La fortuna di un monachesimo nuovo: i Certosini
di Marcel Pacaut
Estratto da "Monaci e religiosi
nel medioevo" - Il Mulino1989 (Prelevato dal sito "franciscanos.net"
nel 2015)
Merito dei monaci della Grande Certosa fu quello di darsi un ordinamento
originale per garantire le esigenze della vita eremitica e, nel contempo, di
fondare solidamente la stabilità monastica (il che, in verità, cercarono di
fare anche altre fondazioni del tempo).
Il fondatore dei Certosini, san Brunone (Ndr: o Bruno), era nato intorno al
1030 da una nobile famiglia di Colonia. Prima nella città natale e poi a
Reims Brunone fece studi molto severi e, divenuto docente nelle scuole di
Reims, impartì un insegnamento molto apprezzato che aveva come oggetto
principale l’esegesi biblica. Ma intanto si era anche interessato ai grandi
problemi del suo tempo ed aveva energicamente appoggiato le iniziative
riformatrici dei gregoriani. Fu allora che allacciò stretti rapporti con
molti vescovi ed abati, guadagnandosi la loro stima, al pari di quella di
molti esponenti del clero locale, che, infatti, nel 1082 gli offrirono
l'elezione alla cattedra arcivescovile di Reims. Brunone rifiutò, perché
ormai non si preoccupava più di far figura nel mondo e aveva deciso di
fuggirne.
Era egli allora in relazione con Roberto, abate di Molesmes, che era
particolarmente interessato alla vita eremitica. Grazie a lui, Brunone si
stabilì con due compagni nei boschi di Séche‑Fontaine, non lontano da
Bar‑sur‑Seine. Ben presto, tuttavia, si rese conto degli inconvenienti di
tale scelta: da un lato, era troppo a contatto con le popolazioni vicine,
mentre non rientrava tra le sue intenzioni quella di predicare e le sue
convinzioni lo spingevano a rifiutare una vita fatta di mendicità (che
implicava, quale contropartita, di dare assistenza religiosa ai fedeli);
d'altra parte, non intendeva primariamente fondare una comunità eremitica,
bensì perseguire “un tipo di vita che rispondesse meglio al suo bisogno
individuale di raccoglimento e di preghiera”.
Lasciò allora la Champagne per trasferirsi nella regione delle Alpi, dove
confidò le sue intenzioni al vescovo di Grenoble, Ugo I, che gli garantì la
sua protezione, nel caso in cui avesse voluto dar vita ad una nuova
fondazione. Si fece donare la tenuta de La Chartreuse dall'abate del
monastero di La Chaise‑Dieu, Seguino, che divenne suo consigliere, e da
certi signori laici che vantavano diritti su di essa. Nell'estate del 1084,
valendosi, per la costruzione dei primi locali, dell'aiuto degli abitanti di
Saint‑Piene e dei villaggi vicini, si stabilì in quel luogo fuori del mondo,
inospitale, gelido e totalmente isolato d'inverno. In simile recesso,
Brunone attuò veramente l'ideale di una vita eremitica “nel deserto”. I
primi anni furono durissimi e di discepoli neppure l'ombra. Nel 1089, o nel
1090, Brunone venne convocato a Roma da un suo ex‑allievo di Reims, divenuto
papa Urbano II, che lo inviò come suo legato nell'Italia meridionale. Si era
lasciato dietro pochi compagni, ma la sua partenza rischiò di provocare la
fine della sua fondazione, poiché gli eremiti cominciarono a disperdersi;
Brunone, tuttavia, pur volendo che la comunità non dipendesse dalla presenza
di un maestro, ma avesse una propria stabilità, grazie al voto di rimanere
ad essa fedele richiesto ad ogni monaco, si era premurato di nominare un
priore, Landuino, uomo energico e deciso che riuscì a tenerla unita. Da quel
momento il monastero non fece che crescere, ma Brunone non poté più farvi
ritorno prima della morte, che lo colse nel 1101. Frattanto aveva fondato
nel 1091 un secondo monastero a Santa Maria della Torre, in Calabria,
incoraggiando i suoi successori a diffondere l'ideale che aveva voluto
attuare. La sua opera giunse a perfezione con il quinto priore della Grande
Chartreuse, Guigo, morto nel 1137, autore della regola certosina.
L'ideale certosino, che la regola metteva chiaramente in luce, poggiava su
principi diversi da quelli tipici del monachesimo benedettino, nonostante
l’opinione di certi storici che confondono i principi fondamentali con la
regolamentazione effettiva della vita monastica.
Infatti, risulta evidente che le norme riguardanti il cibo e
l'organizzazione interna del monastero sono conformi alla regola di san
Benedetto, che viene però osservata con estremo rigore. Ma quanto al resto,
che è poi l'essenziale, i fondatori della Certosa, ispirandosi a san
Girolamo, a Cassiano e ad altri Padri, attuarono un tipo di eremitismo
stabile che non ha nulla a che fare con l'ordinamento cassinense.
Nel monastero certosino devono coabitare due categorie di persone: i monaci
e i conversi (o fratelli), ossia dei laici che vogliono condurre una
regolare vita religiosa. Essi vivono in comunità, come dei cenobiti, in uno
stesso edificio; assistono all'ufficio quotidiano del mattino e della sera e
sono obbligati a recitare certe preghiere durante il giorno. La loro
funzione è quella di compiere i lavori necessari al sostentamento
dell'intera comunità. Insomma, spetta a loro la cura “materiale” del
monastero. Tuttavia, i conversi non sono dei veri certosini, ma soltanto dei
religiosi che consentono ai monaci di attendere alla loro vocazione. Questi,
infatti, devono osservare una regola conforme all'ideale di san Brunone:
sono dei chierici, sovente anche sacerdoti, che, vestiti di un abito bianco,
si obbligano all'eremitismo, vivendo, appunto, dopo il periodo di noviziato,
nel romitorio. Qui ognuno ha una cella che di fatto è una casetta a due
piani con, a quello inferiore, una stanza adibita a laboratorio (di
falegnameria, selleria, ecc.) che si apre su un piccolo orto; al piano
superiore ha una camera e un locale per la meditazione e lo studio, la cui
porta dà sul chiostro da cui si va nella chiesa dove sono celebrati in
comune gli uffici divini. Nelle altre ore del giorno il certosino rimane
nella sua cella, dove un converso gli reca il cibo fatto passare attraverso
uno sportello. Il monaco, nella cella, prega, medita, copia manoscritti e si
dedica a qualche lavoro manuale. Vive, dunque, nella solitudine, come se
fosse in un deserto, ma aiutato e sorretto dalla comunità, che non è solo
quella dei fratelli, bensì quella dei monaci e di tutto il monastero. La
comunità, poi, presenta tre istituzioni fondamentali: tra i voti, che sono
gli stessi del monachesimo benedettino (ma che sono professati senza
pronunciare la formula secundum regulam sancti Benedicti), riveste
primaria importanza l'impegno a non allontanarsi mai dal monastero;
l'elezione da parte dei monaci di un priore che deve dirigere il monastero:
non gli si conferisce, perché così vuole l'umiltà, il titolo di abate, ma di
fatto agisce come un abate ed è il “padre” a cui si deve obbedienza assoluta
e nella cui persona la comunità suggella la propria unità; la riunione
regolare di tutti i monaci in un capitolo per la fraterna correptio e
per ascoltare i consigli e le esortazioni del priore. Il priore deve anche
assicurare la gestione economica del monastero e proprio per questo risiede
nell'edificio ove alloggiano i conversi. Questi, infatti, ottemperando alle
sue istruzioni e sotto la vigilanza di suoi incaricati, devono attendere ai
lavori agricoli (ma i certosini praticano soprattutto l'allevamento).
L'ordine è poi organizzato come una federazione di monasteri, guidata dalle
deliberazioni del capitolo generale che riunisce periodicamente tutti i
priori. In realtà, l'ordine non contò mai un numero elevato di monasteri:
erano 39 nel XIII secolo ed appena 200 alla fine del Quattrocento.
Questi dati inducono a credere non già che l'ordine certosino non suscitasse
simpatie, bensì ad una certa rarità di vocazioni a causa della durezza del
tipo di vita proposto. Essi non ci possono nascondere che durante il secolo
XII, tenuto conto di tutte le altre fondazioni (e tra queste ci fu Cîteaux),
i certosini ebbero un lusinghiero successo ‑ che con eccezioni e nonostante
alcune difficoltà, si è conservato fino ai nostri giorni.
La sua riuscita è dovuta sicuramente all'originalità della sua spiritualità,
che si fonda su una rinuncia totale al mondo, sulla solitudine più rigorosa
e sulla volontà di non mantenere alcun rapporto con la società (salvo quelli
a cui obbligano le necessità materiali) e di non esercitare su di essa
azione alcuna. Tale forma di rinuncia, i cui aspetti più vistosi sono la
povertà individuale e la castità, conduce il monaco alla contemplazione,
ossia alla meditazione su Cristo e su se stesso, e alla preghiera, che si
articola in tre fasi principali: la lettura attenta di un testo (lectio
studiosa), la riflessione (ruminatio) e l'orazione (oratio).
La preghiera, perché possa essere praticata nel modo richiesto, esige il più
stretto isolamento e il più assoluto silenzio. Questa pratica ascetica
sfocia, poi, in virtù del continuo esame di coscienza, nella scoperta della
doverosa soggezione agli imperativi dell'umiltà e dell'obbedienza. Le virtù
del certosino sono, dunque, le stesse del benedettino, ma si dispongono in
un cammino ascetico diverso. Il certosino non parte dall'obbedienza per
approdare all'umiltà, ma fonda la sua vita spirituale sul distacco totale
dalla società e tale distacco lo obbliga a trovare, nel silenzio,
nell'introspezione e nella preghiera, il significato profondo
dell'assoggettamento volontario ad una disciplina. Il monaco cluniacense è
un orante, il certosino è un meditativo, un contemplativo.
L'esordio dell'Ordine Certosino è quasi contemporaneo a quello cistercense,
ma il suo sviluppo, anche in Italia, conosce una progressione più lenta ed
una diffusione minore. Dopo la fondazione da parte di san Brunone del
convento di S. Stefano del Bosco, pochi anni dopo quello di S. Maria della
Torre e sempre nella zona di Stilo, in Calabria, soltanto negli ultimi
decenni del XII secolo compaiono in Piemonte, forse anche per la contiguità
geografica con la regione transalpina culla delle prime esperienze
certosine, le successive case italiane dell'Ordine. Grazie a benefici
concessi da famiglie della piccola e media nobiltà locale nascono le Certose
di Casotto e Pesio, nel Cuneese, e di Losa, vicino a Susa, prime di una
serie che continuerà a crescere sino al XV secolo giungendo ad annoverarne
oltre trenta sparse nell'intera penisola. Quando già la primitiva fondazione
di S. Maria della Torre è stabilmente passata ai monaci cistercensi i
Certosini entrano a loro volta nel preesistente monastero di Trisulti, non
lontano da Frosinone, agli inizi del Duecento, istituendo poi altre case
alla fine dello stesso secolo a Parma, a Rivarolo, presso Genova, e vicino a
Milano.
Le solide basi gettate da Guigo I, priore della Grande Chartreuse dal 1109,
attraverso la redazione delle “Costituzioni” certosine, garantendo
all'Ordine la possibilità di svilupparsi mantenendosi fedele agli originari
principi ispiratori dell'opera di san Brunone assicurano la conservazione di
una vitalità che a distanza di secoli dalla scomparsa del fondatore alimenta
ancora la sua espansione, più marcata che nel passato, a livello europeo,
nel corso del Tre e Quattrocento. È questo il periodo in cui sorgono in
Italia le Certose più note, che rappresentano anche capolavori sotto il
profilo architettonico ed artistico, tra cui quelle di S. Lorenzo di Padule
presso Salerno (1304), S. Martino di Napoli (1327), S. Lorenzo di Montesanto
a Firenze (1342), di Pontignano (1343) e Belriguardo (1345) nei pressi di
Siena, di Calci, vicino a Pisa (1366), di Pavia (1396), di Mantova (1408),
di S. Andrea al Lido di Venezia (1422), di Vedana, presso Belluno (1455) e
di Savona (1480).
Punti di contatto con le tendenze manifestate da san Brunone presentano
anche le iniziative di san Guglielmo di Vercelli (1085-1142) e san Giovanni
di Matera (circa 1070‑1139) che con le fondazioni dei cenobi di
Montevergine, nel territorio di Avellino, e di Pulsano, sul Gargano, sorti
nei primi decenni del secolo XII, avviano la nascita di due congregazioni
monastiche destinate ad una notevole espansione, in particolare nel
Mezzogiorno italiano. Ispirata a modelli di tipo eremitico quanto a severità
di vita e rigorismo penitenziale, anche per influenza della solida
tradizione del monachesimo basiliano meridionale, l'attività dei due
religiosi non rimane limitata a questi primi centri, ma si dilata nello
spazio e nel tempo attraverso una continua peregrinazione nelle varie
regioni del Sud della penisola e grazie all'impegno profuso ancora da alcuni
discepoli dopo la loro scomparsa. Con il favore e la protezione della
monarchia normanna, prima, e di quella sveva, poi, prosperano rapidamente
numerosi monasteri sparsi in Puglia, Lucania, Campania, Calabria e Sicilia
che ingrossano le file delle due congregazioni e, in mancanza di regolamenti
scritti lasciati da san Guglielmo e san Giovanni, si conformano
all'osservanza della regola benedettina rispettando la sua austerità
originaria. Approvate dalla Santa Sede verso la fine del XII secolo, le
congregazioni di Montevergine e Pulsano, comprendenti anche molti cenobi
femminili, prosperano largamente sino a tutto il Duecento giungendo a
riunire, nel complesso, oltre settanta conventi tra i quali, dipendenti da
Pulsano, anche alcuni sorti in zone diverse da quelle di massima espansione,
come S. Salvatore di Trebbia, nel Piacentino (1143), S. Pietro di Vallebona,
presso Chieti (1149), S. Michele di Guamo, vicino a Lucca (1156) e S.
Michele di Pisa (1155).
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9 novembre 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net