L'ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO
GIUSEPPE
CREMASCOLI
IL LAVORO
MONASTICO NELLO SPECCHIO DELL’OGGI
Estratto
da “BENEDICTINA”
ANNO 55 - FASC. N.2 LUGLIO-DICEMBRE 2008
CENTRO
STORICO BENEDETTINO ITALIANO
ABBAZIA S.
MARIA DEL MONTE - CESENA
Un incontro di studio dedicato all’affascinante tema della concezione
del lavoro monastico nello specchio dell’oggi, ha un indiscusso
significato come operazione
culturale perché accosta a una vicenda che ha segnato di
sé aspetti importanti della storia dell'Occidente, Per sgomberare il
campo da possibili confusioni o da
impennate retoriche, occorre però subito dire
che, per discorrere oggi del tema indicato, è necessario tener presente
l'abissale distanza che separa, quanto alla prassi e alle certezze collettive,
la nostra epoca da quella in cui fu scritta e poi variamente applicata, lungo il
corso dei secoli, la Regola
del patriarca del monachesimo occidentale. Gli
aspetti di questa abissale differenza sono molti e vi si farà cenno nella
presente trattazione, ma, già fin d'ora, possiamo dire che essi vanno
ricondotti a questo fondamentale motivo: nell’istituzione monastica benedettina
il lavoro doveva essere contestualizzato e subordinato a una
forma vitae in
cui i valori assoluti erano la fede, l’ascesi e l’abbandono del mondo;
nella mentalità di oggi l'attività
lavorativa segue ben altri schemi, in cui dettano
ferree leggi la globalizzazione e la competitività.
Un confronto impostato così sembra persino sconfortante, fatto apposta
per far nascere il sospetto che stiamo delineando un quadro destinato a
non avere alcun senso. In realtà l'operazione non è affatto fallimentare.
A parte l’utilità, indiscutibile in
ogni caso, della ricostruzione storica anche di
epoche diversissime dalla nostra, occorre dire - per il tema affrontato
che l’esame dei testi relativi alla concezione benedettina del lavoro documenta
una sensibilità per un insieme di valori preziosissimi in qualsiasi
contesto storico e da utilizzare, con opportuni adattamenti, anche nella
travagliata e frenetica epoca in cui viviamo. Come si diceva, per il
monaco l’essenziale era la
comunione con Dio nella fedeltà alla
Regola e nella celebrazione dell'opus
Dei, al punto che la Regula Magistri
vieta i lavori agricoli fuori dal
monastero, anche perché non compatibili con la disciplina del digiuno. Il
divieto è si superato nella legislazione di s. Benedetto,
ma per i fratelli che lavorano lontano dall’oratorio o che sono in
viaggio, si dispone che «recitino
l’ufficio divino nel luogo in cui stanno lavorando,
mettendosi in ginocchio per riverenza a Dio».
Nella nostra società multietnica e secolarizzata, ove soprattutto la laicità
è il valore conclamato e proposto, le cose sono molto mutate. Pensando
però agli individui che, persino in tale nostro contesto, riescono a
custodire la fede e ad aderire con serietà e fermezza ai contenuti dell'annuncio
cristiano, perché non sarebbe possibile ricollegarci ai messaggi del
monachesimo antico in grado di far nascere nei credenti una spiritualità del
lavoro, tale da costituire un rimedio quando si devono affrontare, nelle
quotidiane fatiche, assalti
di tante difficoltà?
Ancora in questo ordine di pensieri e per trovare anche nelle differenze
tra la società di oggi e il mondo monastico spunti che siano di aiuto ai
nostri spiriti tanto affaticati e smarriti, partiamo dalla
considerazione, frequente fra
studiosi, riguardo al monastero come «luogo privilegiato in
cui vita terrena e vita beatifica si saldano quasi senza soluzione di
continuità». Nei casi felici in cui le cose procedessero secondo questi grandi
ideali di fede, tutta la vicenda del tempo recherebbe su di sé il segno
dell'eterno, con la conseguenza di sentirsi liberata dai veleni terribili
dell'ansia e della fretta e dalle spietate catene dello scontento e
dell’insaziabilità, da cui sempre si finisce distrutti. Restando fedeli alla
loro vocazione, i monaci, dunque,
lavorano e operano nella vicenda del tempo riscattandola
e liberandola dai veleni di cui si è detto, dando, cosi, un messaggio
valido in ogni età, compresa la
nostra, travagliata da mille ansie e frenesie.
E si noti che questi valori di equilibrio, di umana saggezza, determinati
dalla convinzione che, in fondo, il tempo e l’eterno sono sempre contigui
e che ci si deve impegnare nel lavoro ma senza assolutizzare ciò che è
provvisorio e relativo, sono preziosi in ogni caso e qualunque sia il
grado raggiunto nella carriera lavorativa, Anzi chi ha compiti direttivi e di
managerialità deve, forse, più di altri tener conto di questi paradigmi di
saggezza, umani ma meglio se ancorati a prospettive di fede, perché è vero che
non si può star al di sotto di certi livelli di produzione, ma non al
prezzo di mettere a repentaglio
l’equilibrio psicofisico delle persone. Nella
Regola
benedettina ci sono testimonianze della grande sensibilità nel cogliere
questi problemi in tutti i loro aspetti, con lo sguardo sempre fisso a due
traguardi: combattere l’indolenza e la pigrizia, conservando, al
contempo, un occhio sempre vigile
perché i lavori e le fatiche siano distribuiti con
misura ed equità.
Nel capitolo in cui si tratta del lavoro manuale quotidiano, organizzato
in modo da lasciare spazio anche all’opus
Dei e alla lettura, si prevedono
infatti compiti di vigilanza affidati a uno o due anziani, a cui spetta
di «vedere se c'è qualche
confratello indolente che invece di leggere se ne sta
in ozio o in chiacchiere e che oltre a rendersi inutile a se stesso
distrae anche gli altri». Per casi
di questo genere non c'è il ricorso al far finta
di nulla o alla magia del «poi tutto s'aggiusta», ma a punizioni
esemplari, perché si legge subito
dopo: «Se si trovasse - ma che non sia mai - un
simile fratello, lo si rimproveri fino a due volte e, se non si corregge,
lo si sottoponga alle punizioni
previste dalla Regola, in modo che anche gli altri
ne abbiamo timore».
C’è, dunque, attenzione alla serietà della legge e alle esigenze del bene
comune, senza, però, dimenticare i tratti caratteristici della natura
umana, così incline alla trasgressione e al disimpegno: il
nitimur in vetitum (Nitimur
in vetitum semper, cupimusque negata = Ci sforziamo sempre di ottenere ciò
che è vietato e desideriamo le cose che ci vengono negate N.d.R.), insomma, di
ovidiana memoria. Per questo devono scattare due rimproveri prima della
punizione, in modo che questa possa poi tranquillamente essere
inflitta. L’attenzione al fattore umano è, in ogni caso, un principio
base nel gestire tutta la vita nel
monastero, retta da norme chiare e ben precise per
quanto attiene alle fatiche e ai compiti di ciascuno, in modo che «ogni
cosa sia... fatta con misura e avendo riguardo ai più deboli». Questo
passo giustamente famoso della Regola
si legge nel citato capitolo sul lavoro manuale quotidiano, da accettare senza
lamentele, anche quando comportasse la fatica di «provvedere direttamente alla
raccolta delle messi». Il tutto è
suggellato dal rimando a questa motivazione: «perché è proprio
allora che essi sono veramente monaci, quando vivono del lavoro delle
proprie mani, come fecero i nostri padri e gli apostoli».
Secondo i commentatori della Regola
qui si proclama il dovere di giustizia di guadagnarsi il proprio pane, con
implicito riferimento a quanto
insegna al proposito soprattutto l’apostolo Paolo. Si tratta, tuttavia, di
un tema non libero da controversie, e motivo di «tendenze contrarie»
(soprattutto in Siria e in Medio Oriente) che ritengono il lavoro manuale
come indegno dell'uomo spirituale e incompatibile con la vita monastica.
In questa materia è, però, illuminante il seguente testo di Teodoreto di
Cirro, che cito dalla sua Storia dei monaci della Siria: «È assurdo che
la gente impegnata nella vita debba
stentare con fatiche e preoccupazioni per
mantenere moglie e figli, per far fronte alle imposte dirette o
indirette, per offrire le primizie
a Dio, per aiutare i poveri secondo le possibilità, mentre
noi non dobbiamo procurarci da vivere col nostro lavoro anche perché ci
contentiamo di poco cibo e di un modesto abito. Non dobbiamo quindi
starcene con le braccia incrociate e profittare dell'altrui fatica».
Testi di questo genere suggeriscono di dare risalto, nel presentare le
radici culturali della concezione del lavoro nel mondo monastico, agli
elementi di buon senso e di concretezza che vi sono mirabilmente profusi,
anche in ordine alle virtù da praticare e ai vizi da cui il monaco deve
rifuggire, come, del resto, ogni cristiano ed, anzi, ogni persona per
bene. «L’ozio è nemico dell'anima», ricorda la
Regola, «e perciò i fratelli in
determinate ore devono essere occupati in lavori manuali, in altre nella
lettura divina». La vita del monaco raggiungerà, anzi, il suo equilibrio
nell’armonizzare questi due tipi di attività, ognuno dei quali comporta
un determinato, ben preciso tipo di
impegno. La Regola e le costituzioni
monastiche scenderanno nei dettagli per precisare come deve attuarsi, nel
fluire delle ore del giorno, quest’armonia nella vita del monaco.
Non si può tuttavia dimenticare che tutto ciò è ben distante da quanto
avviene nella vita del secolo, perché il monastero tende ad essere un
mondo a parte, autosufficiente e abitato da individui la cui vita reca su di sé
i tratti caratteristici della
condizione celibataria, dell’obbedienza e della rinuncia alla proprietà privata.
Eppure al di là di queste differenze, che vanno conservate per rispetto alla
propria identità, va colto il valore che le
anima, cioè l’ideale di una vita regolata con armonia e saggezza,
sconfiggendo, così, gli impulsi al disordine e all’irrazionalità, dai quali la
vita risulterebbe devastata. Anzi, senza tirar troppo la corda delle analogie,
si potrebbe persino notare che la
ricerca dell'armonia fra il lavoro intellettuale e quello tecnico-pratico nella
società e nei percorsi di educazione scolastica, è un problema anche oggi
particolarmente vivo e ben lungi dall’essere
risolto.
Ancora per dare prova del senso di concretezza che ispira il discorso
della Regola benedettina quanto al lavoro e ai temi connessi, si fa cenno
all'insistenza con cui si proclama il dovere di avere la massima cura per
i beni del monastero, giusta
preoccupazione perché si sa che, in tutti i tempi, l’individuo tende ad
impegnarsi poco nel retto uso di ciò che non è
suo. Il cellerario - si legge - «consideri come vasi sacri dell’altare
tutte le suppellettili e i beni del
monastero». Nel capitolo de ferramentis
vel rebus monasterii, si fissa, per l’abate, l'obbligo di affidarne la
custodia ai «confratelli della cui
condotta morale sia sicuro», di stendere il relativo
inventario, di correggere e di sottoporre «alle norme disciplinari
previste dalla Regola» chi si
mostra negligente al proposito.
Nella letteratura monastica c'è traccia anche di altri più complessi problemi,
con cui ci si può confrontare nello specchio dell'oggi. Già Cassiano, ad
esempio, prende atto che anche nel lavoro del monaco c’è un profitto
che supera il consumo e che, quindi, può determinare degli accumuli di
ricchezze. Nel corso dei secoli ciò produsse situazioni di opulenza per
il mondo monastico, perché non si
tenne conto dei rimedi previsti per ovviare a queste deviazioni dagli ideali del
consacrarsi a Dio. Nella Regola si
prescrive, infatti, che «nel fare i prezzi non ci si lasci mai prendere
dal flagello della cupidigia, ma si
venda a un prezzo sempre un po' inferiore
di quello che fanno i secolari». Lo stesso Cassiano, inoltre, aveva
esortato a devolvere in opere di carità l'esubero dei beni prodotti.
Nell'economia di oggi le cose si sono fatte molto complesse e bisogna sempre
tener conto di questo, ma il flagello della cupidigia, di cui dice la
Regola, sarà
sempre un’insidia da cui custodirsi.
Il monachesimo benedettino ha, dunque, posto l’accento sulla dimensione
dell’umano e del divino nella vicenda del lavoro e ciò non fu senza
significato nella storia della nostra civiltà.
Ovviamente ciò nasceva da un ricco retroterra di cultura e di certezze
elaborato in secoli e vicende anche antecedenti all'instaurarsi del
monachesimo e ormai alla base di ciò che il monachesimo era chiamato a custodire
in sé. Il mondo greco-latino aveva proclamato, nei momenti alti della sua
storia, paradigmi di valori e una filosofia che fosse non solo uno
scandaglio nel mistero dell'universo ma anche una guida del vivere, in grado di
indicare i sentieri che debbono essere percorsi. L'irrompere del
messaggio cristiano nella storia ebbe il sapore di una novità assoluta
umanamente impensabile, che si
consolidava contestualmente allo spegnersi della cultura
classica, mentre le antiche istituzioni di Roma subivano i colpi della
crisi delle coscienze e della
giovane forza dei popoli cosiddetti barbari. Qualcosa
mutava radicalmente nella storia dell'Occidente, e nel crogiuolo di
filosofie, speranze e fedi,
l'orizzonte delle certezze e dei valori assumeva connotazioni diverse, nelle
quali le linee dell’antico si fondevano con la novità e la
forza dirompente dei nuovi messaggi.
Per fissare dei punti fermi in un quadro di grande complessità e ricchezza,
facciamo qualche brevissimo cenno a questi dati: gli ideali dell’armonia e della
misura, l’idea della persona umana come valore supremo
perché realtà ben precisa inserita in un piano divino, e, infine, la
lettura della condizione umana come
misterioso intrico di ferite e di colpe, sempre
però passibili di riscatto e di salvezza. Quanto all'armonia e alla
misura, si pensi all’omnia
mensurate fiant della Regola benedettina, in cui lo sguardo è costantemente
proteso al monastero come a un microcosmo ove tutto
risponde a criteri di razionalità e di ordine, dagli edifici alla
distribuzione dei compiti, dalle
suppellettili alla lectio divina e
all'opus Dei. Non è difficile vedere
in tutto ciò frutti di radici che affondavano in conquiste dello
spirito raggiunte anche in epoche antecedenti, nel mondo greco-latino. Si
pensi al racconto storico di Erodoto, teso a convincere i mortali a non
uscire dai loro limitati ambiti, per non incorrere nell’invidia e nel
castigo degli dei. In più di un
passo delle tragedie greche ritorna l’esortazione a
frenare ogni istinto di valicare i limiti a noi imposti dalla natura e
segnalati dalla ragione, come si legge,
ad esempio, ne I Persiani di Eschilo:
«...riveleranno ad occhi di uomini / che, essendo mortale, non si ammette
pensiero di troppo orgoglio /
Infatti dismisura, sbocciando, ha prodotto una spiga /
di rovina, da cui miete un raccolto di molte lacrime». Più vicino alla
nostra anima italica, Orazio ricorda l’inesorabile legge del
modus in rebus,
e dei confini tracciati in modo tale che al di qua e al di là di essi non
può sussistere la rettitudine.
Queste prospettive di umana saggezza - assorbite nei contenuti di fede
dell'annuncio cristiano - stanno alla base di quanto attiene ai due altri
punti testé enunciati: la centralità della persona e una lettura della
condizione umana, da cui risulta che essa ha in sé i segni della colpa e la
vocazione alla salvezza. Dalla
Regola benedettina traspare, infatti, una visione lucida e realistica
dell'uomo, sempre incline a sbagliare ed a smarrirsi,
ma, al contempo, capax Dei,
cioè in grado di uniformarsi a norme umanamente comprensibili e, al contempo,
conformi ai voleri divini, dalla quali
la sua vita è ricondotta sui binari dell’equilibrio e dell’armonia. Pur
nella convinzione della complessità dei problemi tra cui ci muoviamo, è bene
fare un cenno a due diverse e opposte voci critiche, che possono sorgere
nei confronti di quanto ho detto. Eccone la possibile formulazione: ma
questo valore della misura e dell’ordine non è mortificante? Inoltre
(opposta critica): non è stato sin qui un po' dimenticato l'aspetto tipico della
vita monastica, che è - nella sua essenza - la ricerca della comunione
con Dio? Per dei cenni di risposta
occorre subito dire che, fra gli evocati
punti dell'abissale distanza che si è determinata fra la nostra epoca e
il mondo del quale il monachesimo è
lo specchio, c’è anche l'idea, da alcuni
secoli fra noi fortemente esaltata, secondo la quale il bene e la
salvezza non stanno nella misura e
nell'ordine, e men che meno nell’obbedienza e
nelle cosiddette virtù passive, ma, se mai, nell'opporre potere a potere,
il che comporta impegni di lotta,
che possono anche assumere forme di radicalità sino all'esperienza - da cui la
nostra storia è certamente segnata delle rivoluzioni.
A questo proposito bisogna prendere atto che tra le due concezioni ci
corre davvero un abisso. È inutile negarlo, e non so dire se esistano
possibili punti di incontro. Qui, per omaggio alla storia, va detto che la
concezione benedettina non ha mai agito a scapito delle energie creative di chi
vi si è confermato. Basti leggere le opere di Léo Moulin, storico di
dichiarata formazione laica, che documentano le conquiste raggiunte dalla
laboriosità benedettina, valore conclamato e concretamente vissuto seguendo la
traccia che segna ininterrottamente, lungo il corso della giornata, la
vita operosa di ogni monaco. Anzi
gli studi condotti in questi ambiti giungono a scoperte sempre più interessanti,
soprattutto per quanto attiene alle
conquiste nell’arte del costruire, nell’agricoltura e, in genere, nelle attività
con risvolti di natura economica, al punto (e qui tengo conto della seconda
delle voci critiche teste citate) che bisognerà non dimenticare che
l'essenza del monachesimo va
cercata dove essa è da riporre. Siccome la cultura è
attenzione a tutti gli aspetti anche opposti o complementari della
realtà,dovrà sempre esserci qualcuno - e di fatto non manca - desideroso di
capire ciò che il monaco essenzialmente è, cioè uno spirito proteso alla
ricerca di Dio, convinto che a questo traguardo - oggi, forse,
particolarmente arduo - si giunge soprattutto attraverso lo slancio
dell’invocazione, l’immergersi nelle sublimi emozioni della vita liturgica e
nella condivisione di quanto è
veramente umano, tale da costituire un insieme di valori che il
monaco - cogliendo anche la eco di quanto già scrisse Terenzio - è ben
lungi dal ritenere lontano e alieno da sé.
Bologna,
Università degli studi,
Memoria di
s. Gregorio Magno, AD. 2008
GIUSEPPE
CREMASCOLI
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net