Doroteo di Gaza

L’opera e l’insegnamento spirituale

Maurizio Paparozzi

Estratto da “Doroteo di Gaza – Insegnamenti spirituali” – Città Nuova Editrice 1993)

(Il testo originale comprende molte note esplicative)


 

2. L’opera

 

Gli scritti di Doroteo giunti fino a noi non sono tutti quelli che egli aveva composto: lo sapeva già con certezza l’anonimo autore della Lettera che accompagna il corpus delle opere di Doroteo e la Vita di san Dositeo. La tradizione manoscritta ci ha trasmesso una serie di ventiquattro Didaskaliai (= Insegnamenti) e otto brevi lettere. Di queste Didaskaliai, però, alcune non sono, in realtà, discorsi tenuti ai monaci, ma scritti di altra natura, talvolta epistolare, che sono stati raggruppati insieme alle Didaskaliai vere e proprie: si tratta degli scritti che nell’edizione settecentesca del Galland, ristampata in PG 88, portano i numeri XVI- XXI; il numero XXIV, infine, non è di Doroteo, ma di Giovanni di Daljatha (VIII secolo). I manoscritti conoscono altri brani di natura varia attribuiti a Doroteo, ma la loro autenticità è molto meno sicura. Gli Insegnamenti spirituali veri e propri, perciò, si riducono a diciassette discorsi, che sono appunto quelli qui tradotti

Come si è detto, sappiamo da Doroteo stesso che nella sua giovinezza egli aveva compiuto buoni studi classici, rendendosi padrone della cultura pagana. Di questa cultura però, da cui si è distaccato come da tutto il resto, Doroteo non lascia trasparire quasi nulla. Entrando in monastero, egli aveva portato con sé i suoi libri, che ad un certo momento decise di regalare alla comunità. Le letture che continuò a fare in monastero furono, ovviamente, di tutt’altro genere: lo vediamo chiedere spiegazioni sull'Asketikon di san Basilio, e interessarsi, una volta nominato infermiere, ad opere tecniche di medicina per prepararsi più coscienziosamente al suo lavoro letture, queste ultime, che lasceranno in lui traccia duratura, vista la relativa frequenza con cui Doroteo usa termini medici o paragoni tratti dalla scienza medica.

Ma le letture che il giovane monaco fece e che furono determinanti per la sua formazione spirituale furono, in realtà, quella della tradizione cristiana e monastica in particolare. Oltre, naturalmente, ai libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, che Doroteo, come ogni monaco faceva da più di due secoli, avrà imparato in buona parte a memoria e che egli cita con tutta spontaneità ogni momento, le sue letture devono essere state estese: egli cita, nominandoli, Clemente Romano, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo. Soprattutto, però, è citata in abbondanza la letteratura più specificatamente monastica: queste citazioni, come è ovvio, non sempre derivano da lettura di testi scritti, ma spesso sono l'eco di una fiorentissima tradizione orale che si tramanda, nei cenobi come nelle celle eremitiche, di generazione in generazione. Doroteo nomina spesso alcuni grandi monaci e cita espressioni di Marco Eremita, di Zosima, di Giovanni il Profeta, ma soprattutto dei Gerontika, le raccolte di apoftegmi (sentenze) dei Padri del deserto che proprio nella stessa età di Doroteo stavano ricevendo la loro sistemazione. Un altro autore Doroteo cita con predilezione, il discusso Evagrio Pontico, che pure non era affatto amato dai suoi maestri Barsanufio e Giovanni, anche se è vero che ne cita quasi esclusivamente le opere ascetiche, quelle che continuarono ad esser lette e stimate da tutta la tradizione monastica orientale medievale anche dopo le condanne di Origene, del quale Evagrio riprendeva le dottrine.

Ma oltre a questi autori non di rado traspare, attraverso allusioni, citazioni indirette, riferimenti tematici, la dimestichezza di Doroteo con parecchi altri scrittori, specialmente Clemente Alessandrino, il grande Origene, Gregorio di Nissa quella tradizione, insomma, più « intellettuale », se si vuole più iniziatica, che non trovava eco indiscussa negli ambienti monastici —, infine una delle personalità più spiccate del V secolo, l’abbas Isaia. In queste sue letture, che vanno da quelle più tradizionali a quelle meno pacificamente approvate, Doroteo rivela una serenità di sguardo e, nell’indipendenza della valutazione, un equilibrio che sono poi quelli che caratterizzano tutta la sua opera e la sua personalità.

Gli Insegnamenti spirituali sono discorsi tenuti ai monaci: e del discorso diretto conservano tutto l'andamento, la libertà, la freschezza. La lingua è la lingua parlata, con la sua schiettezza e la sua mancanza di artificio, i suoi modi popolareschi e le sue ripetizioni, quella lingua in cui si esprimeva, con semplicità, la grande tradizione del deserto: anche nello stile, evidentemente, Doroteo si è distaccato da quell'educazione retorica che i suoi studi giovanili gli avevano certo reso familiare. È un buon padre che parla ai suoi figli spirituali nel modo ad essi più accessibile.

Il discorso si colorisce spesso e volentieri delle immagini più concrete della vita quotidiana, sfruttate per rendere più evidenti le vie dello spirito: le scorciatoie che abbreviano il cammino, un carro aggiogato, un albero che si carica di frutti, gli abiti eleganti che si portano con cura, una lampada che si spegne lasciando al buio la stanza, il melone che l’urto di un piccolo sasso basta a guastare, l’abile arte del pescatore, la pagnotta bella all'esterno, ma dentro muffita, gli animali da soma robusti o fiacchi, il cane che lascia il morso per correre dietro a un sasso, il progressivo accendersi e divampare del fuoco, la ferita che si cicatrizza lentamente, l’impegno nell’imparare un mestiere, il legno tarlato, un viaggio a Gerusalemme, l’aquila superba che un piccolo laccio basta a rendere impotente, un podere incolto da dissodare e seminare, l’arte del tuffo del sapiente nuotatore, l’effetto della pioggia e del vento sul tenero germoglio, la costruzione di una casa o di una nave, l'opera della tessitrice intenta al lavoro, gli splendidi colori del ritratto del re.

Di tanto in tanto, l'ammaestramento si distende nel piacere di narrare con vivacità episodi e storie edificanti, spesso ereditati dalla tradizione monastica: passano cosi davanti ai nostri occhi il fratello che sa vincere la tentazione invocando le preghiere, miracolosamente efficaci, del proprio padre spirituale, san Basilio che ordina prete un monaco obbediente, il demonio che tenta di abbindolare i discepoli del grande Macario e, scornato, s'intrattiene con quest’ultimo come con un vecchio conoscente cui si raccontino i propri guai, l’Anziano che aveva osato condannare un fratello, la donna nascosta nella botte dal monaco caduto nella fornicazione e poi ravvedutosi grazie alla magnanimità di sant’Ammonas, l’Anziano ammalato che pazientemente mangia il nocivo olio di lino al posto del miele che il fratello distratto avrebbe dovuto somministrargli, l’Anziano che fa sradicare al discepolo alberelli sempre più difficili da scalzare per fargli capire che bisogna sradicare le passioni quando esse sono ancora tenere; ma forse i due racconti più belli, per il loro senso di rispettosa pietà e per la soprannaturale meraviglia che aleggiano nell'uno e nell'altro, e che non trovano precedenti letterari, sono quello delle due bambine adottate, rispettivamente dalla monaca e dall’attrice, e quello dell'angelo che durante l’ufficio notturno benedice, invisibile, i salmodianti. L’aspetto però che riesce forse più simpatico e caldamente umano del narrare di Doroteo sono i numerosi ricordi della sua vita, che egli ama richiamare per l’ammaestramento dei suoi discepoli, appunto come un buon padre o forse un saggio nonno. E sono episodi graziosi o tristi, vissuti da lui in persona o visti accadere ad altri, del passato e del presente, ma sempre meditati con attenzione per capirne la lezione nascosta; si rievocano così conversazioni, usanze della vita cenobitica, personaggi disegnati con mano leggera e insieme precisa, spesso introdotti con l’espressione familiare a Doroteo: « Quando ero nel cenobio... ». Ecco allora l’obbedienza senza riserve di un discepolo di Ascalona, che riesce ad aver ragione anche della tempesta, o il disprezzo superbo fino all’apostasia di un altro monaco, l’amabile conversazione con un dignitario di Gaza, la figura dell’abbas Zosima nella sua semplicità, il fratello sempre inalterabilmente sereno nella sua umiltà, o il diverbio astioso di altri due fratelli, i sospetti visionari di un monaco menzognero, i furti incorreggibili di un confratello, una conversazione sull’aldilà con un grande Anziano, la liberazione dalla tentazione di un fratello mediante la dedizione al servizio dei malati. Ancora, Doroteo racconta di sé, della sua vita passata e anche di quella attuale: ed eccolo rievocare i suoi studi giovanili, il suo servizio riverente all'abbas Giovanni, i suoi dubbi di giovane monaco o i suoi momenti di depressione, i suoi tentativi di capire gli altri, anche se maldestri, le sue osservazioni sul minore impegno ascetico degli Anziani avanzati in età, ma anche i tempi del suo servizio nell’infermeria e nella foresteria, le molestie sopportate con pazienza da parte di confratelli sbadati o malintenzionati; oppure eccolo parlarci delle sue visite a confratelli convalescenti, paternamente sollecito, come superiore, della loro salute, o dei suoi attacchi reumatici, magari favoriti da qualche pasto un po’ più abbondante preso per far compagnia agli ospiti del monastero di cui è a capo. È la vita di un cenobio antico ma ancor oggi cosi simile che traspare ad ogni pagina delle Didaskaliai, con le diverse mansioni o incarichi dei vari monaci, che sono al servizio. gli uni degli altri come le membra di un unico corpo: conosciamo così il cuoco, l’ortolano, il cellerario, l’economo, il canonarca, l’addetto alla sveglia, il foresterario; oppure ci si aprono squarci sulla vita quotidiana e sui rapporti tra i monaci, spesso cosi tristemente distanti dalla vera carità fraterna: dalle gelosie alle percosse reciproche, dalle chiacchiere oziose e dalle bugie ai pretesti per non alzarsi per la veglia notturna, alle vie traverse per ottenere ad ogni costo quel che si vuole, alle rimostranze fatte al cellerario, al cuoco, al canonarca, all’addetto alla sveglia; mentre l'umiltà e il rispetto vicendevoli o l’aiuto da porgersi reciprocamente, specialmente nei momenti di prova spirituale, restano un invito e un’esortazione del padre Doroteo piuttosto che, forse, realtà vissuta da tutti.

Doroteo non intese mai fare opera letteraria: ma tanto più fresca e viva, aderente senza pretese alla multiforme realtà del suo ambiente, risulta la prosa di questo antico monaco, scrittore malgrado lui stesso, uno dei più amabili rappresentanti della tradizione monastica.

 

3. L’insegnamento spirituale

 

È condizione insita nella natura stessa della vita monastica quella di situarsi all’interno di una tradizione vivente che si trasmette da padre nello spirito a figlio nello spirito. È così che i detti dei Padri e « Padri » sono di regola, in questa tradizione, i monaci più famosi, non quello che oggi noi intendiamo con l’espressione «Padri (della Chiesa) » — diventano la norma della vita eremitica e cenobitica, con autorità non distante da quella della Bibbia, che resta in sostanza l’unico libro del monaco. Fondata sulla fedeltà alla Scrittura, sulla ferma volontà di conformazione del monaco al Signore nell’ascesi e nella preghiera, sull’analisi attenta dei moti più profondi e più sottili della psiche quanti secoli prima della « psicanalisi »! —, la dottrina dei monaci tende ad essere abbastanza intemporale ed uniforme: anche i più audacemente originali, come Evagrio Pontico, sono inconcepibili fuori dell’alveo di una tradizione da cui, proprio mentre la arricchiscono, tutti sono e si sentono generati alla vita secondo lo Spirito.

Dottrina « intemporale », si è detto: tranne che per qualche raro dettaglio il prestigio dell’impero bizantino e la complessità dell’epoca non lasciano quasi traccia negli scritti di Doroteo, come in quelli di tanti altri monaci, d’altronde. Pochi cenni alle tasse che si pagano all'imperatore, al fascino della lontana capitale e alle cariche di corte, rispetto alle quali anche un notabile di provincia non può non sentirsi un poveretto, ai solenni ritratti dell’imperatore circondati di venerazionee si tratta sempre di riferimenti sfruttati per qualche paragone —, e nulla più.

Dunque, la tradizione monastica pura: e se c’è una preoccupazione che non ha mai sfiorato la stragrande maggioranza dei monaci, essa è proprio quella di una teoria riflessa e di una dottrina organicamente formulata della « teologia della vita monastica ». Non che manchi la coscienza di una profonda unità della vita spirituale del monaco, anzi, essa emerge spesso e in modo marcato; ma non si sente il bisogno di una formulazione astratta di quella che è innanzi tutto una realtà ben viva e multiforme. Neanche da Doroteo, perciò, ci si può attendere un’esposizione metodica. Si può dire che ogni Didaskalia stia a sé e che, in fondo, in ogni Didaskalia si ritrovi una summa della vita monastica osservata da un particolare punto di vista. Ciò resta vero anche se non di rado Doroteo si compiace di enumerazioni che sembrano procedere in modo quasi scolastico: cosi, egli ci parla di due tipi di umiltà e di due tipi di superbia, di tre aspetti della custodia della coscienza, di due tipi di timor di Dio, di varie gradazioni del disprezzo e della collera, di tre tipi di menzogna, di varie tappe della vita spirituale, di tre modi di affrontare le passioni, di due specie di golosità; l’elenco potrebbe continuare, ma si tratta sempre di sistemazioni occasionali, talora certo tradizionali, ma che non tendono mai ad irrigidire in sistema la fresca varietà dell’esperienza vissuta.

Doroteo, dunque, è l’eco fedele di una tradizione già antica, di cui egli accentua alcuni elementi, mettendone meno in evidenza altri, ma che in sostanza trasmette accettandola nella sua globalità.

Di Dio direttamente, nell’ambiente monastico, si parla poco: è il pudore di un’intimità che, quanto più è profonda, tanto meno ama attenuarsi in parole. Ma è pur sempre la Parola di Dio che la Scrittura fa risuonare ogni giorno, si può dire ogni momento, al cuore del monaco, costituendone la norma e la severa pietra di paragone: quante volte non si riflette che le parole della Scrittura, che pure continuiamo a ripetere tutti i giorni, sono la condanna di tanti nostri atteggiamenti! E tutto, non solo la Scrittura, parla di Dio, della sua provvidenza, della sua volontà che vuole il bene e permette il male per il nostro bene ultimo; Doroteo tiene gli occhi fissi in Dio con una tale intensità che le « cause seconde » impallidiscono, si può dire, fino a diventare pure apparenze: cosa, questa, che può non andare esente, per qualcuno, da qualche rischio, ma che è comune a tutto il monachesimo. Ed è l’immagine di Cristo che attira Doroteo: Cristo redentore, maestro, medico perfetto dell’anima, roccia contro cui spezzare le tentazioni, vittorioso per noi del nemico, ma soprattutto crocifisso; Cristo, e solo lui, è colui che deve tenere il posto, nell’anima, di qualsiasi altro oggetto del desiderio. Perché quello che unicamente conta è l’amore, e tutto il resto è mezzo, non fine: l’amore è il culmine della virtù, perché è solo l’amore misericordioso che rende l’uomo veramente simile alla paternità divina. Quanto più l’uomo si avvicina a Dio, tanto più sente la propria indegnità, ma è solo così che dalla pena servile si passa alla speranza di una ricompensa e finalmente all’amore gratuito, disinteressato m: e quanto piu ci si avvicina a Dio, tanto più ci si avvicina ai fratelli, e viceversa. È per questa sottolineatura fortissima dell’amore che Doroteo non parla quasi mai della gnosis, su cui invece insiste la tradizione che discende da Origene ed Evagrio, e che egli non ignorava: la « conoscenza » piena di Dio è quella che si realizza nell’umiltà osservando i comandamenti più che affidandosi a estasi non sempre prive di ambiguità. Ed è ancora questa umiltà e questo amore che rende possibile il ricordo incessante di Dio e della sua presenza  e la preghiera ininterrotta. Con questa salda fiducia nella bontà di Dio, non meraviglierà constatare come Doroteo parli relativamente poco delle forze demoniache e del loro operato sull’anima, in ogni caso molto meno di quanto non si riscontri nella media della tradizione monastica: per quanto il demonio, menzognero e padre di menzogna, si accanisca sull’anima, e per quanto resti ben reale la prospettiva della dannazione, rimane fermo il concetto, più volte ribadito, della radicale non-sostanzialità ontologica del male.

È dunque un quadro di serena, realistica fiducia nella forza del bene quello che Doroteo presenta ai suoi monaci, ed è per questo che fin dalla prima Didaskalia egli può presentarci un’organica visuale della storia della salvezza, dalla creazione del mondo e dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, al primo peccato e al progressivo dilagare del male fino all’incarnazione redentrice del Signore e al frutto della redenzione che viene applicato all’uomo nel battesimo. Il battesimo però libera l’uomo dal peccato, ma non dall'inclinazione al male, residuo doloroso della colpa originale: per questa seconda liberazione è necessario che l’uomo collabori personalmente, strappando con l’ascesi la radice stessa delle passioni. È questo il fondamento della vita monastica, che viene vista appunto come una presa di coscienza radicale delle esigenze battesimali. La verginità, la povertà, l’obbedienza sono cosi viste come un « dono », oltre lo stretto indispensabile richiesto a tutti, che l’uomo mosso dalla grazia fa a Dio spontaneamente, a quel Dio cui l’offerta più gradita che si possa fare non sono mai le nostre cose, ma noi stessi. È chiaro che la rinuncia monastica, come ogni atto che debba essere « vero », non può non rispettare le leggi della maturazione umana: se ne avranno perciò due fasi, che condurranno il monaco dal distacco più facile, quello dalle cose esterne, al più difficile, quello da se stesso: dalla notte purificatrice del senso a quella ben più dolorosa dello spirito. Di tutte le caratteristiche spirituali richieste al monaco sarà simbolo visibile, perciò, l’abito che egli indossa, di cui Doroteo spiega minuziosamente, sulle orme che egli segue fedelmente del non nominato Evagrio, il significato spirituale, in modo che i suoi ascoltatori possano conformarsi ad esso secondo verità, così come, quando si cantano i salmi, la mente deve concordare col canto.

Ecco dunque il monaco o meglio, il cristiano in assoluto —, rigenerato dal battesimo e fermamente intenzionato a progredire. Nell’anima e nelle sue varie potenze, concupiscibile, irascibile e razionale, l’ascesi, che è risposta alla grazia, deve ripristinare non l’immagine di Dio, che vi è impressa ontologicamente ed è perciò incancellabile, ma la somiglianza con lui, perduta col peccato, fino a riportarla alla perfezione originaria, che sarà totale dopo la morte, quando tutte le facoltà dell’anima saranno potenziate. Il fatto che Doroteo spieghi con tutta chiarezza che l’anima è più preziosa del corpo non gli impedisce affatto di vederne il legame profondo col corpo stesso: e in ciò egli è fedele alla Scrittura e a tutta la tradizione monastica, che non è affatto « disincarnata », come qualcuno pensa. Del corpo Doroteo afferma chiaramente l'importanza positiva e sottolinea l’alleviamento che esso può portare alle sofferenze dell'anima: l’ascesi non lotta contro il corpo, che Dio ha creato buono, ma contro le passioni, che si servono del corpo come strumento. La vera penitenza, perciò, per essere rinnovatrice e purificatrice dovrà essere soprattutto, più che ascesi corporale, pur necessaria, distacco interiore dal peccato: era il metodo che Doroteo aveva insegnato a Dositeo, e sarà lo stesso su cui insisterà, tanti secoli dopo, un’altra giovane santa, Teresa del Bambino Gesù.

È dunque la riforma del cuore quella cui si deve mirare, attraverso la via più diretta, che è quella dell’umiltà: sull’umiltà non si fanno teorie, è nella vita concreta che bisogna sperimentarla, per scoprire come essa sia il cemento di tutte le altre virtù e la loro custode. Quello che è richiesto è un impegno serio: troppo prezioso è il tempo perché lo si disperda inutilmente, sapendo quanto imminente sia la morte, il cui pensiero austero e salutare deve spingere ad una decisione. L’anima, una volta iniziato il cammino di ritorno a Dio, deve sapere che in questo cammino non ci sono soste: o si va avanti o si torna indietro, ma fermi è impossibile restare. Doroteo sa, e insegna ai suoi ascoltatori, che le passioni tendono ad arrivare al peccato gradualmente, mediante le piccole coseil diavolo non è tanto ingenuo da presentare subito il peccato grave! —, ma proprio per questo, allora, bisogna opporsi con tanta maggior fermezza all’inizio delle tentazioni. D’altronde, ed è consolante, anche nel bene si cresce un passo alla volta. Niente paura, perciò; può essere doloroso fino allo spasimo lottare contro le tentazioni, si può arrivare anche, sanguinanti e con la coscienza ferita, a soccombere, ma non bisogna mai cadere in preda alla pusillanimità e perdersi di coraggio o disperare, ma rialzarsi e ricominciare. È ancora una volta l’insegnamento che aveva aiutato il giovane Dositeo: perché le tentazioni hanno un grande valore per la purificazione dei nostri vizi e per la crescita nella virtù.

In tutta questa lotta, la coscienza e il diligente esame di essa devono essere una guida esigente e sicura: l’esame di coscienza è un mezzo di miglioramento indispensabile, e quanto più frequente sarà, tanto meglio, perché in fondo essa non è mai veramente libera del tutto o priva di qualcosa di cui rimproverarsi. In modo particolare, la coscienza dovrà vegliare sul movente profondo delle azioni, perché la moralità di un’azione risiede nella sua intenzione e nel suo fine, non nella semplice sua materialità: Doroteo sa bene che si può compiere addirittura un’azione virtuosa per ragioni meno limpide, o anche distorcere al male perfino i santi detti dei Padri.

Ma accanto alla coscienza un’altra guida deve dirigere l’anima: l’esperienza di un padre spirituale. Doroteo porta nel cuore la memoria e l’immagine dei suoi padri nello spirito, Barsanufio e Giovanni, maestri incomparabili, e sa quanto è importante ricevere luce e direzione nel momento del dubbio e della tentazione. Il discepolo perciò affiderà se stesso con totale sincerità e docilità, aprendogli il suo cuore, al proprio padre spirituale, sapendo di poter fare pieno affidamento sull'efficacia delle sue preghiere. Se è proprio impossibile trovare un padre spirituale, Dio saprà comunque illuminare, con i mezzi che lui solo sa, chi veramente ricerca le sue vie.

Cosi, con la guida della coscienza e del padre spirituale e con l’impegno costante nella lotta contro le passioni e il peccato, l’anima torna nella verità del suo essere più profondo, eliminando quella doppiezza che rende falsa tutta la vita e conquistando quella calma interiore che andrà difesa ad ogni costo. Solo una volta conquistata questa serenità si sarà veramente capaci di aiutare anche i fratelli, spinti da quell’amore che anche soltanto con la preghiera, quando non sia possibile altrimenti, vuole il bene del prossimo. Allora si edifica veramente l'edificio delle virtù nell’anima: non di questa o quella singola virtù, ma di tutte insieme, armoniosamente collegate.

Lineare è, dunque, la via tracciata da Doroteo alla vita cristiana: rinuncia al male, alle passioni, alla volontà propria, purificazione attraverso l’umiltà, crescita nelle virtù e nell’amore. Rari sono in lui gli accenni alla contemplazione « spirituale » su cui insisteva la tradizione alessandrina che da Origene prosegue in Evagrio Pontico ed oltre. Delle tre fasi della vita spirituale di cui parla la letteratura patristica e monastica e, sulla sua scia, tutta la tradizione spirituale cristiana, cioè dell’ascesi vera e propria (praxis), dell’illuminazione progressiva e dell’unione, egli preferisce insistere, anche se non in modo esclusivo, sulla prima. Limitazione? Realismo, piuttosto. Doroteo era arrivato, personalmente, alle vette dell’unione mistica, ma sapeva per esperienza che è il primo passo quello più difficile, quello che richiede l’impegno serio e costante della volontà dell’uomo chiamata a collaborare con Dio. Il resto è dono di grazia, che Dio fa quando e come vuole. Anche lui era convinto, come il suo contemporaneo san Benedetto, che la via della salvezza « non si può intraprendere se non con un inizio un po’ angusto; avanzando però nella vita monastica e nello spirito di fede, con il cuore dilatato si percorre la via di Dio in un’inesprimibile dolcezza d'amore » (RB Prologo, 48-49).

 


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16 dicembre 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net