la vita religiosa può
ricevere e vivere il dono della profezia come tutte le altre vocazioni
ecclesiali. Sta a ciascuno dei suoi membri nella conversione quotidiana aderire
a una via che – attraverso il radicalismo evangelico, il celibato che annuncia
che questo mondo passa e la vita comune che dà
un segno della comunione del Regno – ha qualità
escatologica e si vuole profetica: ma il dono della profezia
è grande e fragile!
Con questa premessa, anziché
vantare una qualità
della vita religiosa, vorrei mettere in evidenza che in questo secolo che volge
al termine l’ecumenismo
è certamente stato profezia in alcune
forme di vita religiosa nate per la risposta obbediente a Dio e ai segni dei
tempi da parte di alcuni uomini e donne che, da vere sentinelle, hanno atteso,
spiato, destato l’aurora. Non posso far altro che pronunciare nomi e nulla più,
ma il semplice nominare questi testimoni adesso significa renderli presenti in
mezzo a noi: essi sono nella comunione dei santi e con essi noi viviamo
l’ecumenismo. Senza di loro l’ecumenismo praticato oggi sarebbe più
povero, più
azione diplomatica, più
competenza delle autorità
ecclesiastiche, e certamente meno audace. Ascoltiamo i loro nomi: p. Paul
Wattson e m. Lurana White, dom Lambert Beauduin a Chevetogne, l’abbé
Couturier e il suo “monastero invisibile”, Antoinette Butte a Pomeyrol, sr.
Geneviève
a Grandchamp, m. Basilea Schlink a Darmstadt, frau Vera a Imshausen, p.
Sofronio a Maldon, p. Amphilokios a Patmos…
Alcuni, come fr. Roger di Taizé
o fr. Cesarius di Ostenback, sono ancora in mezzo a noi: con loro siamo avvolti
da una nube di testimoni ecumenici che hanno rinnovato la vita religiosa,
semper reformanda, ascoltando i segni dei tempi che chiedevano
riconciliazione. Qui si ha vera profezia della vita religiosa, nel nascondimento
di sr. Maria Gabriella Sagheddu o nell’irradiamento mondiale di fr. Roger…
Ma ora, a conclusione di questa relazione, non posso non indicare un
orizzonte profetico per la vita religiosa, un orizzonte tanto più
urgente quanto più
“invernale” si
è fatta la situazione ecumenica:
è l’orizzonte della condivisione di vita
religiosa da parte di appartenenti a confessioni cristiane diverse non ancora
riconciliate. Per questo
è necessario sì
tanto coraggio, audacia evangelica, parresia, ma anche tanta capacità
di spoliazione delle ricchezze confessionali non essenziali alla sequela
Christi, molta sottomissione reciproca, capacità
di fare due miglia con chi ci chiede di farne uno, ci vuole il fuoco interiore,
la passione della comunione che cerca l’unità
plurale, indicando in avanti un’unità
che va raggiunta insieme.
Il sinodo sulla vita religiosa aveva ricevuto tra le proposizioni per la
discussione l’invito a considerare questa eventualità
di comunità
religiose interconfessionali. Nessuna risposta
è venuta, né
nelle proposizioni finali né
nell’esortazione “Vita consecrata”, eppure qua e là
questa vita interconfessionale inizia a mostrare un volto in cui l’ecumenismo
diventa di nuovo profezia della vita religiosa in una nuova forma: vivere
insieme la stessa vocazione, lo stesso ministero, anche se le chiese cui si
appartiene non vivono ancora la comunione visibile…
Che lo Spirito santo susciti questa nuova Pentecoste per la vita
religiosa: allora ci sarà
profezia per la chiesa e per il mondo!
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net