SAN DOMENICO DI GUZMÁN

(1175 ca.-1221)

 

Di Antonio Sicari

Estratto da “Il secondo grande libro dei ritratti di santi

Editoriale Jaca Book, 2006


Festa: 8 agosto

Della personalità di Domenico di Guzmán è stato detto che «è tutta nascosta nella luce».

Non sono molte le notizie biografiche sulla sua persona e quasi nulla è rimasto dei suoi scritti; ma egli risplende tutto nascosto nella sua opera: l’Ordine dei Predicatori, fondato agli inizi del Duecento.

«Se noi potessimo levare sulle opere di Dio uno sguardo unico e puro», ha scritto G. Bernanos in un breve profilo del nostro santo, «quest’Ordine ci apparirebbe come la carità stessa di san Domenico realizzata nello spazio e nel tempo, come se la sua preghiera fosse diventata visibile».

E una santa terziaria domenicana, Caterina da Siena, si sentirà dire da Gesù: «L’istituto religioso del mio figlio Domenico è un delizioso giardino, gioioso e profumato».

Eppure, quando Domenico morì, benché fosse Padre e Maestro di un nuovo Ordine religioso, già diffuso in tutta Europa, non possedeva né una cella né un abito religioso decente.

Per tutta la vita egli si era concepito come «Pellegrino di Cristo», e un pellegrino è sempre esule, sempre straniero e privo del necessario.

E anche se la sua famiglia d'origine era certamente nobiliare, Domenico non ci lasciò quasi nessun ricordo al riguardo.

Sappiamo qualcosa soltanto della bontà della mamma, Giovanna, che la tradizione ha considerato e venerato come santa; e santi sono considerati i due fratelli di Domenico, divenuti ambedue sacerdoti.

Il biografo antico racconta molti episodi simbolici e prodigiosi della sua infanzia, ma appartengono tutti ad un genere letterario allora molto diffuso - infatti gli stessi episodi vengono narrati per santi diversi - con l’unico intento di annunciare le future grandezze e il destino che Dio già assegnava al fanciullo. Il prodigio, che segnerà l’iconografia (basta pensare al bellissimo ritratto del Beato Angelico), è quello della stella che la madre vede splendere sulla fronte del fanciullo.

Più interessante per noi, dal punto di vista pedagogico, è invece la citazione classica (del poeta latino Orazio) con cui fautore commenta la precoce educazione cristiana di Domenico, affidato ad uno zio sacerdote verso i sci-sette anni: «Quando si versa del profumo in un vaso di argilla nuovo, esso ne rimane così impregnato che la fragranza non va più via» [1].

L’espressione rievoca tutto il sistema pedagogico del tempo, quando un bambino imparava il latino esercitandosi sul salterio, in modo che studio e preghiera si fondessero assieme naturalmente, impregnassero il fanciullo e lo plasmassero.

Con lo stesso ritmo Domenico percorse tutto il curricolo degli studi, che lo condusse fino al magistero in teologia.

Era un tipo serio, piuttosto schivo, che si distingueva dalla massa per la sua dedizione al sapere e alla preghiera, e per un’evidente purezza e sobrietà di vita, piuttosto rare anche a quel tempo.

Aveva, però, un cuore affettuosissimo, che lo portava spesso a commuoversi soprattutto nella preghiera.

Più passeranno gli anni e più gli sarà difficile celebrare la messa senza piangere, e nel pianto si concluderanno molte sue preghiere, quasi tutte protese alla conversione dei poveri peccatori.

Un giorno diranno di lui che «tutti amava e da tutti era amato», e un amico assicurerà che egli usava «estendere la sua carità anche ai dannati», tanto lo travolgeva il suo cuore.

Ed era una carità fattiva che un giorno lo spinse perfino ad offrirsi in schiavitù ai musulmani pur di liberare un ragazzo che non poteva pagare il riscatto. Ricordiamo che nella Spagna di allora non erano rare le scorrerie dei mori che rapinavano, compravano e vendevano cristiani.

La stessa carità gli divampò nel cuore in occasione di una terribile carestia che decimò la Spagna.

Fu allora che «scosso dalla miseria dei poveri e divorato dalla compassione, risolvette in un solo gesto di obbedire ai consigli evangelici e di alleviare, nell’unico modo che gli era possibile, la miseria di coloro che morivano di fame. Vendette dunque i libri che possedeva - libri per altro a lui indispensabili - e vendette anche le sue suppellettili e distribuì tutto ai poveri».

L’espressione «vendere i libri» non aveva allora il senso con cui oggi suona ai nostri orecchi: significava rinunciare a codici preziosi e introvabili, disfarsi di una biblioteca di pergamene messe assieme in anni di pazienti ricerche e annotate in anni di studio faticoso, rinunciare ad un patrimonio che era quasi impossibile poi ricostruire...

Secondo un testimone, Domenico avrebbe spiegato così il suo gesto: «Non posso studiare su pelli morte» - tali erano le pergamene che si usavano allora - «mentre delle persone vive muoiono di fame».

La frase è costruita ad effetto, ma rende bene la sensibilità dello studioso che crede in ciò che impara.

Acquistò così una tal fama di uomo di Dio che il Capitolo della cattedrale di Osma gli offrì un posto di canonico: non era un invito onorifico, ma una chiamata a partecipare alla riforma della Chiesa, a partire da un luogo carico di fervore e di progetti.

Ad Osma, il vescovo aveva convinto i suoi canonici a vivere con lui secondo la regola di sant’Agostino: erano Dodici, come un collegio apostolico, stretti attorno al santo vescovo Diego che faceva le parti di Gesù, vivendo in comunione e vera dedizione al culto di Dio.

Domenico vi giunse a ventiquattro anni, attratto da quella forma di vita che allora era quasi totalmente impregnata di studio e di preghiera, una vita quasi esclusivamente contemplativa.

Il biografo dice che, in questo periodo, Domenico era tutto occupato «ad assaporare l’intima dolcezza» di ciò che prima aveva studiato.

Aveva, dunque, dimenticato i poveri e le necessità apostoliche della Chiesa? No, ma li stava raggiungendo - come sempre bisogna fare - prima di tutto dalla parte del cuore: quello di Dio, quello della Chiesa, e il suo stesso cuore adorante.

Per l’apostolato attendeva l’Ordinazione sacerdotale che gli venne conferita a venticinque anni. Ma il primo «viaggio» in cui, sui trent’anni, si trovò coinvolto non aveva apparentemente nulla di veramente apostolico.

Per incarico del re, doveva accompagnare il suo vescovo tino alla lontana Scandinavia, per prelevarvi una fanciulla destinata sposa all’erede di Castiglia.

Domenico si trovò così ad attraversare l'Europa e a rendersi personalmente conto della situazione della cristianità.

Appena al di là dei Pirenei, lo colpì la diffusione dell’eresia catara, un movimento ereticale che allora contava circa quattromila membri a pieno titolo (detti «perfetti») e qualche centinaio di migliaia di «credenti», e che aveva ormai una sua propria gerarchia episcopale. La Champagne, il regno di Francia, le Fiandre, l’Inghilterra, la Lombardia e l’Italia del sud ne erano stati infettati.

Nell’albigese - il territorio percorso da Domenico - quella «nuova chiesa» aveva una struttura compatta e austera che attraeva l’ammirazione anche di coloro che erano rimasti cattolici.

Il clero, in particolare, sembrava ben più affidabile di quello cattolico, non di rado corrotto.

Tanta austerità si ammantava, però, di un irridente disprezzo per la Chiesa, di reticenze nei riguardi del battesimo e dell’eucaristia, di avversione al segno della Croce. Al fondo c’era un irrimediabile dualismo che vedeva tutta la realtà dominata da due principi radicalmente opposti: Dio e il diavolo, il bene e il male, lo spirito e la materia.

A sconvolgere Domenico era soprattutto il fatto che una tale eresia veniva accolta dal popolo non per quello che realmente diceva, ma per quello che tanti buoni cristiani giustamente desideravano.

L’odio verso la materia era considerato come penitenza cristiana; l’odio al corpo era considerato come amore alla purezza; l’odio verso le realtà mondane era scambiato con la fiducia nella Provvidenza.

Insomma: la Chiesa del tempo - il clero in particolare - aveva davvero bisogno di riforma; ma la riforma doveva partire da un nuovo amore a Cristo, da un nuovo amore alla sua Chiesa, da un nuovo amore al mondo da Lui redento, e non da una amarezza radicale e negativa verso tutto ciò che era corporeo in nome di un gelido spiritualismo.

Lo spiritualismo attraeva perché sembrava un rinnovamento, mentre in realtà era una disincarnazione, tanto che nel suo fondo esso non sentiva nessun bisogno della persona di Cristo, ma solo di certi suoi insegnamenti morali!

Un vescovo o un prete cataro non facevano molta fatica a mostrare la loro superiorità culturale e morale sui sacerdoti cattolici. Si noti che questa austerità non scoraggiava affatto gli aderenti alla setta; i catari, infatti, esigevano la purezza dei costumi e la povertà solo dai pochi perfetti, ma concedevano tutto ai loro credenti. Per essere considerati tali, i principi non dovevano affatto abbandonare i loro costumi licenziosi o la loro avidità. Se poi il matrimonio era un male in se stesso, era senz’altro meglio la fornicazione molteplice e passeggera.

Così principi e popolino potevano aderire alla setta senza preoccupazioni, dando solo sfogo al loro feroce anticattolicesimo. Potevano tranquillamente inveire contro la Chiesa romana, divenuta «spelonca di ladri» e «prostituta», senza rinunciare ai propri furti e alle proprie prostituzioni, dato che i credenti erano garantiti (anche per quanto concerneva la salvezza finale) dai pochi perfetti.

Qualche dibattito sulla questione, Domenico lo ebbe già durante il viaggio, in incontri occasionali; così, per la prima volta, potò mettere a frutto i suoi studi nella «grazia della predicazione».

Passò una notte intera a discutere con un albergatore di Tolosa, e si rese conto di quanto l’eresia si fosse ormai radicata: quel suo interlocutore, ad esempio, benché fosse un laico, si mostrava davvero preparato, e saltava agli occhi lo stridente contrasto con l’abietta ignoranza di tantissimi preti del tempo.

Quel primo viaggio verso le lontane terre del Nord si concluse con un matrimonio per procura. E così l’anno dopo bisognò rimettersi in strada, con un corteo ancora più fastoso, per condurre la principessa in persona. Ma tutto sfociò in un nulla di fatto: forse per la morte prematura della ragazza, forse per qualche intrigo di corte. Il doppio viaggio si era così rivelato inutile per gli uomini, ma era stato fondamentale per i disegni di Dio.

Nel cuore del vescovo Diego di Osma e del suo giovane sotto- priore Domenico era divampata la vocazione missionaria: infatti, viaggiando, erano giunti lino agli estremi confini della cristianità, oltre cui abitavano feroci popolazioni ancora ignare del Vangelo.

Perciò, invece di rientrare in Castiglia, si recarono a Roma per rimettere le loro cariche nelle mani del Papa e partirsene per quelle terre barbare, come poveri missionari votati al martirio.

Il Papa, però, non ne volle sapere, e Domenico provò la prima cocente delusione della sua vita, tanto più che essa gli veniva proprio dal Vicario di Cristo in terra. Era una di quelle delusioni radicali che devono sempre temprare coloro che Dio sceglie.

Commenta acutamente Bernanos: «Almeno una volta nella vita, ogni uomo predestinato ha creduto di sentirsi mancare la terra sotto i piedi e di andare a tondo. L’illusione che di colpo crolli tutto, l'impressione di essere stati privati di ogni cosa sono il segno divino che, al contrario, inizia tutto».

A Innocenzo 111 importava di più che qualcuno si dedicasse a rievangelizzare la Provenza, caduta in mano agli eretici.

E di bisogno ce n’era davvero: quelle terre (come del resto altre vaste zone della cristianità) pagavano il prezzo di una mancata riforma della Chiesa, che si faceva attendere da troppo tempo: vescovi inerti e dalla fede incerta, clero ignorante, corrotto e simoniaco, parrocchie devastate, predicazione quasi inesistente, popolo cristiano abbandonato a se stesso e caduto in preda a eretici che, al contrario, ostentavano cultura e fervore.

A combatterla c’erano a volte gli abati dei potenti monasteri che si muovevano garantiti dalla forza e dal denaro, o i legati pontifici che sfoderavano la loro autorità, o gli eserciti di qualche duca rimasto fedele alla Chiesa di Roma.

Bisogna dire che a volte erano anche giunti dei legati, inviati dal Papa, particolarmente degni e capaci, molto dotati in tatto di «predicazione», ma si erano trovati di fronte a un dilemma insolubile: appena aprivano bocca, il popolo rinfacciava loro la pessima condotta dei preti. E se i legati riconoscevano - come era giocoforza - la verità dell’obiezione, ne seguiva che essi dovevano dedicarsi prima alla riforma del clero. Ma se sceglievano questa strada, dovevano interrompere la predicazione per la quale erano stati mandati.

Fu allora che Domenico e il suo vescovo intuirono quale fosse, nella posizione degli eretici, l’unica giusta rivendicazione: chi predicava il Vangelo come gli Apostoli doveva vivere alla maniera degli Apostoli.

Così, da Montpellier, il vescovo Diego rimandò a Osma tutto il suo corteo di laici ed ecclesiastici, e tutti i suoi cavalli e bagagli, trattenendo con sé solo Domenico. Insieme si incamminarono per Carcassonne, la città con la sua imponente cinta di torri, ch’era allora la principale roccaforte dell’eresia.

Si presentarono poveri e indifesi e chiesero - secondo l’uso del tempo - un pubblico dibattito. Il tema, scelto dai catari, riguardò le peggiori accuse che essi rivolgevano alla Chiesa: quello «di non essere la Sposa di Cristo, ma la Sposa di Satana».

L’argomento si prestava a mescolare abilmente questioni dottrinali e cumuli di zavorra, con la inesauribile risorsa di offrire, in pasto al pubblico, accuse e pettegolezzi d’ogni tipo.

Chiesero che la disputa fosse preparata per iscritto e sottoposta ad arbitri imparziali. E Domenico redasse alcune parti del contraddittorio.

Narrano le cronache che in quell’occasione centocinquanta persone abbiano abbandonato l’eresia.

Ma narrano anche il primo miracolo del nostro santo. Poiché gli arbitri non riescono ad accordarsi, decidono - alla maniera medievale - di affidarsi al «giudizio di Dio» e gettano nel fuoco i testi di ambedue i contendenti: quelli degli eretici bruciano immediatamente, mentre le fiamme respingono per tre volte, lasciandole intatte, le pagine di Domenico.

Iniziò, così, benedetta dal cielo, la straordinaria avventura. I due nuovi «apostoli» toccarono tutti i villaggi vicini, mendicando il pane di porta in porta e annunciando dovunque la Parola di Dio. Il vescovo Diego era un uomo di tale umiltà e dolcezza che anche i catari ne erano affascinati e lo consideravano un predestinato.

Furono i primi esperimenti di evangelizzazione che Domenico condivise con altri «predicatori di Gesù Cristo» - quasi tutti abati cistercensi - inviati dal Papa.

Ma la vicenda sembrava destinata a esaurirsi. Diego dovette rientrare in diocesi, gli abati nei loro monasteri, e Domenico restò pressoché solo.

E «predicatore solitario» resta per circa sci anni, che plasmano in lui la fisionomia dell’apostolo: sempre in viaggio, a piedi, con il bastone di pellegrino, scalzo, senza bisaccia, ne borsa, né denaro, esposto a ingiurie e persecuzioni.

Spesso rischia la vita perché attraversa località sature di odio e di violenza e segnate dalla guerra civile. La notte sosta in case o locande di fortuna, dormendo per terra, anche quando gli hanno preparato un buon letto.

Parla volentieri di Dio a chiunque lo interroghi, altrimenti si perde nel silenzio. Un’ostessa, che lo ospita più di duecento volte, testimonierà di non aver mai sentito da lui una parola inutile.

Moltiplica le veglie e le discipline, e s’impone cilici e frequenti digiuni. Non lo fa per emulare i catari, ma per dimostrare a Cristo il suo amore, per affezionarsi alla sua Croce (che i catari disprezzano) e per partecipare dal vivo alla Sua passione. Vuole espiare lui stesso le colpe di molti traviati, e vuole anche reagire a quei cattolici che pensano di combattere il male infliggendo agli altri guerre e distruzioni.

Anche se sa che gli girano attorno assassini prezzolati per ucciderlo, non ha paura; non perché sia particolarmente coraggioso, ma perché - fin da quando ha sognato la missione tra i barbari del Nord - sogna il martirio.

Non mancano gli episodi teneri. Un giorno, mentre a piedi scalzi si reca a una disputa generale, si affida a una guida del posto che però appartiene al campo avverso. Maliziosamente costui lo conduce su sentieri, pieni di rovi e di pietre aguzze, e Domenico, guardando i suoi piedi insanguinati, dice: «Vinceremo di sicuro la disputa, perché abbiamo già sparso il nostro sangue». E ottiene infatti una conversione di massa.

E quando gli tocca attraversare a guado dei minacciosi torrenti, lo fa cantando l’Ave maris stella. Perciò un torrente gli restituisce intatte - così raccontano - persino le preziose pergamene scivolate nell’acqua: le troverà tutte impigliate all’amo di un pescatore.

Attraversa folte foreste e la bellezza selvaggia della natura lo manda in estasi, tanto che pian piano si lascia distanziare dai compagni di viaggio; quando lo cercano preoccupati, lo trovano perduto in Dio, inginocchiato in preghiera, attorniato da lupi famelici che non ardiscono toccarlo.

Nelle dispute, spiegando le verità della fede, spesso si commuove fino al pianto, e qualcuno si converte al vederlo così coinvolto con la dottrina che espone.

D’altronde egli non semina soltanto parole: per liberare dall’eresia un cataro costretto dalle miserevoli condizioni economiche, non esita a offrirsi nuovamente in schiavitù al suo posto.

Leggende? Forse. Ma - come scrive Bernanos, tracciando un profilo del nostro santo - «le vecchie leggende insegnano molto di più [delle ricerche storiche] perché trascrivono in simboli realtà profonde», e questo perfino quando raccontano che la pioggia violenta si arresta intorno a lui, e lo spazio asciutto si sposta man mano che egli cammina.

Frattanto, a parte tante dispute e qualche conversione, non si può dire che abbia combinato molto. La sua opera più preziosa è stata la fondazione di un monastero femminile a Prouille, dove alcune donne, convertite dall’eresia, vivono in preghiera e amore di Dio. Domenico lo considererà sempre come il cuore del suo Ordine, quello che stava per nascere nella città di Tolosa, città da poco riconquistata, sia pure con le armi di Simone di Montfort, alla vera fede.

A Tolosa, allora vera metropoli, Domenico si stabilì come «praedicationis humilis minister» e qui cominciò a ricevere i primi compagni che volevano non soltanto condividere la sua missione, ma diventare suoi fratelli e figli.

La prima approvazione ufficiale dei «predicatori» fu quella del vescovo diocesano, che li riconobbe come comunità, presieduta da un superiore, e li dotò di un alloggio e di un reddito.

A differenza di altri predicatori laici del tempo, alla maniera di san Francesco, il nostro Domenico volle una vera comunità di apostoli: sacerdoti dediti allo studio e alla predicazione, a nome del vescovo.

La loro origine carismatica è tutta espressa in una formula alquanto strana, usata in quel primo documento di approvazione, dove il vescovo diceva: «Istituisco predicatori della mia diocesi fra Domenico e i suoi compagni, i quali si sono prefissi di procedere regolarmente a piedi nella povertà evangelica e di predicare la parola della verità evangelica».

«A piedi» significava rifiuto di ogni cavalcatura - segno allora di comodità e prestigio - con la rinuncia a portare con se denaro e provviste, e la conseguente mendicità porta a porta, durante l’itineranza apostolica. Nei tempi di riposo e di studio, il vescovo stesso garantiva la casa e i beni necessari alla vita e alla formazione dei suoi predicatori, che erano propriamente «i suoi poveri».

La prima cosa che Domenico fece fu di accompagnare i suoi primi compagni in una scuola di teologia e chiedere al professore di volerli accogliere come discepoli: quello doveva essere il loro lavoro!

Erano in sette, tutti vestiti di bianco. Il professore li guardò a bocca aperta, tanto più che quella mattina, preparando la lezione, si era messo a sonnecchiare e aveva visto sette stelle splendere nella sua stanza e diventare sempre più luminose, tanto che la luce si diffondeva nel mondo. Li accolse, dunque.

Era nato l’Ordine dei Predicatori e furono molti, nella prima metà del secolo XIII, che videro in esso la realizzazione di antiche profezie: tutte quelle in cui i Padri della Chiesa avevano parlato della necessità per la Chiesa e per il mondo che nascessero campioni invitti della predicazione del Santo Vangelo. In certi antichi testi (perfino nei Commentari di san Gregorio Magno) si leggeva proprio quel nome: Ordine dei predicatori, e i seguaci di Domenico si sentivano eredi di una antica attesa e protagonisti dell’ultima era del mondo.

Non fu facile per Domenico ottenere l’approvazione pontificia di un tale Ordine: da un lato la Chiesa ormai proibiva decisamente la fondazione di nuovi istituti religiosi (decisione del Concilio Lateranense IV, nel 1215), dall'altro gli unici «predicatori» istituzionalizzati erano e dovevano restare soltanto i Vescovi.

Certo, altri potevano ricevere da loro l’autorizzazione, ma come era pensabile un Ordine dei Predicatori, se quest’Ordine già esisteva ed era appunto quello episcopale?

Per la prima questione fu papa Innocenzo III ad aiutare Domenico, suggerendogli di scegliersi una delle regole già esistenti, abbastanza generica da permettere nuove interpretazioni. Egli scelse quella agostiniana che già conosceva, arricchendola e precisandola con opportune Consuetudini che divennero, poi, un vero testo legislativo.

Nell’anno successivo il nuovo Papa, Onorio III, strinse con Domenico una vera amicizia e, davanti alla situazione drammatica della Chiesa, gli concesse non solo l’approvazione definitiva dell'Ordine, ma anche il nuovo titolo di «Predicatori», superando il problema accennato, poiché li presentò come tali alla Chiesa «in forza della sua autorità di Pontefice», e chiamandoli «speciali figli della Sede Apostolica».

Si può ben immaginare la gioia di Domenico quando vide che nella bolla pontificia il termine usato in prima stesura (che indirizzava il testo ai frati praedicantibus) era stato corretto in preaedicatoribus: così non si riconosceva solo un'azione (per quanto abituale), ma un ufficio, una identità. E forse la correzione era stata amabilmente, ma sapientemente, suggerita dallo stesso Domenico.

Nemmeno il permesso dei Vescovi era più necessario, anche se i frati di Domenico continuarono umilmente a chiederlo.

La prima conseguenza - dato che non era più legato a un singolo vescovo - fu che lo sguardo di Domenico poté spalancarsi alle necessità e ai drammi della Chiesa universale e nel suo cuore divampò nuovamente la passione missionaria che aveva provato ai tempi della giovinezza.

S’immergeva nella preghiera e ne usciva con decisioni sempre nuove e inattese.

Un giorno se ne stava a Roma, nella Basilica di San Pietro, quando gli sembrò che la mano di Dio si posasse su di lui. Comparvero Pietro e Paolo: il primo gli consegnò un bastone di pellegrino, l’altro gli mise in mano il Libro sacro. E tutte e due gli dissero: «Va’ e predica, perché Dio ti ha scelto per questo ministero». E gli parve di vedere, proprio in quell’istante, tutti i suoi frati che a due a due sciamavano nel mondo intero.

Doveva, dunque, dare al suo Ordine una dimensione universale. Scelse tre sedi: Roma, Parigi e Bologna. Roma come punto d’appoggio, Parigi e Bologna come massimi centri della cultura del tempo.

Tornò a Tolosa, radunò i suoi frati e annunciò loro che intendeva disperderli per il mondo. Disse: «Il buon grano se resta ammassato marcisce, se viene disseminato fruttifica».

Il nucleo principale di sette religiosi fu destinato a Parigi, considerata allora capitale del pensiero teologico.

Poi si incamminò nuovamente verso Roma, facendo tappa a Bologna, «il centro universale del Diritto Canonico e del Diritto Romano».

Studiare a Bologna voleva dire, per coloro che si incamminavano al sacerdozio, assicurarsi per il futuro i posti più prestigiosi e remunerati nella Chiesa.

Domenico vi mandò i suoi frati con Pimento di suscitare in altri studenti il desiderio di diventare «predicatori», cioè dei veri preti.

Il seme iniziale era piccolo, ma fiorirà abbondantemente qualche anno dopo, quando diventerà domenicano Reginaldo d’Orléans, già professore di Diritto Canonico a Parigi.

Il celebre professore dall'intelligenza acuta, dalla vita delicata, dal cuore generoso e non privo di rimorsi, arrivò in visita a Roma e si ammalò. Domenico lo conobbe e lo confortò, poi lo invitò tra i suoi. E Reginaldo gli promise obbedienza. Si aggravò, giunse in fin di vita, miracolosamente guarì.

Domenico gli concesse un pellegrinaggio in Terra Santa, poi - con una immediatezza e un giudizio che solo i santi possono permettersi - lo inviò a Bologna come suo vicario.

A Parigi i Domenicani sono dapprima ignorati, poi si acquistano la stima di un celebre docente che finisce per impartire le sue lezioni nella loro casa. Quando, dopo qualche anno, Domenico giunge a visitare i suoi figli, si vede attorniato da trenta frati, quasi tutti studenti conquistati nelle aule dell’università.

Le vocazioni fioriscono per contagio, e sembra quasi che Dio approfitti della presenza di quei giovani frati per tormentare i cuori di altri giovani intellettuali.

Un certo Guerrico sente cantare per strada un ritornello che dice: «II tempo se n'è andato / e nulla ho realizzato / il tempo ancora viene / e non faccio alcun bene», e ciò gli basta per entrare in profonda e fruttuosa crisi vocazionale.

Enrico di Colonia - giovane prete, pieno di ogni dote e virtù, brillante predicatore - sente una voce che lo ferisce chiedendogli: «Tu che cosa hai lasciato per il Signore?». Passa una notte piangendo e pregando nella chiesa di Notre-Dame e al mattino conclude: «Mai potrò far parte della comunità dei poveri di Cristo!». Ma quando sta per oltrepassare la porta della chiesa si sente cambiare il cuore c invadere da tanta serenità che fa immediatamente voto al Signore di aggregarsi ai Predicatori.

Domenico li raduna ripetutamente, li benedice, ma chiede loro ancora più povertà e, per stimolarli, racconta loro la sua visita alla Porziuncola dove, Tanno precedente, aveva ammirato migliaia di frati francescani radunati in totale e lieta povertà.

Qualcuno dice che, da allora, Domenico sia diventato più severo in fatto di rinuncia, anche comunitaria, ai beni di questo mondo.

La leggenda, introducendoci nel mistico mondo dorato della santità, ha abbellito rincontro tra san Francesco e san Domenico:

«Una notte, mentre Domenico era in preghiera, come al solito, vide Gesù Cristo irritato contro il mondo, e sua Madre che gli presentava due uomini per placarlo. Egli si riconobbe in uno dei due, ma non sapeva chi fosse l’altro. Guardandolo, però, attentamente, gliene restò impressa l’immagine. Il giorno dopo, in una chiesa, egli riconobbe, sotto un saio di mendicante, la figura che gli era stata mostrata la notte precedente; allora, correndo verso il povero, se lo strinse tra le braccia con queste parole: ‘Tu sei il mio compagno, tu camminerai con me, teniamoci uniti e nessuno potrà prevalere contro di noi!’... E il loro cuore si fuse l’uno nell’altro».

Una scrittrice moderna ha drammatizzato l’incontro sottolineando la reciproca «nostalgia» dei due santi: l’uno quasi desidera la vocazione dell'altro, e ambedue si abbandonano al disegno di Dio che li vuole (come poi dirà Dante) come due ruote, ambedue necessarie al dritto percorso dello stesso carro, la Chiesa.

«Dio è verità e dalla nostra ignoranza nasce il peccato», dice Domenico.

«Dio è amore e dal nostro disamore nasce l’ignoranza», completa Francesco.

«Vorrei, o frate Francesco, che un solo Ordine divenisse il tuo e il mio, e che noi vivessimo nella Chiesa una norma uguale!».

«Noi siamo due ruote di uno stesso carro, e la mia è sempre la minore», risponde il santo di Assisi. E si lasciarono con un forte abbraccio.

Ma esiste anche un'altra leggenda che racconta un incontro a tre, cioè quello tra san Domenico, san Francesco e il carmelitano sant'An- gelo di Sicilia. Nell’occasione Angelo predice a Francesco il dono delle stimmate. Francesco predice ad Angelo il dono del martirio e Domenico li contempla con gli occhi colmi di desiderio.

Forse tali incontri non sono mai accaduti, ma le anime hanno ugualmente i loro appuntamenti.

In seguito alla visita in Francia, Domenico dà il via a una nuova sciamatura, verso la sua patria: la Spagna.

Torna a Bologna. Durante il viaggio è ospitato da un parroco che gli imbandisce una tavola misera. Ma intanto un nipotino del prete, che sta giocando in terrazza, cade dall’alto muro. Domenico raccoglie nelle sue braccia il corpicino esanime, lo riscalda e lo restituisce incolume alla madre. Inutile dire che la modesta refezione si tramuta in un trionfale banchetto.

Intanto, a Bologna, maestro Reginaldo s’era dato alla predicazione con un tale ardore «che non c era cuore freddo o indurito che reggesse al suo calore» e in città si diceva che era sorto un nuovo profeta Elia.

Attorno a lui si accalcavano studenti, e non mancavano colleghi professori di università che entravano nell’Ordine.

A chi aveva conosciuto le ambizioni e le raffinatezze del professore di Parigi di un tempo, e gli chiedeva se non provasse ora ripugnanza d’appartenere a un Ordine così povero, Reginaldo rispondeva umilmente: «Io non ho alcun merito a vivere nell’Ordine, perché vi ho sempre trovato molta gioia».

E questa gioia era contagiosa.

C’era appunto un altro professore, maestro Moneta, celebre in tutta la Lombardia, che lo sfuggiva accuratamente: non voleva nemmeno sentirlo parlare per paura d’essere stregato, e raccomandava ai suoi studenti di tenersi alla larga da Reginaldo d'Orléans.

Gli studenti facevano apposta a invitarlo in cattedrale dove Reginaldo abitualmente predicava davanti a un folto pubblico. Era la festa di santo Stefano, non c’erano lezioni, il professore non riusciva a trovare una scusa. Disse che prima doveva andare a messa a santo Stefano: entrò in chiesa e di messe ne ascoltò tre, pur di sfuggire all'agguato.

Gli studenti implacabili lo attendevano e finirono per trascinarlo in cattedrale. Non riuscirono a entrare tanto era gremita, ma la voce del predicatore, giunto alle ultime battute, si udiva all’esterno: «Io vedo i cieli aperti», diceva, citando le parole di santo Stefano morente. «Sì, perché oggi si aprono i cieli, affinché noi vi entriamo... Vi riflettano e si scuotano gli infelici negligenti che chiudono il loro cuore! Ma perché indugiate, fratelli? Ecco: i cieli sono aperti!».

Quando la predica fu finita, maestro Moneta corse da Reginaldo, lo abbracciò piangendo, e gli promise obbedienza. Divenne, a sua volta, un apostolo per altri studenti e altri professori.

Così si sviluppò la comunità di Bologna, da dove i Domenicani si sparsero in tutta Italia.

È giusto qui riflettere un poco sullo straordinario carisma che Dio donò a Domenico per la edificazione della Santa Chiesa.

In una formula breve, possiamo dire questo: Dio scelse un vero contemplativo (tale era Domenico) e poi gli comandò «di pregare ad alta voce».

Così Domenico concepì «la grazia della predicazione» e, così, di conseguenza egli concepì lo studio e la disciplina intellettuale.

Nelle antiche consuetudini monastiche, Domenico inserì un elemento nuovo: l’applicazione allo studio, inteso come lavoro e come preghiera, e il tempo a ciò necessario, e inculcò il rispetto dei libri.

Non ebbe paura di ridurre il lungo tempo che allora i monaci destinavano al coro, né di offrire ai suoi frati numerose e calcolate dispense, tutte le volte che era in gioco la loro preparazione intellettuale in vista della predicazione.

Di conseguenza gli antichi usi monastici acquistavano un altro sapore e un’altra finalità: la povertà era perché non ci fosse distanza tra il predicatore e la Parola predicata (lo stesso Gesù «povero»); il silenzio conventuale era per creare il clima necessario alla lettura e alla riflessione, tanto che in seguito nascerà il motto: «Il silenzio è il padre dei predicatori» («Silentium pater praedicatorum»); e il lavoro manuale si trasformava in quello studio incessante per mezzo del quale «si mastica il pane della Parola di Dio» («studium per quod masticatur panis verbi Dei»). Perfino le dispense previste dalla Regola non dovevano essere date tanto per la debolezza o la malattia dei frati, ma per facilitare i loro doveri di studio e di evangelizzazione.

Addirittura ogni convento, per essere tale, doveva diventare una scuola di teologia: non vi doveva mancare qualche «Dottore», e vi si dovevano tenere lezioni a cui tutti i frati (anche i superiori e altri eventuali maestri) erano tenuti ad assistere. Lo studio doveva restare la passione predominante.

Nelle Institutiones date ai frati, Domenico fece scrivere che il Maestro dei novizi doveva insegnare loro «con quanta cura vadano trattati i libri..., quale applicazione debbano porre allo studio, in modo che di giorno e di notte, in casa e in viaggio, sempre siano occupati a leggere o a meditare qualche cosa, sforzandosi di tenere a mente quanto più è loro possibile; e con quale fervore dovranno poi attendere alla predicazione al momento debito».

Che, però, il santo non volesse degli «intellettuali», nel senso deteriore del termine, lo si può capire da quel piccolo avverbio che egli usava costantemente: bisognava studiare sempre (nella tradizione monastica l’avverbio riguarda la preghiera!). Era quel «sempre» che faceva dello studio un’umile e penitente consacrazione.

L'ideale domenicano è dunque quello del «praedicator gratiosus», del predicatore «grazioso», non nel senso che debba essere affascinante o incantare il suo pubblico, ma nel senso che dev’essere «impregnato di grazia di Dio», come lo era la Vergine Santa.

E ciò, a patto che «la grazia della predicazione» coincida, per così dire, con «la predicazione della grazia», con l’annuncio di quella salvezza che soltanto Dio può donare. Questa era ed è «la verità» che occorre imparare e insegnare.

La liturgia definirà appunto san Domenico Doctor Veritatis, ed è stato fatto notare che il suo discepolo più illustre, san Tommaso d’Aquino, ha messo proprio questa parola Veritas nel primo capoverso delle sue due opere maggiori (la Somma Teologica e la Somma contro i gentili). E Veritas sarà il motto che l’Ordine dei predicatori si sceglierà.

Domenico era convinto di non togliere nulla a Dio, nell’insistere tanto sullo studio.

Bastava che i frati si uniformassero al suo esempio.

Tutti, infatti, sapevano che egli «o parlava con Dio, o parlava di Dio» (Domenico avrebbe voluto che questa formula fosse inserita nelle sue Costituzioni!), e lo stesso poteva dirsi dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, delle sue azioni.

S’era abituato a passare le notti in preghiera e, di conseguenza, a volte si addormentava durante il giorno (specie in refettorio!), ma al mattino «raggiava di gioia» perché poteva donare al prossimo i frutti della sua preghiera.

Nel 1220 Domenico poté radunare a Bologna il Capitolo generale del suo Ordine: alla trentina di «predicatori», provenienti da tutta Europa, egli si presentò dicendo: «Merito di essere deposto perché sono ormai inutile e sfinito».

Tutti evidentemente rifiutarono le dimissioni. Egli allora li impegnò a redigere assieme quelle famose Costituzioni che, secondo il celebre medievalista Léo Moulin, sono così bene architettate da equivalere a una cattedrale medievale.

In seguito nascerà la leggenda secondo cui una copia delle Costituzioni di san Domenico si trovava nel 1787 sul tavolo dei «Padri» degli Stati Uniti d’America che stilarono la Costituzione.

Concluso il Capitolo di Bologna, il Papa chiese a Domenico di organizzare una predicazione anche in Lombardia, per combattervi l’eresia catara che covava tra le popolazioni e si mescolava alle lotte furiose per le libertà comunali.

Il santo, non ancora cinquantenne, ma già logorato dai continui viaggi e dalle privazioni senza numero, vi si dedicò come negli anni della giovinezza.

Nel 1221, in un nuovo Capitolo generale sempre a Bologna, Domenico diede rassestamento definitivo alla sua famiglia religiosa e poté finalmente lanciarla nelle terre di missione secondo il suo antico sogno. Ungheria, Danimarca, Dacia, Polonia ricevettero i domenicani che si diffusero fino alle porte dell’Asia.

All’inizio del Trecento, ottant’anni dopo, i frati di Domenico saranno più di diecimila.

Negli ultimi mesi di vita, sempre per volontà del Pontefice, Domenico si reca a Venezia, per riprendere la predicazione contro gli eretici, ma finisce per ammalarsi gravemente.

Si porta stremato a Bologna, alla fine di luglio del 1221, accolto in quello che è ormai il convento più grande dell’Ordine, dove, però, non ha né una stanza, né un letto, ma solo una branda di corda, in un angolo. Maestro Moneta gli presta, dunque, la propria cella e il letto.

Il 6 agosto il Fondatore raduna i frati attorno al suo giaciglio per gli ultimi insegnamenti. Si lascia andare a qualche confidenza personale, e subito se ne fa scrupolo.

Raccomanda in maniera accorata e severa la povertà. Dice che vuole essere sepolto: «sotto i piedi dei suoi frati», certo per umiltà, forse anche per restare come loro sostegno.

Dirige lui stesso le grandi preghiere della raccomandazione dell’anima. Poi affida tutti i presenti al Padre dei cieli, ripetendo le stesse parole che Gesù ha pronunciato nell’ultima sera della sua vita: «Coloro che tu mi hai dato io li ho custoditi, ora te li raccomando a mia volta: conservali e custodiscili Tu!».

La sera del 6 agosto 1221 (da qualche anno è festa della Trasfigurazione), Domenico spira trasfigurato. Ma è rivestito da un abito così vecchio e rattoppato che debbono prestargliene uno, perché la salma possa essere dignitosamente esposta.

I frati osservano quel volto scavato dalle sofferenze e dalla passione, ma ancora così innocente come quello di un bambino.

Osservano, e pensano ancora a quell’ultima confidenza del loro Padre - di cui s’era fatto scrupolo («forse non avrei dovuto dirlo!», ha poi sussurrato) - in cui ha loro rivelato tutto l’infantile candore del suo animo.

«Non sono riuscito a evitare l’imperfezione», questo ha detto loro Domenico sul letto di morte!, «di provare più attrattiva nel conversare con le donne giovani che con quelle di età attempata».

Per i suoi giovani avrebbe desiderato anche quell’ultima purezza che lui non era riuscito ad avere.

 


[1] «Quo semel est imbuta recens servabit odorem testa diu» (L. I, Ep. 2,69).

 


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29 luglio 2022                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net