Doroteo di Gaza
L’opera e l’insegnamento spirituale
Estratto da “Doroteo
di Gaza – Insegnamenti spirituali”
– Città Nuova Editrice 1993)
(Il testo originale comprende molte note esplicative)
2. L’opera
Gli
scritti di Doroteo giunti fino a noi non sono tutti quelli che egli aveva
composto: lo sapeva già con certezza l’anonimo autore della Lettera
che accompagna il corpus
delle
opere di Doroteo e la
Vita di san Dositeo.
La tradizione
manoscritta ci ha trasmesso una serie di ventiquattro Didaskaliai (=
Insegnamenti)
e otto brevi lettere. Di
queste Didaskaliai,
però, alcune non sono, in realtà, discorsi tenuti ai monaci, ma
scritti di altra natura, talvolta epistolare, che sono stati raggruppati insieme
alle
Didaskaliai
vere e proprie: si
tratta degli scritti che nell’edizione settecentesca del Galland, ristampata in
PG 88, portano i numeri XVI- XXI; il numero XXIV, infine, non è di Doroteo, ma
di Giovanni di Daljatha (VIII
secolo). I manoscritti conoscono altri brani di natura varia attribuiti a
Doroteo, ma la loro autenticità è molto meno sicura. Gli Insegnamenti
spirituali
veri e propri, perciò, si riducono a diciassette discorsi, che sono
appunto quelli qui tradotti
Come si
è detto, sappiamo da Doroteo stesso che nella sua giovinezza egli aveva compiuto
buoni studi classici, rendendosi padrone della cultura pagana. Di questa cultura
però, da cui si è distaccato come da tutto il resto, Doroteo non lascia
trasparire quasi nulla. Entrando in monastero, egli aveva portato con sé i suoi
libri, che ad un certo momento decise di regalare alla comunità. Le letture che
continuò a fare in monastero furono, ovviamente, di tutt’altro genere: lo
vediamo chiedere spiegazioni
sull'Asketikon
di san Basilio, e interessarsi, una volta nominato infermiere, ad
opere tecniche di medicina per prepararsi più coscienziosamente al suo lavoro
—
letture, queste ultime, che lasceranno in lui traccia duratura,
vista la relativa frequenza con cui
Doroteo usa termini medici o paragoni tratti dalla scienza medica.
Ma le
letture che il giovane monaco fece e che furono determinanti per la sua
formazione spirituale furono, in realtà, quella della tradizione cristiana e
monastica in particolare. Oltre, naturalmente, ai libri del Vecchio e del Nuovo
Testamento, che Doroteo, come ogni monaco faceva da più di due secoli, avrà
imparato in buona parte a memoria e che egli cita con tutta spontaneità ogni
momento, le sue letture devono essere state estese: egli cita, nominandoli,
Clemente Romano,
Basilio,
Gregorio di
Nazianzo,
Giovanni Crisostomo. Soprattutto, però, è citata in abbondanza la
letteratura
più specificatamente
monastica: queste citazioni, come è ovvio, non sempre derivano da lettura di
testi scritti, ma spesso sono l'eco di una fiorentissima tradizione orale che si
tramanda, nei cenobi come nelle celle eremitiche, di generazione in generazione.
Doroteo nomina spesso alcuni grandi monaci e cita espressioni di Marco Eremita,
di Zosima, di Giovanni il Profeta, ma soprattutto dei
Gerontika,
le raccolte di apoftegmi
(sentenze) dei Padri del deserto che proprio nella stessa età di Doroteo stavano
ricevendo la loro sistemazione. Un altro autore Doroteo cita con predilezione,
il discusso Evagrio Pontico, che pure non era affatto amato dai suoi maestri
Barsanufio e Giovanni, anche se è vero che ne cita quasi esclusivamente le opere
ascetiche, quelle che continuarono ad esser lette e stimate da tutta la
tradizione monastica orientale medievale anche dopo le condanne di Origene, del
quale Evagrio riprendeva le dottrine.
Ma oltre a questi autori
non di rado traspare, attraverso allusioni, citazioni indirette, riferimenti
tematici, la dimestichezza di Doroteo con parecchi altri scrittori, specialmente
Clemente Alessandrino, il grande Origene, Gregorio di Nissa
—
quella tradizione, insomma, più
«
intellettuale », se si vuole più iniziatica, che non trovava eco
indiscussa negli ambienti monastici
—,
infine una delle personalità
più
spiccate del V secolo, l’abbas
Isaia. In queste sue letture, che vanno da quelle più tradizionali
a quelle meno pacificamente approvate, Doroteo rivela una serenità di sguardo e,
nell’indipendenza della valutazione, un equilibrio che sono poi quelli che
caratterizzano tutta la sua opera e la sua personalità.
Gli
Insegnamenti spirituali
sono discorsi
tenuti ai monaci: e del discorso diretto conservano tutto l'andamento, la
libertà, la freschezza.
La lingua è la lingua parlata, con la sua schiettezza e la sua
mancanza di artificio, i suoi modi popolareschi e le sue ripetizioni, quella
lingua in cui si esprimeva, con semplicità, la grande tradizione del deserto:
anche nello stile, evidentemente, Doroteo si è distaccato da quell'educazione
retorica che i suoi studi giovanili gli avevano certo reso familiare. È un buon
padre che parla ai suoi figli spirituali nel modo ad essi
più accessibile.
Il
discorso si colorisce spesso e volentieri delle immagini più concrete della vita
quotidiana, sfruttate per rendere più
evidenti le vie dello spirito: le scorciatoie che abbreviano il cammino, un
carro aggiogato, un albero che si carica di
frutti, gli abiti eleganti che si portano con
cura, una lampada che si spegne lasciando al
buio la stanza,
il melone che
l’urto di un piccolo sasso basta a guastare, l’abile arte del pescatore, la
pagnotta bella all'esterno, ma dentro muffita, gli animali da soma robusti o
fiacchi, il cane che lascia il morso per correre dietro a un sasso, il
progressivo accendersi e divampare del fuoco,
la ferita che si
cicatrizza lentamente,
l’impegno
nell’imparare un mestiere,
il legno tarlato, un viaggio a Gerusalemme,
l’aquila superba che un piccolo laccio basta a rendere impotente,
un podere incolto da dissodare e seminare,
l’arte del tuffo del sapiente nuotatore, l’effetto della pioggia e
del vento sul tenero germoglio,
la costruzione di una casa
o di una nave,
l'opera della tessitrice intenta al
lavoro,
gli splendidi colori del ritratto del re.
Di
tanto in tanto, l'ammaestramento si distende nel piacere di narrare con vivacità
episodi e storie edificanti, spesso ereditati dalla tradizione monastica:
passano cosi davanti ai nostri occhi il fratello che sa vincere la tentazione
invocando le preghiere, miracolosamente efficaci, del proprio padre spirituale,
san Basilio che ordina prete un monaco obbediente,
il demonio che tenta di abbindolare i discepoli del grande Macario
e, scornato, s'intrattiene con quest’ultimo come con un vecchio conoscente cui
si raccontino i propri guai,
l’Anziano che aveva osato condannare un fratello,
la donna nascosta nella botte dal monaco caduto nella fornicazione
e poi ravvedutosi grazie alla magnanimità di sant’Ammonas,
l’Anziano ammalato che pazientemente mangia il nocivo olio di lino
al posto del miele che il fratello distratto avrebbe dovuto somministrargli,
l’Anziano che fa sradicare al discepolo alberelli sempre più difficili da
scalzare per fargli capire che bisogna sradicare le passioni quando esse sono
ancora tenere; ma forse i due racconti più belli, per il loro senso di
rispettosa pietà e per la soprannaturale meraviglia che aleggiano nell'uno e
nell'altro, e che non trovano precedenti letterari, sono quello delle due
bambine adottate, rispettivamente dalla monaca e dall’attrice,
e quello dell'angelo che durante l’ufficio notturno benedice,
invisibile, i salmodianti.
L’aspetto però che riesce forse
più
simpatico e caldamente umano del narrare di Doroteo sono i numerosi ricordi
della sua vita, che egli ama richiamare per l’ammaestramento dei suoi discepoli,
appunto come un buon padre o forse un saggio nonno. E sono episodi graziosi o
tristi, vissuti da lui in persona o visti accadere ad altri, del passato e del
presente, ma sempre meditati con attenzione per capirne la lezione nascosta; si
rievocano così conversazioni, usanze della vita
cenobitica, personaggi disegnati con mano leggera e insieme precisa, spesso
introdotti con l’espressione familiare a
Doroteo:
«
Quando ero nel cenobio...
».
Ecco allora l’obbedienza senza riserve di un discepolo di Ascalona,
che riesce ad aver ragione anche della tempesta,
o il disprezzo superbo fino all’apostasia di un altro monaco,
l’amabile conversazione con un dignitario di Gaza, la figura dell’abbas Zosima
nella sua semplicità,
il fratello sempre
inalterabilmente sereno nella sua umiltà,
o il diverbio astioso di altri due fratelli, i sospetti visionari
di un monaco menzognero, i furti
incorreggibili di un confratello, una conversazione sull’aldilà con un grande
Anziano,
la liberazione
dalla tentazione di un fratello mediante la dedizione al servizio dei malati.
Ancora, Doroteo racconta di sé, della sua vita passata e anche
di quella attuale: ed eccolo rievocare i suoi
studi giovanili,
il suo servizio riverente all'abbas
Giovanni,
i suoi dubbi di giovane monaco
o i suoi momenti di depressione, i suoi
tentativi di capire gli altri, anche se maldestri,
le sue osservazioni sul minore impegno ascetico
degli Anziani avanzati in età,
ma anche i tempi del suo servizio
nell’infermeria e nella foresteria, le molestie sopportate con pazienza da parte
di confratelli sbadati o malintenzionati; oppure eccolo parlarci delle sue
visite a confratelli convalescenti, paternamente sollecito, come superiore,
della loro salute,
o dei suoi attacchi reumatici, magari favoriti
da qualche pasto un po’ più abbondante preso per far compagnia agli ospiti del
monastero di cui è a capo.
È la vita di un cenobio antico —
ma ancor oggi cosi simile —
che traspare ad ogni pagina delle Didaskaliai,
con le diverse mansioni o incarichi dei vari
monaci, che sono al servizio.
gli uni degli altri come le membra di un unico
corpo:
conosciamo così il cuoco,
l’ortolano,
il cellerario,
l’economo, il canonarca, l’addetto alla sveglia, il
foresterario;
oppure ci si aprono squarci sulla vita quotidiana e sui rapporti
tra i monaci, spesso cosi tristemente distanti dalla vera carità fraterna: dalle
gelosie
alle percosse
reciproche,
dalle chiacchiere oziose e dalle bugie
ai pretesti per non alzarsi per la veglia notturna, alle vie
traverse per ottenere ad ogni costo quel che si vuole,
alle rimostranze fatte al cellerario, al cuoco, al canonarca,
all’addetto alla sveglia;
mentre l'umiltà e il rispetto vicendevoli o l’aiuto da porgersi
reciprocamente, specialmente nei momenti di prova spirituale, restano un invito
e un’esortazione del padre Doroteo piuttosto che, forse, realtà vissuta da
tutti.
Doroteo
non intese mai fare opera letteraria: ma tanto più fresca e viva, aderente senza
pretese alla multiforme realtà del suo ambiente, risulta la prosa di questo
antico monaco, scrittore malgrado lui stesso, uno dei più amabili rappresentanti
della tradizione monastica.
3. L’insegnamento spirituale
È
condizione insita nella natura stessa della vita monastica quella di situarsi
all’interno di una tradizione vivente che si trasmette da padre nello spirito a
figlio nello spirito. È
così che i
detti dei Padri —
e « Padri » sono di
regola, in questa tradizione, i monaci più famosi, non quello che oggi noi
intendiamo con l’espressione «Padri (della Chiesa)
» —
diventano la norma della vita eremitica e cenobitica, con autorità
non distante da quella della Bibbia, che resta in sostanza l’unico libro del
monaco. Fondata sulla fedeltà alla Scrittura, sulla ferma volontà di
conformazione del monaco al Signore nell’ascesi e nella preghiera, sull’analisi
attenta dei moti
più
profondi e più sottili della psiche
—
quanti secoli prima della
«
psicanalisi »!
—,
la dottrina dei monaci tende ad essere abbastanza
intemporale ed uniforme: anche i più audacemente
originali, come Evagrio Pontico, sono
inconcepibili fuori dell’alveo di una tradizione da cui, proprio mentre la
arricchiscono, tutti sono e si sentono generati alla vita secondo lo Spirito.
Dottrina
«
intemporale », si è detto: tranne che per qualche raro dettaglio il
prestigio dell’impero bizantino e la complessità dell’epoca non lasciano quasi
traccia negli scritti di Doroteo, come in quelli di tanti altri monaci,
d’altronde. Pochi cenni alle tasse che si pagano all'imperatore,
al fascino della lontana capitale e alle cariche di corte, rispetto
alle quali anche un notabile di provincia non può non sentirsi un poveretto,
ai solenni ritratti
dell’imperatore circondati di
venerazione
— e si tratta sempre di riferimenti sfruttati per qualche paragone —, e nulla più.
Dunque,
la tradizione monastica pura: e se c’è una preoccupazione che non ha mai
sfiorato la stragrande maggioranza dei monaci, essa è proprio quella di una
teoria riflessa e di una dottrina organicamente formulata della « teologia della
vita monastica ». Non che manchi la
coscienza di una profonda unità della vita spirituale del monaco, anzi, essa
emerge spesso e in modo marcato; ma non si sente il bisogno di una formulazione
astratta di quella che è innanzi tutto una realtà ben viva e multiforme. Neanche
da Doroteo, perciò, ci si può attendere un’esposizione metodica. Si può dire che
ogni
Didaskalia stia a sé e che, in fondo, in ogni
Didaskalia si ritrovi una summa della vita
monastica osservata da un particolare punto di vista. Ciò resta vero anche se
non di rado Doroteo si compiace di enumerazioni che sembrano procedere in modo
quasi scolastico: cosi, egli ci parla di due tipi di umiltà e di due tipi di
superbia, di tre aspetti della custodia della coscienza,
di due tipi di timor di Dio,
di varie gradazioni del disprezzo
e della collera,
di tre tipi di menzogna,
di varie tappe della vita
spirituale, di tre modi di affrontare le passioni,
di due specie di golosità;
l’elenco potrebbe continuare, ma si tratta sempre di sistemazioni
occasionali, talora certo tradizionali, ma che non tendono mai ad irrigidire in
sistema la fresca varietà dell’esperienza vissuta.
Doroteo, dunque, è l’eco fedele di una tradizione già antica, di cui egli
accentua alcuni elementi, mettendone meno in evidenza altri, ma che in sostanza
trasmette accettandola nella sua globalità.
Di Dio
direttamente, nell’ambiente monastico, si parla poco: è il pudore di un’intimità
che, quanto più è
profonda, tanto meno ama attenuarsi in parole. Ma è pur sempre la Parola di Dio
che la Scrittura fa risuonare ogni giorno, si può dire ogni momento, al cuore
del monaco, costituendone la norma e la severa pietra di paragone: quante volte
non si riflette che le parole della Scrittura, che pure continuiamo a ripetere
tutti i giorni, sono la condanna di tanti nostri atteggiamenti! E tutto, non solo la Scrittura, parla di Dio, della sua
provvidenza, della sua volontà che vuole il bene e permette il male per il
nostro bene ultimo; Doroteo tiene gli occhi fissi in Dio con una tale intensità
che le « cause seconde »
impallidiscono, si può dire, fino a diventare pure apparenze:
cosa, questa, che può non andare esente, per qualcuno, da qualche
rischio, ma che è comune a tutto il
monachesimo.
Ed è l’immagine di Cristo che attira Doroteo: Cristo redentore, maestro,
medico perfetto dell’anima,
roccia contro cui spezzare le tentazioni, vittorioso per noi del
nemico, ma soprattutto crocifisso; Cristo, e solo lui, è colui che deve tenere
il posto, nell’anima, di qualsiasi
altro oggetto del desiderio. Perché quello che unicamente conta è l’amore, e
tutto il resto è mezzo, non fine: l’amore è il culmine della virtù,
perché è solo l’amore misericordioso che rende l’uomo veramente
simile alla paternità divina. Quanto più
l’uomo si avvicina a Dio, tanto più sente la propria indegnità, ma è solo
così che dalla pena servile si passa alla speranza di
una ricompensa e finalmente all’amore gratuito, disinteressato m: e
quanto piu ci si avvicina a Dio, tanto più ci si avvicina ai fratelli, e
viceversa.
È per questa sottolineatura fortissima dell’amore che Doroteo non
parla quasi mai della gnosis, su cui invece
insiste la tradizione che discende da Origene ed Evagrio, e che egli non
ignorava: la
« conoscenza » piena di Dio è
quella che si realizza nell’umiltà osservando i comandamenti più che affidandosi
a estasi non sempre prive di ambiguità. Ed è ancora questa
umiltà e questo amore che rende possibile il ricordo incessante di Dio e della
sua presenza
e
la preghiera ininterrotta.
Con questa salda fiducia nella bontà di
Dio, non meraviglierà constatare come Doroteo parli relativamente poco delle
forze demoniache e del loro operato sull’anima, in ogni caso molto
meno di quanto non si riscontri nella media della
tradizione monastica: per quanto il demonio, menzognero e padre di menzogna, si
accanisca sull’anima, e per quanto resti ben reale la prospettiva della
dannazione, rimane fermo il
concetto, più volte ribadito, della radicale non-sostanzialità ontologica del
male.
È
dunque un quadro di serena, realistica fiducia nella forza del bene quello che
Doroteo presenta ai suoi monaci, ed è per questo che fin dalla prima
Didaskalia egli può presentarci un’organica visuale della storia
della salvezza, dalla creazione del mondo e dell’uomo, fatto a immagine e
somiglianza di Dio, al primo peccato e al progressivo dilagare del male fino
all’incarnazione redentrice del Signore e al frutto della redenzione che viene
applicato all’uomo nel battesimo.
Il battesimo però libera l’uomo dal peccato, ma non
dall'inclinazione al male, residuo doloroso della colpa originale: per questa
seconda liberazione è necessario che l’uomo collabori personalmente, strappando
con l’ascesi la radice stessa delle passioni.
È questo il fondamento della vita monastica, che viene vista
appunto come una presa di coscienza radicale delle esigenze battesimali. La
verginità, la povertà, l’obbedienza sono cosi viste come un « dono », oltre lo
stretto indispensabile richiesto a tutti, che l’uomo mosso dalla grazia fa a Dio
spontaneamente, a quel Dio cui
l’offerta più gradita che si possa fare non sono mai le nostre cose, ma noi
stessi.
È chiaro che la rinuncia monastica, come ogni atto che debba
essere « vero », non può non
rispettare le leggi della maturazione umana: se ne avranno perciò due fasi, che
condurranno
il monaco dal distacco più facile, quello dalle cose
esterne, al più difficile, quello da se stesso:
dalla notte purificatrice del senso a quella ben più dolorosa dello
spirito. Di tutte le caratteristiche spirituali richieste al monaco sarà simbolo
visibile, perciò, l’abito che egli indossa, di cui Doroteo spiega
minuziosamente, sulle orme che egli segue fedelmente del non nominato Evagrio,
il significato spirituale,
in modo che i suoi ascoltatori possano conformarsi ad esso secondo
verità,
così come, quando si cantano i salmi, la mente deve
concordare col canto.
Ecco
dunque il monaco —
o meglio, il
cristiano in assoluto —,
rigenerato dal
battesimo e fermamente intenzionato a progredire. Nell’anima e nelle sue varie
potenze, concupiscibile, irascibile e razionale, l’ascesi, che è risposta alla
grazia, deve ripristinare non l’immagine di Dio, che vi è impressa
ontologicamente ed è perciò incancellabile, ma la somiglianza con lui, perduta
col peccato,
fino a riportarla alla perfezione originaria, che sarà totale dopo
la morte, quando tutte le facoltà dell’anima saranno potenziate. Il fatto che
Doroteo spieghi con tutta chiarezza che l’anima è più preziosa del corpo
non gli impedisce affatto di vederne il legame profondo col corpo
stesso: e in ciò egli è fedele alla Scrittura e a tutta la tradizione monastica,
che non è affatto « disincarnata », come qualcuno pensa. Del corpo Doroteo
afferma chiaramente l'importanza positiva e sottolinea l’alleviamento che esso
può portare alle sofferenze dell'anima: l’ascesi
non lotta contro il corpo, che Dio ha creato buono, ma
contro le passioni, che si servono del corpo come strumento.
La vera penitenza, perciò, per essere rinnovatrice e purificatrice
dovrà essere soprattutto, più che ascesi
corporale, pur necessaria, distacco interiore dal peccato:
era il metodo che Doroteo aveva insegnato a Dositeo, e sarà lo
stesso su cui insisterà, tanti secoli dopo, un’altra giovane santa, Teresa del
Bambino Gesù.
È
dunque la riforma del cuore quella cui si deve mirare, attraverso la via più
diretta, che è quella dell’umiltà: sull’umiltà non si fanno teorie, è nella vita
concreta che bisogna sperimentarla, per scoprire come essa sia il cemento di
tutte le altre virtù e la loro custode. Quello che è richiesto è un impegno
serio: troppo prezioso è il tempo perché lo si disperda inutilmente, sapendo
quanto imminente sia la morte, il cui pensiero austero e salutare deve spingere
ad una decisione. L’anima, una volta iniziato il cammino di ritorno a Dio, deve
sapere che in questo cammino non ci sono soste: o si va avanti o si torna
indietro, ma fermi è impossibile restare. Doroteo sa, e insegna ai suoi
ascoltatori, che le passioni tendono ad arrivare al peccato gradualmente,
mediante le piccole cose
— il diavolo non è tanto ingenuo da presentare subito il peccato
grave! —, ma proprio per
questo, allora, bisogna opporsi con tanta maggior fermezza all’inizio delle
tentazioni. D’altronde, ed è consolante, anche nel bene si cresce un passo alla
volta. Niente paura, perciò; può essere doloroso fino allo spasimo lottare
contro le tentazioni, si può arrivare anche, sanguinanti e con
la coscienza ferita, a soccombere, ma non bisogna mai
cadere in preda alla pusillanimità e perdersi di coraggio o disperare, ma
rialzarsi e ricominciare. È ancora una volta
l’insegnamento che aveva aiutato il giovane Dositeo: perché le tentazioni hanno
un grande valore per la purificazione dei nostri vizi e per la crescita nella
virtù.
In
tutta questa lotta, la coscienza e il diligente esame di essa devono essere una
guida esigente e sicura: l’esame di coscienza è un mezzo di miglioramento
indispensabile, e quanto più frequente sarà, tanto meglio,
perché in fondo essa non è mai veramente libera del tutto o priva
di qualcosa di cui rimproverarsi. In modo particolare, la coscienza dovrà
vegliare sul movente profondo delle azioni, perché la moralità di un’azione
risiede nella sua intenzione e nel suo fine, non nella semplice sua materialità:
Doroteo sa bene che si può compiere addirittura un’azione virtuosa per ragioni
meno limpide, o anche distorcere
al male perfino i santi detti dei Padri.
Ma
accanto alla coscienza un’altra guida deve dirigere l’anima:
l’esperienza
di un padre spirituale. Doroteo porta nel cuore la memoria e l’immagine dei suoi
padri nello spirito, Barsanufio e Giovanni, maestri incomparabili, e sa quanto è
importante ricevere luce e direzione nel momento del dubbio e della tentazione.
Il discepolo perciò affiderà se stesso con totale sincerità e docilità,
aprendogli il suo cuore, al proprio padre spirituale, sapendo di poter fare
pieno affidamento sull'efficacia delle sue preghiere. Se è proprio impossibile
trovare un padre spirituale, Dio saprà comunque illuminare, con i mezzi che lui
solo sa, chi veramente ricerca le sue vie.
Cosi,
con la guida della coscienza e del padre spirituale e con l’impegno costante
nella lotta contro le passioni e il peccato, l’anima torna nella verità del suo
essere più profondo, eliminando quella doppiezza che rende falsa tutta la vita
e conquistando quella calma interiore che andrà difesa ad ogni
costo. Solo una volta conquistata questa serenità si sarà veramente capaci di
aiutare anche i fratelli, spinti da quell’amore che anche soltanto con la
preghiera, quando non sia possibile altrimenti, vuole il bene del prossimo.
Allora si edifica veramente l'edificio delle virtù nell’anima: non di questa o
quella singola virtù, ma di tutte insieme, armoniosamente collegate.
Lineare
è, dunque, la via tracciata da Doroteo alla vita cristiana: rinuncia al male,
alle passioni, alla volontà propria, purificazione attraverso l’umiltà, crescita
nelle virtù e nell’amore. Rari sono in lui gli accenni alla contemplazione
« spirituale » su cui insisteva la tradizione alessandrina che da
Origene prosegue in Evagrio Pontico ed oltre. Delle tre fasi della vita
spirituale di cui parla la letteratura patristica e monastica e, sulla sua scia,
tutta la tradizione spirituale cristiana, cioè dell’ascesi vera e propria
(praxis), dell’illuminazione progressiva e dell’unione, egli
preferisce insistere, anche se non in modo esclusivo, sulla prima. Limitazione?
Realismo, piuttosto. Doroteo era arrivato, personalmente, alle vette dell’unione
mistica, ma sapeva
per esperienza che è il primo passo quello più difficile, quello che richiede
l’impegno serio e costante della volontà dell’uomo chiamata a collaborare con
Dio. Il resto è dono di grazia, che Dio fa quando e come vuole. Anche lui era
convinto, come il suo contemporaneo san Benedetto, che la via della salvezza «
non si può intraprendere se non con un inizio un po’ angusto; avanzando però
nella vita monastica e nello spirito di fede, con il cuore dilatato si percorre
la via di Dio in un’inesprimibile dolcezza d'amore
»
(RB Prologo,
48-49).
Ritorno alla pagina iniziale "Doroteo di Gaza"
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
16 dicembre 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net