SOLITUDINE E SOLIDARIETÀ
DONNE RECLUSE NEL MEDIOEVO
Capitolo undicesimo
Estratto da “La figura della donna nel
Medioevo” a cura di Jean Leclercq O.S.B. – ed. Jaca Book 1994
Tra le prime lettere che ricevetti da Thomas Merton nel 1950 ce n’è una che
rivela il suo interesse per la vita eremitica in generale e per la reclusione
medievale in particolare. Dopo diversi anni, il sabato santo del 1964,
commentando un articolo che aveva appena letto, mi scrisse: «Mi aiuterà un po’
nel mio lavoro sui reclusi. Sto continuandolo pazientemente e silenziosamente, e
spero proprio di incominciare ad avere qualcosa in più su Grimlaico...». A
quanto pare Merton non finì mai, o almeno non pubblicò mai questo studio.
Parecchie volte egli accennò al problema della solitudine e della comunione,
specialmente in
Mystics and Zen Masters
e in
Contemplation in a World of Action,
ma in realtà non approfondì mai l’argomento. Sarà un atto di fedeltà alla sua
memoria cercare di farlo qui.
In queste pagine mi limiterò a considerare le
donne
recluse. Già dagli inizi del cristianesimo le donne hanno avuto un posto
importante nella Chiesa e una parte attiva nel diffonderlo tra i popoli.
Recentemente un teologo ha notato, a proposito di un dizionario di nomi propri
biblici, che si trovano «2900 uomini e solamente 170 donne, vale a dire poco più
del 5%. Nel Nuovo Testamento la percentuale è molto più alta e questo è un segno
del nuovo ruolo che Gesù assegnò alle donne, operando una sorta di rivoluzione
che venne quasi subito ridimensionata dalla mentalità maschilista allora
dominante»
[1]. Anche se da una parte può essere vero
che la funzione istituzionale e ufficiale delle donne diventò ben presto
secondaria, tuttavia il loro influsso è sempre rimasto reale e vario, sia nelle
opere di carità sia nel servizio—non meno importante nella Chiesa—della
preghiera.
Ciò era vero al tempo delle origini come pure nel medioevo. Le mogli dei re
barbari ebbero spesso un ruolo decisivo nella conversione al cristianesimo dei
loro mariti e di conseguenza dei loro popoli. Le monache erano strettamente
unite all’opera di evangelizzazione compiuta dai monaci, e a partire dal VII
secolo diventarono vere e proprie missionarie
[2]. Generalmente la loro preghiera era
comunitaria, ma esse talvolta conservavano la tradizione della preghiera
solitaria e naturalmente questo valeva soprattutto per le recluse.
Perciò è importante collocare il fenomeno della reclusione femminile nel
contesto della tradizione precedente. Solo dopo averlo fatto saremo nella giusta
prospettiva per esaminare la vita delle recluse nel medioevo e la loro presenza
attiva nella società di quel tempo.
1. La reclusione delle origini
Il termine
reclusione
si riferiva a una persona che viveva in una «cella»—che poteva essere una
capanna o una casetta—. Questa fu una delle forme più estreme del monachesimo
primitivo, e talvolta fu vissuta in modi strani e stravaganti, per noi difficili
da capire. Tuttavia la reclusione era allora concepita come una delle vie più
facili e convenienti per abbracciare la vita monastica. Trovava le sue radici
nel desiderio di fare qualcosa di veramente grande per Dio e per il mondo. La
reclusione non era sempre assoluta e neppure aveva carattere definitivo. Spesso
accadeva che una persona incominciasse con una totale separazione dalla società
circostante e poi vi ritornasse gradualmente per partecipare agli altri
l’esperienza spirituale vissuta nella solitudine. Quasi sempre i reclusi
comunicavano col mondo esterno attraverso una finestra, i loro volti restavano
nascosti ma le loro voci potevano essere ascoltate. Ogni volta che tendevano a
esagerare nelle pratiche ascetiche, i vescovi intervenivano per moderare il loro
zelo. L’istituzione monastica dimostrò una mirabile e sorprendente flessibilità
che permise l’esistenza di tante strane vocazioni. Le autorità avevano larghezza
di vedute, e così pure le istituzioni; non imponevano il loro modo di pensare,
ma rispettavano la libertà degli individui
[3].
La storia ricorda più nomi di uomini che di donne reclusi, ma noi comunque
sappiamo per certo che le donne vissero questa vita. La più famosa è santa
Taide, una prostituta convertita dallo zio, il vecchio eremita Pafnuzio. La sua
leggenda è un
best-seller
anche ai nostri giorni. Nel XIX secolo, Massenet ne compose un’opera, intitolata
appunto
Thais,
che è tuttora citata, letta e rappresentata. Anche il grande romanziere francese
Anatole France, i cui lavori sono stati tradotti in diverse lingue, ne fa
menzione.
Questa leggenda ci rivela la concezione che tante generazioni hanno avuto
dell’atteggiamento monastico verso le prostitute pentite. Esso consisteva nella
sollecitudine per l’anima di una peccatrice, era un atteggiamento di carità
concreta che cerca di fare qualcosa per venire in aiuto. Pafnuzio va da Taide,
nella sua stanza, e le parla di Dio. Lei si pente, raccoglie tutto ciò che ha
guadagnato col peccato e lo brucia nella piazza del mercato per testimoniare la
rottura col suo perverso passato. Pafnuzio la fa vivere reclusa in una angusta
cella per tre anni. Poi chiede consiglio a sant’Antonio su questa penitente.
Antonio riunisce tutti i suoi confratelli e chiede loro di pregare Dio perché li
illumini. Questo è un atteggiamento tipicamente monastico di solidarietà, umiltà
e coraggio; quegli uomini non avevano paura di aver a che fare con ima simile
donna. A Paolo, uno dei discepoli di Antonio, appare in visione un letto
splendente. Tutti pensano che sia per Antonio, ma una voce dal cielo proclama
che è per Taide. Anche qui vediamo l’idea che un peccatore pentito può essere
più grande agli occhi di Dio rispetto a dei monaci che hanno speso tutta la loro
vita in un’esperienza ascetica. Pafnuzio voleva liberare Taide dalla reclusione,
ma essa rifiutò e morì nella pace due settimane dopo
[4].
«L’origine e la funzione dell’uomo santo nella tarda antichità» sono state
oggetto di un pregevole studio di Peter Brown
[5]. L’autore vi ha descritto quelle «stelle
ascetiche» di cui avevano bisogno i popoli orientali, raffinati e insieme
violenti. Ogni società infatti si procurava dei modelli, dei punti di
riferimento, delle «stelle» appunto. E a quei tempi tali modelli, tali stelle
non erano belle regine o campioni sportivi, ma uomini e donne che davano prova
di libertà interiore e, in alcuni casi, di forza spirituale contro l’oppressione
del mondo diabolico e anche di quello secolare. Inizialmente appartato, lontano
dalla violenza dilagante, il campione cristiano, ossia la stella, aveva il
potere di pacificare uomini e cose. Era visto come un «uomo di potere», potere
che usava come arbitro e mediatore. Talvolta arrivava anche a maledire e spesso
esorcizzava. «Nel IV secolo, in Siria, le bambine giocavano ai monaci e ai
diavoli: una, vestita di stracci, faceva scoppiare dalle risa le sue amichette
esorcizzandole»
[6].
Il contesto sociale nel quale questi santi solitari esercitavano il loro
influsso era quello dei villaggi, dove essi erano le uniche autorità. Per molti
versi erano simili ai
guru
indiani di oggi. Nessuno faceva qualcosa senza aver prima chiesto il loro
consiglio. È inutile dire che questo non rientra nello stile di certi famosi
guru
che troviamo nelle ricche città occidentali
[7]. Sembra che poche siano state le
donne tra queste figure di «santoni», o almeno che pochi nomi femminili siano
stati trasmessi dalle cronache della storia. Ma si ha l’impressione che, al
contrario di questi «uomini di potere» piuttosto terribili, le donne non
maledicevano. Erano non-violente e questa forma femminile di carità cristiana,
unita al fascino, era probabilmente altrettanto efficace per placare i loro
brutali contemporanei.
2.
La reclusione nel medioevo
Nonostante le differenze tra i singoli casi, alcune caratteristiche comuni
portano a distinguere due grandi periodi
[8]. Il primo, che arriva sino quasi
alla fine del XII secolo, è un tempo di larga diffusione della reclusione
monastica; uomini e donne vivevano questa forma di eremitismo in un monastero o
nelle sue vicinanze. Questi reclusi erano in contatto con la comunità ed erano
alle dipendenze di un abate o di una badessa. La reclusione monastica sembra
aver raggiunto il suo culmine nell’XI secolo
[9].
Dal secolo XIII al XV, con lo sviluppo dell’urbanizzazione gli uomini e le donne
reclusi si stabilirono nel cuore della città o alla periferia. Se ne potevano
trovare nei pressi delle porte, vicino a una chiesa o a una cappella, in una
posizione tale che tutti quelli che passavano potevano vedere attraverso la loro
finestra ed essere sicuri che qualcuno stava pregando per i cittadini e i
visitatori. Nella sua storia, Tolosa ebbe contemporaneamente sei reclusi, uno
per ogni porta. I reclusi vivevano anche vicino agli ospedali, per pregare per
gli ammalati o per suffragare i defunti. In questi casi non ricevevano aiuti
materiali dai monasteri, poiché era l’amministrazione pubblica a curarsi di
loro. Naturalmente essi non erano più sottomessi all’obbedienza e al controllo
di un abate o di una badessa, ma dei vescovi e del clero locale. Molte città
provvedevano a coprire le spese per costruire le celle e mantenervi i monaci
reclusi. È dunque comprensibile che uno storico abbia interpretato questo fatto
come «una prova di quanto la gente di quel tempo credesse con fede profonda
nell’efficacia potente della preghiera propiziatoria dei monaci solitari»
[10].
Qualunque fosse l’ambiente sociale, monastico o urbano, lo stile di vita del
recluso possedeva sempre gli stessi caratteri distintivi. Sulla base delle
fonti, abbastanza numerose, gli storici hanno raccolto molti particolari
pittoreschi e a volte divertenti sulla vita quotidiana dei reclusi. In questo
campo, più che in altri, i documenti vanno utilizzati con cautela. Si deve stare
attenti a non idealizzare queste figure fondandosi sull’agiografia che parla di
casi eccezionali, né abbandonarsi a una facile ironia, come talvolta capitava,
anche se raramente, in alcuni autori di
fabliaux.
La nostra esperienza oggi—ripensando anche a Thomas Merton—è la stessa di
sempre. Ci mostra che la gente comune ha un’innata tendenza ad abbassare al
proprio livello uomini e donne più grandi di sé. Dobbiamo inoltre stare in
guardia dai riformatori di professione che tendono a ingigantire le mancanze per
poi dilettarsi a proporre dei rimedi. Sembra che questo sia stato il caso, per
esempio, di Aelredo di Rievaulx, quando scrisse ima regola per le recluse, tra
il 1147 e il 1167
[11].
Come tutti i grandi scrittori cisterciensi della generazione di san Bernardo,
Aelredo fu un riformatore. San Bernardo, Isacco della Stella e altri proposero
programmi di riforma per ogni stato di vita nella Chiesa—per papi, vescovi,
clero, istituzioni monastiche, cavalieri—. Ma vi era una forma di vita della
quale nessuno di questi riformatori aveva parlato. Se ne occupò allora Aelredo,
e lo fece in modo davvero mirabile. Anziché presentare un ideale di altissimo
fervore o splendidi temi per la meditazione delle recluse, si divertì a scrivere
una sorta di satira rivolta a tutti gli eremiti del suo tempo. Ne risulta un
testo piuttosto interessante, scritto con arte ma probabilmente con qualche
esagerazione, che può essere attendibile quanto le satire di san Bernardo sulla
curia romana, sulla pompa dei vescovi o sui Cluniacensi.
I documenti più utili per conoscere la vita reale delle recluse sono le
Regole,
come l’Ancrene
Riwle
scritta probabilmente tra il 1190 e il 1230, o le
Vite,
come quella di santa Cristina di Markyate. Qui, come pure in altri testi scritti
da vescovi, la vita delle recluse è improntata di realismo, di buon senso e
dimostra una ricerca di quell’equilibrio armonico che evita eccessi e
stravaganze. Questa vita di reclusione, nell’intento di quelli che la vissero
come di quelli che la alimentarono e la difesero, è caratterizzata da una
profonda sensibilità a tutto quanto vi è di migliore nell’uomo, compresi la
gioia e l’umorismo. La vita di una reclusa è essenzialmente umana e questa
dimensione si può constatare in diversi campi.
Innanzitutto c’è il rapporto tra la reclusa e gli animali. Cristo stesso, nelle
grevi ore di solitudine in cui scelse di incominciare la sua vita pubblica,
visse «con le bestie della foresta». La tradizione vide in questo il simbolo
della riconciliazione universale, prefigurata da strane mandrie di animali nella
profezia di Isaia; questi infatti predisse che il leone e l’agnello si sarebbero
sdraiati insieme e le bestie più inconciliabili sarebbero vissute in pace. Molti
antichi eremiti avevano un animale che li aiutava e teneva loro compagnia; se ne
accenna in diversi passi di «poesia eremitica», specchio delle usanze irlandesi
nell’alto medioevo
[12]. Sembra che le recluse solitamente
avessero un gatto, non perché fosse il loro animale prediletto, ma molto più
semplicemente per liberarsi dai topi.
Talvolta, però, per garantirsi il necessario per vivere, si esagerava nelle
eccezioni, ed è proprio contro questo fatto che reagì l’Ancrene
Riwle:
«Non avrete alcuna bestia, mie care sorelle, se non un gatto. Una donna che
sceglie la vita solitaria e che possiede bestiame sembra simile a Marta,
migliore come donna di casa che come anacoreta; e nemmeno può essere come Maria,
con la sua serenità di cuore, poiché deve pensare al foraggio per la mucca, al
salario per il mandriano, deve tenere buoni rapporti col vicinato, difendersi
quando il bestiame è chiuso nel recinto e soprattutto rifondere i danni. Cristo
sa che è una cosa spiacevole quando la gente della città si lamenta per le
bestie delle recluse.. .»
[13].
Un cronista racconta che la reclusa Verdiana, nel XIII secolo, visse con due
serpenti che dividevano con lei il cibo e mangiavano dalla sua stessa scodella.
Quando un giorno il vescovo le fece visita, ne rimase inorridito e voleva far
uccidere i serpenti, ma Verdiana lo persuase a lasciarli vivere, perché essa
aveva pregato Dio per averli
[14]. Questa è una notevole testimonianza di
libertà da parte di un prelato: la storia non dice se il vescovo oppose o no
resistenza; probabilmente ammise che quella donna di Dio aveva dei poteri
straordinari, superiori alle sue stesse capacità.
Quanto all’igiene personale, le recluse non si lavavano mai o, se si lavavano,
lo facevano raramente. Tuttavia l’Ancrene
Riwle
sembra essere più vicina alla realtà quando dice che le recluse potevano lavarsi
ogni volta che lo ritenevano necessario. Naturalmente va ricordato che si tratta
di un testo britannico, ed è noto che i nordici sono sempre stati molto
favorevoli ai bagni e all’idroterapia. Lo stesso Aelredo dice che Maria fece il
bagno a Gesù Bambino
[15]. Sappiamo anche che l’aerazione
della cella poteva avvenire mediante una finestra particolare, che non era
quella da cui la reclusa comunicava coi visitatori, e neppure quella che le
permetteva di vedere l’altare e di assistere alla messa. Avere tre finestre era
quasi un lusso a quel tempo, quando, come dice un cronista del XIII secolo,
«perfino le case grandi e belle avevano poche finestre, solitamente di piccola
dimensione, e mancavano di luce»
[16].
Per quanto concerne il cibo, esso doveva essere sufficiente e ben cucinato, ma
mai raffinato. L’Ancrene
Riwle
afferma che le recluse non devono lamentarsi se il cibo è un po’ stantio.
Qualora fosse stato davvero immangiabile, era loro concesso di riferire il fatto
educatamente. Dovevano stare attente a non brontolare e a non crearsi la fama di
pignole e incontentabili. Se una di loro non mangiava qualcosa, doveva darlo
alle donne povere e ai loro bambini
[17].
Gli storici hanno spesso voluto sottolineare la longevità di alcune recluse. Si
citano esempi di donne che rimasero recluse per venti, trenta, quaranta e
perfino cinquant’anni. Il primato sembra appartenere ad Agnese Durscher, figlia
di un’agiata famiglia della borghesia parigina, che trascorse ottanta lunghi
anni rinchiusa in una minuscola cella nella parrocchia di Sainte- Opportune,
fino alla morte, avvenuta nel 1483
[18]. Gli storici giudicano sorprendente
questo fatto, perché tendono a paragonare le sue condizioni di vita, comprese
quelle igieniche, con le nostre attuali, anziché con quelle dell’età medievale.
Alcuni fatti che conosciamo mostrano invece che Agnese probabilmente viveva in
condizioni migliori rispetto a quelle della maggioranza dei suoi contemporanei,
perfino di quelli che abitavano nei castelli.
Le recluse naturalmente non potevano chiedere la carità, ma era loro consentito
di accettare elemosine o qualsiasi altra offerta da parte delle comunità
monastiche e delle città a cui erano collegate. Talvolta due recluse dividevano
la stessa cella, con tutte le gioie e i fastidi vissuti anche dagli studenti che
alloggiano insieme. Tuttavia, quando due o tre recluse vivevano insieme, sembra
che generalmente avessero celle separate con finestre comunicanti. Poteva
addirittura accadere che nella cella vicina vivesse un uomo recluso. Santa
Cristina di Markyate aveva come vicino Ruggero di Saint Albans. Parlavano
insieme di Dio, ma egli la vide una volta sola
[19]. Il caso di un’altra amicizia
spirituale, simile alla precedente, tra Herveus ed Eva è veramente eccezionale
nella storia letteraria delle recluse e forse anche nella storiografia stessa.
Però
è
una cosa bella e richiama un ideale di vita. Sollevava naturalmente un problema,
mirabilmente espresso, insieme con la sua soluzione, in alcuni versi di Ilario
di Orléans, un discepolo di Abelardo:
«Eva visse là per molto tempo col suo compagno Herveus. / Penso che tu sia
turbato nell’udire una simile cosa. / Fratello, evita ogni pensiero sospettoso;/
questo fatto non ne sia la causa. / Un tale amore era in Cristo, non nel secolo»
[20].
Due sono i temi principali che emergono da ciò che conosciamo della vita stessa
e dei riti coi quali uomini e donne si sottoponevano alla reclusione. In primo
luogo l’idea di libertà. Le recluse ne offrono il modello più alto, e in una
maniera paradossale. Lungo tutta la tradizione monastica, dalle sue origini fino
ai nostri giorni, è presente il tema della «prigionia volontaria», non come
punizione per un crimine, ma per amore di Cristo che nella sua passione accettò
di essere prigioniero per amore di suo Padre, per salvare il mondo
[21]. Ora sappiamo che le leggende di donne
rinchiuse contro la propria volontà sono miti, almeno all’interno del
cristianesimo
[22]. Le recluse dimostrarono che è possibile
svincolarsi dalla elementare libertà di poter andare da un luogo all’altro e
così raggiungere una libertà ancora più grande, quella di essere capaci di
abbandonarsi totalmente a Dio. Ecco perché l’ingresso in clausura era a volte
accompagnato da una messa dello Spirito santo, poiché lo Spirito di Dio è la
sorgente di ogni libertà. Se leggiamo tutto quello che sta scritto nelle
Regole
e nelle
Vite,
ci rendiamo conto che la reclusione era un simbolo e insieme una realtà; non
aveva un senso assoluto: la cella era segno di una prigionia volontaria, ma non
era un carcere.
L’altro tema spirituale di cui le recluse erano la figura o meglio la
personificazione, è quello dell’intensa vita interiore che si può raggiungere
quando si rinuncia alla realizzazione di molte doti naturali. Il rituale per chi
si ritirava in clausura era talvolta quello funebre, una messa da
Requiem
che simboleggiava la reclusione come un sepolcro. Le recluse ricevevano a volte
addirittura l’estrema unzione e sulla cella venivano gettate le ceneri come si
usava fare sui corpi. Questi riti un po’ tetri avevano in realtà un fine
pratico. Se la reclusa moriva all’improvviso, senza che nessuno lo sapesse,
allora avrebbe avuto almeno il soccorso di santa madre Chiesa. Ma il motivo era
ancora più profondo. Queste semi-morte, o false o pretese morte erano anche il
simbolo della totale rinuncia al compimento terreno delle doti naturali.
L’osservanza era solo la conseguenza pratica della morte al mondo. Nell’Ancrene
Riwle
si legge: «Ci sono recluse che mangiano con i loro amici fuori dal convento.
Questa è un’amicizia eccessiva. Si è sentito spesso di morti che parlano con i
vivi; ma che anche mangino con loro è proprio una novità»
[23]. Una simile separazione dal nostro modo
di vita, spesso mediocre, apre a un’esistenza vissuta alla sola presenza di Dio.
Questo è ben espresso da un’antifona che talora si cantava durante la cerimonia
per l’ingresso in reclusione: «Questo è il luogo del mio riposo per sempre»[24].
Riposare, in un tale contesto, voleva dire essere nell’otium,
avere tempo libero e quiete—essere in permesso sabbatico, potremmo dire, per
Dio—. Questa è la vita contemplativa.
Un caso interessante è quello di santa Ida, che morì nell’825, ma la cui
Vita,
cioè la leggenda che la propose come modello di vita cristiana, fu scritta da un
monaco verso la fine del
X
secolo. Ida era vedova: era stata sposata con il conte Egberto, che amava
profondamente. Avevano avuto parecchi figli, cinque dei quali risultavano
viventi. Come marito e moglie essi condivisero il loro amore umano nel
matrimonio e così facendo amarono Dio e vissero insieme in comunione col suo
santo Spirito. Quando Egberto morì, Ida rimase fedele alla sua memoria e si fece
reclusa presso la cappella che il marito aveva costruito e nella quale era
sepolto. Quando essa morì fu sepolta con lui. Questa
Vita
molto esplicita, densa e leggendaria illustra un esempio di fedeltà coniugale in
una vedova reclusa. Fino alla sua morte aveva avuto due amori, uno terreno—il
suo compianto marito—e uno celeste. Essa unì questi due amori nella pace e nella
letizia e lasciò così ai posteri un modello di umanità e di pietà
[25].
Nel
XIII
secolo troviamo una storia interessante—e più verosimile—nella leggenda del
beato Filippo Bruizo, una storia in cui si fondono il contesto religioso e
quello sociale del tempo. Il testo è semplice e commovente. Mentre Filippo stava
camminando lungo una strada di Todi, vide due prostitute che cercavano di
attirare clienti. Gridando «Dio vi perdoni!» cercò di far loro ricordare il
prezzo che Gesù aveva pagato per redimerle col suo prezioso sangue. Che almeno
spendessero i soldi che guadagnavano in opere di carità. Ma le donne gli dissero
che non avevano altro mezzo per guadagnarsi da vivere. Replicò Filippo: «Vi
prego, per amore della Vergine Madre di Dio, non commettete peccato per i
prossimi tre giorni. Ecco del denaro per il vostro sostentamento». Non appena
presero il denaro dalle sue mani, la grazia dello Spirito santo sgorgò nei loro
cuori. Il giorno dopo vennero da lui tra le lacrime, supplicandolo di chiedere
perdono per loro. Filippo diede a quelle donne il perdono di Dio. Esse
lasciarono la loro vita peccaminosa ed entrarono in una cella. Un’altra
versione, che sembra meno autentica, dice che fu Filippo stesso a rinchiuderle,
in modo che non potessero ritornare alla vita di prima. In ogni caso, sta di
fatto che le due donne rimasero nella loro cella e vissero santamente fino alla
morte
[26].
Non è facile sapere esattamente se o quante prostitute pentite diventarono
recluse durante il medioevo. Ma questa idea è indubbiamente presente nella
letteratura. Nel X secolo Rosvita, una badessa sassone, che voleva persuadere le
sue monache a non leggere Terenzio, ne riprese lo stile e scrisse una commedia
sulla conversione di Taide. La badessa descrisse tutte le peripezie dello zio
Pafnuzio che partì per cercare sua nipote Taide e convertirla. Quando vi riuscì
le propose di diventare reclusa. I suoi amanti
(amatores)
non erano d’accordo e cercavano di dissuaderla, dicendole che era pazza. Essa
esitò, ma Pafnuzio intervenne ed ebbe la meglio. Poi dovette cercare una badessa
disposta ad assumere la cura di questa insolita «prigioniera». Riuscì anche in
questo e descrisse alla nipote il tipo di vita che avrebbe condotto nel seguente
dialogo:
Taide:
La mia viltà non rifiuta di andare subito là dove vostra paternità mi comanda;
ma c’è un certo disagio in questa dimora che per la mia debolezza è difficile da
sopportare.
Pafnuzio:
Qual è dunque questo disagio?
Taide:
Ho vergogna a dirlo.
Pafnuzio:
Coraggio, non arrossire. Sii sincera fino in fondo.
Taide:
Che cosa vi è di più sconveniente o potrebbe essere più sgradevole di dover
soddisfare i vari bisogni fisiologici in uno stesso luogo? Davvero diventerebbe
subito inabitabile a causa dell’eccessivo fetore.
Pafnuzio:
Abbi timore della crudeltà dell’inferno e non aver paura delle cose che passano.
Taide:
La mia debolezza mi terrorizza.
Pafnuzio:
Mi sembra giusto che tu espii la dolcezza del piacere che viene da colpevoli
gioie con il fastidio di un soverchio fetore.
Taide:
Non mi oppongo, non nego che sia giusto che un essere ripugnante quale io sono
vada a vivere in un angusto tugurio sporco e squallido; ma penso sia assai
sconveniente che non ci sia un altro luogo dove io possa decorosamente e
castamente invocare il nome della Tremenda Maestà
[27].
Tutto qui è immaginario. Nel medioevo tutto era materia di letteratura, e la
reclusione non faceva eccezione. Vi è sempre una certa esagerazione nel genere
letterario teatrale. Un passo, nella
Vita
di Cristina di Markyate, è in contraddizione con quanto pensa Rosvita nel testo
sopra citato, anche se dimostra ugualmente che il ritmo di vita di una reclusa
era mortificante: «La cosa più insopportabile in tutto questo era il fatto che
essa non poteva uscire fino a sera per soddisfare i suoi bisogni naturali»
[28].
Inoltre le recluse generalmente avevano una «domestica» che usciva per prendere
o per portare qualcosa. L’immagine eroica attribuita a Taide ha però senso
quando pensiamo che la maggior parte dei drammi scritti da Rosvita, in
particolare il
Dulcitius,
sono incentrati sul tema del martirio come testimonianza delle vergini
cristiane.
Tale è il «martirio d’amore» attribuito a san Romualdo nell’XI secolo: «Martyr
fuit, sed amoris»
[29]. Questo non era solo un simbolo. È
noto infatti che almeno una reclusa, santa Viborada, fu uccisa dagli Ungheresi
il 2 maggio 926
[30].
Thomas Merton sviluppò questa idea quando scrisse che «proprio come la Chiesa di
Dio non può mai esistere senza martiri, così non può vivere senza uomini
solitari, perché l’eremita, come il martire, è il testimone più eloquente del
Cristo Risorto»
[31]. Una delle principali sofferenze in
una vita di questo tipo poteva certo essere la vecchiaia, anche se ognuno,
compreso il servitore, dava al recluso ogni medicina conosciuta a quel tempo.
Oggi molte persone anziane concorderebbero con queste parole dette da una donna
con fine senso dell’umorismo: «Se avessi saputo come è noioso invecchiare, sarei
rimasta giovane». Ma la solitudine di una reclusa alla fine della sua vita era
probabilmente meno dolorosa di quella dei vecchi di oggi.
Così vivevano le recluse nel medioevo, in continuità con lo stile di vita della
tradizione antica, che sembra essere stato un fattore costante nella vita della
Chiesa. Conosciamo casi di reclusione nel XVII e XVIII secolo in Europa
[32] e in America. In Canada, nei pressi
di Montreal, Catherine Leber trascorse vent’anni come suora in una congregazione
che aveva poca simpatia per la vita solitaria, come spesso accade anche oggi.
Poi per quindici anni fino alla morte, nel 1714, visse come reclusa nella casa
di suo padre, dopo che il vescovo Lavai di Québec le diede il permesso, cosa tra
l’altro abbastanza
normale. La sua vocazione nacque dalle letture sulle recluse medievali
[33].
3.
Solitudine e comunione
Ora, dopo aver esaminato alcuni aspetti esteriori della reclusione nel medioevo,
dobbiamo dare uno sguardo alla realtà spirituale che sta al cuore di questo
mistero. Stiamo considerando un paradosso il cui significato e la cui
interpretazione riguardano la fede. Certamente possiamo chiederci se a chiunque
sia dato di ritirarsi in modo così totale dalla società secolare, ecclesiastica
e monastica. Non può essere questa una forma di egoismo la quale, benché
rivestita di motivi spirituali, sia tuttavia in contraddizione con i requisiti
fondamentali del cristianesimo, cioè con un amore verso tutta l’umanità che si
manifesta nella condivisione di ogni bene concesso da Dio? Questo aspetto della
reclusione è stato molto meno studiato rispetto agli elementi esteriori,
indubbiamente più pittoreschi; tuttavia costituisce l’aspetto più importante, e
i documenti ce ne parlano molto. Ci mostrano come le recluse condividessero ogni
stato della normale vita umana, da quello più basso a quello più elevato.
La prima e più profonda forma di solidarietà della reclusa è la consapevolezza
di essere, come ogni altra persona umana, peccatrice. Questo spiega l’importante
ruolo che riveste la tentazione nelle
Vite,
nelle
Regole
e in diversi altri documenti. Queste tentazioni, descritte a volte con una certa
esagerazione, obbligano la reclusa a rendersi conto della propria tendenza al
peccato, nella quale non è diversa da qualsiasi altra persona; l’unica
differenza stava nell’esserne più profondamente consapevole, e questo aumentava
la sua responsabilità nei confronti degli altri.
Era essenziale allora che la reclusa si sottoponesse a una volontaria penitenza.
Se consideriamo la maggior parte dei testi e teniamo conto dell’esagerazione
letteraria, possiamo tuttavia constatare come le mortificazioni fisiche non
fossero tutto sommato esagerate. L’autrice dell’Ancrene
Riwle,
per esempio, dice: «Mi sembra che abbiate mangiato e bevuto meno di quanto io
richiedessi. Non digiunate a pane e acqua se non quando ne abbiate il
permesso...»[34].
Tuttavia la penitenza, anche se non eccessiva, era costante. Era un modo
volontario di condividere le sofferenze involontarie di tutte le vittime del
peccato e delle sue conseguenze. L’esito più importante della mortificazione è
la crescita nell’umiltà e la purificazione del cuore, degli intenti e dei
desideri. La gente, uomini e donne, confidava nelle recluse proprio perché le
sentiva vicine a sé e contemporaneamente vicine a Dio. Proprio come nel
Tristano
e in altri romanzi medievali gli amanti infelici si rifugiano e cercano
consiglio da un eremita della foresta, così la gente in qualsiasi frangente si
sfogava dei propri dolori e apriva il proprio cuore con una reclusa dolce e
compassionevole.
Ma soprattutto la reclusa pregava per ciascuno. Era questa una delle sue forme
di solidarietà verso gli altri—essa condivideva l’assoluta solitudine di Cristo
e così partecipava anche della sua sollecitudine per tutti—. Un testo del XII
secolo ci dice che Cristo era «veramente un eremita e la croce era il suo
eremitaggio»
[35]. La reclusa perseverava nella
preghiera come la profetessa Anna nel tempio
[36] e come Maria Maddalena ai piedi di
Gesù. Inoltre va notato che nella mentalità di quel tempo la Maddalena era il
simbolo della peccatrice pentita, convertita e piena d’amore
[37]. Oltre alla sua esperienza di
profonda solitudine, una solitudine simile a quella di Cristo, la reclusa doveva
spesso soffrire il severo giudizio dei farisei nei confronti di un peccatore
pentito, e anche l’incomprensione di cui talvolta era circondata. Veniva messa
in ridicolo nei racconti satirici
[38]. Perfino alcuni ecclesiastici
tendevano insidie per cercare di sedurle
[39]. Esse dovevano rinunciare non solo
al prestigio e alla vanagloria, ma anche alla buona reputazione.
Qualsiasi influsso esercitato da una reclusa poteva nascere solo da quella sua
duplice e indivisibile esperienza di umiliazione, in quanto peccatrice, e di
unione con Cristo, in quanto amorosa penitente. Eccezionalmente questo influsso
poteva manifestarsi anche dopo la sua morte, attraverso il racconto della sua
vita
[40], o ancora mediante i suoi stessi
scritti. Quest’ultimo fu il caso di Eva di Saint-Martin a Liegi e di Ava
Göttweig[41].
La reclusa era a volte considerata anche una guaritrice. Ma solitamente la sua
azione era più spicciola e meno sensazionale—magari semplicemente nell’insegnare
a leggere alle bambine—. Santa Ildegarda, che divenne una delle persone più
colte del
XII
secolo, imparò a leggere da una reclusa di Disibodenberg. Quando una reclusa si
dedicava all’assistenza spirituale, solitamente comunicava attraverso la
finestra del parlatorio posto vicino alla cella
[42].
Gli storici sottolineano spesso come questa finestra fosse motivo di
preoccupazione per gli autori delle diverse
Regole
e per i vescovi che ne dovevano sorvegliare l’osservanza. Ovviamente ogni genere
di abuso era possibile e alcuni ve ne furono. Ma ancora una volta dobbiamo
guardarci dall’esagerazione letteraria su questo punto come su ogni altro
riguardo le recluse e altre persone che conducevano una vita fuori dal comune.
Gli scrittori che vogliono attirarsi un pubblico di lettori sono sempre stati
abili nel far leva sullo scalpore. In realtà sembra che la maggior parte dei
visitatori ricevuti dalle recluse fossero persone afflitte e bisognose di un
conforto spirituale piuttosto che di inutili pettegolezzi.
L’influsso della reclusa si esercitava anche attraverso la sua preghiera, che
è
un modo efficace di essere unita alla preghiera salvifica di Cristo. La reclusa
leggeva e meditava, e talvolta
è
ritratta nei dipinti con un libro tra le mani
[43]. A volte contribuiva alla
diffusione di nuove devozioni, grazie al suo esempio e al suo incoraggiamento;
in altri casi era lei stessa a iniziare nuove devozioni. Si è scritto infatti
che «alcune delle devozioni che più tardi sarebbero diventate fonte della pietà
popolare erano già coltivate dalle recluse del XII secolo; basti citare, per
esempio, la devozione alle cinque piaghe, alla santa Croce, ai misteri della
vita di Cristo e ai misteri gaudiosi di Maria. Circa nello stesso periodo nel
mondo claustrale si cominciò anche a ripetere la breve formula usata nel saluto
dell’angelo, e questa ripetizione, unita ad altri elementi, si trasformò
gradualmente nella forma popolare delle devozioni mariane: il rosario»
[44].
Le recluse recitavano anche il salterio e avevano a questo scopo libri
liturgici, l’ufficio divino. Uno degli sviluppi più spettacolari della liturgia
del
xii
secolo è legato al nome di una reclusa. La devozione popolare al santissimo
Sacramento e l’istituzione della festa del Corpus Domini fu dovuta
principalmente alla beata Giuliana di Mont-Cornillon e alla sua amica Eva, una
beata reclusa dell’abbazia di Saint-Martin a Liegi
[45].
Infine l’influsso delle recluse si fece sentire per mezzo della loro carità
verso tutti, specialmente verso coloro che stavano nelle immediate vicinanze. Si
è detto che la reclusa era un «legame tra due mondi». Questo ruolo di mediazione
e di riconciliazione è già stato studiato in rapporto alla figura dell’«uomo
santo» dei villaggi orientali nella tarda antichità
[46]. Per quanto riguarda il medioevo,
in un articolo di H. Mayr-Harting si è parlato delle «funzioni di una reclusa
nel XII secolo»
[47]. Essa poteva sedare liti locali
senza schierarsi con l’una o con l’altra parte, poiché era sufficientemente
lontana dalle passioni che elettrizzano l’atmosfera. Nella preghiera intercedeva
particolarmente per tutte le miserie del mondo. San Pier Damiani, scrivendo
sugli eremiti, ebbe espressioni meravigliose sulla teologia della comunione
universale nel suo trattato
Dominus vobiscum.
Egli mostra come anche il più solitario dei solitari deve pregare al plurale,
perché prega a nome e a beneficio di tutti
[48]. Aelredo di Rievaulx si è espresso
in termini simili a proposito delle donne recluse, in forma più breve ma con
altrettanto fervore:
«Quanto bene allora saprai fare al tuo prossimo? Nulla vale di più, disse un
santo, della buona volontà. Sia questa la tua offerta. Che cosa vi è di più
utile della preghiera? Sia questa la tua generosità. Che cosa vi è di più umano
della pietà? Sia questa la tua elemosina. Abbraccia così tutto il mondo con le
braccia del tuo amore e in quell’atto pensa e rallegrati dei buoni e guarda e
piangi sui malvagi. In quell’atto vedi gli afflitti e gli oppressi e prova
compassione per loro. In quell’atto richiama alla tua mente la miseria dei
poveri, i gemiti degli orfani, l’abbandono delle vedove, la tristezza di chi
soffre, i bisogni di chi viaggia, le preghiere delle vergini, i lunghi tempi di
chi naviga, le tentazioni dei monaci, le responsabilità dei sacerdoti, le
fatiche di chi va in guerra. Nel tuo amore portali tutti nel cuore, piangi per
loro, offri per loro le tue preghiere»
[49].
La stessa enfasi si ritrova nell’Ancrene
Riwle.
Fin dall’inizio, nelle intenzioni per le quali la reclusa deve recitare
l’ufficio divino, notiamo come si esprima al plurale: «Da’
loro
il riposo eterno, Signore... Cristo, abbi pietà di
noi»
[50]. La reclusa prega nella Chiesa, con
la Chiesa e per la Chiesa: «Per la pace della santa Chiesa... per le anime di
tutti i cristiani... O Signore, accogli con misericordia le preghiere della tua
Chiesa, perché liberata da ogni male possa servirti sicura e libera»
[51]. Poco più avanti si legge questa
preghiera per ogni forma di sofferenza:
«Pensa e ricorda tutti quelli che sono malati e sofferenti, che patiscono
l’afflizione e la povertà, le sofferenze dei prigionieri che giacciono con
pesanti catene ai piedi. Pensa specialmente ai cristiani che vivono tra i
pagani, alcuni in carcere, altri in terribile schiavitù, come buoi o asini. Abbi
compassione di quelli che soffrono grandi tentazioni; pensa a tutti i dolori
umani e prega tra i sospiri nostro Signore perché voglia guardare a loro con
occhi di grazia.. .»
[52].
4.
Reclusione e profezia
È interessante e indicativo notare che il teologo dell’amicizia spirituale
abbozzò una teologia della vita di reclusione. Aelredo di Rievaulx, così umano e
aperto, ebbe un vivo senso del ruolo universale che poteva avere nella Chiesa
ima donna consacrata a Dio nell’assoluta solitudine. Cristina di Markyate,
contemporanea di Aelredo, e molte altre come lei incarnarono questo
insegnamento. L’amicizia può diventare tanto intima da permettere a una persona
di leggere nel cuore di un’altra come chi ha il dono della profezia. Un modello
per le recluse, come abbiamo visto, fu la profetessa Anna
[53].
Se volessimo mettere in connessione il carisma della reclusione con altri
menzionati dalla Scrittura e dalla tradizione, la profezia sembrerebbe quello
più adatto. Secondo il Nuovo Testamento e i documenti dei primi secoli
cristiani, la profezia era una forma di insegnamento con cui una persona
partecipava agli altri le rivelazioni che aveva ricevuto
[54]. Questa comunicazione era
accompagnata dalla preghiera e aveva il carattere di testimonianza pubblica
nella Chiesa. Dopo la carità, la profezia era il carisma più alto, più ancora
del ministero attivo. «Ma quando si arriva alla profezia, gli uomini e le donne
sono completamente sullo stesso piano», e sembra che le donne abbiano ricevuto
questo dono in misura più larga degli uomini
[55]. Era una realtà indipendente dalla
gerarchia e dal clero. «A questa categoria appartengono tutti quei gruppi
organizzati non per un ministero esterno, ma per una funzione spirituale, cioè
per pregare e per testimoniare l’altro aspetto terreno della Chiesa con la loro
vita di preghiera e di ascesi. Tra loro vi sono donne da poco vedove, anziane
vergini e quelle comunità monastiche di ispirazione più eremitica che
ecclesiale»
[56].
La reclusione—indubbiamente un grande fatto nella Chiesa— mantenne la sua
vitalità lungo tutto il medioevo. Una grande badessa come santa Ildegarda, una
illustre reclusa come Cristina di Markyate furono chiamate profetesse. E come
abbiamo già visto, alcune recluse svolgevano un genere di servizio attivo nella
Chiesa. Ma esistevano altre donne, meno note, che sicuramente erano profetesse
allo stesso modo. Tutte avevano in comune, e questo era loro specifico, il
compito di mantenere vivi nella Chiesa i caratteri della «vita profetica»
[57], cioè il distacco dalle abitudini
mondane, il desiderio di Dio, la preghiera contemplativa per il bene di tutta la
Chiesa e di tutta l’umanità.
Proprio all’inizio del suo studio sull’«eremitismo francescano»
[58], Thomas Merton sottolineò i fattori
comuni a ogni forma di eremitismo: solitudine e desiderio di aiutare ogni uomo.
Questi due atteggiamenti scaturiscono dalla stessa fonte— amore per Dio in
Cristo, amore per Cristo e per tutti gli esseri umani—. Nel 1975, durante un
convegno ecumenico dove ortodossi, cattolici romani, anglicani e altri cristiani
si incontrarono per discutere sul tema
Solitudine e comunione,
uno dei partecipanti fece un lungo intervento sull’espressione di san Pier
Damiani
solitudo pluralis
[59].
Un altro citò «un vero eremita, Thomas Merton»
[60]. E nel suo
Statement on the Solitary Life
il simposio riassunse le proprie conclusioni in diversi punti, il primo dei
quali è quello più importante:
«La vita solitaria, sebbene implichi una separazione esteriore dalla società, è
nello stesso tempo una vita vissuta in profonda comunione con tutto il genere
umano. Anche se rimane ‘alla frontiera’, separato da tutti, il solitario è al
tempo stesso unito a tutto. Vivendo spesso in condizioni di estrema povertà e
semplicità, quest’uomo o questa donna si identificano con tutti gli altri esseri
umani nel loro bisogno e nella loro povertà davanti a Dio»
[61].
5.
Conclusione
Ogni essere umano è come uno specchio di tutti gli altri uomini e di tutto
l’universo; la persona è come una via di incontro del mondo intero. E il
Logos
che è in Dio, che è Dio, che è lo specchio nel quale Dio Padre si riflette
nell’unità del loro Spirito, è anche Io specchio di ogni essere umano.
Esiste perciò una solidarietà ontologica tra tutti gli uomini, perché la
solidarietà, prima che essere una qualità psicologica o spirituale, è una realtà
ontologica. È su questo piano fondamentale che noi siamo fratelli gli uni con
gli altri, al di là del fatto che ciò si realizzi o no. Questa realtà ontologica
deve essere radicata nella coscienza e nell’esperienza spirituale—altrimenti non
siamo in grado di capire come il peccato di Eva possa avere conseguenze su di
noi, e neppure possiamo comprendere come il sacrificio della Croce avvenga per
la nostra salvezza.
Considerato in questa prospettiva di realtà ontologica e di consapevolezza, il
monachesimo appare un grande sacramento, un mistero di solitudine e di
comunione, più che un’attività specialistica di pochi eletti. La monaca, o il
monaco, è una persona in cui il centro della coscienza e il senso cosmico
coincidono; è una persona, quella monastica, che è incentrata, che
è
il centro, che è con-centrata in modo tale che in quest’unica persona convergano
come in un solo punto focale i centri di ogni altra realtà.
Ecco il fine della solitudine contemplativa: essere il centro di un centro che è
dappertutto, un centro senza circonferenza. Ed eccone il risultato: diventare
totalità, vivere senza limiti di spazio e tempo, consapevoli con profonda umiltà
della propria condizione. Questa non è vuota retorica. È un fatto, e questa
lettera che ho ricevuto nell’autunno del 1977 da un monaco americano lo
testimonia:
«La mia esperienza della vita contemplativa si rivela nel fatto che più vivo,
più mi sembra di diventare universale. Mi sento in amicizia con tutto. Penso che
padre Louis [Thomas Merton] avesse molto da dire su questo fatto. Ed è davvero
meraviglioso sperimentarlo senza neppure averne parlato e poi leggere qualcosa
scritto da lui... che è una esplicitazione di qualcosa che già c’è. Ma penso che
questo sia uno dei maggiori
dinamismi
della preghiera contemplativa».
[1]
R. Laurentin, in una recensione ne
Le Figaro su O. Odelain-R.
Sequineau, Dictionnaire des noms
propres de la Bible, Paris 1978.
[2]
E. de Moreau,
Le rôle de la femme dans la conversion des peuples païens,
in «Nouvelle revue théologique» 58 (1931), pp. 317-339.
[3]
H. Leclercq, art.
Reclus,
in
Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie,
XIV/2, Paris 1939, coll. 2155-2158.
[4]
Vitae patrum,
PL 73, 661-662; BHL 8012-8019.
[5]
The Rise and Function of
the
Holy Man in Late Antiquity,
in «Journal of Roman Studies» 62 (1971), pp. 98-100.
[6]
Ibid., p. 88.
[7]
F. Charya,
The Guru: The Spiritual Father in the Hindu Tradition, in
Abba. Guides to Wholeness and Holiness East and West, a
cura di J.R. Sommerfeldt, Kalamazoo 1982, pp. 243- 275 (Cistercian
Studies Series, 38).
[8]
La storia della reclusione è stata oggetto di
numerosi studi: se ne può trovare una bibliografia in L. Gougaud,
Ermites et reclus.
Études sur d’anciennes formes de vie religieuse,
Ligugé 1928; P.F. Anson,
The Call of the Desert, London 1966, pp. 265-268; e
soprattutto in R. Rouillard, art.
Reclusione,
in
Dizionario degli Istituti di Perfezione,
VII, Roma 1983, coll. 1229-1245.
[9]
Questa forma
di reclusione vicino a un monastero durò molto
più a lungo.
Per il
XIV secolo
si veda M.W. Bloomfield,
Piers Plowman as a Fourteenth Century Apocalypse, Rutgers
University Press s.d., p. 70.
Egli arriva a dire che «al tempo di William Langland tutti i monasteri
provvedevano a recluse ed eremiti e molti dipendevano da questi centri».
[10]
J. Hubert,
Les
recluseries urbaines
au
moyen âge,
in
L’eremitismo in Occidente nei secoli
XI
e XII,
Milano 1965, p. 487.
[11]
De institutione inclusarum,
tradotta da M.P. McPherson col titolo
A Rule
of Life for a Recluse,
in
Aelred of Rievaulx: Treatises and
the Pastoral Prayer,
Kalamazoo 1982.
[12]
Alcuni testi sono citati in J. Kenneth,
Studies in Early Celtic Nature Poetry, Cambridge 1935, pp.
93-109.
[13]
La citazione segue l’edizione di J. Morton,
The Nun’s Rule: Being the Ancrene Riwle mo- dernised,
intr. di A. Gasquet, London 1905, p. 316.
[14]
Secondo P.F. Anson,
op. cit., p. 215.
[15]
De Iesu puero,
6, tradotto da T. Berkeley col titolo
Jesus at
the Age of Twelve, in Aelred of Rievaulx...,
cit., p. 10.
[16]
MGH
SS,
XVII, 232, qui citato secondo la traduzione di G.G.
Coulton,
Life in the Middle Ages,
II, Cambridge 1967, pp. 191-192.
[17]
Secondo P. F. Anson,
op, cit., p. 215.
[18]
L. Gougaud,
op. cit., p. 93.
[19]
The Life of Christine of Markyate,
a cura di C.H. Talbot, Oxford 1959.
[20]
Dall’edizione di N.M. Häring,
Die Gedichte und Mysterienspiele des Hilarius von Orléans,
in «Studi medievali» 17 (1976), p. 928.
[21]
J. Leclercq,
Libérez les prisonniers. Du
Bori Larron à Jean XXIII, Paris 1976, pp. 36-59:
Monastère et prison.
[22]
L. Gougaud,
op. cit., p. 75.
[23]
J. Morton, op. cit., p. 314.
[24]
Sal
131,14 (Vulgata).
[25]
Acta Sanct. Bolland.,
Sept. II, Paris
1868, pp. 260-262.
[26]
Legenda beati Pbilippi... auctore incerto saeculi
XIV,
in A. Morini - P. Soulier,
Monumenta Ordinis Servorum S. Mariae,
Bruxelles 1898, pp. 77-78.
[27]
Paphnutius. Conversio Thaidis meretricis,
ed.
Homeyer, in
Hrotsvitae Opera,
Paderborn- Wien 1970, pp. 333-334.
[28]
Cap. 4, ed. cit., p. 105.
[29]
Su questo testo e su questo tema si veda J.
Leclercq,
La vie parfaite, cit., pp. 148-157 (tr. it. pp. 145-154).
[30]
L. Gougaud,
op. cit., p. 81.
[31]
Prefazione a J. Leclercq,
Seul avec Dieu. La vie érémitique d’après la doctrine du B.x Paul
Giustiniani,
Paris 1955,
p.
xiii
(tr. it.
Il richiamo del deserto. La dottrina del beato Paolo Giustiniani,
Roma 1977.
[32]
Cont. H. de Boissieu,
Une recluse au XVIIe siècle, Paris-Gembloux
1934.
[33]
Sr. E. Clarkin,
The Story of a Recluse, in
«Review for Religious» 19 (1978), pp. 387-392.
In memoria di Catherine Leber, la Congregazione delle Missionarie
Recluse fu fondata in Canada.
[34]
J. Morton,
op. cit., pp. 314-314.
[35]
J. Leclercq,
Pétulance et spiritualité dans le commentane d’Hélinand sur le Cantique
des cantiques,
loc. cit., p. 41.
[36]
Citato da L. Gougaud,
op. cit., p. 110.
[37]
Aelredo,
De institutione inclusarum, 31, ed. cit., p. 91; si veda
anche
Monks on Marriage.
[38]
J.J. Jusserand,
Les Contes à rire et la vie des recluses au XIIe siècle,
in «Romania» 24 (1895), p. 122-128. In questo articolo, Jusserand cita
Abelardo e conclude che egli «fa delle aggiunte ai cenni che già si
avevano sugli innumerevoli modi in cui venivano costruite le storie e si
svolgevano le avventure, ossia sul materiale fondamentale dei
fabliaux». Ma non dà indicazioni su tali storie, se esse
esistevano.
[39]
Come accadde per Cristina di Markyate.
[40]
L. Gougaud,
op. cit., p. 85.
[41]
Ibid., pp. 96-97.
[42]
Ibid., p.
102.
[43]
J. Hubert,
Les recluseries urbaines au moyen
âge,
loc. cit., p. 486.
[44]
L. Gougaud,
op. cit., pp. 110-111.
[45]
lbid., p. 82.
[46]
Cfr.
supra, nota 5.
[47]
Functions of a Twelfth Century Recluse,
in «History» 60 (1971), pp. 337-352.
[48]
J. Leclercq, 5.
Pierre Damien, ermite et homme d’Église,
Roma 1960, pp. 265-273:
Solitude et communion d’après le «Dominus vobiscum»
(tr. it.
S. Pier Damiano, eremita e uomo di Chiesa,
Brescia 1972; questa appendice non compare nella versione italiana,
ndt).
[49]
De institutione inclusarum,
28, ed. cit., pp. 77-78.
[50]
J. Morton,
op. cit., p. 18.
[51]
Ibid., p. 19.
[52]
Ibid., p. 25.
[53]
Sr. M.L. McKenna,
Women in the Church, cit., p. 149.
[54]
Ibid., p. 155.
[55]
Ibid., p. 160.
[56]
Ibid., p. 159.
[57]
J. Leclercq,
La vie parfaite, cit., pp. 125-160 (tr. it. pp. 123-158).
[58]
Contemplation in a World of Action,
New York 1971.
[59]
A. Louf,
Solitudo pluralis,
in
Solitude and Communion. Papers on
the Hermit Life given at St
David's, Wales, in the
Autumn of
1975, Oxford 1977, pp. 17-29.
[60]
A.M. Allchin,
The Solitary Vocation. Some Theological Implications, ibid.,
p. 16.
[61]
Ibid., p. 77.
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17 ottobre
2021 a cura
di Alberto "da Cormano "
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