E Bianchi

Comunità di Bose

CENOBITISMO BENEDETTINO E MONACHESIMO DI SCETE

Tratto da “S. Benedetto e l’Oriente cristiano” -

Atti del Simposio tenuto all’abbazia della Novalesa (19-23 maggio 1980)

NOVALESA 1981


 

Questa comunicazione porta come titolo significativo e appropriato « Cenobitismo benedettino e monachesimo di Scete » e non « Regula Benedicti e sue fonti orientali ». Questo perché la mia competenza non è filologica e soprattutto perché questo colloquio prevede già due relazioni di P. Jean Gribomont e di P. Pio Tamburrino che in modo analitico e filologico attestano le influenze letterarie delle Regole di Basilio e di Pacomio sulla « Regula Benedicti ». Io cercherò invece di fare un confronto tra il monachesimo orientale di Scete e il cenobitismo benedettino, tenendo presente che il rapporto tra i due monachesimi è stato mediato in larga misura da Cassiano, un testimone molto discutibile e secondo alcuni ambiguo, dei padri del deserto.

 

1. Benedetto e i Padri orientali

Benedetto così conclude la sua Regola al capitolo 73:

1)   Questa regola l’abbiamo poi abbozzata affinché, osservandola nei monasteri, diamo prova di avere almeno dignità di costumi e un certo avviamento di vita monastica (initium conversationis).

2)   Ma per chi vuole procedere celermente verso la perfezione di tale vita, vi sono i precetti (doctrinae) dei santi padri, la cui osservanza conduce l’uomo alla massima perfezione.

3)   Quale pagina infatti o quale testo di autorità divina dell’Antico e del Nuovo Testamento non costituisce una norma rettissima per la vita umana?

4)   O quale opera dei santi padri cattolici non risuona di insegnamenti tali che possiamo giungere per un retto cammino al nostro creatore?

5)    Ed inoltre le Collazioni dei padri, le Istituzioni e le loro vite, nonché la Regola del nostro santo padre Basilio

6)    che altro non sono se non strumenti di virtù per monaci che vivono in bontà e obbedienza?

7)    Per noi invece, pigri, sviati e negligenti, tutto questo rappresenta

motivo di vergogna. (Nobis autem desidiosis et male viventibus atque negligentibus rubor confusionis est).

8)   Chiunque tu sia dunque, che ti affretti alla patria celeste, poni in pratica, con l’aiuto di Cristo, questa minima regola delineata come semplice inizio (hanc minimam inchoationis regulam descriptam).

9)  E allora con la protezione di Dio giungerai finalmente a quelle più alte vette di sapienza e di virtù che sopra abbiamo menzionato. Amen.

Queste parole che chiudono la Regola di Benedetto sorprendono ogni monaco intento ad osservarla, ma sono di una sapienza infinita perché assicurano al monaco la possibilità di un dinamismo di vita spirituale che va oltre la Regola stessa.

Mi permetto di ricordare confidenzialmente che quando terminai la stesura della povera regola della nostra piccola comunità di Bose, quasi sentii il bisogno di trascrivere appena parafrasato l’epilogo di Benedetto con queste parole: « La presente regola spirituale è un aiuto per te, uno strumento per vivere l’Evangelo e soprattutto un mezzo di comunione fraterna. Essa vuole essere per te non una legge, ma una descrizione di vita senza la quale non è possibile edificare una comunità e avanzare in una creazione comune; essa contiene il minimo di direttive comuni per principianti. Ma se tu vuoi avanzare celermente nella vita spirituale, ricorri alle Regole dei nostri padri Basilio e Benedetto e agli insegnamenti dei padri del deserto che prima di te e con maggiore forza e sapienza han camminato sulla strada della vita cenobitica ». Per ragioni diverse questo epilogo non è presente nella stesura definitiva della regola, accettata e assunta dalla comunità nel 1973, anche se in alcuni punti della regola queste frasi riappaiono tali e quali. Eppure resto convinto che tale era ed è la sensazione mia e dei fratelli di fronte alla nostra povera regola. Ricordo questo perché mi pare di aver vissuto e di vivere di questa conclusione benedettina l’ermeneutica delineata in modo acuto da P. Adalbert De Vogüé nel suo commentario [1].

Quali reazioni vuol destare una tale conclusione nei destinatari della Regola? Innanzitutto Benedetto fa arrossire i monaci di fronte alla loro mediocrità per stimolarli ad un’ascesi più alta e ad una carità più fervente. Già nel corpo della Regola, Benedetto aveva fatto dei riferimenti ai santi padri del deserto quando, al capitolo 18, 25, ricordava che essi leggevano in un sol giorno il salterio con i suoi consueti cantici, e richiedeva così ai suoi monaci « tiepidi » (tepidi) di recitare l’intero salterio in una settimana, e ancora al capitolo 40,6 dove, non sapendo persuadere i monaci del suo tempo, tollera l’uso del vino a patto che i monaci non giungano alla sazietà e all’ubriachezza, ricordando loro che si legge — sottointeso nei santi padri — che il vino non è per i monaci (Licei legamus vinum omnino monachorum non esse).

Benedetto dunque ricorda a più riprese e soprattutto nell’epilogo l’eroismo e la santità dei padri del deserto per incitare i fratelli ad osservare la regola e confessa con nostalgia che i suoi contemporanei occidentali appaiono « desidiosi, male viventes, negligentes » (73,7), « tepidi » (18,25), monaci per i quali occorre essere « contuentes infirmorum inbecillitatem (40,3) », uomini che « persuadere non potest » (40,6).

L’altra reazione che Benedetto vuole destare è quella di orientare i monaci verso la perfezione rappresentata dai padri orientali, veri modelli di cui Benedetto fa memoria proponendoli come esempi nella sua impotenza a far ripetere i gesti di perfezione e di sapienza monastica.

« Frutto di un’epoca di decadenza, la regola non è fiera di se stessa — scrive A. de Vogüé— ed è per questo che cerca, con il riferimento ai padri orientali, di dare a se stessa un’apertura, una dinamica interna che anziché soddisfare il monaco nell’osservarla, lo muova oltre, verso un ideale ormai apparentemente inaccessibile » [2].

Questa conclusione di Benedetto non è solo un genere letterario retorico, capace di protestare l’umiltà di Benedetto e della sua Regola, ma è anche un’autentica confessione del Padre del monachesimo occidentale. Questo anche se in realtà la « Regula Benedicti » non contiene versetto che non possa avvalersi di paralleli, citazioni, allusioni agli scritti di Pacomio, di Basilio, di Cassiano e quindi dei padri del deserto egiziano.

Benedetto d’Aniano diceva a ragione che la Regola benedettina è un covone, una sporta degli insegnamenti dei santi padri e che di essi era una fedele testimonianza [3]. Certamente, per quel che riguarda i padri del deserto si dovrebbe parlare di testimonianze più che di fonti, tuttavia la Regola non è ad essi estranea anche se sovente, tramite la « Regula Magistri » e quindi Cassiano, li interpreta in modo molto marcato ed occidentale [4].

 

2. Vita monastica del deserto e vita benedettina

Quando si pensa alla vita monastica dei padri del deserto a Scete, Nitria, Kellia, si è soliti vederla caratterizzata dall’eremitismo. In realtà i monaci eremiti erano più rari di quanto siamo abituati a pensare e sovente l’eremo era solamente temporaneo. Nel deserto egiziano certo non si praticava una vita cenobitica, ma la vita anacoretica trovò una sua continuità e un suo sviluppo in quella cenobitica pacomiana, dove emerge una vera teologia della « koinonia » di cui avranno netta coscienza soprattutto i primi pacomiani.

I monaci di Scete per lo più vivono in gruppi i quali, pur non avendo una regola precisa e un’organizzazione rigorosa, mostrano di avere relazioni reciproche che diventano prassi generale almeno una volta alla settimana, il sabato e la domenica. La celebrazione della liturgia, la conferenza spirituale tenuta dall’anziano carismatico, il colloquio fraterno, il pasto comune radunavano i monaci che abitavano in celle distanti l’una dall’altra, ma capaci di accogliere un gruppo ristretto di persone, in molti casi discepoli raccolti attorno ad un anziano che li istruiva ricevendo da loro diversi servizi materiali. La vita era segnata dal lavoro manuale, soprattutto fabbricazione di stuoie, corde, lavori artigianali, e dalla preghiera continua, soprattutto mnemonica. Nelle fonti il termine Scete (attuale Uadi El Natrun) ingloba anche Nitria e Kellia (in realtà luoghi monastici distinti, situati più a Nord) a causa della presenza di Macario l’Alessandrino in tutti e tre i luoghi e soprattutto a motivo della somiglianza della « forma vitae ». La tradizione e la sapienza di questi luoghi è conservata nelle diverse « Historiae monachorum » e nei « Paterikà » raccolti e diffusi da visitatori e ospiti.

Ma quali erano i caratteri specifici di questo monachesimo scetiota e quale confronto può essere fatto con il monachesimo benedettino?

 

A) La fuga nella solitudine

In realtà non si insiste tanto sulla solitudine individuale quanto sulla solitudine del deserto. Il consiglio fondamentale, « fuggi gli uomini », registrato nell’apoftegma di Abba Arsenio [5] è diretto ad evitare il peccato, la mondanità, le tentazioni e le seduzioni della carne. La zona abitata, il mondo per i monaci di Scete è rappresentato dall’Egitto dell’Antico Testamento, luogo in cui « si mangia brodo », come afferma il celebre detto [6], ma anche luogo di peccato e di mondanità. Si esige dunque una forte rottura con il passato, con la propria terra (xeniteia), con la famiglia e il mondo degli uomini. Ma questa fuga resta solo un mezzo per la preghiera continua, la « memoria Dei », il vivere sempre sotto lo sguardo di Dio, mantenendo un’assiduità assoluta con lui. Secondo il monachesimo di Scete, la solitudine permette di vivere in unione costante con Dio e di lottare corpo a corpo con i demoni che ogni monaco porta dentro di . La solitudine è dunque il luogo del combattimento invisibile e quindi della graduale unione con Dio. Il Signore infatti è presente dappertutto, come grida Abba Daniele ad Abba Amoe: « Chi ci toglierà Dio? Dio è in cella, ma Dio è anche fuori! » [7], e nella versione armena: « Chi ci toglierà ora il Signore? Gli occhi del Signore ci vedono in ogni circostanza e in ogni luogo! » [8]. Opera del monaco di Scete è dunque « stare sempre alla presenza di Dio » [9], e abbisogna di vigilanza, di custodia del cuore, di continuo esercizio al discernimento. Significativamente, in questa struttura di vita lo Spirito santo occupa un posto privilegiato perché è solo con il suo aiuto che il monaco può conoscere le motivazioni dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, delle sue azioni.

Gli apoftegmi testimoniano costantemente la ricerca delle motivazioni, il discernimento spirituale su di esse, la durissima ascesi su di esse per dominarle o portarle a termine nella perseveranza. Il peso che nel monachesimo cenobitico ha l’osservanza della Regola, nella vita anacoretica è dato allo sforzo del discernimento. La legittimità o la bontà di un comportamento non deriva da una norma, da una regola stabilita e accettata una volta per tutte, ma dal giudizio, frutto dell’operazione del discernimento, il quale è capace di distinguere ciò che è conforme allo Spirito santo da ciò che è suggerito dal demonio.

Vi è dunque un personalismo accentuato che può dare origine a comportamenti diversi e pluralistici e che a volte forgia anche monaci bizzarri, fantasiosi e singolari, ma che normalmente dovrebbe garantire una fedeltà quotidiana allo Spirito santo. La solitudine del deserto d’altronde richiede e rende possibile questo itinerario spirituale ben motivato dagli apoftegmi sul discernimento [10], e dalla conferenza sulla « discretio » registrata da Cassiano [11].

Questa fuga nella solitudine è presente anche nel monachesimo benedettino e nella Regola che testimonia influenze orientali degli apoftegmi nei capitoli 67,4-6 sui fratelli mandati in viaggio, nel capitolo 66 sui portinai e nei capitoli 50 e 51 sui monaci fuori monastero; tuttavia la solitudine riceve nella « Regula Benedicti » una forma più cenobitica, la forma della stabilità praticata attraverso la clausura. Infatti, alla fine del capitolo 4 Benedetto, dopo aver elencato gli strumenti delle buone opere, dice che questi devono essere adoperati nell’officina che è il monastero: « Officina vero, ubi haec omnia diligenter operemur, claustra sunt monasterii et stabilitas in congregatione » (RB 4,78). Dunque i recinti del monastero servono a salvaguardare la solitudine del monaco e soprattutto a permettergli di usare tutti gli strumenti necessari per arrivare alla vita di perfezione cristiana.

Il monastero benedettino non può conoscere la solitudine della colonia anacoretica di Scete, si può avvalere della situazione geografica del deserto, ma la clausura non è forse il modo occidentale e cenobita per vivere quella separazione dal mondo, dall’Egitto biblico, che i padri del deserto giudicavano essenziale alla loro vita? Non è forse significativo che la clausura (non in senso stretto come oggi viene praticata nei monasteri femminili) sia stata la realizzazione cenobitica della solitudine del deserto nei monasteri pacomiani? Certo Benedetto nella Regola non fa un elogio esplicito della solitudine: nel capitolo 1 sulle differenti specie di monaci dedica un paragrafo agli eremiti e non li presenta come una deviazione del monachesimo, come invece i monaci girovaghi e sarabaiti; sembra tenerli in grande considerazione, ma li lascia da parte e non li prevede nella sua « forma vitae », preferendo dedicarsi al « coenobitarum fortissimum genus ». Tuttavia lo spirito di solitudine, bene prezioso per i padri del deserto, resta tale anche per Benedetto che cerca di renderlo presente nella comunità cenobitica attraverso la clausura, il silenzio, la stabilità: egli sa che la solitudine è tesa all’esichia. Benedetto infatti insiste fortemente sul pensiero della presenza di Dio, al capitolo 4,49 dove, tra gli strumenti delle buone opere, richiede « l’essere convinti che in ogni luogo Dio ci guarda »; al capitolo 7,13 dove il primo grado di umiltà è quello acquistabile dall’uomo conscio che dal cielo Dio lo osserva sempre e che in ogni luogo le sue azioni sono sempre scorte dallo sguardo divino » (aestimet se homo de caelis a Deo semper respici omni hora, et facta sua omni loco ab aspectu Divinitatis videri); e al capitolo 19,1-2 dove confessa: « Noi crediamo che la presenza divina si estenda dappertutto . . . crediamolo tuttavia in modo speciale (maxime tamen) senza alcun dubbio quando partecipiamo all’ufficio liturgico ».

Certo queste direttive della « Regula Benedicti » possono sembrare tese unicamente a salvaguardare il monaco dai peccati più che ad invitarlo all’assiduità e all’amore trasfigurante di Dio, ma il genere letterario della Regola forse non permetteva a Benedetto l’espressione di quella teologia spirituale cui lui mirava.

Riguardo poi al discernimento sui movimenti interiori, sui pensieri, la Regola nel primo grado di umiltà dà certamente alcune direttive, ma queste risultano depauperate rispetto a quelle elaborate dalla spiritualità scetiota; si ricorda la presenza di Dio, la sua capacità a scrutare il cuore e i pensieri dell’uomo (RB 7,10-30), il giudizio di Dio che devono inculcare il timore di Dio nel monaco e portarlo all’adempimento dei comandamenti di Dio, ma questo risulta più esteriore rispetto all’insegnamento dei padri. Solo al capitolo 4, riguardo agli strumenti delle buone opere, abbiamo alcune parole che si avvicinano alla dottrina scetiota sulla custodia del cuore e sul discernimento. Benedetto chiede di « spezzare i cattivi pensieri che si affacciano al cuore su Cristo e manifestarli al padre spirituale » (4,50) e di « vegliare incessantemente sulle azioni della vita » (4,48), riassumendo qui l’essenziale del metodo della lotta spirituale.

Questo è il « locus » in cui Benedetto più si avvicina all’atteggiamento dei padri sul discernimento; l’insieme della Regola resta molto distante dalla dottrina del deserto. Le stesse Istituzioni di Cassiano, che trattano della lotta contro i differenti tipi di pensieri che possono sorgere nel cuore dei monaci, non trovano nessun riscontro nella Regola dove la semplice osservanza, l’obbedienza all’abate e la « memoria Dei » sembrano essere sufficienti nella lotta contro le tentazioni.

Resta evidente dunque la differenza tra i due regimi: nel monachesimo scetiota il fondamento, l’opera del monaco è costituita dal discernimento spirituale, nella « Regula Benedicti » dal « militare sub regula vel abbate », di fronte al Signore presente dappertutto.

 

B) Il padre spirituale e l’abate benedettino

Nel monachesimo del deserto il ruolo del padre spirituale riveste un’importanza grandissima e centrale. L’abba è un monaco giunto ad un grado di perfezione, di purificazione e di realizzazione dell’ideale spirituale: un uomo penetrato dalla carità divina, capace di trasmettere agli altri qualcosa di questo spirito. Non è un superiore, nel senso canonico come siamo abituati a ritenerlo noi occidentali, ma è un anziano al quale i monaci possono rivolgersi per avere una guida e un riferimento nella vita spirituale. La lunga esperienza del deserto e della solitudine gli hanno insegnato i segreti della vita monastica, l’arte della vittoria nella lotta contro i demoni. Munito dei carismi del discernimento degli spiriti e della paternità spirituale, egli attira attorno a discepoli cui assicura una formazione rude ma profonda, chiedendo loro obbedienza e imitazione. Non indottrina il discepolo, « non gli inculca teorie, ma tende a liberare il fratello da quelle che poteva avere in testa e cerca di renderlo capace di intendere la voce di Dio nel silenzio del deserto » [12]. L’abba predica e insegna molto di più dando esempi che ordini.

Si vedano i molti esempi negli apoftegmi in cui l’attitudine non direttiva del padre spirituale sconcerta a volte i discepoli. Molti chiedono ordini e direttive precise, ma l’abba resta riservato e lascia una grande libertà al monaco [13]. È così che questi apprende poco a poco il discernimento spirituale, imparando non da un legislatore ma da un modello. Il rapporto del discepolo con il suo abba si fonde soprattutto sulla manifestazione dei pensieri, dei movimenti interiori, sulla sincerità e l’apertura di cuore assolute. Si ricordi anche che la paternità spirituale nel deserto è a volte collegiale proprio perché non è totalitaria. I discepoli si rivolgono a diversi anziani e questi cercano la sinfonia per non contraddirsi reciprocamente, pur conservando ciascuno il proprio timbro specifico: la coscienza di essere organi dello stesso e unico spirito fa sì che l’abba non abbia una « sua » dottrina e delle « sue » idee, ma che tutti diventino ermeneuti dello Spirito in una tradizione univoca assimilata fedelmente e in modo personale. Vi è certamente un’obbedienza all’abba, ma questa resta un mezzo per lasciarsi formare dal padre spirituale: infatti l’obbedienza del monaco scetiota è dovuta anche a chi non esercita autorità su di lui, essendo legge il rinunciare ai propri gusti, alle proprie preferenze in favore del fratello.

Nella « Regula Benedicti » lo spirito di obbedienza è sottolineato continuamente e il ruolo fondamentale dell’abate è evidente a tal punto da far sembrare l’abate benedettino come il successore dell’abba di Scete, l’elemento più manifesto di continuità con il monachesimo del deserto. A. Veilleux afferma che questo fatto è una deviazione dovuta a Cassiano che tramanda all’Occidente cenobita un’autorità anacoretica, ma anche questo dimostra nel nostro caso l’effettiva somiglianza tra l’abba del deserto e l’abate benedettino previsto dalla Regola. si dimentichi che nella « Regula Magistri » e poi nella « Regula Benedicti » il trattato riguardante l’abate è posto all’inizio, subito dopo il prologo, quale capitolo che di fatto apre la regola. Tutta la vita monastica gravita attorno all’abate che nel monastero fa le veci di Cristo (Christi enim agere vices in monasterio creditur) (RB 2,1) e merita il nome di abba, padre (ivi). Egli è didascalo della comunità con le parole e con l’esempio (RB 2,11-12) e deve guidare la comunità come un padre spirituale guida i propri figli, rendendo conto a Dio di ciascuno di loro (RB 2,37-40). Egli non è emanazione della comunità soltanto un organo della comunione fraterna, ma è l’abba, il padre della comunità che insegna la legge di Dio, fa osservare la Regola, vigila su ogni fratello chiedendogli obbedienza e amore devoto.

A mio giudizio, la differenza sta nel fatto che l’obbedienza benedettina è più formale, determinata dalla presenza della Regola ed è più esteriore rispetto a quella del monachesimo del deserto. D’altronde l’abba benedettino è una figura destinata ad essere istituzionale, mentre l’abba scetiota permane una figura carismatica attorno alla quale liberamente si radunano i discepoli. Non deriva da questo il fatto che per Scete l’abba è sempre un modello (« Sii un modello, non un legislatore! »), mentre nella « Regula Benedicti » l’abba deve insegnare con le parole ai capaci e ai ricettivi (capacibus discipulis) e con l’esempio ai meno fervorosi e ai più semplici (duris corde vero et simplicioribus)?

 

C) L'ascesi

Noi siamo abituati a pensare ai padri del deserto come a coloro che ci han dato un esempio eroico e fanatico di ascesi, ma in realtà il monaco di Scete è austero verso se stesso, secondo la propria misura, quanto è pieno di misericordia e di condiscendenza verso gli altri. Leggendo le vite e gli apoftegmi in realtà si rimane colpiti dalla discrezione che regna su tutte le pratiche e dalla moderazione che impedisce ai monaci di darsi all’ideale di perfezione e di santità senza equilibrio e troppo passionalmente. Non mancano esempi in cui si avvertono tentativi folli di ascesi dovuti a caratteri non privi di squilibri, ma questi casi sono citati sempre come esempi da non seguire.

La dottrina ufficiale di Scete insiste sulla discrezione (così legata al tema del discernimento degli spiriti!) come un’attitudine necessaria sia per guidare gli altri che per determinare il proprio comportamento. Certo i monaci di Scete erano sovente dei fellah rudi per la loro abituale vita desertica e quindi muniti di enormi possibilità di ascesi, ma di questa mantenevano il senso relativo, sapendo che la rinuncia al proprio « io » e la carità valevano più delle opere ascetiche.

D’altronde l’ascesi del deserto non era cinica, angosciata negativa essendo reputata soltanto un mezzo di comunione con Dio, di trasfigurazione del proprio essere, di assunzione di un corpo pneumatico. Già Antonio, in una delle sue lettere, scriveva che « attraverso l’ascesi tutto il corpo è trasformato e messo sotto il potere dello Spirito Santo . . . perché già in questa vita è accordata quella partecipazione al corpo spirituale che si riceverà nella resurrezione dei giusti » [14].

C’è dunque nell’ascesi del deserto un metodo spirituale che ha come fine il raggiungimento dell’unificazione, della monotropia, dell’integrazione di tutto lo psichismo disposto ad accogliere la grazia: l’ascesi infatti non è altro che un modo di far partecipare tutto l’essere umano, anche il corpo, anche la carne, alla ricerca di Dio, il quale è capace di trasfigurare questa miseria in gloria, già qui e adesso. Solo così l’uomo si prepara ad essere carità nella ricerca di Dio e nel servizio ai fratelli. Un apoftegma di Bessarione ben esprime il fine della dinamica dell’ascesi: « Il monaco deve essere tutto occhio, come i cherubini e i serafini! » [15].

Benedetto nella sua Regola impartisce tutta una serie di direttive ascetiche, ma è anche vero che sembra sentire la decadenza e la distanza tra il monachesimo del deserto e quello del suo tempo. Egli idealizza i padri del deserto perché legge in Occidente testi orientali e soprattutto è tentato, con la sua mentalità cenobita, di trarre da quegli esempi norme, leggi e regole, un’osservanza comune, mentre invece a Scete tutto questo era pratica personale dovuta solo al discernimento degli spiriti. Proprio questo porta Benedetto ad un certo pessimismo quando misura la distanza tra i padri e i suoi contemporanei. Si veda ad esempio l’uso che egli fa di due apoftegmi provenienti dal deserto.

L’apoftegma 57 del capitolo 4 della serie sistematica ricorda che « un anziano si recò da uno dei padri e questo, dopo aver cotto un po’ di lenticchie, disse: “Facciamo una piccola sinassi”. L’uno finì tutto il salterio e l’altro recitò a memoria i due grandi profeti. Giunto il mattino, l’anziano che era venuto se ne andò e si erano dimenticati di mangiare » [16]. Benedetto nella Regola dice che i padri recitavano il salterio una volta al giorno e perciò invita i suoi monaci a dirlo almeno in una settimana [17].

Così pure a proposito del vino stava scritto: « Raccontarono al Padre Poemen di un monaco che non beveva vino. Il vino, disse, non è per nulla cosa da monaci » [18]. Da qui, nella Regola (RB 40,6) la deduzione che « il vino non è assolutamente fatto per i monaci » e il tono frustrato con cui Benedetto acconsente all’uso del vino nel suo monastero.

Benedetto adatta, tenuto conto della realtà dei monaci d’Italia del VI secolo, i principi stessi dell’ascesi del deserto che resta per lui una fonte di nostalgia: anche se insiste molto di più sull’osservanza della Regola che sull’ascesi personale, coglie l’esigenza estrema di quest’ultima anche nella vita cenobitica.

 

3. Conclusione

Il monachesimo scetiota ha avuto una chiara influenza sulla « Regula Benedicti » sia attraverso le vite e i detti, sia soprattutto attraverso l’opera di Cassiano. Alla dottrina dei padri del deserto Benedetto è davvero restato fedele e anche se si confessa rosso di vergogna (RB 73,7) pensando al loro esempio, in realtà si fa ermeneuta per l’Occidente di tutto il loro monachesimo. La sua nostalgia di Scete è « dinamica », una nostalgia che lascia al monaco di andare oltre la regola, sempre nello spazio dell’obbedienza all’unico Spirito che ha animato Scete e Subiaco.

 


[1] A. De Vogüé, La Règle de saint Benoît, IV: Commentaire historique et critique (Sources Chrét., 184) Paris 1971, 100-103.

[2] A. Vogüé, La Règle de saint Benoìt, IV, 102

[3] BENEDETTO D’ANIANO, Concordia Regularum Patrum, PL 103, 715A.

[4] Cfr E. BIANCHI, L’autorità alle origini del monachesimo, in Servitium 7 (1973) 819-850.

[5] ARSENIO, 1, in Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. MORTARI, I, Roma 1975, 97.

[6] ACHILLE 3, in Vita e detti..., I, 130.

[7] DANIELE 5, in Vita e detti..., I, 175.

[8] Arm. 11. 4 R III. 133.

[9] Arm. 11. 30 III. 128.

[10] Cfr il cap. X della serie sistematica dei Detti dei Padri del deserto, a cura di L. MORTARI, Roma 1972, 174-218.

[11] CASSIANO, Conlationes, II, a cura di E. PICHERY (Sources Chrét., 42) Paris 1955, 109-137.

[12] ABBA ISAÏE, Spiritualité orientale, Bellefontaine 1970, 19.

[13] SISOES 45, Vita e detti..., II, 174; POEMEN 174, Vita e detti..., 125.

[14] ANTONIO, Lettere, I, 4, Bellefontaine 1976, 48.

[15] BESSARIONE 11, Vita e detti..., I, 157.

[16] Detti dei Padri del deserto, 85.

[17] Cfr RB 18,25; cfr anche Vitae Patrum 5,4,57.

[18] POEMEN, 19 Vita e detti..., II, 87.

 


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21 giugno 2020                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net