IL DIRITTO MONASTICO

Berckus Duverly Goma

Estratto da “Il diritto monastico tra ius prcecedens e ius vigens: l’esperienza giuridica dell’ordine benedettino – silvestrino

GA Editori 2018, Agira (Enna)

 

I.4. Il diritto monastico: profilo storico – giuridico canonico

A partire dai secoli IV-V, l'autorità ecclesiastica, il Vescovo di Roma e gli altri quattro Patriarchi, pongono la propria attenzione sul movimento monastico, attraverso i concili particolari o locali e i concili generali, che emaneranno i canoni riguardanti monaci, monasteri e vita monastica. I giuristi, la cui elaborazione dottrinale e il corrispondente commento diedero vita a quello che prenderà il nome di ‘diritto canonico’, diverranno i nostri riferimenti costanti, onde meglio percorrere l’affascinante, ma non sempre lineare, storia del monachesimo in rapporto con il clero secolare, la gerarchia ecclesiastica, le istituzioni civili. Preliminarmente individueremo, nella formulazione degli argomenti conciliari, i riferimenti inerenti la disciplina monastica e la struttura giuridico-canonica volta a garantire la fede, i costumi e la relativa disciplina, ovvero la dogmatica, i precetti e le leggi della Chiesa.

A questo fine e per una più efficace disamina delle costruzioni giuridiche, così come sono andate evolvendosi nei secoli, è parso opportuno sintetizzare i passaggi storici che ne hanno scandito lo sviluppo.

Fine dell’età classica, alto e basso medioevo, modernità e contemporaneità saranno quindi le griglie, per la nostra attività di sintesi, entro le quali collocheremo le principali necessità scaturite, a nostro giudizio, dalla concorde riflessione dei padri conciliari, protagonisti degli eventi richiamati.

Nel IV secolo, definito da molti studiosi l’età d’oro dei Padri della Chiesa, si assiste all’attecchire della vita religiosa nelle società occidentali romano-barbariche e la sua conformazione nell’Impero d’Oriente. Infatti, gli avvenimenti storici di maggior rilievo ruotano attorno ai rapidi capovolgimenti dei rapporti tra Chiesa e Impero. La tendenza storica dominante nel IV secolo è la progressiva affermazione della religione cristiana sul paganesimo. Il dato religioso più rilevante è il diffondersi del monachesimo come espressione radicale di vita cristiana, secondo diversi modelli (vita eremitica, anacoretica, cenobitica). Obbiettivo dei monaci è quello di conservare e proporre l’ideale iniziale della vita cristiana. Cerchiamo di leggere quest’ideale documentandolo brevemente attraverso le esperienze conciliari che marcano lo sviluppo di tale fase storica. Sia il Concilio ecumenico di Calcedonia (451) che quelli particolari di Ancyra (314), Gangra (sinodo del 340) e Cartagine (401), ci rimandano, come un prisma, le tensioni spirituali, le contraddizioni storiche e le differenti volontà organizzative di questa epoca così travagliata. Sebbene mitigata dall’ auctoritas imperiale, la proliferazione delle sette ed il moltiplicarsi delle eresie furono, accanto al sempre vivo pericolo rappresentato dalle ricorrenti invasioni barbariche, la prima preoccupazione della Chiesa, tanto nella sua componente romana quanto nelle sue espressioni orientali. Definire, codificandolo, lo status e l’operato degli ecclesiastici (religiosi/monaci, diaconi, presbiteri e vescovi), è quindi lo sbocco naturale dei talvolta accesissimi dibattiti che animarono i concili di cui sopra. È pur vero che il monachesimo, avendo una sua presenza strutturata solo in alcune aree dell’Egitto, non fu oggetto, in questa fase, di normazioni o di codificazione di consuetudini degne di attenzione. Tuttavia, i principali centri del monachesimo occidentale nel VI, VII e VIII secolo, prestarono somma cura alla ortodossa definizione degli spazi entro i quali far crescere la fisionomia canonica del monaco. La verginità consacrata, celibato, impegni lavorativi extra monastici, fedeltà e obbedienza alla Regula, configurazione delle competenze canoniche in materia di fondazione, gestione ed ispezione dei monasteri, è il palinsesto sul quale i concili dell’epoca discussero e deliberarono in materia cenobitica. A un ampio inquadramento giuridico del monachesimo nella Chiesa si vide chiamato il Concilio di Calcedonia, il quale, dopo aver deplorato i monaci girovaghi, quelli occupati in affari mondani o quelli che aspiravano a sottrarsi ai vescovi, ne regolamenta i rapporti con la giurisdizione ordinaria.

Normazione e codificazione di consuetudini religiose nell’Alto medioevo, sono, per converso, l’elemento precipuo dei concili sottoelencati: quelli ecumenici di Costantinopoli III (680-681) e II di Nicea (787); e i particolari di Cartagine (del 526 e del 536), di Tarragona (516), di Barcellona (540), di Lèrida (524), di Toledo (655 e 656), di Arles (455), d’Epaone (517), di Orléans (511, 538 e 541), di Tours (567), di Auxerre (573 e 603), di Parigi (614) e di Chalon (639 e 654).

La normalizzazione e l’istituzionalizzazione delle diverse etnie barbare, la loro definitiva configurazione geo-politica e la conversione al cattolicesimo, l’autonomia del Vescovo di Roma (ormai depositario del titolo di Pontifex Maximus) dal controllo politico dell’Esarcato di Ravenna e dall’autorità imperiale costantinopolitana, l’estensione e il radicamento su scala continentale del monachesimo di matrice benedettina rappresentano alcuni dei principali temi che percorrono il periodo storico in esame e determineranno ed introdurranno all’evoluzione del diritto monastico propriamente inteso. Al tempo stesso, vescovadi e abbazie avevano acquisito un rilievo decisamente politico, e perciò stesso entravano a far parte di una dinamica di potere che emarginava sempre di più il profilo religioso e spirituale.

Epoca d’oro del monachesimo, il Basso medioevo ci presenta in modo caleidoscopico la maturità a cui è ormai pervenuto il mondo cenobitico occidentale. I monaci, fondatori e titolari di Università, di ospedali, vivaio di elementi preclari in ambito cardinalizio e di numerosi pontefici, di instancabili indagatori del sapere umano, di versatili ingegni in ogni campo dello scibile, sono divenuti l’anima stessa di questo periodo storico. Come sempre accade, questa vitalità ha camminato di pari passo con un altrettanto forte tendenza alla decadenza dello spirito primigenio. La nascita e l’affermarsi di nuovi ordini ed il loro pronto espandersi, testimoniano le contraddizioni e le difficoltà che hanno alimentato tale fase. Significative, sotto questo profilo, risultano essere le disposizioni contenute nel can. 10 del III Concilio Lateranense (1179), in cui i padri conciliari mettono in guardia i monaci dallo spirito simoniaco. Già Innocenzo II nel II Concilio Lateranense (1139) riteneva necessario abolire la dannosa e detestabile consuetudine di alcune donne che, senza vivere né sotto la regola del Beato Benedetto, né di Basilio o di Agostino, volevano tuttavia essere considerate come vergini consacrate:

«[...] perniciosam et detestabilem consuetudinem, quarundam mulierum, quae licet neque secundum regulam Beati Benedicti, neque Basilii, aut Augustini vivant Sanctimoniales tamen vulgo censeri desiderant, aboleri decernimus».

Da questo passaggio possiamo dedurre la contestuale condanna, da parte della Chiesa, dell'insorgere di forme autonome di associazioni monastiche: il passo è importante perché imprime a tutta la materia il sigillo della legalità, della costituzionale subordinazione all’autorità della Chiesa di tutte le forme di vita monastica, in modo che i passionali fermenti religiosi non disperdessero le loro forze, ma le inquadrassero nella dinamica struttura e compostezza della giuridicità.

Più tardi, nella 12a Costituzione del IV Concilio Lateranense (1215), Innocenzo III stabiliva formalmente, sotto pena di censura ecclesiastica senza appello, ai vescovi diocesani e ai presidenti dei capitoli di impedire che gli avvocati, i patroni, i luogotenenti, i rettori e i consoli, i vassalli e i cavalieri o altri portassero offesa ai monasteri nelle persone e nei beni. Ma se avessero compiuto qualche misfatto, non fosse trascurato di costringerli alla riparazione perché Dio onnipotente fosse servito nella pace e nella libertà:

«[...] ad hoc districte praecipimus tam dioecesanis episcopis quam personis que prae erunt capitulis celebrandis, ut per censuram ecclesiasticam, appellatione remota, compescant advocatos, patronos, vicedominos, rectores et consules, magnates et milites seu quoslibet alios, ne monasteria praesumant offendere in personis ac rebus; et si forsitan offenderint, eos ad satisfactionem compellere non omittant, ut liberius et quietius omnipotenti Deo valeant famulari».

Speculari agli epocali rivolgimenti che, nel giro di qualche secolo, avrebbero modificato irreversibilmente il paesaggio economico, istituzionale e religioso dell’intero continente europeo, le disposizioni citate annunciano l’attenzione all’organizzazione e al dettaglio procedurale, che saranno il marchio distintivo di uno snodo cruciale: il Concilio di Trento.

Evo moderno: nel Concilio di Trento (1545-1563) i Padri conciliari dedicarono la XXV sessione dei lavori a “i religiosi” e a “le monache”. Sono XXII i capitoli scaturiti dai lavori della venticinquesima sessione, in cui i padri tridentini indicano la base riformatrice valida per tutti i religiosi, sia sotto l’aspetto giuridico che dal punto di vista spirituale e morale. Si legge a tale riguardo nel primo capitolo che i religiosi devono:

«[...] conformare e adattare la loro vita alle prescrizioni della regola alla quale si sono impegnati con la professione religiosa. Anzitutto osserveranno fedelmente quello che riguarda la perfezione della loro professione religiosa, come i voti e i precetti di obbedienza, povertà e castità, ed altri particolari precetti di alcune regole e ordini, poi quelli che ineriscono all’essenza dei rispettivi ordini, alla vita comune, al vitto e all’abito»

Un tale impegno ci dice, una volta di più, l’importanza rivestita nel contesto della Chiesa universale dalla istituzione cenobitica. Depositaria di una tradizione più che millenaria, essa si conferma come solido presidio, anche di natura territoriale, di fronte al proliferare incontrollato, in alcune aree geografiche, di movimenti e tendenze che da ereticali erano andate presto mutandosi in elaborazioni dottrinali teologicamente compiute, ed in prassi istituzionali con il crisma della ufficialità statuale.

L’organismo monastico più compatto è, ad esempio, la Congregazione benedettina Cassinese che raggiunge, con circa tremila monaci, il massimo del suo sviluppo numerico. Da un capo all’altro d’Italia vincendo tendenze separatistiche sempre risorgenti e superando tenaci barriere regionali, essa è riuscita a raggruppare una sessantina di monasteri tra i quali si contano alcuni dei più insigni cenobi della Penisola.

Per la Congregazione Silvestrina, le disposizioni tridentine in materia dei religiosi hanno conseguenze di carattere organizzativo. Nel 1555 il Cardinale Protettore Crispi incarica il gesuita Niccolò Bobadilla di compiere una serie di visite ai monasteri Silvestrini, di cui abbiamo memoria anche grazie all'epistolario del Generale della Compagnia di Gesù, Lainez. Nel 1586 il Papa Sisto V affida al domenicano Bottoni il compito di riformare la Congregazione sulla scia degli adempimenti previsti dal Concilio di Trento. L'emanazione di una serie di provvedimenti di tipo soprattutto disciplinare poco incise sulla vita monastica dei Silvestrini. Il decreto di Innocenzo X del 1652, volto alla abolizione dei piccoli monasteri, ebbe invece esiti rilevantissimi sulla Congregazione: si procedette, infatti, alla chiusura di ben quindici monasteri, i cui beni passarono in proprietà ai vescovi diocesani.

Nelle Costituzioni dell’Ordine Agostiniano del 1581 si parla per la prima volta delle monache di tale Ordine, a cui si cercò di applicare i decreti tridentini di riforma dei monasteri. A Genova, infine, nel 1594 Medea Giglina Patelani e il gesuita Bernardino Lannoni fondavano le monache di S. Giovanni Battista e S. Caterina da Siena.

Una disciplina normativa a sé stante viene riconosciuta ai Francescani Cappuccini e Minori Osservanti, perché il fenomeno degli Ordini Mendicanti aveva radici profonde di spiritualità e andava assumendo le forme più svariate, conferendo alla vita religiosa del ‘500 una particolare nota di animazione fuori dei quadri tradizionali di diritto dei religiosi.

Da rimarcare, inoltre, la solida struttura disciplinare del Concilio di Trento, nella quale trovano accoglienza le norme concernenti la clausura monacale femminile e le modalità procedurali per reiezione delle diverse gerarchie monastiche. Anche il clima rinascimentale fa sentire il suo influsso nel campo disciplinare del cenobio, per cui non sono più possibili quelle singolari ed autonome espressioni di vitalità monastica tipiche di altre epoche. Un gran numero di monasteri viene a trovarsi, in seguito allo sviluppo urbanistico, in pieno ambiente cittadino e di conseguenza finiscono nell’ambito di influenza delle grandi dinastie familiari, come vediamo col regime commendatario, durato un secolo, della famiglia Colonna sul monastero di Subiaco.

La corrente umanistica influisce in modo significativo anche sugli antichi cenobi che si aprono senza esitazione agli splendori artistici, di cui l’epoca è prodiga, e divengono sedi culturali di alto livello, in rapporto costante con i più insigni letterati ed artisti del tempo.

Il criterio ispiratore di questa tesi impone la necessità, in ossequio alla indispensabile sintesi alla quale essa deve uniformarsi, di procedere per scarti temporali anche considerevoli. È il caso, appunto, del capitolo sull'età contemporanea: si arriva infatti a considerare l’elaborazione e gli effetti connessi al Concilio Vaticano II, saltando inevitabilmente a piè pari i circa cinquecento anni di storia che lo distanziano da quello tridentino. L’elaborazione del primo Codice di diritto canonico della Chiesa cattolica, con il Motu proprio di Pio X Arduum sane munus del 1904, promulgato nella Constitutio Apostolica Previdentissima Mater Ecclesia del 1917 di papa Benedetto XV prevede, sotto il Titolo I della Seconda Parte dello stesso Codice, gli Istituti di vita consacrata come comprensivi di quelli “religiosi”, monastici e dediti a opere di apostolato. Non torniamo qui a ripetere quanto già osservato in altro studio cioè che l’intera legislazione degli Istituti monastici viene inserita in due Articoli: il primo tratta dei monaci in sei canoni, il secondo delle moniales in tre canoni. Precede questi articoli un solo canone che dà la nozione di Istituto monastico. Con questa codificazione, assistiamo ad un vero rinnovamento del diritto monastico che in tal senso sarà valido fino al Concilio Vaticano II. Questo Concilio è stato il propulsore delle odierne dichiarazioni sulla regola, delle nuove costituzioni e dei direttorii che, parte integrante del Codex Iuris Canonici del 1917, assumono autonoma configurazione e valenza nel diritto vigente.

Il Magistero non è rimasto estraneo alla legislazione degli Istituti monastici, anzi vi si è inserito non solo promuovendola, ma apportandovi anche indicazioni e contributi di notevole rilievo. È sufficiente ricordare il grande impulso dato agli studi canonistici dall’indicazione dei decreti conciliari Perfectae Caritatis; Ad Gentes, e della Costituzione Lumen Gentium, che riflette la generosa disponibilità dei padri conciliari verso la vita consacrata: la vita contemplativa interessa la Chiesa nella sua forma più piena ; l’unione con Dio, realizzata nella solitudine e nel silenzio, in continua preghiera ed intensa penitenza; ha una misteriosa fecondità apostolica, e rende una magnifica testimonianza; [...] con perseverante e umile fedeltà alla predetta consacrazione, onorano la sposa di Cristo, e a tutti gli uomini prestano generosi e diversissimi servizi. Questi passaggi possono riassumere, nella loro ricchezza espressiva, come le prescrizioni conciliari siano applicate alla vita religiosa e proprio per l’intensità concettuale di tali affermazioni impone una più attenta valutazione delle ricadute normative dei documenti citati. I suddetti decreti costituiscono i riferimenti documentali con i quali perfezioneremo la descrizione degli anni a noi certo più vicini, ma anche sicuramente più densi, in ordine al rapporto sussistente fra Chiesa, società ed istituzione politico-statuale, con speciale riferimento alle modalità comportamentali del monachesimo a noi coevo. Come ogni altra disciplina giuridica, così anche il diritto monastico si avvale della maturazione lessicale realizzata nel corso dei secoli per chiarire ed approfondire in modo rigoroso la formulazione e la successione dei concetti che esprime: caso lampante è costituito dalla distinzione, troppo spesso sottovalutata, fra lo jus proprium e lo jus commune nel contesto monastico. I monaci chiedevano di non essere sottoposti al diritto comune del Codice vigente, diritto che essi giudicavano inerente agli Istituti di vita apostolica, “centralizzati" sotto un unico moderatore supremo e spesso divisi in Province, ma non applicabile alla propria realtà.

L' iter attraverso il quale si è giunti alla differenziazione delle due diverse normative e ad una profonda revisione degli stessi codici che ne stabilivano la vigenza, sarà oggetto di una nostra approfondita analisi in altra parte di questo lavoro; ora ci limiteremo ad indicare i concetti di diritto esterno ed interno come premessa degli sviluppi successivi ad intra e ad extra del cenobio.

II diritto esterno, per sua stessa natura, illustra la realtà della Chiesa come risultato della sua evoluzione storica. Organica e strutturalmente organizzata, la scala gerarchica, sulla quale l’ecclesia latina è articolata, estende la propria autorità sulla totalità dei suoi membri: nella fattispecie i religiosi, i loro ordini e le loro congregazioni, che, mediante il diritto esterno, sono sottoposti a decisioni assunte al di fuori della loro autonomia costitutiva e giurisdizionale; il diritto interno, invece, proviene dalle figure ordinariamente stabilite dalle diverse Regole, a cui si ispirano i religiosi, e trovano la loro collocazione e vigenza nelle cosiddette Costituzioni, Dichiarazioni e Direttori.

 

I.5. Il diritto monastico: profilo storico – giuridico civile.

La normativa monastica, che nei primi secoli del cristianesimo appariva ancora legata al campo delle obbligazioni reciproche dei membri del sodalizio religioso, ai primordi della cristianità poteva quindi apparire fondata su di un mero negozio giuridico dipendente da un contratto o da uno statuto. Nell'evoluzione legislativa, si erigeva attraverso i secoli, da una parte mediante il senso della giuridicità della regola benedettina e dall’altra con l’intervento delle autorità pontificie e civili a vera norma di diritto, a norma agendi, a legge istituzionalizzante. Tale evoluzione faceva nascere quel gran corpo di diritto a cui diamo il nome di diritto monastico.

Sebbene l’ufficio dell’autorità ecclesiastica nella Chiesa derivi dalla missione di Cristo ricevuta dal Padre verso il Popolo di Dio, l'articolato e complesso sviluppo del suo ordinamento giuridico, partendo da un impianto legislatore di matrice romana, procede attraverso successive scansioni temporali e, attraverso la sedimentazione dell’esegesi e dei saperi, culmina nella produzione di uno specifico ordinamento giuridico. Superata teologicamente la dicotomia tra phisis e nomos, l'Ecclesia riconosce la fonte nel Redentore, ma attribuisce alla dimensione temporale, della quale Egli è origine, il condizionamento delle elaborazioni normative fondanti la Chiesa come corpo vivo nell’ambito della logica storica.

Alla stregua degli Apostoli, infatti, anche vescovi ed abati esercitano le loro funzioni ed emanano le loro decisioni in modo vincolante: dalla onniscienza dei primi, scelti individualmente da Gesù e da Lui investiti di tutti i carismi, le volontà dei secondi esercitano, attraverso il segno sacramentale, la stessa cogenza normante

Certamente, in altre parti di questo lavoro, l'argomento è ampiamente trattato; tuttavia crediamo utile definire il cammino cenobitico anche sul controverso versante della sua correlazione giuridica con la sfera del potere politico-civile.

 

I.5.1 Età classica e alto medioevo: le codificazioni del potere civile

Molte, variegate ed eterogenee sarebbero le considerazioni in ordine a quest'epoca, momento fondamentale della genesi monastica come afflato di fede e comunità istituzionale in itinere. La vastità del tema comporta un indispensabile sforzo di sintesi che possiamo così tratteggiare: l'imperatore Teodosio il Grande (379-388), aveva regolamentato la materia monastica, attraverso il De monachis, nel Codex Theodosianus XVI, 3, 1        . L'esigenza era quella di regolamentare questa nuova categoria di cristiani, i monaci, per metterli in sintonia con la legislazione imperiale. Disciplinare questo status di vita consentiva di definire l’esistenza dei monaci e determinarne gli obblighi.

Due Editti vengono inviati a Taziano, Prefetto del Pretorio d’Oriente. Uno è firmato dai tre Augusti Valentiniano, Teodosio I e Arcadio, a Verona, in data 2 settembre 390 e obbliga i monaci a non stabilirsi nelle città: « Quicumque sub professione monachi repperiuntur, deserta loca et vastas solitudines sequi adque habitare iubeantur». L’altro, emanato da Costantinopoli il 17 aprile 392, firmato da Arcadio e da Rufino, revoca la precedente legge del 2 settembre 390 affermando:

« Monachis, quibus interdictae fuerunt civitates, dum iudiciariis aluntur iniuriis, in pristinum statum submota hac lege esse praecipimus, antiquata si quidem nostrae clementiae iussione liberos in oppidis largimur eis ingressus».

Quindi, il Codice Teodosiano, volto ad inserire i monaci all’interno delle prescrizioni di diritto comune, mantiene uno stretto rapporto tra il diritto romano e le istituzioni monastiche antiche.

Nella stessa scia del predecessore, Teodosio II, il 15 dicembre 434, disporrà che i beni dei monaci e delle monache deceduti senza aver stilato testamento o senza qualche parentela idonea a rivendicare un diritto, siano devoluti alla Chiesa . Motivo per cui s. Benedetto prevede che prima della professione: «se il candidato ha delle sostanze, o le divida prima fra i poveri o con una donazione ufficiale le lasci al monastero, non riservando assolutamente nulla per sé».

Anche Valentiniano III (419-455) e Marciano (450-457) si muovono a loro volta nella medesima direzione, attraverso l’adozione di una serie di provvedimenti poi confluiti nelle Novella giustinianee (t. III e V). Nel frattempo, l’imperatore Leone introduce nel 459 misure volte a impedire che i monaci trasformino indebitamente in luoghi sacri gli edifici pubblici.

Giustiniano I (527-565) realizza il più grande monumento legislativo di tutti i tempi: il Corpus Iuris Civilis, nel quale trovano collocazione anche le norme per le figure giuridiche dell’organismo monastico, prima in una Costituzione imperiale del 530 che prescrive l’elezione da parte di “totum reliquorum monachorum corpus vel maior eorum pars”; poi nelle Novellae del 546, in cui prevede che si proceda all’elezione degli abati e non più alla promozione abbaziale automatica del priore, secondo la dignità capitolare:

« Iubemus igitur abbatem aut archimandritam in unoquoque monasterio ordinari non omnino secundum gradum monachorum, sed omnes monachi melioris opinionis existentes eligant... Sanctissimum autem episcopum, sub quo monasterium constiiutum est, eum qui ita electus est omnibus modis abbatem ordinare».

La titanica opera, il Codice Giustinianeo, emanato nel 533, sussumerà una prescrizione normativa dell’imperatore Leone, dell’anno 471, in cui si vieta ai monaci di recarsi in Antiochia o in qualsiasi altra città, nonché di discutere pubblicamente di problemi religiosi, a danno della pace civile. Contemporaneamente alla legiferazione da parte dell’autorità imperiale sullo stato civile dei monaci, all’interno delle comunità monastiche si autorizza la loro presenza tanto nei deserti e nei luoghi solitari, quanto nelle zone urbane.

In effetti, se le strutture monastiche fossero restate in quelle forme di disordine e di scorrettezze come erano viste nelle regioni orientali, se non si fosse messo un punto fermo a tutto ciò che era vizio e mancanza di disciplina, a tutto ciò che era cumulo di interessi egoistici, se accanto alle leggi giustinianee intervenute a raffrenare i costumi dei monaci, e se accanto alle grandi figure ascetiche, non fosse intervenuta spontaneamente una stretta, severa, romana disciplina di gerarchia e di lavoro in un codice di norme fisse e determinate, in una regola o in una costituzione, cioè se non si fosse determinato il fenomeno regolativo ed antidissociativo della giuridicità, noi crediamo di poter affermare che il monachesimo, pur così impetuoso per il suo interno dramma religioso, si sarebbe venuto a mano a mano dissolvendo sino ad essere piuttosto un fenomeno storico riprovevole anziché un fatto degno del massimo rilievo.

Le leggi germaniche si occupano relativamente poco dei monaci. La Lex Burgundiorum (c.14, art.1.5.6.7) si limita a determinare i diritti di possesso e di eredità dei monaci e delle monache. La stessa cosa afferma l’ Editto di Liutprando nelle Leges Langobardorum (n. 101). La Lex Visigothorum (IV 2, 12) si rifà più o meno alle costituzioni del Codex Theodosianus. In Occidente, la deposizione di Romolo Augustolo, l'avanzata dei Goti e il vuoto istituzionale che ne deriva, arricchisce le figure ecclesiastiche e specialmente quelle abbaziali, di funzioni, compiti ed auctoritas superiori a quelle normativamente riconosciute dalla Regula benedettina. Il ruolo di supplenza, da essi territorialmente esercitato in ambiti di competenza tradizionalmente riservati alle magistrature ordinarie romane, viene legittimato in via di prassi dal corale suffragio popolare, ma costituisce motivo di ostilità da parte dei “nuovi padroni”.

Le leggi emanate dai diversi ceppi invasori germanici, che mai comunque giunsero a costituire un corpus organico per ragioni storicamente ovvie, andarono infatti nella direzione dell’esercizio di forme di controllo rivolte essenzialmente alla limitazione dell'autonomia del monastero o alla sua subordinazione all’autorità politica.

 

I.5.2. Gli sviluppi normativi in età carolingia

Mai come in questo periodo suona vera l'affermazione che definisce esperienza e non istituzione il monachesimo. Favorita da una tradizione già plurisecolare di presenza sul suolo europeo, la moltiplicazione dei luoghi in cui vivono le comunità cenobitiche e la variegata loro condotta disciplinare, ci suggeriscono il restringimento del nostro campo di osservazione: ci muoveremo, quindi, assumendo l'epoca carolingia come linea di partenza, e la sola dimensione occidentale come ambito della riflessione sullo stato del chiostro nel medioevo. Esso, ormai protagonista a pieno titolo dei cicli economici, delle competizioni politiche, delle alleanze diplomatiche, diventa anche fulcro della rinascita urbanistica e del risveglio delle arti e dei mestieri, dà impulso e patrocina la fondazione e l’organizzazione della confratemitas, esalta il concetto di schola in senso benedettino e lo fa approdare alla ratio studiorurn: si pensi all’importanza della disciplina poi applicata ai vari ambiti culturali e alle attività produttive dell’uomo Superata la crisi dovuta alle invasioni barbariche, il monachesimo si è infatti radicato in tutte le aree dell'Europa occidentale, fino alla penisola scandinava, animato da un dinamismo ed una elasticità di adattamento alle diverse connotazioni sociali ed etniche alle quali l'esperienza cenobitica orientale era stata sottratta dalla stabilità istituzionale (di rado affiancata anche da quella politica) dell'autocrazia imperiale costantinopolitana.

Carlo Magno, Ludovico il Pio, Benedetto di Aniane, Adalardo di Corbie e Ardo Smaragdo sono figure attraverso le quali giungere alla comprensione dell’interazione tra Chiesa, potere politico e monastero. Memori dei sinodi di età merovingia, dal 742 al 745, Carlo Magno prima ed il suo successore Ludovico il Pio dopo, approntano il medesimo meccanismo giuridico-formale per dare senso compiuto alla loro politica ecclesiastica; questi ultimi, essendo autori di rilevanti disposizioni in materia canonico-monastica, convocarono concili e sinodi sotto la loro presidenza, di cui i più importanti sono: quello del 787 concilio a Nicea (II di Nicea, VII concilio ecumenico), quello di Francoforte del 1 giugno 794 un'assemblea reale e sinodo ; inoltre fecero riunire i vescovi per il concilio provinciale di Aquileia svoltosi a Cividale del Friuli nel 796-797.

Con il concilio del 798, Carlo Magno promulgò un importante documento composto da 81 capitoli, in gran parte ripresi dalla precedente legislazione ecclesiastica, che venne accettato dal clero ed acquisì valore canonico. La disciplina monastica ed ecclesiastica fu tra gli argomenti principali dei concili dall’816 all’819, da cui derivò la famosa Regula Aquensis, resa obbligatoria in tutte le congregazioni canoniche

Da questi concili derivò inoltre una nuova revisione della Regola di San Benedetto da Norcia, imposta ai chiostri dal monaco visigoto Benedetto abate d’Aniane (750 ca. - 821), cancelliere imperiale di Carlo Magno e confermato nell’incarico da Ludovico il Pio, che costituì l’anello di congiunzione fra i due monarchi, attraverso il quale possiamo leggere la vicenda istituzionale delle due diverse fasi del regno e introdurci analiticamente alla valutazione dei prodromi e degli effetti della loro azione giurisdizionale.

Suddette azioni culminarono nello sforzo organizzativo che Benedetto d’Aniane profuse nella realizzazione dell'incarico assegnatogli: sovrintendere con giurisdizione sulla totalità del territorio imperiale, estendere     in maniera integrale ed uniforme l’applicazione della Regula Benedettina in tutti i monasteri senza distinzione né di Ordine, né di tradizione. La Regula Aquensis, dell'819, ne disciplinò forme e modi « ut omnibus in regno suo positis, monasteriis observare praeciperet »

Sotto la denominazione di Concilio di Aquisgrana si ritrovano una serie di importanti concili svoltisi in loco durante il Medioevo, per regolare i diversi stati di vita nella Chiesa d’Occidente e dal quale scaturì la regola (Institutio canonicorum et sanctimonialium Aquisgranensis) redatta dal diacono Amalario di Metz o dal monaco Ansegiso. Si conclude così la prima parte di quella che sarà destinata ad essere la lunga disputa tra i sovrani del Sacro Romano Impero e il mondo monastico. Monaci sempre più colti, monasteri sempre più ricchi, abati sempre più inclini all'impegno diretto in campo politico ed economico, reclutatori di milizie e titolari di flotte, battitori di moneta, veri e propri principes tanto sul versante spirituale quanto su quello temporale, si confrontarono, quasi fino alle soglie dell'età moderna, con i rappresentanti dell'aristocrazia e furono, in alcuni clamorosi casi, arbitri e mediatori di avvenimenti epocali.

I.5.3. Il ‘Consuetudinario monastico’ di Lanfranco

La storia delle fonti del diritto monastico, nel secolo XI, ci offre un’immagine dell’attività indirizzata all’esperienza pratica e giuridica non solo della vita cenobitica, ma anche conseguentemente e specificamente del consuetudinario monastico.

Lanfranco, figlio di Ambaldo, magistrato appartenente all'ambiente del sacrum palatium, nacque intorno al 1005 a Pavia dove compì i suoi studi umanistici e di diritto civile e iniziò la sua carriera di avvocato. Bandito dalla sua città natale, insegnò per alcuni anni grammatica e dialettica. In età matura si recò in Normandia. Dapprima aprì una scuola ad Avranches e, nel 1042 entrò nel monastero di Bec, appena fondato da Erluino. Attratto dalla vita eremitica, si apprestava a lasciare il monastero quando Erluino lo trattenne e gli affidò la responsabilità della scuola dei monaci. Nel 1045 diviene priore del monastero e nel 1059 apre una scuola anche per i laici. La fama del suo insegnamento attira allievi non soltanto dal territorio, ma anche dagli altri reami di Francia, dalle Fiandre, dalla Germania e dall'Italia Fra i più famosi possiamo citare Ivo di Chartres, Anselmo di Aosta, Anselmo di Lucca e Anselmo da Baggio, divenuto poi papa Alessandro II. Nel 1063 Lanfranco si sposta a Caen e numerosi allievi lo seguono nella nuova sede, mentre nella scuola del monastero di Bec insegna un suo ex allievo, il famoso Anselmo d'Aosta.

Dopo la sua nomina ad arcivescovo di Canterbury nel 1070, al tempo di Gugliemo il Conquistatore, Lanfranco da Pavia decide di elaborare un Consuetudinario per il suo monastero di Christ Church, sulla base degli usi cluniacensi. La ripercussione è immediata sulla legislazione inglese dei Decreta, in cui si ritrovano parecchie usanze che appartengono all’abbazia del Bec, come, ad esempio, l’organizzazione della processione delle palme, con la presenza dell’Eucaristia; l’orazione iniziale della liturgia del Venerdì Santo (invece della proclamazione di un testo biblico).

Sempre riferendoci al contenuto dei Decreta si rileva l’assoluta fedeltà al ‘consuetudinario monastico’ di Lanfranco, non solo, ma anche la sapiente trasmissione delle consuetudines scriptae nel modo espositivo del direttorio claustrale. Nella compilazione di questi decreti si insiste molto sull’osservanza liturgica e l’osservanza claustrale (incarichi, codice penale, novizi e giovani, infermi e rituale della sepoltura). È pertanto logico dedurre che i cosiddetti decreti esprimono lo spirito e la tendenza del tempo e furono utili per la realtà monastica come prassi e non come ordinanze emesse da un’autorità giuridica (magistrato, assemblea capitolare). Il diritto monastico elaborato nei Decreta di Lanfranco assegna valore decisionale e prescrittivo alle consuetudines cristallizzate nel tempo: « in quibus nec nobis, qui praesentes sumus, nec iis qui post nos venturi sunt, in aliquo praeiudicamus, ut non vel eis addere vel ab eis tollere vel in eis permutare aliqua valeamus».

L’unica motivazione di un cambiamento è la valutazione del diritto «magistra ratione vel doctiorum auctoritate» in quanto le situazioni locali possono richiedere degli adattamenti. Lanfranco stesso indica anche alcune motivazioni del cambiamento: le modifiche numeriche della comunità, il suo stato patrimoniale, le particolarità locali (compresa la varietà delle capacità intellettuali). Infatti: « hinc est quod nulla fere ecclesia imitari aliam per omnia potest». Ma se i particolari giuridici possono essere modificati, rimangono intatti i valori morali, « sine quibus anima salvari non potest» . Questi valori definiscono la vita cristiana e non possono essere rimossi: perciò, prima di determinare l’osservanza monastica, il legislatore deve preoccuparsi di elencare le basi dell’etica religiosa, poi disciplinare gli aspetti fondamentali della vita cenobitica: la fede, il disprezzo della mondanità del mondo, la carità, la castità, l’umiltà, la pazienza, l’obbedienza, il pentimento e la confessione, la preghiera frequente, il silenzio, «multaque in hunc modum» . Tali elementi qualificano la vita monastica: «haec ubi servantur, rectissime potest dici regulam sancti Benedicti et monachorum ibi ordinem custodiri», ma il resto può variare «pro arbitrio diversorum» 12201.

Lanfranco rimane comunque ancorato alla cultura giuridica monastica. Le fonti dei suoi decreti, oltre ad attingere alla Scriptura divina e alla Regula sancti Benedicti, ricorrono anche a tre consuetudinari: quello di Bec (monastero dove era stato monaco), poi l’antico consuetudinario cluniacense, detto di Farfa (che era rimasto legato alla tradizione di s. Benedetto di Aniane (morto nell’anno 821), e infine il consuetudinario cluniacense del monaco Bernardo (redatto nel 1067)

Per assistere all’evoluzione delle fonti del diritto monastico legate alle esigenze contingenti che coinvolsero impero e chiostro, dovremo attendere il XV- XVI secolo, momento di quella straordinaria vicenda umana e culturale che Jules Michelet chiamò Rinascimento

 

I.5.4. Il monachesimo post-tridentino

Il Concilio di Trento, nella sua azione legislatrice sugli ordini monastici, impresse, con la intensità che gli venne storicamente riconosciuta, un forte richiamo alle specificità costitutive del cenobio, tradotta con la valorizzazione liturgica e normativa delle sue fonti primigenie e del millenario lascito tradizionale.

Assistiamo, da questo momento, ad una progressiva rinascita dell'applicazione allo studio, ad un graduale allontanamento dalle attività eminentemente manuali, ad una spinta alla organizzazione ex novo e alla ripresa dell'attività propriamente didattica dei monaci.

È giusto segnalare l’importanza del programma di riforma, dopo il concilio tridentino, stilato da Sala e poi dai decreti di Pio VII . I decreti del tridentino richiamavano all’osservanza della propria regola come condizione per costituire un monastero maschile o femminile. Richiamavano anche i monaci alla perfetta osservanza dei voti: quello di castità, di povertà e obbedienza, mettendo al bando i doni, i livelli, le elemosine, gli emolumenti dei pulpiti e delle cattedre... cose tutte contrarie al Concilio di Trento. E così, non sarà più possibile vedere ‘un religioso proprietario, e amministratore di una vigna’, e sarà instaurata la vita perfettamente comune, che deve ‘eliminare il superfluo, fornire il necessario, e questo con avveduta discrezione’. Alla perfetta osservanza dei voti seguono i due mezzi di riforma tanto cari a tutti i riformatori della vita religiosa: la selezione dei superiori e la formazione dei novizi. I superiori devono essere scelti secondo la forma canonica e si deve evitare la loro riconferma, che riesce ‘odiosa... se non anche nociva’. Inoltre l’autorità del superiore deve essere temperata dai consigli, perché non agiscano da despoti. Per i novizi, occorre riproporre la necessaria formazione e l’organizzazione degli studi, aperti alle nuove cognizioni dei tempi. E per ultimo ricorda un altro mezzo tradizionale per favorire il buon governo, le visite pastorali

Di conseguenza, il monachesimo dopo il Concilio di Trento, in quanto fonte di sedimentazione della vita consacrata, non si limita ad un’epoca storica, ma si estende a tutto il tempo in cui tale processo inizia, si sviluppa e trova poi compimento nel riordinamento strutturale e giuridico della futura legislazione del Codice.

 


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25 luglio 2019                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net