LECTIO DIVINA” 1

  

«Il capitolo XLVIII ci dà molto più di quel che promette il suo titolo. Non tratta solo del lavoro manuale, ma di tutti i lavori monastici, di tutto ciò che riempie le ore lasciate libere dalla preghiera liturgica. Troviamo qui l'impiego del tempo, l'orario d'una giornata benedettina. Secondo il suo costume, S. Benedetto parte da un precetto generale: l'ozio è nemico dell'anima: perciò i fratelli devono occuparsi, in tempi determinati, nel lavoro manuale e, in altre ore fissate, allo studio delle cose divine.»

  

Estratto da “Commentario alla Regola di S. Benedetto” di Paul Delatte O.S.B.
– A cura del Convento S. Benedetto in Bergamo

 

CAPITOLO XLVIII

 

IL QUOTIDIANO LAVORO MANUALE

 

DE OPERE MANUUM QUOTIDIANO. ‑ Otiositas inimica est animae. Et ideo certis temporibus occupari debent fratres in labore manuum, certis iterum horis in lectione divina.

 

DEL LAVORO MANUALE GIORNALIERO. ‑ L'ozio è il nemico dell'anima; e perciò i fratelli devono essere occupati ad ore stabilite nel lavoro manuale, e in altre ore devono dedicarsi alla lettura.

 

Il capitolo XLVIII ci dà molto più di quel che promette il suo titolo. Non tratta solo del lavoro manuale, ma di tutti i lavori monastici, di tutto ciò che riempie le ore lasciate libere dalla preghiera liturgica. Troviamo qui l'impiego del tempo, l'orario d'una giornata benedettina.

 

Secondo il suo costume, S. Benedetto parte da un precetto generale: l'ozio è nemico dell'anima: perciò i fratelli devono occuparsi, in tempi determinati, nel lavoro manuale e, in altre ore fissate, allo studio delle cose divine. Benché S. Benedetto non faccia allusione esplicita che ai pericoli dell'ozio, non ignora però il benefizio positivo e l'intrinseco valore del lavoro, i cui vantaggi sono molteplici. Noi possiamo trovare nel lavoro un diversivo potente e un rimedio a moltissime tentazioni, possiamo constatare la debolezza e la mollezza di tutto ciò che non fa esercizio, e ricordarci infine che ogni vita e ogni felicità implicano l'azione, anche la contemplazione, perchè essa non è che l'attività suprema dell'intelligenza e del cuore riunite insieme, l'adesione di tutto l'essere a Colui che è. Il lavoro non è solo una legge penale e un castigo: è legge divina anteriore al peccato ed è universale. Come potrebbero sfuggirla i monaci? Essi sono doppiamente votati al lavoro: perchè la loro vita contiene sempre una parte di austerità e di penitenza e perchè la pienezza di Dio nell'anima, verso la quale essi tendono, non è promessa che al lavoro perseverante. Dolce lavoro! Diceva con rammarico Sant'Agostino, pensando alle innumeri faccende che assillavano il suo ministero episcopale. S. Benedetto fa tre gruppi delle principali occupazioni monastiche: Opera di Dio - studio delle cose divine - lavoro manuale (Opus Dei, lectio divina, opus manuum).

 

Omissis…….

 

Sono i sacramenti, la preghiera, l'esercizio costante della fede, della speranza e della carità che ci avvicinano a Dio e ci fanno penetrare a poco a poco nella sua sfera. La lectio divina, prescritta da S. Benedetto non ha altro scopo.

Dobbiamo notare con cura questa parola lectio divina . Essa non è solo lavoro e cultura intellettuale; è dunque superfluo far onore a S. Benedetto per una preoccupazione che non sembra quasi sia stata la sua. Se si vuole la lectio divina è opera d'intelligenza, ma di un'intelligenza che si applica al misteri e alla dottrina divina; è opera d'intelligenza sovrannaturale, cioè di fede. E' l'insieme ordinato dei mezzi intellettuali progressivi per i quali ci rendiamo familiari le cose di Dio e ci abituiamo a guardare l'invisibile. Non è speculazione, astratta e fredda, e nemmeno semplice curiosità umana, né lettura superficiale; è ricerca seria, profonda, perseverante della stessa Verità. Si può dire che Dio solo è l'oggetto di tale studio, e che ne è l'ispiratore e l’agente principale; perchè essa si fa non solo sotto il suo sguardo, ma nella sua luce e in un contatto molto intimo con Lui. Essa è insieme preghiera e tenerezza. Si chiama lectio e non è che il primo grado della serie ascendente: lectio, cogitatio, studium, meditatio, oratio, contemplatio (lettura, riflessione, studio, meditazione, orazione, contemplazione) ma S. Benedetto sapeva bene che, per un'anima leale e coraggiosa, tutti gli altri gradi sarebbero stati aggiunti a questo. La contemplazione è l'unione con Dio ed è proprio a ciò, che tende la lectio divina monastica. In fondo, le ore, che S. Benedetto vuole consacrate a questa lettura ogni giorno, sono ore d'orazione.

Abbiamo già risposto a quelli che vogliono sapere se gli antichi monaci facessero orazione, se avessero un metodo e quale fosse la materia della loro orazione. All'infuori dell'Ufficio divino (che sembra bene essere orazione!), all'infuori di qualche momento di preghiera privata (brevis et pura) che S. Benedetto accorda a quelli che ne sentono l'attrazione, tutti hanno ricevuto l'obbedienza di scrutare a lungo la scrittura santa, il libro per eccellenza, di studiare i Santi Padri e le formule liturgiche. In fine tutta intera la giornata si doveva trascorrere, secondo la Regola, alla presenza di Dio. Il metodo d'orazione era semplice e facile: dimenticarsi e vivere nel raccoglimento abituale, tuffare assiduamente l'anima propria nella bellezza dei misteri, interessarsi a tutti gli aspetti dell'economia sovrannaturale, secondo l'ispirazione di quello Spirito di Dio che solo può insegnarci a pregare (Rom. VIII, 26). Per sedici secoli, i chierici, i religiosi e i semplici fedeli non hanno trovato altro metodo per comunicare con Dio che questa libera effusione dell'anima davanti a Lui e questa lectio divina che alimenta la preghiera, la suppone, quasi si confonde con essa.

Rassicuriamoci: l'assenza di metodo sistematico, di libri contenenti mediocri meditazioni bell'e fatte, non è sinonimo di disordine, non conduce fatalmente alla dissipazione e alle distrazioni. Gli antichi non ignoravano certe industrie capaci di fissare il pensiero e di riportar l'anima al suo centro: non disdegnavano ogni spirituale disciplina; sopra tutto, alle anime assillate dalle molteplici preoccupazioni del mondo, trovavano opportuno ricordare il consiglio dei Signore: Tu autem, cum oraveris, intra in cubiculum tuum, et clauso ostio, ora Patrem tuum in abscondito (Matt. VI, 6) (Tu però, quando vorrai pregare, entra nella tua camera e prega il Padre tuo in segreto). Ma essi pensavano che le parole del Signore, dei Santi e della Liturgia, approfondite e ripetute sempre, avevano una grazia sovrana per distaccare dolcemente l'anima dal pensiero conturbante di se stessa e attirarla nel mistero di Dio e del suo Cristo. Una volta giuntavi, non sono più necessarie le belle considerazioni, né le tesi ben costruite a fil di logica; non c'è più che guardare e amare con tutta semplicità. Così sin dall'inizio della conversione, mediante atti di vita illuminativa e di vita unitiva, si compie l'opera della nostra purificazione e comincia a effettuarsi la nostra trasformazione in Dio. Nos vero omnes, revelata facie, gloriam Domini speculantes, in eamdem imaginem transformamur, a claritate in claritatem, tamquam a Domini Spiritu (II Cor. 111, 18). (Ma noi tutti a faccia svelata contemplando la gloria di Dio, in essa immagine, di luce in luce, siam trasformati secondo che dà lo Spirito del Signore). Non basta, perchè l'orazione sia cosa facile, riconoscere il tesoro che il battesimo ha messo in noi e comprendere, grazie all'Apostolo, che cosa sia l'esser redenti dal Signore nostro Gesù Cristo e vivere della sua vita. Checché si dica dell'opportunità dei metodi per le varie categorie di cristiani, ci è permesso di conservare ciò che il P. Faber chiama « l'appannaggio dei Benedettini, asceti della vecchia scuola ». Noi ci troviamo nella felice condizione di Beniamino, il figlio prediletto: Amatissimus Domini habitabit condiscender in eo; quasi in thalamo tota die morabitur, et inter humeros illius requiescet (Amantissimo del Signore, abiterà confidente in lui; quasi nel suo talamo ogni giorno dimorerà e riposerà tra le sue braccia) (Deut. XXXIII, 12).

Il maggior numero dei predecessori di S. Benedetto, sino agli anacoreti sperduti nella solitudine dei deserti, consacrava di notte e di giorno più ore allo studio sovrannaturale, sopra tutto allo studio delle Scritture. S. Pacomio voleva che gli analfabeti, che entravano nel suo monastero, imparassero a leggere. I nostri Padri si rendevano conto che era necessaria una santa ricerca per tutti coloro a cui il Signore dava intelligenza e tempo. Sarebbe gran pericolo per la contemplazione, se essa pretendesse di bastare a se stessa; Dio non viene mai in aiuto della pigrizia con illustrazioni straordinarie; le opere di Lui sono ordinate, perciò egli non accorda tali favori se non a coloro che non hanno potuto imparare altrimenti. Benché S. Benedetto contasse tra i suoi monaci parecchi schiavi e parecchi barbari e, salvo rare eccezioni, tutti restassero nello stato laico, egli ha riservato alla lectio divina un tempo considerevole. Egli stesso aveva bruscamente interrotto i suoi studi profani e si era ritirato dal mondo scienter nescius et sapienter indoctus (conoscendosi ignorante ma di ignoranza ricca di sapienza) (Dai Dialoghi di S. Gregorio Magno) ma egli, più tardi, si occupa assiduamente della Scrittura e dei Padri e la sua Regola rivela una lettura abbastanza estesa, da parte sua. L'Abate, secondo lui, dev'essere «dotto nella legge divina» (cap. LXIV). Parecchi secoli dopo, tra i monaci neri viene data una parte larghissima allo studio. Il lavoro manuale, senza essere tralasciato per partito preso e completamente, fu a poco a poco sostituito dal lavoro della mente. E questa sostituzione è giustificata sufficientemente, crediamo, dalle modificazioni avvenute nello stato dell'intelligenza sociale ed economica dei tempi moderni e per la condizione dei monasteri. Oggi tutti i monaci di coro devono esser atti al sacerdozio e la Chiesa ha, recentemente, insistito sulla necessità degli studi anche per i religiosi dedicati alla vita contemplativa. Essa attende da loro una specie di apostolato delle idee, una influenza sul pensiero cristiano dei contemporanei e affida loro talvolta, accidentalmente, opere di predicazione e d'insegnamento, senza mai, però dispensarli dall'esser monaci. Forse è il caso che insistiamo su ciò che crediamo non essere una concezione personale, ma un dato elementare del senso monastico.

Dapprima, sotto pena di lasciar inaridire la sorgente di ogni preghiera, dobbiamo riservare i momenti migliori della nostra giornata alla lectio divina propriamente detta. Ma, oltre a questa lettura, quali studi faremo? Tutto ciò, che è interessante e utile per la Chiesa, lo è pure per noi; è chiaro però che, salvo obbedienze eccezionali, le scienze dette ecclesiastiche hanno diritto alla nostra scelta, quelle sopra tutto che meglio si adattano alle normali condizioni della nostra vita e che meglio ci uniscono a Dio. Osserviamo tuttavia che un monaco non si dedica mai a suo piacere a qualche scienza speciale, per seguire l'attrattiva delle sue attitudini; i nostri studi, come tutto il resto, e con maggior motivo che per il lavoro manuale, devono essere sempre diretti, controllati, consacrati dalla volontà dell'Abate.

Ma anche quando noi ci siamo regolarmente rinchiusi nella teologia, nella storia ecclesiastica o nella patristica o nella liturgia, bisogna sapere come lavoriamo e con quale spirito. Ci son tante maniere di studiare il libro! Ecco per esempio il manoscritto d'un sermone di Sant'Agostino. Si può descriverlo prima materialmente, contarne i quaderni, riconoscerne la scrittura, determinarne la data. Si può andar più avanti, tentare di restituirlo alla storia, paragonarne il testo con quello di altri manoscritti, con le edizioni che si conoscono, con le altre opere di Sant'Agostino, con altri autori ancora; domandarsi quando tale discorso sia stato pronunziato, ricostruire la fisionomia dell'uditorio, raccogliere dalle pagine tutto ciò che serve a conoscer meglio quell'epoca, ecc. Certamente tali ricerche hanno il loro interesse, anche la loro necessità e gli uomini attenti vi spigolano constatazioni preziose anche per la dottrina. E' però incontestabile che questo studio puramente testuale non basta. Che sarebbe di un uomo che, prima del pasto, si ostinasse ad analizzare chimicamente le vivande, a distinguere le sostanze nocive dalle nutritive? Morrebbe d'inedia. Ecco un terzo procedimento più scientifico e più filosofico: si passerà dal testo al senso. Si troveranno nozioni. più o meno importanti, nozioni molteplici che si dovranno coordinare metodicamente in un tutto coerente, per farle entrare in un sistema mentale. Ma il lavoro soltanto astratto e accademico, bisogna riconoscerlo, non tratta a fondo tutta la sostanza del libro. La verità di Dio esige ben più, sicché coloro che si limitassero a ciò farebbero eternamente anticamera, studierebbero Dio senza conoscerlo mai. Come avviene che si giunge talvolta a fare anche della teologia, la più stucchevole, la più fredda, la più sterile di tutte le scienze? Perché si concepisce in modo tutto umano e librario e non si vede in essa che una semplice materia d'esame.

Il procedimento ultimo, definitivo, al quale devono giungere tutti i procedimenti di cui è stato detto sopra, è il pratico, cordiale assentimento alla verità, la sua reale assimilazione, la simpatia dell'anima tutta intera. Non ci servirebbe a nulla vedere chiaramente i teoremi sovrannaturali del nostro Credo, se la nostra volontà si difende, con un diaframma, contro la verità conosciuta, se il nostro pensiero, il nostro amore e la nostra attività non fraternizzano. La vera conoscenza è quella che sviluppa in noi la fede e accresce la carità. E avviene che la carità, dopo aver ricevuto dalla fede, le restituisce a sua volta, cioè ci fa scorgere meglio ciò che amiamo di più, perchè noi vediamo secondo ciò che siamo. Tale è lo studio veramente fecondo, la scienza dei monaci e dei santi. E' l'impiego normale della nostra intelligenza e una preparazione alla visione intuitiva.

Poco fa dicevamo che il lavoro è un potente diversivo e rimedio a tentazioni molteplici: ciò è vero sopra tutto del lavoro intellettuale, ma tuttavia esso non è un sacramento che ci trasformi infallibilmente perchè noi potremmo studiare le cose divine in modo così poco adatto da ignorarle sempre. Bisogna misurare l'efficacia degli studi non dall'oggetto materiale di essi e neppure dalla loro durata, ma da un coefficiente di disposizioni morali, cioè da una certa qualità di attenzione, da un certo benessere sovrannaturale, da una certa lealtà e libertà d'anima, da un senso e da un gusto sempre più profondi di Dio; solo così noi apprezzeremo quanto essi valgano. Ed io penso al convito di Esopo: egli volle servire al suoi amici ciò che di meglio c'era al mondo: le lingue; ciò che v'era di peggio: le lingue. Mi pare che si possa dire lo stesso dello studio: esso è forse la migliore delle cose create, ma quando s'allontana dal suo scopo è la peggiore di tutte: proprio studiando senza retta intenzione la filosofia, la teologia e la Scrittura, si perderà la fede e scuoterà quella degli altri! In sé la scienza non costituisce un pericolo: e se vi è l'orgoglio dei sapienti, vi è pure quello degli imbecilli. Ma la scienza che non influisce sulla nostra santificazione corre gran rischio di farci insuperbire. Thesaurizate vobis thesauros in coelo, ubi neque aerugo, neque tinea demolitur, et ubi fures non effodiunt, nec furantur. (Matt. VI, 20) (Fatevi un tesoro nel cielo, dove né la ruggine, né le tignuole possono consumarlo e dove i ladri non lo dissotterrano, né lo rubano). Nel dominio della pura scienza umana c'è la ruggine, la tignuola, e vi sono dei ladri e verrà un giorno in cui di tale enciclopedia vivente non resterà più nulla. L'altra scienza è essenzialmente divina e dà frutto eterno, è incorruttibile per la sua stessa composizione e non può essere tolta, e noi stessi non sapremmo abusarne né cavarne della vanità. Quindi tale scienza frutta per l'eternità ed è quella che la Chiesa e il mondo attendono dai preti e dai monaci. Dio non voglia però che noi abbiamo abbandonato il secolo e fatto la Professione per appartenere, anima e corpo, alla scienza e alla critica, per raccogliere con passione cartellini bibliografici! E' da augurarsi che il lavoro monastico sia coscienzioso e metodico , non si sparpagli mai sopra argomenti mediocri; altrettanto sarebbe temibile se si prendesse come ideale Dio e lo studio, se si mirasse alla produzione intensiva, realizzando proprio alla lettera la leggenda del benedettino erudito, emulo degli allievi della scuola di Chartes o dei membri dell'accademia delle Iscrizioni. Quale cattivo apostolato sarebbe questo! Il giorno in cui noi facessimo sull'altare degli studi il sacrifizio della conventualità e della solennità dell'Ufficio, della regolarità, della stabilità monastica, noi avremmo perduto ogni carattere e persino il titolo di esistere; rammentiamo in qual miserabile modo ha finito la congregazione di S. Maur! La nostra caduta sarà vicina, se ci sarà un elemento umano qualsiasi (riputazione, ricchezza, scienza) che noi osassimo mettere sullo stesso piano con Dio e che servisse di pretesto per impoverirlo.

Dobbiamo dunque guardarci da uno spirito naturalista che ci facesse ridurre la parte della preghiera, sia nel nostro orario, sia solo nei nostri affetti, a beneficio, perfettamente chimerico del resto, della scienza sacra. Bisogna temere anche lo spirito di critica questa disposizione meschina, scontrosa, arida, un po' orecchiata, di tutto analizzare con diffidenza; lo spirito censore, per il quale l'autorità ha sempre torto, a priori, sovra tutto l'autorità presente, e il dubbio è sempre ben accolto. Coloro che dubitano e che negano si fanno una celebrità immediata. La deferenza che si è rifiutata alla tradizione, all'antichità, all'autorità si accorda poi assolutamente con una storditezza infinita al pensiero di un autore qualunque, di uno di quei maestri del momento che fanno risonare le vaghe parole di « progresso », d'« evoluzione », di « larghezza di spirito », di « risveglio dogmatico ». Questo è baloccarsi intellettualmente. Mi sembra invece che il buon senso e la dignità consistano per noi non solo in una attitudine di riserva, ma specialmente in uno spirito di tranquilla difesa e di salvaguardia. Lo spirito di conservazione è l'istinto stesso della vita, l'essenziale disposizione a mantener l'essere nella padronanza di sé. Grazie a questo spirito saremo realmente progressisti, perchè non c'è progresso in un essere vivente che non sia in rapporto di continuità con lo stato precedente. Noi apparteniamo a una società tradizionale che si chiama la Chiesa. Nella sua conferenza col ministro Claude « sopra la materia della Chiesa » Bossuet fa notare « che non ci fu mai alcun tempo in cui non si abbia avuto sulla terra un'autorità visibile e parlante, alla quale si dovesse cedere. Prima di G. Cristo c'era la Sinagoga. Quando la Sinagoga doveva venir meno apparve lo stesso G. Cristo e quando G. C. si ritirò, lasciò la sua Chiesa a cui mandò lo Spirito Santo. Fate ritornare Gesù Cristo a insegnare, a predicare, a decidere coi miracoli e con l'autorità infallibile». Noi battezzati, chierici, monaci, noi non riceviamo l'insegnamento che dalla Chiesa. La nostra madre non è né la scienza, né la critica; solo la Chiesa, dopo averci dato la vita e nutrito, ha la missione di formare l'anima nostra per l'eternità. Nella morale, nella dogmatica, nella liturgia, nella storia, sopra tutto nella Scrittura c'è sempre la Chiesa che parla e spiega. E tale è il carattere dell'insegnamento e degli studi monastici: raccogliere dalle labbra e dal cuore della Chiesa il pensiero di Dio.

 

Continua….


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net