E Bianchi
Comunità di Bose
CENOBITISMO BENEDETTINO E MONACHESIMO DI SCETE
Tratto da “S. Benedetto e l’Oriente cristiano” -
Atti del Simposio tenuto all’abbazia della Novalesa (19-23
maggio 1980)
NOVALESA 1981
Questa comunicazione porta come titolo significativo e appropriato
«
Cenobitismo
benedettino e
monachesimo
di Scete » e non «
Regula
Benedicti e sue
fonti orientali ». Questo
perché la
mia competenza non è filologica e soprattutto perché
questo colloquio prevede già due relazioni di
P. Jean Gribomont e di P. Pio Tamburrino che in modo analitico e filologico
attestano le influenze letterarie delle Regole di Basilio e di Pacomio sulla «
Regula
Benedicti ». Io cercherò invece di fare un confronto tra il
monachesimo orientale di Scete e il
cenobitismo
benedettino, tenendo presente che il rapporto tra i due
monachesimi è stato mediato in larga misura da
Cassiano, un testimone molto discutibile e secondo alcuni ambiguo, dei padri del
deserto.
1. Benedetto e i Padri orientali
Benedetto così conclude la sua Regola al capitolo 73:
1)
Questa regola l’abbiamo
poi abbozzata
affinché, osservandola
nei monasteri, diamo prova di avere almeno dignità di costumi e un certo
avviamento di vita monastica
(initium conversationis).
2)
Ma per chi vuole
procedere celermente verso la perfezione di tale vita, vi sono i precetti (doctrinae)
dei santi padri, la cui osservanza conduce l’uomo alla massima perfezione.
3)
Quale pagina infatti o
quale testo di autorità divina dell’Antico e del Nuovo Testamento non
costituisce una norma rettissima per la vita umana?
4)
O quale opera dei santi
padri cattolici non risuona di insegnamenti tali che possiamo giungere per un
retto cammino al nostro creatore?
5)
Ed inoltre le Collazioni
dei padri, le Istituzioni e le loro vite, nonché la Regola del nostro santo
padre Basilio
6)
che altro non sono se
non strumenti di virtù per monaci che vivono in bontà e obbedienza?
7)
Per noi invece, pigri,
sviati e negligenti, tutto questo rappresenta
motivo di vergogna. (Nobis
autem desidiosis et male viventibus atque negligentibus rubor confusionis est).
8)
Chiunque tu sia dunque,
che ti affretti alla patria celeste, poni in pratica, con l’aiuto di Cristo,
questa minima regola delineata come semplice inizio
(hanc minimam inchoationis regulam descriptam).
9)
E allora con la protezione di Dio giungerai finalmente a quelle più
alte vette di sapienza e di virtù che sopra abbiamo menzionato. Amen.
Queste parole che chiudono la Regola di Benedetto sorprendono ogni
monaco intento ad osservarla, ma sono di una sapienza infinita
perché assicurano al monaco la possibilità di un
dinamismo di vita spirituale che va oltre la Regola stessa.
Mi permetto di ricordare confidenzialmente che quando terminai la
stesura della povera regola della nostra piccola comunità di Bose, quasi sentii
il bisogno di trascrivere appena parafrasato l’epilogo di Benedetto con queste
parole: « La presente regola spirituale è un aiuto per te, uno strumento per
vivere l’Evangelo e soprattutto un mezzo di comunione fraterna. Essa vuole
essere per te non una legge, ma una descrizione di vita senza la quale non è
possibile edificare una comunità e avanzare in una creazione comune; essa
contiene il minimo di direttive comuni per principianti. Ma se tu vuoi avanzare
celermente nella vita spirituale, ricorri alle Regole dei nostri padri Basilio e
Benedetto e agli insegnamenti dei padri del deserto che prima di te e con
maggiore forza e sapienza han camminato sulla strada della vita cenobitica ».
Per ragioni diverse questo epilogo non è presente nella stesura definitiva della
regola, accettata e assunta dalla comunità nel 1973, anche se in alcuni punti
della regola queste frasi riappaiono tali e quali. Eppure resto convinto che
tale era ed è la sensazione mia e dei fratelli di fronte alla nostra povera
regola. Ricordo questo
perché mi
pare di aver vissuto e di vivere di questa conclusione benedettina l’ermeneutica
delineata in modo acuto da P. Adalbert De Vogüé
nel suo commentario
[1].
Quali reazioni vuol destare una tale conclusione nei destinatari
della Regola? Innanzitutto Benedetto fa arrossire i monaci di fronte alla loro
mediocrità per stimolarli ad un’ascesi più alta e ad una carità più fervente.
Già nel corpo della Regola, Benedetto aveva fatto dei riferimenti ai santi padri
del deserto quando, al capitolo 18, 25, ricordava che essi leggevano in un sol
giorno il salterio con i suoi consueti cantici, e richiedeva così ai suoi monaci
« tiepidi » (tepidi) di recitare
l’intero salterio in una settimana, e ancora al capitolo 40,6 dove, non sapendo
persuadere i monaci del suo tempo, tollera l’uso del vino a patto che i monaci
non giungano alla sazietà e all’ubriachezza, ricordando loro che si legge —
sottointeso nei santi padri — che il vino non è per i monaci
(Licei legamus vinum omnino monachorum non esse).
Benedetto dunque ricorda a più riprese e soprattutto nell’epilogo
l’eroismo e la santità dei padri del deserto per incitare i fratelli ad
osservare la regola e confessa con nostalgia che i suoi contemporanei
occidentali appaiono « desidiosi, male viventes, negligentes » (73,7), « tepidi
» (18,25), monaci per i quali occorre essere « contuentes infirmorum
inbecillitatem (40,3) », uomini che « persuadere non potest » (40,6).
L’altra reazione che Benedetto vuole destare è quella di orientare
i monaci verso la perfezione rappresentata dai padri orientali, veri modelli di
cui Benedetto fa memoria proponendoli come esempi nella sua impotenza a far
ripetere i gesti di perfezione e di sapienza monastica.
« Frutto di un’epoca di decadenza, la regola non è fiera di se
stessa — scrive A. de
Vogüé— ed
è per questo che cerca, con il riferimento ai padri orientali, di dare a se
stessa un’apertura, una dinamica interna che anziché soddisfare il monaco
nell’osservarla, lo muova oltre, verso un ideale ormai apparentemente
inaccessibile »
[2].
Questa conclusione di Benedetto non è solo un genere letterario
retorico, capace di protestare l’umiltà di Benedetto e della sua Regola, ma è
anche un’autentica confessione del Padre del
monachesimo
occidentale. Questo anche se in realtà la « Regula Benedicti » non contiene
versetto che non possa avvalersi di paralleli, citazioni, allusioni agli scritti
di Pacomio, di Basilio, di Cassiano e quindi dei padri del deserto egiziano.
Benedetto d’Aniano diceva a ragione che la Regola benedettina è un
covone, una sporta degli insegnamenti dei santi padri e che di essi era una
fedele testimonianza
[3]. Certamente, per quel che riguarda i padri del deserto si dovrebbe
parlare di testimonianze più che di fonti, tuttavia la Regola non è ad essi
estranea anche se sovente, tramite la « Regula Magistri » e quindi Cassiano, li
interpreta in modo molto marcato ed occidentale
[4].
2. Vita monastica del deserto e vita benedettina
Quando si pensa alla vita monastica dei padri del deserto a Scete,
Nitria, Kellia, si è soliti vederla caratterizzata dall’eremitismo. In realtà i
monaci eremiti erano più rari di quanto siamo abituati a pensare e sovente
l’eremo era solamente temporaneo. Nel deserto egiziano certo non si praticava
una vita cenobitica, ma la vita anacoretica trovò una sua continuità e un suo
sviluppo in quella cenobitica pacomiana, dove emerge una vera teologia della «
koinonia » di cui avranno netta coscienza soprattutto i primi pacomiani.
I monaci di Scete per lo più vivono in gruppi i quali, pur non
avendo una regola precisa e un’organizzazione rigorosa, mostrano di avere
relazioni reciproche che diventano prassi generale almeno una volta alla
settimana, il sabato e la domenica. La celebrazione della liturgia, la
conferenza spirituale tenuta dall’anziano carismatico, il colloquio fraterno, il
pasto comune radunavano i monaci che abitavano in celle distanti
l’una dall’altra, ma capaci di accogliere un gruppo
ristretto di persone, in molti casi discepoli raccolti attorno ad un anziano che
li istruiva ricevendo da loro diversi servizi materiali. La vita era segnata dal
lavoro manuale, soprattutto fabbricazione di stuoie, corde, lavori artigianali,
e dalla preghiera continua, soprattutto mnemonica. Nelle fonti il termine Scete
(attuale Uadi El Natrun) ingloba anche Nitria
e Kellia (in realtà luoghi monastici distinti, situati più a Nord)
a causa della presenza di Macario l’Alessandrino in tutti e tre i luoghi e
soprattutto a motivo della somiglianza della « forma vitae ». La tradizione e la
sapienza di questi luoghi è conservata nelle diverse « Historiae monachorum » e
nei « Paterikà » raccolti e diffusi da visitatori e ospiti.
Ma
quali erano i caratteri specifici di questo
monachesimo scetiota
e
quale confronto può essere fatto con il
monachesimo benedettino?
A)
La fuga nella
solitudine
In realtà non si insiste tanto sulla solitudine individuale quanto
sulla solitudine del deserto. Il consiglio fondamentale, « fuggi gli uomini »,
registrato nell’apoftegma di Abba Arsenio
[5]
è diretto ad evitare il peccato, la mondanità, le
tentazioni e le seduzioni della carne. La zona abitata, il mondo per i monaci di
Scete è rappresentato dall’Egitto dell’Antico Testamento, luogo in cui « si
mangia brodo », come afferma il celebre detto
[6],
ma anche luogo di peccato e di mondanità. Si esige dunque una forte rottura con
il passato, con la propria terra (xeniteia),
con la famiglia e il mondo degli uomini. Ma questa fuga resta solo un mezzo per
la preghiera continua, la « memoria Dei », il vivere sempre sotto lo sguardo di
Dio, mantenendo un’assiduità assoluta con lui. Secondo il monachesimo
di Scete, la solitudine permette di vivere in unione costante con Dio e di
lottare corpo a corpo con i demoni che ogni monaco porta dentro di sé.
La solitudine è dunque il luogo del combattimento invisibile e quindi della
graduale unione con Dio. Il Signore infatti è presente dappertutto, come grida
Abba Daniele ad Abba Amoe: « Chi ci toglierà Dio? Dio è in cella, ma Dio è anche
fuori! »
[7],
e nella versione armena: « Chi ci toglierà ora il Signore? Gli occhi del Signore
ci vedono in ogni circostanza e in ogni luogo! »
[8].
Opera del monaco di Scete è dunque « stare sempre alla presenza di Dio »
[9],
e abbisogna di vigilanza, di custodia del cuore, di continuo esercizio al
discernimento. Significativamente, in questa struttura di vita lo Spirito santo
occupa un posto privilegiato perché è solo con
il suo aiuto che il monaco può conoscere le motivazioni dei suoi pensieri, dei
suoi sentimenti, delle sue azioni.
Gli apoftegmi testimoniano costantemente la ricerca delle
motivazioni, il discernimento spirituale su di esse, la durissima ascesi su di
esse per dominarle o portarle a termine nella perseveranza. Il peso che nel
monachesimo cenobitico ha l’osservanza della Regola,
nella vita anacoretica è dato allo sforzo del discernimento. La legittimità o la
bontà di un comportamento non deriva da una norma, da una regola stabilita e
accettata una volta per tutte, ma dal giudizio, frutto dell’operazione del
discernimento, il quale è capace di distinguere ciò che è conforme allo Spirito
santo da ciò che è suggerito dal demonio.
Vi è
dunque un personalismo accentuato che può dare origine a comportamenti diversi e
pluralistici e che a volte forgia anche monaci bizzarri, fantasiosi e singolari,
ma che normalmente dovrebbe garantire una fedeltà quotidiana allo Spirito santo.
La solitudine del deserto d’altronde richiede e rende possibile questo
itinerario spirituale ben
motivato dagli apoftegmi sul discernimento
[10],
e dalla conferenza sulla « discretio » registrata da Cassiano
[11].
Questa fuga nella solitudine è presente anche nel
monachesimo benedettino e nella Regola che testimonia
influenze orientali degli apoftegmi nei capitoli 67,4-6 sui fratelli mandati in
viaggio, nel capitolo 66 sui portinai e nei capitoli 50 e 51 sui monaci fuori
monastero; tuttavia la solitudine riceve nella « Regula Benedicti » una forma
più cenobitica, la forma della stabilità praticata attraverso la clausura.
Infatti, alla fine del capitolo 4 Benedetto, dopo aver elencato gli strumenti
delle buone opere, dice che questi devono essere adoperati nell’officina che è
il monastero: « Officina vero, ubi haec omnia diligenter operemur, claustra sunt
monasterii et stabilitas in congregatione » (RB 4,78). Dunque i recinti del
monastero servono a salvaguardare la solitudine del monaco e soprattutto a
permettergli di usare tutti gli strumenti necessari per arrivare alla vita di
perfezione cristiana.
Il monastero benedettino non può conoscere la solitudine della
colonia anacoretica di Scete,
né si
può avvalere della situazione geografica del
deserto, ma la clausura non è forse il modo occidentale e cenobita per vivere
quella separazione dal mondo, dall’Egitto biblico, che i padri del deserto
giudicavano essenziale alla loro vita? Non è forse significativo che la clausura
(non in senso stretto come oggi viene praticata nei monasteri femminili) sia
stata la realizzazione cenobitica della solitudine del deserto nei monasteri
pacomiani? Certo Benedetto nella Regola non fa un elogio esplicito della
solitudine: nel capitolo 1 sulle differenti specie di monaci dedica un paragrafo
agli eremiti e non li presenta come una deviazione del monachesimo,
come invece i monaci girovaghi e sarabaiti; sembra tenerli in grande
considerazione, ma li lascia da parte e non li prevede nella sua « forma vitae
», preferendo dedicarsi al « coenobitarum fortissimum genus ». Tuttavia lo
spirito di solitudine, bene prezioso per i padri del deserto, resta tale anche
per Benedetto che cerca di renderlo presente nella comunità cenobitica
attraverso la clausura, il silenzio, la stabilità: egli sa che la solitudine è
tesa all’esichia. Benedetto
infatti insiste fortemente sul pensiero della presenza di Dio, al capitolo 4,49
dove, tra gli strumenti delle buone opere, richiede « l’essere
convinti che in ogni luogo Dio ci guarda »; al
capitolo 7,13 dove il primo grado di umiltà è quello acquistabile dall’uomo
conscio che dal cielo Dio lo osserva sempre e che in ogni luogo le sue azioni
sono sempre scorte dallo sguardo divino »
(aestimet se homo de caelis a Deo semper respici omni hora, et facta sua omni
loco ab aspectu Divinitatis videri); e al capitolo 19,1-2 dove
confessa: « Noi crediamo che la presenza divina si estenda dappertutto . . .
crediamolo tuttavia in modo speciale (maxime tamen) senza
alcun dubbio quando partecipiamo all’ufficio liturgico ».
Certo queste direttive della « Regula Benedicti » possono sembrare
tese unicamente a salvaguardare il monaco dai peccati più che ad invitarlo all’assiduità
e all’amore trasfigurante di Dio, ma il genere letterario della Regola forse non
permetteva a Benedetto l’espressione di quella teologia spirituale cui lui
mirava.
Riguardo poi al discernimento sui movimenti interiori, sui
pensieri, la Regola nel primo grado di umiltà dà certamente alcune direttive, ma
queste risultano depauperate rispetto a quelle elaborate dalla spiritualità
scetiota; si ricorda la presenza di Dio, la sua capacità a scrutare il cuore e i
pensieri dell’uomo (RB 7,10-30), il giudizio di Dio che devono inculcare il
timore di Dio nel monaco e portarlo all’adempimento dei comandamenti di Dio, ma
questo risulta più esteriore rispetto all’insegnamento dei padri. Solo al
capitolo 4, riguardo agli strumenti delle buone opere, abbiamo alcune parole che
si avvicinano alla dottrina scetiota sulla custodia del cuore e sul
discernimento. Benedetto chiede di « spezzare i cattivi pensieri che si
affacciano al cuore su Cristo e manifestarli al padre spirituale » (4,50) e di «
vegliare incessantemente sulle azioni della vita » (4,48), riassumendo qui
l’essenziale del metodo della lotta spirituale.
Questo è il « locus » in cui Benedetto più si avvicina
all’atteggiamento dei padri sul discernimento; l’insieme della Regola resta
molto distante dalla dottrina del deserto. Le stesse Istituzioni di Cassiano,
che trattano della lotta contro i differenti tipi di pensieri che possono
sorgere nel cuore dei monaci, non trovano nessun riscontro nella Regola dove la
semplice osservanza, l’obbedienza all’abate e la « memoria Dei » sembrano essere
sufficienti nella lotta contro le tentazioni.
Resta evidente dunque la differenza tra i due regimi: nel
monachesimo scetiota il fondamento, l’opera del monaco
è costituita dal discernimento spirituale, nella « Regula Benedicti » dal «
militare sub regula vel abbate », di fronte al Signore presente dappertutto.
B)
Il padre spirituale e l’abate benedettino
Nel
monachesimo
del deserto il ruolo del padre spirituale riveste un’importanza grandissima e
centrale. L’abba è un monaco giunto ad un grado di perfezione, di purificazione
e di realizzazione dell’ideale spirituale: un uomo penetrato dalla carità
divina, capace di trasmettere agli altri qualcosa di questo spirito. Non è un
superiore, nel senso canonico come siamo abituati a ritenerlo noi occidentali,
ma è un anziano al quale i monaci possono rivolgersi per avere una guida e un
riferimento nella vita spirituale. La lunga esperienza del deserto e della
solitudine gli hanno insegnato i segreti della vita monastica, l’arte della
vittoria nella lotta contro i demoni. Munito dei carismi del discernimento degli
spiriti e della paternità spirituale, egli attira attorno a sé
discepoli cui assicura una formazione rude ma profonda, chiedendo loro
obbedienza e imitazione. Non indottrina il discepolo, « non gli inculca teorie,
ma tende a liberare il fratello da quelle che poteva avere in testa e cerca di
renderlo capace di intendere la voce di Dio nel silenzio del deserto »
[12].
L’abba predica e insegna molto di più dando esempi che ordini.
Si vedano i molti esempi negli apoftegmi in cui l’attitudine non
direttiva del padre spirituale sconcerta a volte i discepoli. Molti chiedono
ordini e direttive precise, ma l’abba resta riservato e lascia una grande
libertà al monaco
[13]. È così che questi apprende poco a poco il discernimento
spirituale, imparando non da un legislatore ma da un modello. Il rapporto del
discepolo con il suo abba si fonde soprattutto sulla manifestazione dei
pensieri, dei movimenti interiori, sulla sincerità e l’apertura di cuore
assolute. Si ricordi anche che la paternità spirituale nel deserto è a volte
collegiale proprio
perché non
è totalitaria. I discepoli si rivolgono a diversi anziani e questi cercano la
sinfonia per non contraddirsi reciprocamente, pur conservando ciascuno il
proprio timbro specifico: la coscienza di essere organi dello stesso e unico
spirito fa sì che l’abba non abbia una « sua » dottrina e delle « sue » idee, ma
che tutti diventino ermeneuti dello Spirito in una tradizione univoca assimilata
fedelmente e in modo personale. Vi è certamente un’obbedienza all’abba, ma
questa resta un mezzo per lasciarsi formare dal padre spirituale: infatti
l’obbedienza del monaco scetiota è dovuta anche
a chi non esercita autorità su di lui, essendo legge il rinunciare ai propri
gusti, alle proprie preferenze in favore del fratello.
Nella « Regula Benedicti » lo spirito di obbedienza è sottolineato
continuamente e il ruolo fondamentale dell’abate è evidente a tal punto da far
sembrare l’abate benedettino come il successore dell’abba di Scete, l’elemento
più manifesto di continuità con il
monachesimo
del deserto. A. Veilleux afferma che questo fatto è una deviazione dovuta a
Cassiano che tramanda all’Occidente cenobita un’autorità anacoretica, ma anche
questo dimostra nel nostro caso l’effettiva somiglianza tra l’abba del deserto e
l’abate benedettino previsto dalla Regola. Né
si dimentichi che nella « Regula Magistri » e poi nella « Regula Benedicti » il
trattato riguardante l’abate è posto all’inizio, subito dopo il prologo, quale
capitolo che di fatto apre la regola. Tutta la vita monastica gravita attorno
all’abate che nel monastero fa le veci di Cristo
(Christi enim agere vices in monasterio creditur) (RB 2,1) e
merita il nome di abba, padre
(ivi). Egli è
didascalo della comunità con le parole e con l’esempio (RB 2,11-12) e deve
guidare la comunità come un padre spirituale guida i propri figli, rendendo
conto a Dio di ciascuno di loro (RB 2,37-40). Egli non è né
emanazione della comunità né soltanto un organo
della comunione fraterna, ma è l’abba, il padre della comunità che insegna la
legge di Dio, fa osservare la Regola, vigila su ogni fratello chiedendogli
obbedienza e amore devoto.
A mio giudizio, la differenza sta nel fatto che l’obbedienza
benedettina è più formale, determinata dalla presenza della Regola ed è più
esteriore rispetto a quella del
monachesimo
del deserto. D’altronde l’abba benedettino è una figura destinata ad essere
istituzionale, mentre l’abba scetiota permane una figura carismatica attorno
alla quale liberamente si radunano i discepoli. Non deriva da questo il fatto
che per Scete l’abba è sempre un modello (« Sii un modello, non un legislatore!
»), mentre nella « Regula Benedicti » l’abba deve insegnare con le parole ai
capaci e ai ricettivi
(capacibus discipulis)
e con l’esempio ai meno fervorosi e ai più semplici
(duris corde vero et simplicioribus)?
C)
L'ascesi
Noi siamo abituati a pensare ai padri del deserto come a coloro che
ci han dato un esempio eroico e fanatico di ascesi, ma in realtà il monaco di
Scete è austero verso se stesso, secondo la propria misura, quanto è pieno di
misericordia e di condiscendenza verso gli altri. Leggendo le vite e gli
apoftegmi in realtà si rimane colpiti dalla discrezione che regna su tutte le
pratiche e dalla moderazione che impedisce ai monaci di darsi all’ideale di
perfezione e di santità senza equilibrio e troppo
passionalmente. Non mancano esempi in cui si avvertono
tentativi folli di ascesi dovuti a caratteri non privi di squilibri, ma questi
casi sono citati sempre come esempi da non seguire.
La dottrina ufficiale di Scete insiste sulla discrezione (così
legata al tema del discernimento degli spiriti!) come un’attitudine necessaria
sia per guidare gli altri che per determinare il proprio comportamento. Certo i
monaci di Scete erano sovente dei
fellah rudi per la loro abituale vita desertica e quindi muniti di
enormi possibilità di ascesi, ma di questa mantenevano il senso relativo,
sapendo che la rinuncia al proprio « io » e la carità valevano più delle opere
ascetiche.
D’altronde l’ascesi del deserto non era
né cinica, né
angosciata né negativa essendo reputata
soltanto un mezzo di comunione con Dio, di trasfigurazione del proprio essere,
di assunzione di un corpo pneumatico. Già Antonio, in una delle sue lettere,
scriveva che « attraverso l’ascesi tutto il corpo è trasformato e messo sotto il
potere dello Spirito Santo . . . perché già in
questa vita è accordata quella partecipazione al corpo spirituale che si
riceverà nella resurrezione dei giusti »
[14].
C’è dunque nell’ascesi del deserto un metodo spirituale che ha come
fine il raggiungimento dell’unificazione, della monotropia, dell’integrazione di
tutto lo psichismo disposto ad accogliere la grazia: l’ascesi infatti non è
altro che un modo di far partecipare tutto l’essere umano, anche il corpo, anche
la carne, alla ricerca di Dio, il quale è capace di trasfigurare questa miseria
in gloria, già qui e adesso. Solo così l’uomo si prepara ad essere carità nella
ricerca di Dio e nel servizio ai fratelli. Un apoftegma di Bessarione ben
esprime il fine della dinamica dell’ascesi: « Il monaco deve essere tutto
occhio, come i cherubini e i serafini! »
[15].
Benedetto nella sua Regola impartisce tutta una serie di direttive
ascetiche, ma è anche vero che sembra sentire la decadenza e la distanza tra il
monachesimo del deserto e quello del suo tempo. Egli
idealizza i padri del deserto perché legge in
Occidente testi orientali e soprattutto è tentato, con la sua mentalità
cenobita, di trarre da quegli esempi norme, leggi e regole, un’osservanza
comune, mentre invece a Scete tutto questo era pratica personale dovuta solo al
discernimento degli spiriti. Proprio questo porta Benedetto ad un certo
pessimismo quando misura la distanza tra i padri e i suoi contemporanei. Si veda
ad esempio l’uso che egli fa di due apoftegmi provenienti dal deserto.
L’apoftegma 57 del capitolo 4 della serie sistematica ricorda che «
un anziano si recò da uno dei padri e questo, dopo aver cotto un po’ di
lenticchie, disse: “Facciamo una piccola sinassi”. L’uno finì tutto il salterio
e l’altro recitò a memoria i due grandi profeti. Giunto il mattino, l’anziano
che era venuto se ne andò e si erano dimenticati di mangiare »
[16]. Benedetto nella Regola dice che i padri recitavano il salterio
una volta al giorno e perciò invita i suoi monaci a dirlo almeno in una
settimana
[17].
Così pure a proposito del vino stava scritto: « Raccontarono al
Padre Poemen di un monaco che non beveva vino. Il vino, disse, non è per nulla
cosa da monaci
»
[18].
Da qui, nella Regola (RB 40,6) la deduzione che « il vino non è assolutamente
fatto per i monaci » e il tono frustrato con cui Benedetto acconsente all’uso
del vino nel suo monastero.
Benedetto adatta, tenuto conto della realtà dei monaci d’Italia del
VI secolo, i principi stessi dell’ascesi del deserto che resta per lui una fonte
di nostalgia: anche se insiste molto di più sull’osservanza della Regola che
sull’ascesi personale, coglie l’esigenza estrema di quest’ultima anche nella
vita cenobitica.
3. Conclusione
Il
monachesimo
scetiota ha avuto una chiara influenza sulla « Regula Benedicti » sia attraverso
le vite e i detti, sia soprattutto attraverso l’opera di Cassiano. Alla dottrina
dei padri del deserto Benedetto è davvero restato fedele e anche se si confessa
rosso di vergogna (RB 73,7) pensando al loro esempio, in realtà si fa ermeneuta
per l’Occidente di tutto il loro monachesimo.
La sua nostalgia di Scete è « dinamica », una nostalgia che lascia al monaco di
andare oltre la regola, sempre nello spazio dell’obbedienza all’unico Spirito
che ha animato Scete e Subiaco.
[1]
A.
De
Vogüé,
La Règle de saint Benoît, IV:
Commentaire historique et critique (Sources Chrét., 184) Paris 1971,
100-103.
[2]
A.
Vogüé,
La Règle
de saint Benoìt, IV, 102
[3] BENEDETTO
D’ANIANO, Concordia Regularum Patrum, PL 103, 715A.
[4] Cfr E.
BIANCHI, L’autorità alle origini del monachesimo, in Servitium 7 (1973)
819-850.
[5] ARSENIO, 1,
in Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. MORTARI, I, Roma
1975, 97.
[6] ACHILLE 3,
in Vita e detti..., I, 130.
[7] DANIELE 5,
in Vita e detti..., I, 175.
[8] Arm. 11. 4
R III. 133.
[9] Arm. 11. 30
III. 128.
[10]
Cfr il cap. X della serie sistematica dei Detti dei Padri del deserto, a
cura di L. MORTARI, Roma 1972, 174-218.
[11]
CASSIANO, Conlationes, II, a cura di E. PICHERY (Sources Chrét., 42)
Paris 1955, 109-137.
[12]
ABBA ISAÏE, Spiritualité orientale, Bellefontaine 1970, 19.
[13]
SISOES 45, Vita e detti..., II, 174; POEMEN 174, Vita e detti..., 125.
[14]
ANTONIO, Lettere, I, 4, Bellefontaine 1976, 48.
[15]
BESSARIONE 11, Vita e detti..., I, 157.
[16]
Detti dei Padri del deserto, 85.
[17]
Cfr RB 18,25; cfr anche Vitae Patrum 5,4,57.
[18]
POEMEN, 19 Vita e detti..., II, 87.
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21 giugno 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net