UNA REGOLA DI VITA

Rod Dreher

Estratto da “L’opzione Benedetto -Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano”. Cap. 3.

Edizioni San Paolo, 2018

 

Tornare indietro nel tempo non si può, ma tornare a Norcia sì. E lo sguardo sul passato cristiano che il pellegrino vi gode rappresenta anche, ne sono certo, uno sguardo sul suo futuro.

Norcia – nome moderno della città natale di Benedetto – è una città cinta da mura, che poggia su un ampio altipiano, alla fine di una strada tortuosa che attraversa per 50 chilometri un aspro territorio montuoso. Risulta facile immaginare quanto isolata fosse Norcia ai tempi di Benedetto, così come il motivo per cui, per quanto ne sappiamo, il santo scese dalla montagna per non tornare mai più.

Un tiepido mattino di febbraio sono giunto al monastero di San Benedetto, abitato da quindici monaci e dal loro priore, padre Cassiano Folsom. Padre Cassiano, un americano sessantunenne, ha riaperto il monastero con una manciata di confratelli benedettini nel dicembre del 2000, quasi due secoli dopo che lo Stato aveva chiuso le porte della cittadella di preghiera risalente al X secolo e disperso i suoi monaci.

La soppressione del monastero di Norcia ebbe luogo nel 1810, in ottemperanza alle leggi napoleoniche vigenti nell’Italia settentrionale dell’epoca. Napoleone era un tiranno, erede del patrimonio anticristiano della Rivoluzione Francese, che usò per annientare la Chiesa cattolica in tutti i territori che stavano sotto il governo imperiale della Francia. Napoleone era il dittatore di uno Stato francese talmente anticlericale che molti, in Europa, speculavano che fosse egli stesso l’Anticristo.

La leggenda vuole che, in una disputa con un cardinale, Napoleone gli avesse fatto notare che aveva il potere di distruggere la Chiesa.

«Maestà», replicò il cardinale, «noi, il clero, abbiamo fatto del nostro meglio per distruggere la Chiesa negli ultimi milleottocento anni. Non ci siamo riusciti, e non ce la farete nemmeno Voi».

Quattro anni dopo aver cacciato i Benedettini da quella che era la loro casa da quasi un millennio, l’impero di Napoleone era in rovina, e lui era in esilio. Oggi si può nuovamente sentire il suono del canto gregoriano nella città natale del santo, un melodioso rimprovero rivolto all’imperatore apostata. Qualche volta il passato, come disse un giorno un celebre romanziere americano [William Faulkner, N.d.T], non è nemmeno passato.

Il monastero di San Benedetto non è il primo monastero benedettino al mondo. I monaci non si stabilirono in questa città se non nel X secolo (o forse poco prima; i documenti storici risalgono solo fino al X secolo). La maggioranza degli uomini che hanno rifondato oggi il monastero sono giovani americani che hanno scelto di donare completamente la propria vita a Dio come monaci benedettini: non soltanto come monaci, dunque, ma come benedettini impegnati a vivere appieno la propria tradizione.

Mentre mi sistemavo nella mia stanza degli ospiti nel monastero, dopo una mattinata a Norcia, riflettevo su come fosse improbabile che da questa cittadina in cima alla montagna fosse venuta la scintilla che aveva tenuto accesa la luce della fede in Europa attraverso tempi molto duri. Quella scintilla splendette in un mondo e in un’epoca in cui, nelle parole della laica benedettina inglese Esther de Waal, «la vita rappresentava una pressante lotta per capire il senso di quanto stava accadendo». [1] Come oggi, pensai, poi mi assopii.

La mattina dopo incontrai padre Cassiano in monastero per un colloquio. Alto, eretto, i capelli corti e la barba di un grigio metallico, l’aspetto grave – d’accordo – da monaco. Eppure, quando dialoga, nel suo delicato tono baritonale, ti sembra di star parlando con tuo padre. Padre Cassiano parla in modo caldo e potente dell’integrità e della gioia della vita benedettina, così diversa dal nostro frammentato mondo moderno.

Sebbene i monaci qui abbiano rifiutato il mondo, «non vi è soltanto un no, vi è anche un sì», dice padre Cassiano. «Si tratta sia di un rifiuto da parte nostra di ciò che non è vivificante, sia della costruzione di qualcosa di nuovo. E passiamo tanto tempo a ricostruire, e anche la gente lo vede, e per questo motivo accorrono in gran numero al monastero. Siamo così impegnati con ospiti e pellegrini che è molto stancante. Ma è questa la nostra attività. Stiamo ricostruendo. È il sì di cui la gente deve sentir parlare».

Ricostruire cosa? chiesi.

«Per usare l’espressione di papa Benedetto, che viene ripetuta molte volte, il mondo occidentale vive oggi come se Dio non esistesse», dice padre Cassiano. «Penso che sia vero. La frammentazione, la paura, il disorientamento, la deriva sono tratti largamente diffusi della nostra società».

Sì, pensai, questo è assolutamente corretto. Perdendo la nostra religione cristiana nella modernità, abbiamo perso l’elemento che teneva legati insieme noi stessi e, sempre noi, al nostro prossimo, e ci ancorava entrambi nell’ordine tanto eterno quanto temporale. Siamo alla deriva nella modernità liquida, senza indicazioni per raggiungere casa.

Quest’uomo mi stava dicendo che lui e i suoi monaci, nel monastero, si consideravano attivamente impegnati nella ricostruzione, nel recupero della fede cristiana e nella restaurazione della cultura cristiana. Così benedettino! Mi accostai a lui per ascoltare ancora.

Questo monastero, mi spiegava padre Cassiano, e la vita di preghiera al suo interno, esistono quale segno di contraddizione per il mondo moderno. I guardrail sono scomparsi e il mondo rischia di precipitare da una scogliera; eppure siamo tanto presi dalle luminarie e dal movimento della vita moderna, che non riconosciamo nemmeno il pericolo. Le forze dissolutrici insite nella cultura popolare sono troppo intense perché gli individui possano resistervi da soli. Abbiamo bisogno di inserirci in comunità di fede stabili.

La Regola di Benedetto è un insieme dettagliato di istruzioni circa le modalità di organizzazione e di governo di una comunità monastica, in cui i monaci (e, separatamente, le monache) vivono insieme in povertà e castità. [2] Questi aspetti accomunano tutte le famiglie monastiche, ma la Regola di Benedetto aggiunge tre voti distinti: l’obbedienza, la stabilità (la fedeltà alla medesima comunità monastica fino alla morte) e la conversione di vita, che significa dedicarsi all’opera di approfondimento del pentimento per tutta la vita. La Regola comprende anche indicazioni per suddividere ogni giornata in periodi di preghiera, lavoro e lettura della Scrittura e di altri testi sacri. Il santo insegnò ai propri seguaci come vivere separati dal mondo, ma anche come trattare pellegrini e sconosciuti che arrivano al monastero.

Lungi dall’essere uno stile di vita per i forti e disciplinati, la Regola di Benedetto era indirizzata alle persone normali, con tutte le loro debolezze, per aiutarle a rafforzarsi nella fede. Quando Benedetto cominciò a formare i suoi monasteri, era pratica comune che i monaci adottassero una Regola di vita scritta, e la Regola di Benedetto costituiva una versione semplificata e (per quanto a noi sembri assai rigorosa) ammorbidita, di una Regola più antica. Da notare il senso di compassione di Benedetto verso la fragilità umana, che egli esprime nel prologo alla Regola, dicendo che sperava di non introdurre «nulla di duro e di gravoso» [Prol. 46, N.d.T.], ma soltanto di essere severo abbastanza da rinvigorire il cuore dei fratelli perché così «si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile soavità dell’amore» [Prol. 49, N.d.T.]. Insegnava ai propri abati a governare come padri forti e comprensivi, e a non appesantire i fratelli sotto la propria autorità con compiti superiori alle loro forze.

Per esempio, nel capitolo in cui istruisce i monaci riguardo al lavoro manuale, Benedetto dice: «Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli» [XLVIII,9, N.d.T.]. Questo è tipico della saggezza di Benedetto. Non voleva sfinire i propri figli spirituali; li voleva edificare.

Nonostante le istruzioni molto specifiche che si trovano nella Regola, non si tratta di un elenco con finalità giuridiche. «L’obiettivo della Regola è liberarti. È un paradosso che la gente non afferra immediatamente», mi disse padre Cassiano.

E aggiunse: «Se hai un campo pieno d’acqua a causa di carenza di drenaggio, i casi sono due: o il raccolto non vi crescerà, o marcirà. Se non lo dreni, avrai una palude e malattie. Ma se riesci a costruire un canale di drenaggio, il campo sarà risanato e utile. Inoltre, una volta che l’acqua sarà contenuta entro le pareti del canale, scorrerà con forza riuscendo a realizzare la propria funzione. Una Regola funziona così: per incanalare la tua energia spirituale, il tuo lavoro, la tua attività, perché tu possa realizzare qualcosa».

«La vita monastica è molto semplice», proseguì. «Forse chi viene da fuori ha una visione romantica, quella che forse vedono in televisione, di monaci che camminano sospesi per i chiostri. C’è quell’elemento, ed è attraente, ma essenzialmente i monaci si alzano la mattina, pregano, fanno il proprio lavoro, pregano ancora un po’. Mangiano, pregano, fanno ancora un po’ di lavoro, pregano ancora un po’ e vanno a dormire. È piuttosto semplice, somiglia alla routine vissuta dalla maggior parte della gente. L’elemento originale di san Benedetto fu nel trovare la presenza di Dio nella vita di ogni giorno».

Le persone che sono ansiose, confuse e alla ricerca di risposte fanno presto a cercare soluzioni tra le pagine di un libro o su Internet, in cerca di quell’”app risolutrice” che rimetterà tutto a posto. La Regola ci dice: No, non è così. Puoi raggiungere la pace e l’ordine che cerchi solo creando uno spazio nel tuo cuore e nella tua vita quotidiana, perché la grazia di Dio vi si radichi. La grazia divina è donata liberamente, ma Dio non ci costringerà a riceverla. Occorre uno sforzo costante da parte nostra per far strada alla grazia di Dio e lasciare che ci guarisca e ci trasformi. A tale scopo, non conta tanto ciò che pensiamo quanto ciò che facciamo, e con quanta fedeltà lo facciamo.

Un uomo che voglia tornare in forma e abbia letto i migliori libri di bodybuilding non andrà da nessuna parte senza applicare tale sapere col mangiare cibo salutare e fare quotidianamente ginnastica. Ciò richiede una forza di volontà costante. Nel tempo, se sarà fedele alle pratiche necessarie a raggiungere il proprio obiettivo, quell’uomo comincerà ad amare così tanto mangiar bene e far ginnastica da non essere spinto a farlo dalla forza di volontà, quanto piuttosto vi sarà attirato dall’amore. Avrà esercitato il proprio cuore a desiderare il bene.

Lo stesso vale per la vita spirituale. La correttezza della fede (ortodossia) è essenziale, ma avere in mente le dottrine corrette ti aiuta poco se il tuo cuore – la sede della volontà – rimane non convertito. Ciò richiede di mettere in atto tali dottrine attraverso la pratica corretta (ortoprassi), che nel tempo ottiene l’obiettivo che Paolo pose per Timoteo, ordinandogli: «Esercitati nella pietà» (1Tim 4,8).

L’autore della Seconda Lettera di Pietro spiega bene il modo in cui la mente, il cuore e il corpo operano armonicamente a favore della crescita spirituale:

 

Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo. (Prima Lettera di Pietro 1,5-8)

 

Benché citi la Sacra Scrittura in quasi tutti i suoi capitoletti, la Regola non è il Vangelo. È una strategia sperimentata per vivere il Vangelo in maniera intensamente cristiana. È un manuale d’istruzioni per come plasmare la propria vita attorno al servizio di Gesù Cristo, in seno a una comunità forte. Non è una raccolta di massime teologiche, ma un manuale di pratiche attraverso le quali i credenti possono strutturare la propria vita attorno alla preghiera, la Parola di Dio, e la consapevolezza sempre più approfondita che, come dice il santo, «Dio è presente dappertutto e gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi (Proverbi 15,3)».

La Regola è destinata a monaci, ovviamente, ma i suoi insegnamenti sono abbastanza semplici per essere adottati dai cristiani laici per il proprio uso personale. Essa fornisce una guida a una vita cristiana seria e costante, in una forma che ci ordina interiormente, riunendo ciò che è disperso nei nostri cuori e orientandolo alla preghiera. Se applicata efficacemente, essa disciplina la vita che condividiamo con gli altri, abbattendo le barriere che bloccano il passaggio dell’amore di Dio tra di noi, e ci rende più flessibili senza indurire il nostro cuore.

Nell’Opzione Benedetto non stiamo cercando di annullare sette secoli di storia, come se un’operazione simile fosse possibile. Né stiamo tentando di salvare l’Occidente. Stiamo solamente provando a costruire uno stile di vita cristiano che si erga come un’isola di santità e di stabilità in mezzo all’alta marea della modernità liquida. Non miriamo a creare il Paradiso sulla Terra; stiamo solamente cercando un modo di esser forti nella fede, mentre attraversiamo un’epoca di grandi prove. La Regola, con la sua visione di una vita ordinata, centrata attorno a Cristo e alle pratiche che prescrive per approfondire la nostra conversione, può aiutarci a raggiungere tale obiettivo.

 

Ordine

Se una caratteristica distintiva del mondo moderno è il disordine, allora l’atto di resistenza più fondamentale è instaurare un ordine. Se non disponiamo di un ordine interiore, saremo controllati dalle nostre passioni umane e dalle potenti forze esterne che hanno maggior forza nel dirigere le correnti profonde della modernità liquida.

Per il cristiano tradizionale, instaurare un ordine interiore non è mera disciplina, né è semplicemente un atto di volontà. Piuttosto equivale a quelli che il teologo Romano Guardini ha chiamato gli sforzi dell’uomo per «riconquistare la propria corretta relazione con la verità delle cose, con le esigenze della propria interiorità più profonda, e da ultimo con Dio». [3] Con ciò si intende la scoperta dell’ordine, il logos, che Dio ha iscritto nella natura del Creato, cercando così di vivere in armonia con esso. Ciò implica altresì la consapevolezza dei limiti naturali in seno alla realtà concreta del Creato, la quale si contrappone all’opinione che la natura sia qualcosa che possiamo negare o rifiutare, secondo i nostri desideri personali. Infine, significa disciplinare la propria vita, per vivere una vita mirata a glorificare Dio e ad aiutare gli altri.

L’ordine non è semplicemente una questione di diritto, e non riguarda soltanto le modalità atte ad assicurarne il rispetto. Nella visione cristiana classica, il diritto stesso dipende da una concezione dell’ordine più profonda, un’idea di come sia costruita la realtà ultima. Tale ordine può essere invisibile, ma si ritiene sia stato interiorizzato da quanti vivono in una comunità che lo professa. Lo scopo della vita, per le singole persone, per la Chiesa e per lo Stato, è perseguire l’armonia con quell’ordine trascendente ed eterno.

Ordinare il mondo correttamente come cristiani esige di guardare tutte le cose come un dito puntato verso Cristo. Il capitolo 19 della Regola offre un breve esempio del legame tra un insegnamento disciplinare e l’ordine invisibile. In quel capitolo, Benedetto dà istruzione ai propri monaci di tenere la mente focalizzata sulla presenza di Dio e dei Suoi Angeli quando sono impegnati nel cantare l’Ufficio divino, chiamato l’opus Dei o “opera di Dio”.

«Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che “gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi”», scrive Benedetto. «Ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all’Ufficio divino» [XIX,1-2, N.d.T.]. Conclude con un’ammonizione a ricordarsi che, quando pregano insieme i Salmi, i monaci si trovano al cospetto di Dio e devono pregare «in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». [XIX,7, N.d.T.].

La vita di ogni monaco e tutte le sue fatiche devono essere indirizzate al servizio di Dio. La Regola insegna che Dio deve essere il principio e la fine di tutte le nostre azioni. L’arginare la nostra passione spirituale mediante il ritmo della vita quotidiana e delle sue discipline, e il farlo con altri nella nostra famiglia e nella nostra comunità, significa porre un solido fondamento di fede, entro il quale poter diventare pienamente umani e pienamente cristiani.

Orientandosi verso Cristo, i monaci riconoscono che Egli è il Creatore, Colui nel quale consistono tutte le cose, e che l’uomo non è la misura di tutte le cose. Diversamente dai successori laici dei nominalisti, il monaco benedettino non crede che le cose del mondo abbiano un senso soltanto se le persone decidono di attribuire loro un senso. Il monaco ritiene che il senso esista oggettivamente, in seno al mondo naturale creato da Dio, e che esista per venire scoperto dalla persona distaccatasi dalle proprie passioni, e che cerchi di vedere come vede Dio.

«Non si può essere attaccati alle cose create, perché si finirà per vederle ordinate a se stessi», mi spiegava frater Evagrio Hayden, di trentun anni. «È sbagliato. Non siamo noi a dar senso alle cose. È Dio a darvi senso».

Infine, i monaci compiono sforzi enormi per assicurarsi che ogni dettaglio della loro vita rifletta Cristo quale termine e sorgente di ogni senso. Alcuni di questi sforzi appaiono sorprendentemente poco spirituali. Al capitolo 22, per esempio, Benedetto impartisce istruzioni su come i monaci debbano dormire – «vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde» [XXII,5, N.d.T.].

Eppure, persino queste norme apparentemente arbitrarie assolvono a uno scopo di natura spirituale. In alcuni casi ciò è giustificato dal fatto che le norme liberano i monaci da impicci, per alcuni scopi pratici. Per esempio, Benedetto spiega che le regole relative all’abbigliamento sono mirate ad assicurare che i monaci siano vestiti in modo tale da potersi alzare nel bel mezzo della notte per pregare gli uffici notturni o le preghiere previste in quell’orario senza ritardi.

Ma che dire delle regole il cui senso intrinseco è meno evidente? Dio si interessa davvero del tipo di letto utilizzato da un monaco? O di quanti piatti siano serviti a cena? Perché una persona dovrebbe sottomettersi volontariamente a un tipo di vita che è così irreggimentata? Padre Basilio Nixen, trentasei anni e cuoco del monastero, ha dichiarato che la Regola e persino le sue norme più semplici non esistono per motivi arbitrari.

Ha poi aggiunto: «Il monaco è profondamente consapevole del fatto che in se stesso e negli altri quell’ordine è stato turbato, è stato scardinato dalla Caduta, dal peccato originale e dal peccato personale di ciascuna persona. Il monaco entra in monastero sapendo che, alla scoperta di tale ordine, non si giunge facilmente. Bisogna combattere per raggiungerlo ed essere pazienti per ottenerlo. Ne vale, però, la pena, poiché tale ordine ci dà pace».

Sottomettersi a norme che non si capiscono è difficile, ma è un buon modo per contrastare il desiderio carnale di indipendenza personale. Potrebbe non esserci un merito spirituale nello scegliere di consumare due piatti invece di tre a un pasto, ma l’umiltà derivante dall’assenso dato a sottomettersi alla decisione di un altro in tal senso è trasformante.

L’ordine del monastero genera non solo l’umiltà, ma anche l’elasticità spirituale. In un certo senso, i monaci benedettini sono come un corpo della Marina della vita religiosa, costantemente in allenamento per la guerra spirituale.

«La struttura della vita nel monastero, ovvero le cose che si fanno ogni giorno, non è e non sono semplicemente una ripetizione senza scopo», dice frater Agostino Wilmeth, venticinque anni, la cui barba da vichingo tocca il petto. «Si tratta di allenare il tuo cuore e il tuo spirito in modo tale che, quando ne hai bisogno, quando non ti senti abbastanza forte per essere disposto personalmente ad attraversare un momento difficile, ritorni al tuo allenamento. Sai che non saresti forte abbastanza per farlo se non avessi passato del tempo per così dire a lavorarci sopra e a mettere a posto tutti gli elementi accessori».

In altre parole, ordinare le proprie azioni ha proprio lo scopo di allenare il proprio cuore ad amare e a desiderare le cose giuste, le cose che sono reali, senza doverci star su a pensare. Si tratta di acquisire la virtù come abitudine.

Non si sa mai come Dio userà le piccole cose in una vita ordinata al Suo amore, al Suo servizio, alla parola evangelica offerta agli altri, ha detto frater Ignazio Prakarsa, il responsabile della foresteria del monastero. In estate, la basilica del monastero si riempie di turisti, molti dei quali sono cristiani non praticanti o non credenti, che si siedono in silenzio a guardare i monaci che cantano le Ore in latino.

Quando frater Ignazio li incontra sui gradini della chiesa, più tardi, i visitatori gli dicono spesso che il canto era così tranquillo, così bello.

«Dico loro che stiamo soltanto pregando il Signore. Stiamo soltanto aprendo la bocca per cantare la bellezza che è già presente nella musica», mi ha detto. «Ogni cosa parla del Vangelo. Ogni cosa è rivolta a Dio. Ogni cosa va osservata dal punto di vista soprannaturale. Lo splendore che si irradia dalla nostra vita è soltanto un riflesso di Dio. In noi stessi, noi non siamo nulla».

 

Preghiera

Lo splendore cui si riferiva frater Ignazio è frutto di una preghiera profonda e costante. L’apostolo Paolo disse alla comunità di Tessalonica di «pregare incessantemente» (Prima Lettera ai Tessalonicesi 5,17). I Benedettini considerano tutta la loro vita un tentativo di adempiere a questo comando. In senso stretto, la preghiera è comunicazione, vuoi privatamente vuoi comunitariamente, con Dio. In senso più ampio, la preghiera consiste nel mantenere un’incessante consapevolezza della presenza divina e nel fare tutte le cose con Lui in mente. Nella vita benedettina, la preghiera delle Ore è al centro dell’esistenza monastica.

Pregare è impegnarsi nella contemplazione. Il termine ha un significato particolare per i monaci. Si riferisce a ciò che credono sia la condizione più elevata della vita cristiana: liberarsi dalle preoccupazioni della carne, per adorare e lodare Dio e per riflettere sulla Sua verità. Questo si oppone alla vita attiva, che consiste nel compiere opere buone nel mondo.

Si pensi alla storia evangelica delle sorelle Marta e Maria. Quando Gesù arrivò a casa loro, Marta era indaffarata nei preparativi, ma Maria sedeva ai piedi di Gesù e ascoltava ciò che Egli aveva da dire. Quando Marta si lamentò con Gesù che Maria non la stesse aiutando, il Signore rispose che Maria aveva scelto la parte migliore.

Perché? Perché, come disse Gesù quando rimproverò Satana, «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Matteo 4,4). È importante fare le cose per il Signore, ma è più importante conoscerlo con il proprio cuore e con la propria mente. Ed è per questo che la contemplazione ha la priorità.

Come mi ha detto padre Basilio: «La preghiera è la vita dell’anima, è la vita di ogni singolo monaco. È la ragione per cui siamo venuti a vivere qui. Lo scopo della nostra vita come monaci è quello di approfondire la vita di preghiera, di crescere nella preghiera. Tutto ciò che facciamo è strutturato per favorirla, è funzionale a essa. La preghiera ci mette in comunicazione con Dio».

I monaci benedettini passano un sacco di tempo con Dio. Sette volte al giorno si riuniscono attorno all’altare nella basilica per cantare le preghiere previste per l’Ufficio divino, noto anche come Liturgia delle Ore. Queste sono preghiere specifiche che i monaci cattolici (e altri) recitano da secoli per segnare le ore del giorno. Sono fatte di salmi, inni, letture dalla Sacra Scrittura.

Per i monaci, la preghiera non consiste semplicemente nelle parole che pronunciano. Ciascuno trascorre parecchie ore al giorno a fare lectio divina, un metodo benedettino di studio della Sacra Scrittura che implica la lettura di un passo biblico meditandoci sopra, pregando sui suoi contenuti e infine contemplando il suo significato per l’anima.

L’idea che sta dietro non è affrontare la Bibbia come farebbe uno studioso, bensì incontrarla come se Dio stesse parlando direttamente al singolo. In tal senso, un monaco immerso nella Sacra Scrittura, secondo le indicazioni della Regola, sta mettendo in atto una forma di preghiera.

E non è l’unica.

Padre Cassiano ha esplicitato questo concetto dicendo: «Quando preghiamo cantiamo, ci alziamo in piedi, ci sediamo, ci inchiniamo, ci inginocchiamo, ci prostriamo. Il corpo è assai coinvolto nella preghiera. Non è soltanto un certo tipo di meditazione intellettuale. Questo è importante».

Padre Basilio afferma che, quando si progredisce nella preghiera, si giunge a comprendere che la stessa non è mirata tanto a chiedere qualcosa a Dio, quanto a stare semplicemente alla Sua presenza.

A padre Basilio ho raccontato come, in risposta a una crisi personale, il mio prete ortodosso, in Louisiana, mi aveva assegnato un adempimento di preghiera Regolare quotidiano, pregando la preghiera di Gesù («Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore») per circa un’ora tutti i giorni. Inizialmente era noioso e difficile, ma lo feci per obbedienza. Tutti i giorni, per un’ora apparentemente infinita. Col tempo, però, l’ora sembrò molto più corta, e scoprii che emergeva quella pace che mi era così mancata nell’anima».

Dopo che fui spiritualmente guarito, il mio prete spiegò il ragionamento che aveva fatto nell’indirizzarmi a quella semplice preghiera meditativa: «Dovevo tirarti fuori dalla tua testa».

Intendeva dire che ero prigioniero di una tendenza intellettuale, a tentare di pensare, a trovare una via d’uscita dai miei guai – una strategia che per me sfociava sempre in un fallimento. Quello di cui avevo veramente bisogno era calmare la mente e tacitare il cuore, per aprirlo alla grazia di Dio. Aveva ragione.

«Proprio così», disse padre Basilio. «Ecco in cosa consiste la pura preghiera: essere con Dio. Ciò può accadere in molti modi diversi ma, come hai scoperto con la Preghiera di Gesù, ci vuole tempo. Devi riservarci del tempo».

Padre Benedetto Nivakoff, nativo del Connecticut, trentotto anni, ha passato quasi metà della sua vita in questa comunità monastica. Dice che «se uno riesce ad accettare che la volontà di Dio si manifesti in ciò che fa tutto il giorno, allora l’intera giornata diventa una preghiera».

Se passiamo tutto il nostro tempo in un’attività materiale, anche se questa è al servizio di Cristo, e trascuriamo la preghiera e la contemplazione, mettiamo in pericolo la nostra fede. Il teorico dei media degli anni Sessanta, Marshall McLuhan, cristiano praticante, disse un giorno che tutti i suoi conoscenti che avevano perso la fede avevano cominciato smettendo di pregare. Se dobbiamo vivere una vita cristiana ordinata correttamente, allora la preghiera deve essere la base di tutto quello che facciamo.

 

Lavoro

Ciò non significa che la vita attiva vada evitata. Piuttosto andrebbe integrata in un’esistenza ordinata dalla preghiera. Il buon lavoro è frutto di una sana vita di preghiera. Chi sa qualcosa dei Benedettini probabilmente avrà sentito dire che il loro motto è ora et labora – espressione latina che significa “prega e lavora”. In senso stretto, non è vero. San Benedetto non l’ha mai detto, e benché i monaci benedettini contemporanei abbiano reclamato lo slogan come loro proprio, esso entrò in uso soltanto nell’Ottocento.

Comunque, non è una descrizione malvagia dell’approccio generale benedettino alla vita. «L’ozio è il nemico dell’anima», dice Benedetto al capitolo 48 della Regola. L’idea è che l’inattività apra la porta all’accidia. Il lavoro, però, non è semplicemente qualcosa che si fa per tenersi fuori dai guai. Il santo si attendeva che ciascuno dei monasteri si mantenesse autonomamente e, in modo insolito per un romano della sua epoca, insegnò che il lavoro manuale poteva essere un atto santificante.

L’indicazione di Benedetto è che, sebbene siano contemplativi, i monaci non devono lamentarsi del lavoro manuale, «perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli» [XLVIII,8, N.d.T.].

Sono istruzioni dettate da una saggezza pratica, per noi moderni che tendiamo ad avere un rapporto disordinato con il nostro lavoro. In alcuni casi noi ci definiamo attraverso il nostro lavoro e vi ci dedichiamo in maniera smodata, a danno della contemplazione. In altri, però, vediamo il lavoro come qualcosa che facciamo per pagare le bollette, nulla più, considerandolo slegato dal resto della vita, specialmente dalla nostra vita spirituale.

È un errore, dice la Regola. L’attività che svolgiamo non deve servire noi stessi, ma Dio e Dio soltanto. In un capitolo di istruzioni per i monaci «che praticano un’arte o un mestiere» [cap. LVII, N.d.T.], Benedetto dice che se si inorgogliscono del proprio lavoro, l’abate deve trovare loro un altro compito da svolgere. Ecco quant’è importante l’umiltà cristiana! E il santo aggiunge che i monaci devono essere scrupolosamente onesti nelle loro attività commerciali. Il motivo? Perché in ogni cosa va glorificato Dio.

 Ecco come dobbiamo affrontare il lavoro: come una serie di opportunità di glorificare Dio.

In senso più profondo, i Benedettini vedono il proprio lavoro quale espressione dell’amore e dell’amministrazione della comunità e come modo di riordinare il mondo naturale in armonia con la volontà di Dio.

Ricordiamoci che, per il monaco, tutto è un dono di Dio e va trattato come sacro. Ogni pensiero e atto umano va centrato in Dio e a Lui indirizzato, e deve essere unito in Lui e con Lui. E noi uomini e donne siamo partecipi dello spiegarsi del Creato di Dio, ordinando il mondo secondo la Sua volontà.

Visto così, il lavoro assume una dimensione nuova. Per i cristiani l’attività lavorativa ha un valore sacramentale.

Come mi spiegava padre Martino Bernhard, trentadue anni: «Il Creato dà lode a Dio. Noi diamo lode a Dio attraverso il Creato, attraverso il mondo materiale ed entro i nostri ambiti di lavoro. Ogni volta che prendiamo qualcosa di neutro, qualcosa di materiale, e ne tiriamo fuori qualcosa spinti dall’amore nel dare gloria a Dio, questa nostra creazione diventa sacramento, diventa un canale della grazia».

Il cuoco del monastero, padre Basilio, mi descriveva le sue fatiche nel preparare i pasti per i confratelli come forma di purificazione, di perfezionamento, a livello tanto umano quanto soprannaturale, dicendo: «Per mezzo del lavoro in cucina, sto instaurando ordine. Sto esercitando la signoria che Dio mi ha donato sul mondo creativo. A partire da una prospettiva umana, il lavoro è tanto importante perché ci aiuta a esercitare quel dominio sulla Terra secondo il comandamento divino. E da un punto di vista pratico, dà sostentamento a noi e agli altri. È importante per noi sapere che, attraverso il nostro lavoro, stiamo dando un importante contributo alla comunità».

E a livello soprannaturale?

La spiegazione di padre Basilio fu adamantina: «In ultima analisi, il lavoro funge da espressione di carità e amore, e questo è quanto tutto il lavoro dovrebbe essere. Per imparare questo tipo di lezione occorre lavorare tutta la vita. Il lavoro non è qualcosa che faccio per ricevere qualcos’altro. Farlo mi fa bene, è costitutivo della mia felicità, perché in esso e attraverso di esso mostro amore per gli altri».

Poi aggiunse: «Siamo chiamati ad amare. Il lavoro è un modo organizzato di mostrare il nostro amore per gli altri. In tal senso, può profondamente trasformare – e anche sovrabbondare di preghiera».

«Troppo spesso viene visto come un peso, e non lo deve essere. Se affrontiamo il lavoro come un peso, c’è qualcosa che non torna qui», disse indicando il suo cuore. «Il problema va fissato principalmente qui, nel cuore».

Nei giorni a venire, le circostanze costringeranno noi cristiani – in particolare quelli che esercitano determinate professioni – a ripensare il rapporto con il nostro lavoro. In alcuni casi saremo messi alla porta, a causa delle nostre convinzioni religiose. In altri, tanto per cominciare, la porta non si aprirà neppure e, se mai si aprirà, uomini e donne con la coscienza a posto non riusciranno a varcarne la soglia. Questo costerà soldi e prestigio e forse soddisfazione professionale. Riorientare il modo in cui concepiamo il lavoro in maniera più teocentrica, nello stile benedettino, ci aiuterà a prendere la decisione giusta, quando saremo messi alla prova sul posto di lavoro, e ci darà più forza quando saremo costretti a trovarci un’altra professione.

 

Ascesi

Sarà difficile da accettare la chiusura di certe professioni ai cristiani ortodossi praticanti. Anzi, è difficile per i credenti di oggi immaginarla, in parte perché, come americani, non siamo abituati ad accettare limiti alle nostre ambizioni. Tuttavia sta avvicinandosi il giorno in cui ciò che è capitato per esempio a panettieri, fiorai e fotografi di matrimoni [che, in quanto cristiani, si erano rifiutati di offrire il proprio servizio in occasione di matrimoni omosessuali, N.d.T.] sarà molto più diffuso. E molti non sono pronti a soffrire privazioni per la fede.

Ecco perché l’ascesi – accettare sacrifici fisici in virtù di un obiettivo spirituale – è una parte tanto importante della normale vita cristiana. Prendiamo ad esempio il digiuno, la forma più comune di ascesi cristiana. Gesù ce la mostrò con il proprio esempio personale, quando digiunò per quaranta giorni nel deserto dopo il suo Battesimo – in questo caso per prepararsi al Suo ministero pubblico. Fu durante tale digiuno che Satana apparve al Signore, e lo tentò affinché trasformasse una pietra in pane per sfamarsi. Gesù si rifiutò di farlo, affermando il primato della Parola di Dio e mostrando che essere padroni dei desideri del corpo è di decisiva importanza per la crescita spirituale.

Ascesi deriva dalla parola greca askesis, che significa “allenamento”. La vita prescritta dalla Regola è rigorosamente ascetica. I monaci digiunano Regolarmente, vivono in semplicità, rifiutano le comodità e obbediscono alle severe norme del monastero. Non è questione di acquisire un merito spirituale. Piuttosto, il monaco conosce il cuore umano e come le sue passioni vadano imbrigliate attraverso una vita disciplinata. L’ascesi è un antidoto contro il veleno dell’autocentrismo, comune nella nostra cultura, che ci insegna che soddisfare i nostri desideri personali è la chiave di accesso alla vita buona. L’asceta sa che la vera felicità si può trovare soltanto vivendo in armonia con la volontà di Dio, e le pratiche ascetiche esercitano il corpo e l’anima a mettere Dio sopra il proprio io.

L’ascesi, specialmente il digiunare secondo il calendario cristiano, è stata per la maggior parte della storia cristiana una parte normale della vita di tutti i credenti. «Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto», dice Gesù nel Vangelo di Matteo (6,17), indicando che periodicamente l’astensione dal cibo per motivi religiosi costituiva una pratica comune. Nel I secolo, i cristiani digiunavano il mercoledì e il venerdì, in memoria del tradimento e della crocifissione di Cristo – una pratica ascetica osservata tutt’oggi dai cristiani ortodossi d’Oriente.

Un cristiano che pratica l’ascesi si allena a dire no ai propri desideri e sì a Dio. Tale forma mentis è completamente sparita dall’Occidente nei tempi moderni. Siamo diventati un popolo che gravita attorno alla comodità. Ci attendiamo che la nostra religione sia comoda. La sofferenza non ha senso per noi. E senza il digiuno e altre discipline ascetiche perdiamo la capacità di dire a noi stessi no alle cose che il nostro cuore desidera.

La riscoperta dell’ascesi cristiana è urgente per quei credenti che vogliano allenare il proprio cuore e il cuore dei propri figli a resistere all’edonismo e al consumismo, che sono al cuore della cultura contemporanea. Ed è necessaria per insegnarci sulla nostra pelle come Dio usi la sofferenza per purificarci per i Suoi scopi. La sofferenza ascetica rappresenta un metodo per evitare di diventare come quei monaci che vengono detti «detestabili» da san Benedetto nella Regola, «il genere peggiore di monaco», ovvero coloro che «hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni» [I,8, N.d.T.].

Nell’insegnamento dei Padri del Deserto, ogni cristiano lotta per sradicare dal suo cuore tutti i desideri che non siano in armonia con la volontà di Dio. Frater Agostino mi ha spiegato come funziona.

«È come se stessi rafforzando la volontà», mi dice. «Puoi magari essere in un periodo di digiuno; lo stomaco si fa sentire perché non puoi mangiare fino alle cinque e mezza. E allora pensi: “Se non riesco a resistere a non mangiare per poche ore, come posso aspettarmi di controllare le mie passioni più spirituali, come l’ira, l’invidia e la superbia? Come posso aspettarmi di avere alcuna auto-disciplina spirituale e morale se non comincio prima con desideri più tangibili, più materiali?”».

Inoltre, per usare l’immagine suggerita da padre Benedetto, l’ascetismo può essere la sveglia che suona per gli spiritualmente pigri. Per citarlo direttamente: «Siamo spesso più lontani da Dio di quanto non ci accorgiamo. L’ascesi serve da salutare richiamo sulla realtà delle cose. Non è una punizione per il nostro essere così lontani».

La persona sovrappeso fa una dieta non per punirsi per i chili di troppo, ma per migliorare la propria salute. L’atleta fa ginnastica non perché si sente in colpa per aver passato troppo tempo seduto a guardare la TV, ma per allenare il proprio corpo per le gare. Lo stesso vale per i monaci e la loro ascesi – e lo stesso deve essere per i cristiani laici. Noi pratichiamo il sacrificio personale per rafforzarci nell’amore e nel servizio di Cristo e del Suo popolo.

Come mi ha detto frater Ignazio: «La sofferenza fa parte della sequela di Gesù Cristo, che patì prima di essere glorificato. Per incontrare Dio anche tu devi soffrire ed essere disposto a sperimentare la sofferenza».

Il reimparare l’ascesi – ossia come “soffrire per la fede” – rappresenta un allenamento decisivo per i cristiani nel mondo oggi e nel mondo del prossimo futuro. «Non vi è grandezza che non sia profondamente fondata sulla vittoria su se stessi e sul sacrificio di sé», disse Romano Guardini, che ha chiarito che tutte le forme di ordine devono cominciare con la padronanza di sé e dei propri desideri. [4]

«La vocazione cristiana è un paradosso. Siamo chiamati a essere nel mondo ma non del mondo», dice frater Evagrio. «Tale paradosso fu vissuto nella Chiesa primitiva, in seno all’Impero Romano, dove si era immersi in una cultura totalmente pagana, e tuttavia c’erano individui e famiglie che avvertivano la chiamata di Cristo e quella ad abbandonare tutto per seguirlo, giungendo persino al martirio. Finché non torneremo effettivamente a quel modello, nulla di quel facciamo porterà frutto».

 

Stabilità

Proseguendo con l’immagine di frater Evagrio, un albero che venga ripetutamente sradicato e trapiantato farà fatica a produrre un frutto sano. Lo stesso vale per le persone e la loro vita spirituale. La mancanza di radici non è certo un problema nuovo. Nel primo capitolo della Regola, san Benedetto denunciava il tipo di monaco che chiamava “girovago”.

«Per tutta la vita passano da un paese all’altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie» – e sono peggiori, secondo il santo, persino dei monaci edonisti la cui legge è il desiderio.

Se si intende metter radici di tipo spirituale, insegnava Benedetto, occorre che si rimanga in un luogo per un periodo abbastanza lungo perché esse si approfondiscano. La Regola richiede ai monaci di fare voto di “stabilità” – cioè, escludendo circostanze insolite, compresa quella di essere inviati in missione, di restare per il resto della vita nel monastero dove si sono presi i voti.

Come diceva padre Benedetto: «Forse questa è probabilmente la parte più in controtendenza culturale della vita benedettina. È la vita di Maria, non di Marta: stare fermi ai piedi di Cristo, qualsiasi cosa dicano tu non stia facendo».

La Bibbia ci mostra che Dio chiama alcune persone a raccogliere le proprie cose e spostarsi per raggiungere i Suoi scopi; padre Benedetto lo riconosceva. «Però, in una cultura come la nostra, dove tutti sono sempre in movimento, la chiamata benedettina a stare fermi qualsiasi cosa accada può evocare nuove e importanti modalità di servire Dio».

Zygmunt Bauman dice che la modernità liquida ci spinge forzatamente a rifiutare la stabilità perché essa non serve a niente, e scrive: «Il fulcro della strategia di vita postmoderna non è costruire un’identità, ma evitare la fissità». [5] Nella spietata analisi di Bauman, per aver successo oggi occorre essere liberi da tutti gli impegni, slegati dal passato o dal futuro, vivendo in un eterno presente. Il mondo cambia tanto velocemente, che la persona fedele a qualsiasi cosa, persino alla propria identità, si assume un rischio enorme.

Invece di credere che la struttura sia cosa buona e che i doveri verso la casa e la famiglia ci conducano a vivere rettamente, la gente oggi è stata proditoriamente indotta dalla modernità liquida a credere che lo scopo della vita debba essere massimizzare la felicità individuale. Il girovago, il villano della Regola di san Benedetto, è l’eroe della postmodernità.

Per gran parte della mia vita sarebbe stato corretto definirmi un girovago. Mi sono spostato da un posto di lavoro a un altro, salendo la scala della carriera. In soli vent’anni ho cambiato città cinque volte e confessione religiosa due volte. Mia sorella minore Ruthie, di contro, è rimasta nella cittadina della Louisiana dove siamo stati cresciuti. Ha sposato il suo ragazzo delle superiori, insegnato nella stessa scuola che frequentavamo da bambini e allevato i suoi figli nella stessa chiesa di campagna.

Quando venne colpita da tumore maligno nel 2010, mi accorsi dell’immenso valore della stabilità che aveva scelto. Ruthie aveva un’ampia e profonda rete di amici e parenti che si prendevano cura di lei, con il marito e i figli, nel periodo della sua prova durato più di un anno e mezzo. L’amore di cui la sua comunità sommerse Ruthie e la sua famiglia rese sopportabile la lotta, sia durante l’ultimo tratto della sua vita sia dopo la sua morte. La testimonianza del potere della stabilità nella vita di mia sorella mi toccò così profondamente il cuore che mia moglie e io decidemmo di lasciare Philadelphia e di trasferirci nel Sud della Louisiana per stare vicini a tutti loro.

Non tutti sono chiamati a tornare alla propria città natale, naturalmente, ma tutti dovrebbero profondamente riflettere sui costi spirituali ed emotivi della libertà di girovagare, che noi americani contemporanei consideriamo un diritto inalienabile. In un certo senso, ciò che all’apparenza sembra libertà, può per davvero essere una forma di prigionia.

Padre Martino ha spiegato che quanti pensano che la stabilità sia fatta per trattenerti e per soffocare la crescita personale e spirituale non afferrano il valore nell’impegno alla stabilità. Essa ti àncora e ti dona la libertà che deriva dal non essere preda del vento, delle onde, delle correnti della vita di ogni giorno. Essa crea condizioni ordinate in cui il pellegrinaggio interiore dell’anima verso la santità diventa possibile.

O, per usare le parole di padre Martino: «La stabilità ci dà il tempo e la struttura per andare in profondità in quello che siamo come figli di Dio».

 

Comunità

La mancanza di radici nella vita contemporanea ha spezzato i legami della comunità. Al giorno d’oggi è comune trovare persone che non conoscono i vicini di casa e non hanno veramente intenzione di conoscerli. Essere parte di una comunità significa condividerne la vita. Ciò impone inevitabilmente qualcosa al singolo che limita la sua libertà.

La Chiesa non è sempre un segno di contraddizione verso questa moderna mancanza di comunità. Nel primo decennio della mia vita di cristiano adulto, lasciavo la chiesa appena finivano le funzioni. L’avere a che fare personalmente con le persone che frequentavano la comunità non era per me interessante. Gesù e io eravamo tutto quello che mi serviva, o almeno così pensavo. Si potrebbe dire che non fossi interessato a unirmi al loro pellegrinaggio, che preferissi essere un turista in chiesa – ed ero troppo immaturo per capire come questo fosse dannoso.

L’approccio consumistico dei credenti alla comunità riproduce la frammentazione che sta frantumando il cristianesimo nel mondo contemporaneo. Nei monasteri benedettini i monaci sono sempre consapevoli di non essere semplicemente individui singoli che condividono una residenza con altri individui, ma di essere parte di un tutto organico – una famiglia spirituale.

Le istruzioni della Regola riguardanti l’obbedienza, intendono promuovere la responsabilità reciproca. Nel monastero tutti dipendono da tutti gli altri; e le decisioni importanti vanno prese con gli altri e considerando i loro interessi. Vivere in una comunità autentica significa anteporre il bene degli altri ai nostri interessi personali, quando farlo serve alla verità e alla giustizia.

Molte delle istruzioni più rigorose della Regola sono volte a proteggere la vita comunitaria. Benedetto dedica un capitolo a prescrivere pene per i monaci che arrivano in ritardo alle funzioni liturgiche di preghiera. Il santo spiega che se gli altri vedono il cattivo esempio fornito da questi ultimi possono magari esser tentati di comportarsi male. Una scuola per il servizio del Signore non può compiere la propria missione se i suoi studenti sono spesso ritardatari.

Benedetto dedica parecchi capitoletti alle punizioni per altre infrazioni. Il suo metodo consiste nell’incoraggiare i monaci che le abbiano commesse a confessare subito la propria colpa all’abate e a riceverne un rimprovero. Se la colpa viene all’attenzione del monaco dalla testimonianza di un altro, la punizione deve essere maggiore. E, se le trasgressioni di un monaco sono così gravi da provocarne la scomunica dall’oratorio o dalla tavola comune, può esservi restituito soltanto dopo essersi prostrato davanti alla comunità quale atto di scuse e di umiltà, finché l’abate non accetti il suo pentimento.

Il punto di esercizi simili non sta nel creare imbarazzo nei monaci che sbagliano, ma piuttosto nel disciplinarli per il bene loro e dell’intera comunità. Essere cristiano ed essere un membro votato di una comunità religiosa impone determinati obblighi nei riguardi degli altri. Le norme e la disciplina per quanti le infrangano levigano gli spigoli più acuti dell’egoismo individuale, che si ergono come rocce frastagliate in mezzo al sentiero del pellegrino verso la santità.

Come un padre saggio e generoso, san Benedetto capiva che imporre norme e disciplina ai suoi figli spirituali non era un atto di dominio, ma di amore, che li aiutava a crescere nella carità. Chiuse la Regola esortando chi lo seguiva ad abbracciare l’amore comunitariamente. Nel suo penultimo capitolo, il santo comandava ai suoi confratelli di gareggiare con zelo nel servire gli altri:

 

Come c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all’inferno così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. Ed è proprio in quest’ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità e cioè: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali, gareggino nell’obbedirsi scambievolmente, nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; temano filialmente Dio; amino il loro abate con sincera e umile carità; non antepongano assolutamente nulla a Cristo. [LXXII,1- 11, N.d.T.]

 

Uno standard simile è difficile da ottenere in qualsiasi famiglia, tanto più in una comunità di estranei, molti dei quali provengono da retroterra molto diversi e persino Paesi diversi. Tuttavia, soltanto ponendo questo obiettivo per i singoli e la comunità nel suo complesso, il monastero sarà in grado di formare fedeli servitori di Cristo.

La vita comunitaria cristiana, in congregazioni vuoi monastiche vuoi ordinarie, mira a costruire il tipo di rapporto affettivo di cui ciascuno di noi ha bisogno per completare il proprio pellegrinaggio individuale. Come Dietrich Bonhoeffer ha affermato in Vita comune, la sua personale Regola per vivere in una comunità di fedeli:

 

Un cristiano ha bisogno degli altri cristiani, che dicano a lui la Parola di Dio; ne ha bisogno ogni volta che si trova incerto e scoraggiato; da solo, infatti, non può cavarsela, senza ingannare se stesso sulla verità. Ha bisogno del fratello che gli porti e gli annunci la Parola divina di salvezza. [6]

 

La vita comunitaria non è un ideale sognante, scriveva Bonhoeffer, ma un’iniziazione spesso difficile alla «realtà divina» che è la Chiesa. Ovvero, la Chiesa esiste quale fratellanza istituita da Cristo, anche se in un determinato momento non la sente. Il pastore luterano, che morì martire, insegnava che le lotte in seno alla comunità rappresentano un dono della grazia di Dio, perché costringono i membri a venire a patti con la realtà della propria vita comune, nonostante la loro fragilità. Una comunità che non sappia affrontare le proprie colpe e amarsi fino a risanarsi non è veramente cristiana.

Padre Martino ha ammesso che «non è facile. Risulta fattibile soltanto attraverso la grazia, e questa è la bellezza del cristianesimo: che può raggruppare persone di famiglie di sangue diverse, di lingue ed etnie differenti e darci una cultura comune».

La comunità monastica di Norcia comprende fratelli provenienti da Stati Uniti, Indonesia, Brasile, Germania e Canada. La vita in comune può essere molto difficile, dicono i monaci, ma è essenziale per sperimentare il voto benedettino alla «conversione della vita».

Inoltre, insegna al singolo monaco ad ampliare la conoscenza di se stesso. Come disse padre Martino: «Quando un uomo viene per la prima volta al monastero, ciò che immediatamente nota sono le stranezze di ciascuno – ovvero ciò che non va in tutti gli altri. Ma più a lungo vivi qui, più cominci a pensare: cosa c’è che non va in me? Entri più approfonditamente in te stesso per imparare i tuoi punti di forza e di debolezza personali. E ciò ti conduce ad accettare gli altri».

Padre Basilio dice che, nei suoi anni da monaco, è arrivato ad avere una comprensione molto più chiara di ciò che significhi vivere come Corpo di Cristo: la comunità quale complesso organico, unito in Cristo, con ciascun uomo impegnato nell’amore a fare la propria parte per rafforzare il complesso. «Dio ha distribuito le proprie grazie in modo tale che abbiamo proprio bisogno gli uni degli altri», aggiunge il sacerdote. «Certamente c’è in me l’uomo vecchio, che desidera l’individualismo; ma più vivo in comunità, più sento come non si riesca a conservarlo e ad esservi fedele e, insieme, pienamente umano».

Nei suoi viaggi per occuparsi degli affari del monastero, padre Martino, che ne è l’economo, scorge spesso un vuoto sul volto di molte persone che incontra. Appaiono così ansiose, così destabilizzate, così incerte. Il monaco crede che questo sia il risultato della solitudine, dell’isolamento e della mancanza di legami comunitari profondi e vivificanti. Quando la luce sul viso della maggioranza delle persone viene dal riverbero dello schermo del pc, dello smartphone o della televisione, stiamo vivendo in un’epoca buia.

Padre Martino aggiunge: «Stanno perdendosi la luce fondamentale che deve risplendere in una persona umana attraverso l’interazione sociale. Soltanto da questa può venire l’amore. Senza il contatto reale con altre persone umane, non vi è amore. Non abbiamo mai visto un’età oscura come questa».

 

Ospitalità

L’approccio benedettino a preghiera, lavoro, ascesi, stabilità e comunità richiede pratiche che creino un forte amalgama in seno alla comunità monastica. La vicinanza e la coesione sono moltiplicate dalla separazione dei monaci dal mondo. Benedetto, però, nella Regola ordina loro di essere consapevoli che non vivono soltanto per se stessi ma anche per servire gli altri.

Secondo la Regola non dobbiamo mai respingere qualcuno che ha bisogno del nostro amore. Una Chiesa o un’altra comunità ispirata dall’Opzione Benedetto deve essere aperta al mondo, per condividere l’abbondanza dell’amore di Dio con coloro cui esso manca.

I monaci vivono per lo più una vita di clausura – ovvero rimangono dentro le mura del monastero e limitano il proprio contatto con il mondo esterno. Il lavoro spirituale che sono chiamati a svolgere richiede silenzio e separazione. Il nostro lavoro non richiede le stesse strutture. Da cristiani laici che vivono nel mondo, la nostra chiamata consiste nel cercare la santità in condizioni sociali più comuni.

Tuttavia, persino i Benedettini nei monasteri di clausura praticano l’ospitalità cristiana al forestiero. La Regola comanda che tutti coloro che si presentano come pellegrini e visitatori al monastero «siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Ero forestiero e mi avete accolto” (Mt 25,35)». Se siete invitati a mangiare con i monaci in refettorio, essi vi accolgono la prima volta con una cerimonia apposita di abluzione delle mani prescritta dalla Regola.

Frater Francesco Davoren, quarantaquattro anni, il responsabile del birrificio del monastero, era precedentemente responsabile del refettorio, ossia il monaco incaricato di sovrintendere alla sala da pranzo. Si accostava a tale compito con un’immaginazione sacramentale.

Esprimeva così il concetto: «San Benedetto dice che Cristo è presente nei fratelli e che Cristo è presente nei nostri ospiti. Ogni giorno che penso “Cristo sta arrivando”, renderò il loro soggiorno più piacevole che posso, per mostrare loro che ne ho avuto cura. Questo è un buon modo per arrivare alle persone: rispettarle, riconoscere la loro dignità, mostrare loro che sai vedere Cristo in loro e che le vuoi coinvolgere nella tua vita».

Quale responsabile degli ospiti, frater Ignazio è il punto di contatto tra i pellegrini e la comunità dei monaci. Spiega il motivo per cui questi ultimi prendono così seriamente le parole di Cristo relative all’accoglienza dei forestieri: «Si tratta per così dire di un avvertimento: se vuoi essere accolto in Paradiso, faresti meglio ad accogliere le persone come Cristo stesso ora, anche se non ti piace, anche se soffri a causa di quelle persone. Se la tua vita è cercare Cristo, ecco! Troverai la redenzione nel servire questi ospiti, perché in loro viene Cristo».

San Benedetto ordina ai propri monaci di essere aperti al mondo esterno, ma fino a un certo punto. L’ospitalità va dispensata seguendo il principio della prudenza, affinché ai visitatori non venga permesso di compiere atti che sconvolgano lo stile di vita del monastero. Per esempio, a tavola il silenzio è mantenuto dai visitatori come dai monaci. Nelle parole di frater Agostino: «Se permettiamo ai visitatori di turbare troppo il ritmo della nostra vita, allora non possiamo davvero accogliere nessuno». Il monastero riceve costantemente visitatori che hanno ogni genere di problemi e cercano consigli, aiuto, o soltanto qualcuno che li ascolti; ed è importante che i monaci mantengano l’ordine necessario per permettere loro di offrire questo tipo di ospitalità.

Piuttosto che eccedere in cautela, padre Benedetto crede che i cristiani dovrebbero essere il più possibile aperti al mondo, senza dover però scendere a compromessi: «Penso che troppi cristiani abbiano deciso che il mondo sia cattivo e si debba evitare il più possibile. Beh, è difficile convertire la gente se si prende una posizione simile. È molto più facile aiutare le persone a vedere il bene che hanno dentro e poi coinvolgerle, che coinvolgerle facendo notare la loro cattiveria».

Il potere della cultura popolare è così schiacciante che i fedeli cristiani ortodossi avvertono spesso il bisogno di ritirarsi dietro le linee difensive. Eppure frater Ignazio, a cinquantun anni, mette in guardia contro il pericolo che i cristiani si facciano così prendere dall’ansia e dalla paura da smettere di condividere la Buona Novella, in parole e atti, con un mondo tenuto prigioniero dall’odio e dall’oscurità. È prudente fissare confini ragionevoli tra i cristiani e il mondo, però dobbiamo stare attenti a non essere come il servo infedele nella parabola dei talenti, punito dal padrone per la sua

amministrazione povera e pavida dei beni del padrone stesso. «La miglior difesa è l’attacco. Ci si difende attaccando», ha soggiunto frater Ignazio. «Attacchiamo espandendo il regno di Dio – in primis nel nostro cuore, e poi nel mondo. Sì, bisogna avere confini, ma è nostro dovere non lasciare che i confini restino dove sono. Dobbiamo spingerli verso l’esterno, all’infinito».

 

Equilibrio

La vita benedettina è rigorosa ma, se vissuta secondo la Regola, è anche libera da fondamentalismi ed estremismi. «Ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso» [Prol. 46], scriveva Benedetto. Lo scopo della Regola, affermava – e anzi lo scopo della vita –, è che «si corra per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile soavità dell’amore» [Prol. 49].

Padre Basilio osservava: «San Benedetto fa propria l’immagine che la Scrittura usa per parlare di Cristo stesso. “La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante” [Mt 12,20 cfr. Is 42,3, N.d.T.]. L’umanità è già fragile. Bisogna che la trattiamo con cura, con premura, con delicatezza».

Quest’orientamento verso la vita comunitaria si pone in netto contrasto con una molteplicità di altre comunità intenzionali cristiane, che si sono dissolte o sono diventate simili a culti, perché una guida autoritaria ossessionata dalla purezza ha abusato del potere.

Frater Francesco ha espresso l’idea in questi termini: se una comunità allenta eccessivamente la propria disciplina, si dissolverà. Se però è troppo rigida, condurrà alla pazzia. Detto con le sue parole: «Se si vuol giudicare una comunità, occorre considerare il frutto che ha prodotto. Stanno crescendo? Sono allegri? Sono felici? Stanno facendo del bene e aiutando la gente? Si consideri ciò che una comunità produce, per vedere che tipo di equilibrio ha raggiunto».

L’equilibrio, dunque – o, detto altrimenti, la prudenza, la misericordia, e il retto giudizio – costituisce la chiave per governare la vita di una comunità cristiana. Lo stesso vale per il mantenimento del necessario per la vita quotidiana dei monaci – mangiare, dormire, pregare, lavorare, leggere – in un rapporto armonioso, affinché nessuno prevarichi la vita di un altro e tutti siano integrati in un complesso sano.

Padre Benedetto, però, ha insistito sul fatto che nessuno dovrebbe pensare alla Regola come qualcosa che riguarda una vita in equilibrio, nel senso di accontentarsi delle mezze misure e della mediocrità spirituale. L’equilibrio non è tra bene e male ma tra diversi tipi di bene.

Benedetto non voleva creare monaci insicuri. «Vuole che si diventi santi. E i santi non sono solitamente persone molto equilibrate», dice ridendo padre Benedetto. «Stava creando una vita fatta di radicalità: totale distacco ed enfasi sulla conversione: dare tutto a Dio, sempre».

Anche i laici possono trarre beneficio dalla Regola, ha aggiunto, se capiscono cosa ci sia di radicale nella vita di san Benedetto: l’abbandono totale della volontà propria a favore della volontà di Dio. Il metodo potrebbe richiedere equilibrio nella sua applicazione, ma lo scopo che ci è dato dal Signore è straordinario: essere perfetti, come il Padre nei cieli è perfetto.

Poiché Gesù è una cosa sola con il Padre, coloro che cercano la perfezione devono tentare di imitarlo. È naturalmente un’eresia credere che possiamo raggiungere tale perfezione per conto nostro o non avendo ancora varcato le porte del paradiso. È un paradosso della vita cristiana: più santi si diventa, più si è consapevoli della propria imperfezione e, pertanto, della propria assoluta dipendenza dalla misericordia di Dio. Detto ciò, l’ideale di perfezione è incarnato da chi è simile a Cristo in tutte le cose dal momento che risponde pienamente alla chiamata del Signore. Che sia chiamata al monastero o al mondo, alla famiglia o al libero stato, al lavoro manuale o davanti a una scrivania, a stare a casa o a viaggiare per il mondo, la persona in questione deve compiere il massimo sforzo di conformarsi a Gesù. Ordinando metodicamente e pragmaticamente corpo, anima e mente a una vita armoniosa centrata su quel Cristo che è presente ovunque e ricolma tutte le cose, la via benedettina offre una spiritualità accessibile a chiunque. Per il cristiano che segue la strada tracciata da san Benedetto, la vita di tutti i giorni diventa una preghiera incessante, tanto offerta a Dio quanto ricevuta in dono da Lui, che è colui che ci trasforma a poco a poco a somiglianza di Suo figlio.

 

L’unica grande tragedia nella vita

L’esempio benedettino rappresenta un segno di speranza, ma anche un avvertimento: quali che siano le circostanze in cui si trova, il cristiano non può mantenersi fedele a questo modello di vita se Dio è solo una parte della sua vita, scisso dal resto. In fin dei conti, o Cristo è al centro della nostra vita o lo sono l’io e tutte le sue idolatrie. Non esiste una via di mezzo. Con il Suo aiuto, possiamo mettere insieme i frammenti della nostra vita e ordinarli intorno a Lui, ma non sarà facile e non possiamo farlo da soli. Sforzarsi di raggiungere qualsiasi cosa di un livello inferiore significa, però, sperimentare quanto ha scritto il saggista cattolico francese Léon Bloy: «L’unica vera tristezza, l’unico vero fallimento, la sola grande tragedia nella vita, è non diventare santi». [7]

Mentre mi preparavo a lasciare il monastero di San Benedetto dopo il mio soggiorno, menzionai a padre Martino quanto sia in assoluto insolita la semplice esistenza di un posto simile nel mondo moderno. Uomini giovani che recuperano una tradizione di preghiera, liturgia e vita ascetica comunitaria che risale alla Chiesa primitiva, facendolo con tanta evidente gioia? Non dovrebbe succedere di questi tempi.

Eppure eccoli qui: un segno di contraddizione verso la modernità.

Sul volto di padre Martino balenò un ampio sorriso da sotto la barba nera e disse che tutti i cristiani possono fare quest’esperienza gioiosa, se sono disposti a fare quel che è richiesto per organizzare il recupero, «per raccogliere quello che abbiamo perso e per farlo rivivere».

«In questo c’è qualcosa di molto antico, ma anche di nuovo», ha aggiunto padre Martino. «La gente dice: “State solo provando a tirare indietro le lancette dell’orologio”. Non ha senso. Se si sta facendo qualcosa in questo preciso momento, significa che lo si sta facendo in questo preciso momento. È nuovo, ed è vivo! Ed è qualcosa di molto potente».

Lasciando Norcia e scendendo dalla montagna, un pellegrino può magari invidiare ai monaci la semplicità della loro vita nel tranquillo paesino. La serenità e la solidità di Norcia e dei suoi Benedettini sembrano così lontane dal mondo tumultuoso laggiù, e non dovrebbe sorprendere se già ne sentiamo la mancanza ancor prima di raggiungere la stazione ferroviaria a Spoleto. Se, però, si è ricevuto il dono di Norcia in modo corretto, non si va via a mani vuote e impreparati ad affrontare quel che si ha di fronte. Giacché i fratelli conversi e i padri del monastero di Norcia vi avranno offerto una visione fugace di cosa possa essere la vita insieme in Cristo. Vi avranno mostrato che il cristianesimo tradizionale non è morto, e che il Vero, il Bello e il Buono si possono trovare e riportare alla vita, anche se farlo non vi costerà nulla di meno di tutto. E avranno condiviso il loro insegnamento antico, curato dalle mani di monaci e monache di generazione in generazione per un millennio e mezzo – una sapienza che può aiutare i credenti comuni, che combattono nel mondo moderno, non solo a tener duro in una nuova Età Oscura, ma anzi a fiorirci.

Come possiamo portare la sapienza benedettina fuori dal monastero e applicarla alle sfide della vita nel mondo nel XXI secolo? È a questo interrogativo che ora dobbiamo volgerci. La via di san Benedetto non è una via di fuga dal mondo reale ma un modo di vedere quel mondo e abitare in esso nella sua autenticità. La spiritualità benedettina ci insegna a sopportare il mondo nell’amore e a trasformarlo come lo Spirito Santo ci trasforma. L’Opzione Benedetto attinge alle virtù descritte nella Regola per cambiare il modo in cui i cristiani affrontano la politica, la Chiesa, la famiglia, la comunità, l’istruzione, i nostri mestieri, il sesso e la tecnologia.

E lo fa con urgenza. Quando dissi per la prima volta a padre Cassiano dell’Opzione Benedetto, rimuginò le mie parole e disse in tono grave: «Coloro che non praticano in qualche modo ciò di cui tu parli, non passeranno indenni attraverso ciò che sta per capitare».

 


[1] Esther De Waal, Seeking God: The Way of Saint Benedict [Alla ricerca di Dio. La via di san Benedetto], Liturgical Press, Collegeville, MN 2001, p. 15.

[2] La traduzione italiana della Regola di san Benedetto citata nel testo è quella disponibile online all’indirizzo: https://www.ora-et-labora.net.

[3] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, in Idem, La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 7-109

[4] Ibidem.

[5] Zygmunt Bauman, «From Pilgrim to Tourist, or, A Short History of Identity» [Da Pellegrino a turista ovvero Una breve storia dell’identità], in Questions of Cultural Identity, a cura Stuart Hall e Paul du Gay, SAGE Publications, Thousand Oaks, CA 1996, p. 24.

[6] D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2003, p. 19.

[7] Léon Bloy, citato in Peter Kreeft, Prayer for Beginners, Ignatius Press, San Francisco 2000, p. 39.

 


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21 giugno 2022                Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti   alberto@ora-et-labora.net