LE ISTITUZIONI CENOBITICHE
di GIOVANNI CASSIANO
LIBRO QUINTO
LO SPIRITO DELL'INGORDIGIA
"Libera traduzione"
CAPITOLO 1
Transizione dalle istituzioni monastiche alla lotta contro gli otto vizi
principali.
Qui
inizia, con l'aiuto di Dio, il mio quinto libro. Dopo i primi quattro, che sono
stati dedicati alle istituzioni dei monasteri, ho deciso di intraprendere la
lotta contro gli otto vizi principali, forte dell'aiuto che il Signore mi
concederà, con le vostre preghiere. Il primo è l'ingordigia o gastrimargia,
che significa la concupiscenza della gola; il secondo, la fornicazione; il
terzo, la filargyria, che significa l'avarizia; il quarto, l'ira; il
quinto, la tristezza; il sesto, l'acedia, che è un'ansietà o una tedio del
cuore; il settimo, la cenodoxia, che significa la vana o vuota gloria;
l'ottavo, la superbia. Al momento di impegnarmi in un tale combattimento io
sento più forte, o beatissimo papa Castore, il bisogno delle tue preghiere al
fine di analizzare in primo luogo la loro natura, che è qualcosa di così
delicato, misterioso ed oscuro, in secondo luogo per esporre le loro cause in
modo soddisfacente, in terzo luogo per indicare il trattamento ed i rimedi
appropriati.
CAPITOLO 2
Come ogni uomo porti in sé le cause dei vizi e tuttavia le ignora. Noi
abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio per manifestarle.
Le
cause dei vizi sono tali che, manifestate dalla dottrina degli anziani, ciascuno
le riconosce immediatamente; ma prima che siano rivelate, sebbene non ci sia
nessuno che non ne sia devastato e che non le abbia in sé, tutti le ignorano. Da
parte mia ho la certezza di riuscire a spiegarle in una certa misura se, grazie
alle vostre intercessioni, verrà rivolta anche a me la parola del Signore
precedentemente pronunciata da Isaia: "Io marcerò davanti a te; umilierò i
potenti della terra, spezzerò le porte di bronzo e romperò le spranghe di ferro.
Ti consegnerò tesori nascosti e misteri segreti" (Is 45,2-3: Volg.). Se la
Parola di Dio ci precederà, essa potrà far cadere i potenti della nostra terra,
vale a dire le stesse passioni malvagie che desideriamo abbattere e che
rivendicano sul nostro corpo un dominio crudele e tirannico. Inoltre, la parola
di Dio li sottoporrà alla nostra analisi ed alle nostre spiegazioni e, spezzando
le porte dell'ignoranza e le spranghe dei vizi che ci escludono dalla vera
conoscenza, ci condurrà ai nostri misteri più segreti. A questo punto, secondo
la parola dell'Apostolo, dopo averci illuminati ci "metterà in luce i segreti
delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori"! (1Cor 4,5). Così,
penetrando con il puro sguardo dell'anima le tenebre oscure dove sono nascosti i
vizi, possiamo scoprirli e portarli alla luce. Potremo anche riuscire a chiarire
le loro cause e la loro natura a coloro che non li hanno sperimentati, così come
a coloro che vi sono ancora incatenati. Secondo ciò che dice il profeta, noi
possiamo, attraversando il fuoco dei vizi che bruciano così crudelmente
le nostre anime, passare immediatamente senza danno attraverso le acque
delle virtù che estinguono i vizi. Poi, irrorati dai rimedi spirituali,
meriteremo di essere condotti al ristoro della perfezione, nella purezza
del cuore (Sal 65,11: Volg.)
[1].
CAPITOLO 3
Il nostro primo combattimento è contro lo spirito della
gastrimargia, ovvero la concupiscenza della gola.
Il
primo combattimento che dobbiamo affrontare è contro lo spirito della
gastrimargia, che chiamiamo la concupiscenza della gola. Poiché dovremo
parlare soprattutto della regola dei digiuni e della qualità del cibo, ci
rifaremo alle tradizioni ed agli statuti degli egiziani, che brillano allo
stesso tempo per un'astinenza più sublime e per una discrezione perfetta, come
tutti sanno.
CAPITOLO 4
Testimonianza dell'abate Antonio, secondo il quale si deve imparare ogni
virtù da colui che la possiede in modo particolare.
Infatti, c'è una massima antica ed ammirabile del beato Antonio
[2]: se un monaco, dopo aver vissuto la vita cenobitica, si
sforza di raggiungere la vetta di una perfezione più sublime e, prendendo in
mano la regola della discrezione, ha il potere ormai di fare affidamento sul
proprio giudizio e di raggiungere le vette della vita anacoretica, questo monaco
non deve ricercare in una sola persona, per quanto eminente sia, l'esempio di
ogni virtù. L'uno è adornato dai fiori della conoscenza; l'altro sembra più
fortemente armato di discrezione; quest'altro ancora è fondato nella gravità
della pazienza. Un primo prevale per la virtù dell'umiltà; un secondo, per
l'astinenza. Un altro brilla per la grazia della semplicità: un altro ancora
supera il resto dei fratelli in magnanimità; quell'altro in misericordia; un
altro, nell'amore per le veglie; questo quarto, nell'amore per il silenzio;
l'ultimo, nello zelo del lavoro. Il monaco che desidera comporre un miele
spirituale, come un'ape prudente, dovrà raccogliere il fiore di ogni virtù da
coloro a cui questa è più familiare e lo depositerà diligentemente nell'arnia
del proprio cuore. Non dovrà esaminare cosa manca in questo o quello, ma dovrà
considerare solo ciò che egli possiede in virtù e raccoglierlo con ardore.
Perché, se desideriamo attingere da uno solo tutte le perfezioni, troveremo gli
esempi da imitare solo difficilmente, o niente affatto
[3]. Noi non vediamo ancora Cristo "tutto in tutti"
(1Cor 15,28), secondo la parola dell'Apostolo. In questo modo, tuttavia, intendo
per singole parti, è possibile per noi scoprirlo in tutti. Si dice di Lui: "
Grazie a Dio (voi siete in) Cristo Gesù, (il quale) per noi è diventato sapienza
per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione " (1Cor 1, 30). Ma
mentre la saggezza è in questo, la giustizia in quello, in un primo la santità,
in un secondo la mansuetudine, nell'uno la castità e nell'altro l'umiltà, Cristo
è diviso membro a membro in ciascuno dei suoi santi; ed è perché tutti
contribuiscono all'unità della fede e della virtù che egli ritorna "allo
stato di uomo perfetto", completando la pienezza del suo Corpo (Ef
4,13) con l'unione di tutte le membra e delle loro caratteristiche distintive.
Così, fino al momento in cui "Dio sarà tutto in tutti" (1Cor 15,28), al
tempo presente è nel modo in cui abbiamo detto, cioè con la condivisione delle
virtù, che Dio può essere tutto in tutti, anche se non è ancora tutto in tutti
quanto alla loro pienezza. Per quanto sia uno solo il fine della nostra
religiosità, varie sono le professioni con cui si tende a Dio, come verrà
mostrato più abbondantemente nelle Conferenze degli anziani. Di
conseguenza, noi dobbiamo chiedere un modello di discernimento e di astinenza in
particolare a coloro nei quali vediamo risplendere in abbondanza queste virtù,
per grazia dello Spirito Santo. Noi non sosteniamo che qualcuno possa acquisire
da solo tutti quei doni che sono divisi tra molti, ma in questi beni di cui
possiamo essere capaci, applichiamoci ad imitare coloro che li hanno ottenuti in
un grado eminente.
CAPITOLO 5.
Non tutti possono osservare un'identica regola di digiuno.
Per
questo motivo non è facile mantenere una regola uniforme per il digiuno. Non
tutti hanno lo stesso vigore fisico ed il digiuno non è, come le altre virtù,
una questione di sola volontà. E proprio perché non dipende unicamente dalla
forza dell'anima, ma deve anche contare sulle possibilità del corpo, ecco la
dottrina ben definita che ci è stata insegnata su questo punto: la diversità per
i tempi, la misura e la qualità, secondo le differenze di costituzione, di età,
di sesso; una sola ed uguale regola per tutti riguardo allo spirito della
continenza ed alla virtù interiore della mortificazione
[4].
Non
è possibile a tutti prolungare il digiuno per una settimana, e neppure rimandare
il pasto fino a due o tre giorni dopo. Ci sono molti che, stremati già dalle
malattie e soprattutto dalla vecchiaia, non possono sopportare di digiunare fino
al tramonto senza un'estrema fatica. I legumi bolliti, che sono così poco
energetici, non sono adatti a tutti; le piante vegetali, senza nulla che le
accompagni, costituiscono una dieta povera, che non va bene a tutti; tutti,
infine, non potrebbero accontentarsi di un pasto rigoroso con pane secco. Con
due libbre
[5] di pane l'uno non si sente sazio, mentre un altro si sente
pesante con una libbra o con sei once. Tuttavia, il fine della continenza rimane
lo stesso per tutti: che nessuno, in base alla capacità del suo ventre, si
riempia fino alla sazietà con voracità.
[6] Oltre alla qualità, anche la quantità di cibo attenua
l'acutezza del cuore ed accende, dopo aver appesantito l'anima nello stesso
momento del corpo, il pernicioso focolaio dei vizi.
CAPITOLO 6
Lo spirito non si inebria solo con il vino.
Qualunque sia il cibo, il ventre sazio dà origine ai semi della lussuria e lo
spirito, soffocato dal peso del cibo, non è più in grado di dirigere il timone
del discernimento. Non è solo il vino che lo inebria; ogni eccesso di cibo lo
rende vacillante ed instabile e lo priva del tutto della contemplazione integra
e pura. La causa della perversione e del peccato di Sodoma non fu l'ubriachezza
del vino, ma la sazietà di pane. Ascolta il rimprovero del Signore al profeta di
Gerusalemme: "In cosa ha peccato tua sorella Sodoma, se non per aver mangiato
il suo pane a sazietà ed in abbondanza?" (Ez 16,49: Volg.
[7]). E poiché la sazietà del pane accendeva i loro
inestinguibili fuochi nella loro carne, con un giudizio di Dio una pioggia di
zolfo e di fuoco cadde dal cielo e li consumò. Ma se il semplice eccesso di pane
li ha precipitati così rapidamente in un abisso di vergogna, cosa dovremo
pensare di coloro che, con i corpi sani e vigorosi, si concedono carne e vino
con una libertà senza misura, non per soddisfare i legittimi bisogni della
debolezza, ma per obbedire alle suggestioni della lussuria.
CAPITOLO 7
Perché l'infermità corporale non può impedire la purezza del cuore.
L'infermità fisica non è un ostacolo alla purezza del cuore, purché si ricorra
al cibo ascoltando solo le esigenze della fragilità della carne e non quelle del
piacere. Ma noi abbiamo visto più facilmente degli uomini astenersi da ogni
nutrimento più sostanzioso, piuttosto che prenderli moderatamente, quando erano
stati concessi loro come necessari; li abbiamo visti negarsi ogni cosa per amore
della continenza, piuttosto che usarne in giusta misura in occasione di una
malattia. Anche un corpo debilitato ha modo di raccogliere la palma della
vittoria per la propria continenza: lo fa con l'uso degli alimenti che la sua
debolezza richiede, non saziandosi completamente e concedendosi con rigido
discernimento la quantità considerata sufficiente per vivere, non ciò che il
desiderio della natura richiede. I cibi sostanziosi, fornendo la salute al
corpo, non oscurano la purezza della castità, se vengono assunti con
moderazione. Infatti, il vigore acquisito con questo mezzo sarà consumato dalla
stanchezza e dalla spossatezza della malattia. Di conseguenza, nessuna
condizione fisica impedisce di vivere con sobrietà, così come non può neanche
privare dell'integrità perfetta.
CAPITOLO 8
In che modo dobbiamo desiderare ed assumere il cibo.
È
quindi vera e provata quella massima dei Padri
[8] che il digiuno e l'astinenza consistono solo nella
sobrietà e nella moderazione, e che per tutti vale come regola generale che il
fine della virtù perfetta è di non saziarsi completamente nell'uso del cibo che
siamo obbligati a prendere per sostenere il nostro corpo. Per quanto uno sia
malato potrà in questo modo raggiungere la perfezione dell'astinenza proprio
come gli uomini robusti e sani, se mortificherà per austerità dell'anima i
desideri che non sono giustificati dalla fragilità della carne. Dice infatti
l'Apostolo: "Non lasciatevi prendere dai desideri della carne" (Rm
13,14). Perciò non proibisce assolutamente che ci prendiamo cura della carne, ma
non vuole che ce ne prendiamo cura così da soddisfare le sue passioni. Egli
bandisce le voluttuose attenzioni per la carne, ma non esclude il necessario
mantenimento della vita; quello, affinché non cadiamo nel potere dei desideri
malvagi per compiacere alla carne; questo, affinché il nostro corpo, spossato
per nostra colpa, non possa più soddisfare agli indispensabili obblighi
spirituali.
CAPITOLO 9
Della misura nelle mortificazioni e del rimedio al digiuno eccessivo.
Non
dobbiamo giudicare l'essenza della continenza, né solo dalla sua durata, né
dalla qualità del cibo, ma soprattutto dal giudizio della propria coscienza.
Ognuno deve fissare il suo programma di frugalità, come richiesto dalla lotta
contro le ribellioni della carne. Certo, l'osservanza dei digiuni regolari è
utile e questo punto richiede assoluta fedeltà ma, se non ne consegue una
refezione frugale, è impossibile raggiungere l'obiettivo che è l'integrità. I
pasti abbondanti che seguono ai lunghi digiuni generano la stanchezza corporale
piuttosto che la purezza della castità. L'integrità della mente è legata al
digiuno dello stomaco. Chi non acconsentirà a mantenere una regola costante di
temperanza, non possiederà per sempre la purezza della castità. I digiuni più
severi, seguiti da un eccessivo rilassamento, non servono a niente e ci
trascinano senza indugio nel vizio dell'ingordigia. E' meglio un pasto
quotidiano preso con misura ragionevole, che un digiuno severo e lungo ma
saltuario. Un digiuno smisurato non solo danneggia la costanza dello spirito, ma
indebolisce l'efficacia della preghiera a causa della stanchezza del corpo.
CAPITOLO 10
L'astinenza dai cibi non può essere sufficiente per mantenere la purezza
dell'anima e del corpo.
Per
preservare l'integrità dell'anima e del corpo, l'astinenza dal cibo non è
sufficiente da sola, se non vi si uniscono le altre virtù. Prima di tutto
bisogna imparare l'umiltà attraverso la virtù dell'obbedienza, la contrizione
del cuore e le fatiche del corpo
[9]. Non occorre solo evitare il possesso delle ricchezze, ma
bisogna estirparne radicalmente il desiderio. Infatti, non basta non possederne
- ciò che molto spesso avviene anche per necessità - ma non dobbiamo neanche
accettare il desiderio di possederne, nel caso ci venissero offerte. Dobbiamo
reprimere la furia dell'ira, superare lo sconforto della tristezza, disprezzare
la "cenodoxia", ovvero la vanagloria, calpestare l'orgoglio della
superbia e frenare, col continuo ricordo di Dio, le divagazioni vaganti e
volubili dei nostri pensieri. Occorre ricondurre alla contemplazione divina il
nostro cuore che se ne allontana, ogni volta che il nemico sottile si insinua
con le sue tentazioni nel segreto del nostro cuore e cerca di strapparlo dallo
sguardo su Dio.
CAPITOLO 11
La concupiscenza carnale si estingue solo con la distruzione di tutti i
vizi.
È,
infatti, impossibile estinguere il fuoco della carne prima di aver tagliato alle
radici anche il fuoco degli altri vizi principali. Noi analizzeremo, con la
grazia di Dio, ognuno di essi separatamente, in singoli libri ed a suo tempo. Il
nostro attuale proposito è di trattare dell'ingordigia o gastrimargia,
ovvero della concupiscenza della gola, contro cui dobbiamo combattere la nostra
prima battaglia. Non sarà mai in grado di reprimere il fuoco della concupiscenza
chi non riuscirà a frenare i desideri della gola
[10]. La castità dell'uomo interiore la si riconosce dal grado
di compimento di questa virtù (della continenza). Si può essere certi che non
potrà mai combattere contro avversari più robusti colui che avrai visto
soccombere, in un combattimento più facile, ad un nemico più debole. Tutte le
virtù hanno la stessa natura
[11], per quanto sia grande il numero dei generi e dei nomi
che le dividono, come l'oro è una sostanza unica, per quanto possa apparire
differenziata dal genio e dalla volontà degli artisti, nell'infinita diversità
dei gioielli. Colui che risulta mancante in una sola di queste virtù, proverà di
non possederne nessuna in modo perfetto. Come possiamo credere che abbia estinto
le fiamme ardenti della concupiscenza, che si illuminano in noi su istigazione
del corpo e del vizio della mente, colui che non è stato in grado di placare i
pungoli dell'ira che sorgono solo attraverso l'intemperanza del cuore? Come
pensare che sia riuscito a reprimere le voluttuose eccitazioni della carne,
colui che non ha potuto superare il semplice vizio della superbia? Come credere
che ha calpestato la lussuria, innata nella nostra carne, chi non è stato capace
di abdicare alla concupiscenza delle ricchezze, che è esterna ed estranea alla
nostra natura? In qual modo trionferà nella guerra dell'anima e del corpo, colui
che non è stato in grado di curare la malattia della tristezza? Per quanto alte
siano le mura e le possenti porte chiuse che difendono una città, il tradimento
di una sola postierla
[12], piccola quanto si vuole, permetterà il suo saccheggio.
Che differenza c'è, infatti, se il nemico mortale penetra nel cuore della città
passando sulle alte mura ed attraverso le porte spalancate o dal passaggio
segreto di una stretta galleria?
CAPITOLO 12
Per la lotta spirituale è necessario prendere esempio anche della lotta
fisica.
"Anche
l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole". (2 Tim
2,5). Chi desidera estinguere gli appetiti naturali della carne, si affretti
prima a superare i vizi che sono al di fuori della nostra natura
[13]. Se, infatti, desideriamo provare la portata della parola
apostolica, dobbiamo prima imparare le leggi e la disciplina delle lotte mondane
[14] in modo da poter conoscere, per confronto, ciò che il
beato Apostolo voleva insegnare a noi che combattiamo il combattimento
spirituale. Ecco l'usanza osservata nei combattimenti mondani che, secondo lo
stesso Apostolo, procurano al vincitore solo "una corona corruttibile".
(1 Cor 9,25). Sia nei giochi Olimpici che nei giochi Pitici
[15], chi pretende di guadagnare la gloriosa corona,
arricchita dal privilegio dell'immunità, e desidera affrontare i combattimenti
più difficili, deve innanzitutto mostrare la sua giovane forza e l'addestramento
acquisito. È su questi punti che sono giudicati i giovani che aspirano a
partecipare ai giochi, sia da parte di chi presiede che da parte di tutto il
popolo. Questi decideranno sul loro merito e se devono essere ammessi.
Si
esamina in primo luogo se la vita del candidato non è macchiata da alcuna
infamia, in secondo luogo se il giogo degradante della schiavitù non lo ha reso
indegno di tale disciplina ed indegno di lottare contro coloro che la praticano,
in terzo luogo se ha dato segni sufficienti della sua abilità e forza; inoltre,
se si è confrontato con avversari della sua età, deve aver dimostrato sia
l'abilità che il vigore della sua giovinezza. In seguito, dopo l'esame di chi
presiede, gli si permetterà di abbandonare le battaglie con gli efebi e gli si
permetterà di combattere con uomini maturi e con una lunga esperienza. E quando,
durante i duri combattimenti, non solo si mostrerà uguale per valore, ma spesso
vincerà, allora, infine, meriterà di essere ammesso alle più importanti gare
dove possono affrontarsi solo i campioni che hanno già meritato numerose corone.
Se
abbiamo compreso questo esempio della lotta materiale, il confronto deve farci
comprendere quali siano la disciplina e l'ordine del combattimento spirituale.
CAPITOLO 13
Finché non ci liberiamo dal vizio della gola, non possiamo accostarci
alle battaglie dell'uomo interiore.
Dobbiamo anche noi dimostrare prima di tutto la nostra qualità di uomini liberi,
attraverso la sottomissione della nostra carne. " L’uomo infatti è schiavo di
ciò che lo domina" (2 Pt 2,19) e " Chiunque commette il peccato è schiavo
del peccato" (Gv 8,34). Quindi, quando chi presiede alla lotta scoprirà che
non siamo intaccati dall'infamia di nessuna ignobile concupiscenza e che la
schiavitù della carne non ci rende indegni di combattere le lotte olimpiche
contro i vizi, allora noi saremo in grado di impegnarci in combattimento con i
nostri coetanei, vale a dire contro le concupiscenze della carne, i moti e le
passioni dell'anima. Perché un ventre sazio non è in grado di sostenere le lotte
dell'uomo interiore; né chi viene sopraffatto in una lieve lotta è degno di
sottoporsi alla prova di combattimenti più difficili.
CAPITOLO 14
Com'è possibile superare la concupiscenza della gola.
Il
primo avversario da sconfiggere è quindi la concupiscenza della gola e noi
dobbiamo per questo motivo mortificarci non solo con i digiuni, ma con le
veglie, le letture e la continua compunzione del cuore nel ricordo delle colpe
in cui siamo caduti per inganno o per debolezza. Noi dobbiamo infiammarci sia
per l'orrore del vizi sia per il desiderio di perfezione e di purezza finché la
nostra anima, tutta presa da questi santi pensieri, non considererà più il
nutrimento come un piacere che le è accordato, ma come un fardello che le è
imposto, e comprenderà bene che se il cibo è necessario al corpo non è
assolutamente desiderabile per l'anima. Quando avremo questa disposizione
mentale, unita ad un'incessante compunzione, riusciremo a reprimere la
dissolutezza della carne, che viene eccitata dagli eccessi del cibo, ed a
smussare i suoi malvagi pungoli. Noi respingeremo questi dannosi attacchi e
spegneremo questa fornace ardente che il re di Babilonia (ovvero il demonio)
accende nei nostri corpi, sviluppando i vizi e le occasioni di peccato. Noi
potremo spegnere, con l'abbondanza delle nostre lacrime ed il pianto del cuore,
queste fiamme che bruciano più della nafta e della pece; quando infine, per
grazia di Dio, lo Spirito scenderà nei nostri cuori come una dolce rugiada
[16], estinguerà tutti gli ardori della concupiscenza della
carne.
Quindi, questo è il primo combattimento e la nostra prima prova, in questa
specie di gare Olimpiche, per estinguere la concupiscenza della gola e del
ventre con il desiderio della perfezione. In questa prospettiva non basta
mortificare l'appetito superfluo con la contemplazione delle virtù, ma ciò che è
necessario alla natura non deve essere preso con cuore leggero, in quanto
contrario alla castità. Infine, è necessario regolare il corso della nostra vita
partendo da questa idea, che il tempo in cui siamo più lontani dai pensieri
spirituali è quello in cui la fragilità del corpo ci obbliga ad accondiscendere
ai suoi bisogni
[17]. Perciò ci sottometteremo a questa necessità, ma come
uomini che sono pronti a soddisfare le esigenze vitali piuttosto che a
soddisfare i loro desideri, e ci affretteremo ad allontanarcene come fosse un
ostacolo alle nostre occupazioni salutari. È impossibile disprezzare i piaceri
della gola se la nostra anima, applicandosi alla contemplazione di Dio, non
trova maggior piacere nell'amore delle virtù e nella bellezza delle cose
celesti. E così, chi disprezza come deperibili tutte le cose presenti e guarda
senza sosta quelle che sono immutabili ed eterne, potrà già contemplare nel
proprio cuore la felicità che lo attende nella futura dimora, pur rimanendo
nella carne
[18].
CAPITOLO 15
Come il monaco deve sempre applicarsi a custodire la purezza del proprio
cuore
Prendiamo l'esempio di un uomo che si sforza di raggiungere, concentrando il suo
sguardo nella direzione del giavellotto, la straordinaria ricompensa posta molto
in alto e che egli distingue in base ad indizi quasi impercettibili. Sapendo
quale grande gloria e quale ricompensa riceverà se riuscirà a colpire il segno,
egli non può fare altro che distogliere il suo sguardo da ogni altro oggetto per
concentrarlo sul punto dove egli vede che si trova una così grande ricompensa
che egli evidentemente perderà se il suo occhio dovesse deviare anche di poco
dal bersaglio
[19].
CAPITOLO 16
Il monaco, seguendo l'esempio di ciò che accade nelle gare Olimpiche,
non può portare a termine le lotte spirituali se non ha conseguito la vittoria
nei combattimenti della carne.
Se
questa contemplazione (della beatitudine eterna) trionfa in noi sulla
concupiscenza del ventre e della gola, non saremo dichiarati schiavi del peccato
né disonorati dal vizio e, come nelle regole Olimpiche, saremo giudicati degni
di affrontare le lotte di grado superiore. Dopo queste prove del nostro valore,
saremo reputati in grado di misurarci con gli spiriti del male, che si degnano
di combattere solo contro dei vittoriosi e contro coloro che meritano di lottare
nel combattimento spirituale.
Il
solido fondamento, se così possiamo dire, di tutte le lotte sta innanzitutto nel
distruggere gli stimoli dei desideri carnali. Chi non ha vinto la sua stessa
carne, non può combattere secondo le regole. E chi non combatte secondo le
regole, non può prendere parte alle prove decisive, né meritare con la vittoria
la gloria della corona (2 Tm 2,5). Se saremo sconfitti in questo primo
combattimento, noi proveremo che siamo schiavi della concupiscenza carnale e
privi delle insegne di libertà e di forza e, per questo motivo, noi saremo
esclusi, non senza vergogna, dalle lotte spirituali, come indegni e schiavi.
Infatti: "Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8, 34).
Ed il beato Apostolo ci dirà, come a coloro di cui si parla di fornicazione: "
Nessuna tentazione vi ha sorpresi, se non umana " (1 Cor 10,13). Non
meriteremo di conoscere i più formidabili combattimenti contro le potenze
celesti, finché non saremo riusciti a conquistare la solidità dello spirito, né
a soggiogare la fragile carne che resisteva al nostro spirito. Alcuni non
comprendono la testimonianza dell'Apostolo e mettono l'ottativo
[20] al posto dell'indicativo, ovvero leggono: "Nessuna
tentazione vi sorprenda, se non umana!". È chiaro, tuttavia, che l'Apostolo non
ha parlato da uomo che esprime un desiderio, ma un'affermazione o un rimprovero
[21].
CAPITOLO 17
Il fondamento e la base del combattimento spirituale si trovano nella
lotta contro l'ingordigia.
Vuoi
sentire cosa dice il vero atleta di Cristo che combatte secondo le regole? "
Io dunque corro," dice, " ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato,
ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in
schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso
venga squalificato" (1 Cor 9,26-27). Vedete come ha appoggiato su se stesso,
cioè sulla sua carne, come una base molto solida, la lotta principale, ed ha
fatto dipendere tutto il successo del combattimento nel castigare la sua carne e
nella sottomissione del suo corpo? Ed è perciò che dice: " Corro verso la
mèta". Non corre senza meta perché, rivolgendo lo sguardo alla Gerusalemme
celeste, ha il cuore fisso là dove occorre dirigere la propria attività senza
deviazioni. Non corre senza meta, perché " dimenticando ciò che gli sta alle
spalle, si protende verso ciò che gli sta di fronte", correndo risolutamente
" verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù
"(Fil 3,13-14). Dirigendo costantemente lo sguardo del suo spirito verso quella
meta ed affrettandosi con tutto l'ardore del cuore, proclama con fiducia: "
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede"
(2 Tim 4.7). Consapevole di aver corso instancabilmente dietro "la fragranza
degli unguenti" (Ct 1, 3: Volg.) di Cristo e di aver vinto nella lotta
spirituale con la mortificazione della sua carne, con fiducia prosegue e dice: "
Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice
giusto, mi consegnerà in quel giorno" (2 Tm 4,8).
Quindi, per farci sperare la stessa ricompensa, se vogliamo imitarlo in questa
corsa, aggiunge: " non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso
con amore la sua manifestazione" (2Tm 4,8). In questo modo ci assicura che
saremo partecipi della sua corona nel giorno del giudizio se, amando la venuta
di Cristo - non solo la venuta che un giorno si manifesterà anche a coloro che
la rifiutano, ma anche quella che si realizza ogni giorno nelle anime dei santi
– noi otterremo la vittoria nel combattimento mortificando il corpo. Di questa
venuta il Signore dice nel Vangelo: "Mio Padre ed io verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23) e ancora: " Ecco: sto alla
porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da
lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).
CAPITOLO 18
Attraverso quanti combattimenti e vittorie il beato Apostolo conquistò
la corona nella lotta più sublime.
L'Apostolo, tuttavia, non si accontenta di dire che ha terminato la corsa quando
dice: "Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta" (1Cor 9,26). E
queste parole riguardano soprattutto la tensione della sua anima ed il fervore
del suo spirito, che gli facevano seguire Cristo con tutto l'ardore, cantando
con la Sposa: "Corriamo dietro a te, alla fragranza dei tuoi unguenti"
(Ct 1, 3: Volg.) ed ancora: " A te si stringe l’anima mia" (Sal
63(62),9). Ma testimonia di aver anche vinto in una lotta di diverso genere,
dicendo: "Faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto
duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù" (1Cor 9,26-27). E ciò si
riferisce esattamente alle pene della continenza, del digiuno corporeo e
dell'afflizione della carne. Egli si descrive come un pugile senza paura che
combatte contro la sua carne. Inoltre, sottolinea che non ha colpito invano la
carne a colpi di temperanza, ma che ha ottenuto il trionfo nella lotta
attraverso la mortificazione del suo corpo. Mentre lo castigava con le percosse
della continenza e lo spezzava con il guantone del digiuno, egli conferiva allo
spirito vincitore la corona dell'immortalità e la palma dell'incorruttibilità.
Osserva l'ordine regolare della lotta ed ammira l'esito dei combattimenti
spirituali: vedi come l'atleta di Cristo, avendo conquistato la vittoria sulla
sua carne ribelle mettendola, per così dire, sotto i suoi piedi, si avanza come
un sublime trionfatore. Perciò egli "non corre senza una meta", perché
aveva la fiducia di entrare senz'altro nella città santa, la Gerusalemme
celeste. Egli combatte così, attraverso digiuni e afflizioni della carne, "non
come chi batte l'aria", vale a dire che non assesta invano i colpi della
continenza. In effetti, egli non colpisce l'aria vuota, quando castiga il suo
corpo, ma percuote gli spiriti che sono nell'aria. Chi infatti dice "non come
chi batte l'aria", mostra che, anche se non colpisce l'aria vuota, tuttavia
egli colpisce gli esseri che sono nell'aria. E poiché aveva superato questo tipo
di combattimento ed avanzava arricchito dalla ricompensa di numerose corone,
comincia meritatamente a sperimentare gli assalti di nemici più forti. Dopo aver
sconfitto i suoi primi avversari, egli esclama con fiducia: "La nostra
battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le
Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del
male che abitano nelle regioni celesti" (Ef 6,12)
[22].
CAPITOLO 19
Gli atleti di Cristo hanno sempre da combattere, fintanto che rimangono
nel corpo.
Fino
a quando l'atleta di Cristo rimane nel suo corpo, non gli mancherà mai la palma
della vittoria conquistata nelle lotte. Ma quanto più cresce il numero dei suoi
successi, tanto più temibile è la lotta che poi lo attende. Una volta soggiogata
e vinta la carne, quante legioni avversarie, quanti battaglioni di nemici
insorgono contro questo soldato di Cristo, istigati dalle sue vittorie! E'
evidente che ciò avviene per impedirgli di dimenticare i suoi gloriosi
combattimenti, assopendosi in un tranquillo riposo e, indebolito dal torpore
della sicurezza, di essere privato delle sue ricompense e del trionfo che egli
merita. Pertanto, se desideriamo salire a nostra volta, col progresso nelle
virtù, ad un così alto trionfo, dobbiamo affrontare questi combattimenti
seguendo la stessa strategia. Ed in primo luogo, noi diremo con l'Apostolo: "Faccio
pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo
riduco in schiavitù" (1Cor 9,26-27). Vittoriosi in questo scontro, noi
potremo ancora dire con lui: "La nostra battaglia infatti non è contro la
carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di
questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni
celesti" (Ef 6,12). Altrimenti, noi non potremo assolutamente entrare in
conflitto con loro e non meriteremo di sperimentare i combattimenti spirituali,
fino a quando saremo sconfitti nel conflitto della carne e distrutti nella lotta
contro il ventre. A buon diritto l'Apostolo ci dirà, in tono di rimprovero: "Nessuna
tentazione vi ha sorpresi, se non umana" (1Cor 10,13).
CAPITOLO 20
Il monaco non deve trasgredire l'orario regolare dei pasti, se vuole
essere in grado di combattere le lotte interiori.
Il
monaco che vuole quindi affermarsi nelle lotte dell'uomo interiore, deve
innanzitutto imporsi questa attenzione: non si permetta mai, per una debolezza
della gola, di bere o mangiare assolutamente niente al di fuori della tavola,
prima della pausa fissata dalla regola e dell'ora comune del pasto; terminato
questo, non si permetta di trattenere qualcosa per sé
[23]; similmente osservi anche il tempo e la misura di sonno
come fissati dalla regola, poiché bisogna sopprimere queste due intemperanze
della mente con la stessa attenzione del vizio dell'impurità. In effetti, colui
che non è riuscito a contenere gli eccessivi appetiti della gola, come
estinguerà il fuoco della concupiscenza carnale? E chi non è riuscito a
sottomettere le passioni deboli e che tutti vedono, come potrà, con la sola
guida del discernimento, vincere le passioni nascoste e che bruciano senza che
nessuno le veda? Ognuno dei nostri movimenti disordinati, ognuno dei nostri
desideri è una prova sicura a cui viene sottoposta la forza dell'anima. Se essa
viene sconfitta da deboli e visibili passioni, come sopporterà le più forti e
violente passioni che restano nascoste? A ciascuno la testimonianza della
propria coscienza.
CAPITOLO 21
La pace interiore del monaco e l'astinenza spirituale.
Non
abbiamo avversari da temere fuori di noi; il nemico è dentro noi stessi. Esso ci
fa una guerra intestina ogni giorno dentro di noi; se lo vinciamo, ogni nemico
esteriore perderà la sua forza e tutte le cose saranno rappacificate e soggette
al soldato di Cristo. Quindi, non dovremo temere nessun avversario dall'esterno
se avremo vinto e sottoposto allo spirito quelli che sono in noi. Non pensiamo,
quindi, che il digiuno degli alimenti visibili sia sufficiente per la perfezione
del cuore e per la purezza del corpo se non vi è congiunto il digiuno dell'anima
[24].
Anch'essa ha, infatti, i suoi alimenti nocivi e, una volta che se ne è
appesantita, non c'è bisogno di abbondanza di cibo per farla rotolare nei
precipizi della lussuria. La denigrazione è un alimento dell'anima e di una
dolcezza ineguagliabile. Anche l'ira è un cibo dell'anima, ma senza la minima
dolcezza; essa, tuttavia, all'ora stabilita la nutre di un cibo funesto e la
prostra allo stesso tempo con un sapore mortale. L'invidia è un nutrimento della
mente che la corrompe con i suoi succhi velenosi e, povera lei, non cessa mai di
tormentarla alla vista della prosperità e del successo degli altri. La
cenodoxia, cioè la vanagloria, è un nutrimento dell'anima che al momento la
lusinga con un gusto delizioso, ma poi la lascia vuota, spogliata delle virtù,
in una miseria assoluta, sterile e povera di frutti spirituali: l'anima ha perso
per causa sua il merito di immense fatiche ed inoltre si è guadagnata maggiori
tormenti. Ogni concupiscenza ed ogni divagazione del cuore è come un cibo per
l'anima, ma che la nutre con alimenti funesti e la lascia ormai priva del pane
celeste e del vero cibo.
Per
quanto ci è possibile asteniamoci da questi cibi con un digiuno spirituale in
modo che l'osservanza del digiuno corporale sia utile e proficua. Infatti, la
fatica del corpo unita alla contrizione dello spirito rende un sacrificio molto
gradito a Dio e gli prepara una dimora pura ed incontaminata nel nostro cuore
purificato. Ma se, mentre digiuniamo nel corpo ci abbandoniamo ai vizi
perniciosi per l'anima, l'afflizione della carne non ci sarà di alcuna utilità
per il fatto che, a causa dei nostri peccati, saremo contaminati nella parte più
preziosa di noi stessi e che fa di noi la dimora dello Spirito Santo. Perché non
è tanto la carne corruttibile quanto il cuore puro che diventa la dimora di Dio
ed il tempio dello Spirito Santo. Pertanto, mentre il nostro uomo esteriore sta
digiunando, anche il nostro uomo interiore deve astenersi da cibi nocivi, lui
che deve presentarsi a Dio senza macchia per meritare di ricevere in sé Cristo
come ospite. Il beato Apostolo ci avverte di ciò con queste parole: "
Nell’uomo interiore (mediante il suo Spirito), il Cristo abiti per mezzo della
fede nei vostri cuori " (Ef 3,16-17).
CAPITOLO 22
L'astinenza del corpo deve essere praticata per giungere, grazie a lei,
al digiuno spirituale.
Teniamo bene a mente che il lavoro dell'astinenza corporale non ha altro scopo
per noi che quello di giungere, per mezzo di questo digiuno, alla purezza del
cuore. Ma è una fatica inutile se, mentre la sopportiamo infaticabilmente
considerando il suo fine, non riusciamo ad ottenere il fine per il quale abbiamo
sopportato tali afflizioni. Sarebbe stato meglio astenersi dai cibi vietati
all'anima piuttosto che imporre al nostro corpo il digiuno da alimenti meno
nocivi. Questi, in effetti, sono semplici ed innocue creature di Dio; non
commettiamo nessun peccato se li consumiamo. Ma il nutrimento dell'anima
consiste in quella malsana tendenza a divorare i nostri fratelli, di cui si
dice: "Non amare la calunnia, per non essere annientato" (Pr 20,13: LXX)
[25]. Ed a proposito dell'ira e dell'invidia il beato Giobbe
ha queste parole: " Poiché la collera uccide lo stolto e l’invidia fa morire
lo sciocco " (Gb 5,2). Occorre notare che colui che si arrabbia viene
giudicato stolto e l'invidioso uno sciocco. Il primo merita la qualifica di
sciocco dal momento che, sotto il pungolo della rabbia, si procura
volontariamente la morte. Il secondo, per il fatto stesso che si abbandona
all'invidia, dimostra la sua pochezza ed inferiorità. In effetti la sua invidia
testimonia che è più grande di lui colui della cui la felicità egli è
tormentato.
CAPITOLO 23
Quale debba essere il cibo del monaco.
Scegliamo allora un alimento che non solo calmi le passioni dell'infiammata
concupiscenza e le accenda il meno possibile, ma che sia invece facile da
preparare, che si possa procurare in abbondanza a basso prezzo e che serva al
regime ed all'uso comune dei fratelli
[26]. Ci sono tre tipi di ingordigia. L'una spinge ad evitare
i pasti regolari. La seconda guarda alla quantità, indipendentemente dal tipo di
cibo, purché ne abbia a sazietà. La terza si diletta dei piatti ricercati e
succulenti
[27]. E' necessario che il monaco, contro di essa, osservi una
triplice osservanza. In primo luogo attenda il tempo stabilito dalla regola
prima di rompere il digiuno; poi sia soddisfatto di una quantità limitata di
cibo; in terzo luogo si accontenti degli alimenti più comuni e più economici.
D'altra parte, la tradizione più antica dei padri stigmatizza come contaminato
da vanità, ambizione ed ostentazione, tutto ciò che esce dall'uso ordinario e
comune
[28]. In realtà nessuno tra coloro che abbiamo visto
risplendere per il merito della conoscenza e della discrezione, o che la grazia
di Cristo aveva posti prima di tutti gli altri come splendidi luminari al fine
di proporli come modelli per tutti, non si è, a nostra conoscenza, astenuto dal
pane che presso di loro è considerato comune e facile da procurare. E neanche
abbiamo mai visto conteggiare nel numero dei santi e nemmeno acquisire la grazia
della discrezione e della conoscenza qualcuno di loro che, allontanandosi da
questa regola, abbia evitato l'uso di pane per applicarsi a vivere solo di
legumi, di verdure e di frutti
[29]. Secondo i padri, il monaco non solo non deve ricercare
alimenti che gli altri non usano, per timore di esporre il suo regime alla vista
di tutti e di farne sfoggio e che, rovinato dalla vanagloria, esso rimanga vano
ed inutile; non bisogna nemmeno con facilità mostrare a tutti la comune
osservanza del digiuno ma, per quanto possibile, tenerla segreta e nascosta. Se
vengono a visitarci dei fratelli, i Padri ritengono che sia meglio mostrarsi
accoglienti e cordiali, piuttosto che scoprire il rigore della propria astinenza
e l'austerità della propria vita; non bisogna prendere in considerazione la
propria volontà, i propri interessi o l'ardore dei propri desideri, ma occorre
preferire e compiere di buon grado ciò che il bisogno di riposo o la stanchezza
dell'ospite richiedono.
CAPITOLO 24
In Egitto abbiamo sempre visto, al nostro arrivo, rompere il digiuno
quotidiano con indifferenza.
Quando, partiti dalle regioni della Siria, abbiamo raggiunto la provincia
d'Egitto, spinti dal desiderio di conoscere le massime degli anziani, abbiamo
ammirato la grande cordialità con la quale venivamo accolti: contrariamente a
ciò che ci avevano insegnato nei monasteri della Palestina, non si osservava la
regola del digiuno fino all'ora definita per i pasti ma, a parte i digiuni del
quarto e sesto giorno feriale, imposti dalla legge ecclesiastica, dovunque
andavamo il digiuno quotidiano veniva interrotto. Un anziano a cui abbiamo
chiesto come mai, presso di loro, si trascuravano così facilmente i digiuni, ci
rispose: "Il digiuno è sempre con me; ma voi, che dovrò ben presto congedare,
non potrò tenervi costantemente vicino a me. Inoltre, il digiuno, per quanto sia
utile e necessario, rimane un'offerta volontaria, mentre il compiere l'opera di
carità è una necessità richiesta dal precetto. Ricevendo il Cristo nella vostra
persona, ho l'obbligo di ristorarlo. Quando vi avrò congedati, potrò compensare
con un digiuno più stretto l'umanità che vi ho manifestato per riguardo a
Cristo. " Non possono digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con
loro. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora in quei giorni
digiuneranno" (Lc 5, 34-35)
[30].
CAPITOLO 25
La continenza di un anziano, che prese cibo per sei volte senza
soddisfare la fame.
Uno
degli anziani, dopo avermi offerto da mangiare, mi esortava a prendere
dell’altro cibo. Poiché dicevo di non poterne più prendere, rispose: «Io ho
preparato la tavola sei volte perché vi erano dei fratelli, ho invitato ognuno a
mangiare, ho mangiato con loro ed ho ancora fame. Tu invece, dopo aver mangiato
una volta sola, ti sei tanto saziato da non poter mangiare più»
[31].
CAPITOLO 26
Un anziano che non ha mai mangiato da solo nella sua cella.
Ne
abbiamo visto un altro, che viveva in solitudine e che ci testimoniò che non si
era mai permesso di mangiare da solo. Se, durante cinque interi giorni, nessuno
dei fratelli giungeva nella sua cella, egli perseverava nel ritardare la sua
refezione fino a sabato o domenica, quando si recava in chiesa per la sinossi.
Se lì avesse trovato qualche pellegrino lo avrebbe portato nella sua cella e
avrebbe preso con lui il suo pasto, non tanto per soddisfare i suoi bisogni,
quanto per benevolenza ed in considerazione del suo fratello.
Quindi, se sanno come rompere i digiuni quotidiani senza esitazione all'arrivo
dei fratelli, una volta che se ne sono andati compensano con una maggiore
astinenza il pasto che si sono concessi per loro e fanno pagare a se stessi un
alto prezzo per questo misero cibo che hanno consumato, non solo diminuendo la
loro razione di pane, ma persino riducendo il loro sonno.
CAPITOLO 27
Elogio degli abati Paesio e Giovanni.
CAPITOLO 28
La bella testimonianza che l'abate Giovanni, sul punto di morire, lasciò
ai suoi discepoli.
Lo
stesso abate Giovanni, quando fu sul punto di rendere l'ultimo respiro, era
pieno di gioia pensando che stava tornando nella sua patria. I suoi discepoli lo
circondarono con ansia supplicandolo con insistenza di lasciare loro come
eredità un precetto che avrebbe loro consentito di raggiungere più rapidamente e
facilmente il sommo della perfezione. Lui, con un sospiro, disse loro: "Non ho
mai fatto la mia volontà e non ho mai insegnato ad altri ciò che io stesso non
avessi prima fatto"
[34].
CAPITOLO 29
Dell'abate Machete, che non si assopiva mai durante le conferenze
spirituali e che si addormentava sentendo discorsi mondani.
Noi
vedemmo anche un anziano, di nome Machete, che viveva lontano dalla folla dei
fratelli. A forza di preghiere aveva ottenuto questa grazia del Signore, di non
assopirsi mai durante le conferenze spirituali, che si facessero di giorno o di
notte. Ma, se qualcuno cercava di dire una parola di malignità od inutile, si
addormentava immediatamente e il veleno della maldicenza non aveva nemmeno il
tempo di insozzargli l'orecchio
[35].
CAPITOLO 30
Massima dello stesso anziano: non bisogna giudicare nessuno.
Quello stesso anziano ci ha insegnato a non giudicare nessuno. Egli aggiunse che
ci furono tre cose su cui aveva giudicato ed accusato i suoi fratelli: sul fatto
di tagliarsi l'ugola
[36], sul fatto di avere una coperta nelle loro celle e sul
fatto di benedire l'olio per darlo ai secolari che lo richiedevano. E lui stesso
diceva di essere caduto in tutti questi errori. "Ho contratto, disse,
l'infiammazione dell'ugola che ho sofferto per lungo tempo, fino a quando,
pressato da tanto dolore e dalle esortazioni unanimi degli anziani, ho
acconsentito che me la asportassero. Questa malattia mi costrinse anche ad avere
una coperta. Infine, ho dovuto benedire dell'olio e donarlo alle persone che me
ne pregavano, nonostante fosse ciò che più detestavo poiché, a mio avviso,
traeva origine da una grande presunzione di cuore. Ma, circondato
improvvisamente da una folla di secolari, fui costretto a ciò, non potendo
sfuggire a loro in nessun modo se non cedendo alle loro vigorose suppliche:
allora ho tracciato il segno della croce ed ho imposto la mano sul vaso che mi
hanno presentato. Credendo di aver così ottenuto l'olio benedetto, mi hanno
finalmente lasciato andare.
Questi fatti mi hanno mostrato molto chiaramente che il monaco è coinvolto negli
stessi difetti e vizi per i quali egli ha la presunzione di giudicare gli altri.
Ciascuno deve giudicare solo se stesso e deve sorvegliarsi in tutto con cautela
e prudenza, ma non deve giudicare la condotta o la vita degli altri, secondo il
precetto dell'Apostolo: "Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? Stia in
piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone" (Rm 14,10.4) ed anche: "Non
giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale
giudicate sarete giudicati voi" (Mt 7,1-2). In aggiunta a quanto appena
detto, è pericoloso giudicare gli altri anche per questo motivo: ignorando la
necessità o il motivo che li costringe a fare ciò che ci sconvolge e che, agli
occhi di Dio, è buono e perdonabile, noi li abbiamo giudicati in modo temerario,
commettendo in questo modo un grave peccato, avendo avuto nei loro confronti dei
sentimenti che non convengono.
CAPITOLO 31
Rimprovero dello stesso anziano che aveva visto i fratelli che dormivano
durante le conferenze spirituali e che si svegliavano quando si raccontavano
frivole sciocchezze.
Secondo lo stesso anziano, il diavolo è istigatore di conversazioni frivole
[37] ed il costante nemico delle conferenze spirituali e
questo è l'esempio che portava. Mentre infatti discuteva con alcuni fratelli di
argomenti utili e spirituali li vide sprofondare in un sonno profondo e, mentre
non erano in grado di sollevare il peso che chiudeva i loro occhi, introdusse
improvvisamente un racconto frivolo. Vedendo che la sua attrattiva li svegliava
subito e faceva loro drizzare le orecchie, disse loro con un sospiro: "Finora
abbiamo parlato di cose celesti ed i vostri occhi cedevano ad un sonno mortale;
ma quando ho iniziato un vano racconto, dopo esserci tutti svegliati, ci siamo
scrollati di dosso il torpore che ci dominava. Almeno da ciò, comprendete quale
è stato l'avversario della conferenza spirituale e chi ha ora introdotto questo
discorso sterile e carnale. E' veramente molto evidente che si tratta di colui
che, dilettandosi del male, non cessa di favorire quest'ultimo discorso e di
attaccare la conferenza spirituale"
[38].
CAPITOLO 32
Lettere bruciate, prima di essere lette.
Non
credo che sia meno necessario raccontare questo fatto riguardante un fratello,
attento nel mantenere la purezza di cuore e molto desideroso di contemplazione
divina. Dopo quindici anni gli portarono una quantità di lettere della provincia
del Ponto, di suo padre, di sua madre e di molti amici. Egli prese in mano il
voluminoso pacchetto e, riflettendo a lungo dentro di sé, disse: "Quanti
pensieri mi suggerirà la loro lettura, che mi spingeranno sia ad una vana gioia
che ad una sterile tristezza? Per quanti giorni la memoria di coloro che hanno
scritto queste lettere distoglierà l'attenzione del mio cuore dalla
contemplazione su cui esso si concentra? Quanto tempo mi ci vorrà per eliminare
la confusione che sorgerà nella mia mente? E quanta fatica mi costerà per
ristabilire me stesso nella tranquillità dove mi trovo ora se lo spirito, una
volta scosso dall'emozione di queste letture e rammentando le parole ed i volti
di coloro che ha lasciato per così tanto tempo, comincia a rivederli di nuovo,
ad abitare con loro e ad essere loro presente con la mente e con lo spirito? A
cosa mi servirà averli lasciati corporalmente, se il mio cuore vuole
raggiungerli? Chi è morto rinunciando al ricordo di ciò che ha lasciato nel
mondo, forse che non vi ritorna facendolo rivivere?". Considerando questi
pensieri nel suo cuore, decise di non aprire nemmeno una lettera e di non
disfare neanche il pacchetto per paura che, nel passare in rassegna i nomi di
coloro che gli avevano scritto e nel ricordo del loro volto, avrebbe perso
l'ardore del suo spirito. Gettò tutto nel fuoco, ben legato come lo aveva
ricevuto, dicendo: "Andatevene, pensieri della patria, bruciate con lui e non
cercate mai più di richiamare alla mia mente ciò da cui sono fuggito "
[39].
CAPITOLO 33
La soluzione di una questione che l'abate Teodoro ottenne con la
preghiera.
Abbiamo anche visto l'abate Teodoro
[40], un uomo di grandissima santità e di notevole scienza,
non solo nella vita attiva, ma anche nella conoscenza delle Scritture. Questo
abate non doveva questa conoscenza a letture assidue, né alla letteratura di
questo mondo, ma piuttosto alla purezza del solo cuore. Inoltre, aveva
difficoltà a capire o pronunciare poche parole di greco. Una volta che cercava
di chiarire una questione molto oscura (riguardante un brano della Scrittura),
rimase in preghiera sette giorni e sette notti, senza stancarsi, finché non
ottenne da una rivelazione del Signore la soluzione desiderata
[41].
CAPITOLO 34
Pensiero dello stesso anziano,Teodoro, per insegnare in che modo il
monaco possa acquisire la scienza delle Scritture.
Questo anziano, ad alcuni fratelli che ammiravano il brillante lume della sua
scienza e che gli chiedevano il significato di certi passi della Scrittura,
rispose: "Il monaco che desidera raggiungere la conoscenza delle Scritture non
deve mai sciupare le sue fatiche sui libri dei commentatori, ma deve piuttosto
dirigere tutta l'attività della sua mente e l'ardore del suo cuore nel
purificarsi dai vizi carnali
[42]. Non appena questi sono stati cacciati, il velo delle
passioni cade dagli occhi del cuore e questi contemplano naturalmente i misteri
delle Scritture. Perché la grazia dello Spirito Santo non li ha rivelati perché
restino sconosciuti od oscurati, ma siamo noi che li rendiamo oscuri per colpa
nostra, quando il velo dei nostri peccati ottenebra gli occhi del cuore. Quando
questi ultimi tornano alla loro naturale salute, la semplice lettura delle
Scritture è sufficiente in abbondanza per contemplare la vera scienza e non c'è
bisogno che essi imparino dai commentatori; allo stesso modo gli occhi del
nostro corpo non hanno bisogno di insegnamenti per vedere, purché non soffrano
di cataratta o di cecità. Ecco perché ci sono state tante divergenze ed errori
tra i commentatori: la maggior parte di essi si sono precipitati ad interpretare
le Scritture senza applicarsi per nulla a purificare la loro mente. Ma a causa
della rozzezza e dell'impurità del loro cuore hanno intuito cose diverse,
contrarie alla fede e contradditorie tra di loro e non hanno potuto cogliere la
luce della verità"
[43].
CAPITOLO 35
Rimprovero dello stesso anziano, una notte che venne nella mia cella.
Una
volta, lo stesso anziano (Teodoro) venne inaspettatamente alla mia cella in
piena notte per controllare di nascosto, con paterna curiosità, quello che
facevo in solitudine, io che ero un inesperto anacoreta. Egli mi trovò disteso
sulla mia piccola stuoia, conclusa la solennità della sera, mentre mi disponevo
a dare ristoro al mio stanco corpo. Allora, sospirando profondamente e
chiamandomi per nome, disse: "Giovanni, a quest'ora quanti si intrattengono con
Dio e lo tengono stretto a sé! E tu ti privi di tanta luce, abbandonandoti ad
uno sterile sonno!".
E
dal momento che la virtù e la grazia dei padri ci hanno portato a raccontare
questi episodi, penso che sia necessario ricordare in questo volume la
memorabile opera di una carità di cui abbiamo fatto esperienza grazie
all'umanità di un uomo eminente, il cui nome era Archebio
[44]. In tal modo, la purezza della continenza brillerà di un
nuovo splendore, congiunta alle opere di carità e ravvivata da una così bella
varietà. In effetti l'offerta del digiuno è gradita a Dio quando viene
perfezionata dai frutti della carità.
CAPITOLO 36
Descrizione del deserto di Diolco dove vivevano degli anacoreti.
Nel
tempo in cui, ancora giovani ed inesperti, siamo giunti dai monasteri della
Palestina in una città dell'Egitto chiamata Diolco
[45], noi vi trovammo una numerosa folla di monaci che
vivevano sotto la disciplina cenobitica e meravigliosamente formati in questa
eccellente forma di vita monastica, che è anche considerata la prima
[46]. Ma poi, spinti dagli elogi che tutti ne facevano, ci
affrettammo con cuore accorto ad andare a vedere un'altra specie di monaci,
considerata più eccellente, quella degli anacoreti. Costoro dimorano
inizialmente per lungo tempo nei cenobi, dove vengono accuratamente educati,
secondo la regola, alla pazienza ed al discernimento. Quando hanno acquisito sia
la virtù dell'umiltà che quella dello spogliamento e si sono purificati da tutti
i vizi, allora penetrano nelle profondità segrete del deserto per affrontare i
terribili combattimenti dei demoni.
Avendo saputo che gli uomini dediti a questo genere di vita vivevano al di qua
del fiume Nilo, in una zona che, delimitata da un lato dal fiume e dall'altro
dalla immensità del mare, forma un'isola inospitale per chiunque, tranne che per
dei monaci in cerca di solitudine - perché la salinità del suolo e le sabbie
sterili lo rendono inadatto a qualsiasi tipo di cultura - noi ci affrettammo a
raggiungerli, spinti da un grande desiderio, ed ammirammo oltre ogni misura le
fatiche che sostenevano nel loro desiderio di raggiungere la virtù ed anche per
amore della solitudine. In verità, hanno anche una tale carenza di acqua che la
utilizzano con una parsimonia maggiore di quella che l'uomo più sobrio del mondo
dimostra nel conservare e risparmiare i più pregiati vini. Per i loro bisogni,
infatti, devono andare a cercarla nell'alveo del fiume e portarla per una
distanza di tre miglia e più. Inoltre, questa distanza è come raddoppiata a
causa dell'estrema difficoltà che devono sostenere nel superare le dune di
sabbia.
CAPITOLO 37
La benevolenza dimostrata dall'abate Archebio.
Di
conseguenza, la vista di questi monaci ci accese l'ardore di imitarli. Archebio,
che tra di loro aveva una grandissima autorità, a prova della sua amabilità ci
condusse nella sua cella. Scoperto il nostro desiderio di imitarli, finse
di voler lasciare questo posto e ci offrì la sua cella, sostenendo che l'avrebbe
abbandonata e che l'avrebbe fatto ugualmente anche se noi non fossimo giunti lì.
Accesi dal desiderio di dimorare in questo luogo ed accordando nello stesso
tempo una fiducia incondizionata alle affermazioni di un tale uomo, accettammo
di buon grado la sua proposta e prendemmo possesso della cella con tutti i
mobili e gli utensili. Egli approfittò del suo caritatevole stratagemma e se ne
andò per alcuni giorni per raccogliere le risorse necessarie per la costruzione
di un'altra cella; una volta tornato la costruì con grande fatica. Ma poco tempo
dopo vennero altri fratelli, che manifestarono a loro volta il desiderio di
rimanere. La sua caritatevole menzogna
[47] li ingannò nello stesso modo. Anche in questo caso,
consegnò loro la sua cella con tutto l'arredamento. Poi, instancabile nell'opera
di carità, se ne costruì una terza, dove rimase.
CAPITOLO 38
Come l'abate Archebio pagò un debito della madre col lavoro delle sue
mani.
Penso anche che valga la pena di raccontare un altro aspetto della carità di
questo grande uomo. I monaci di questa regione impareranno, con l'esempio di uno
solo, a custodire il rigore della continenza insieme ad un purissimo sentimento
di amore. Nato da una ben nota famiglia, a partire dagli anni della sua infanzia
disprezzò l'attaccamento al mondo ed ai suoi genitori per fuggire nel monastero
distante da Diolco circa quattro miglia. Trascorse lì tutto il tempo della sua
vita, vale a dire cinquant'anni, senza entrare né vedere il villaggio da cui era
uscito ed anche senza mai vedere il volto di una donna, nemmeno di sua madre.
Nel frattempo il padre, colto dalla morte, lasciò un debito di cento soldi.
Benché Archebio non fosse per niente preoccupato dal momento che aveva
rinunciato ai beni paterni, apprese però che sua madre era molto tormentata dai
creditori. Allora, per pietà filiale, addolcì quel rigore evangelico in base al
quale, nei giorni di prosperità dei suoi genitori, addirittura ignorava di avere
avuto sulla terra una madre e un padre. Si convinse allora di avere una madre e
si affrettò a soccorrerla nella sua sventura, ma senza rinunciare in nulla alla
regola che si era imposto. E così, rimanendo nel recinto del monastero, richiese
di triplicare il suo impegno lavorativo. In questo modo, faticando di giorno e
di notte per un anno intero, pagò ai creditori l'ammontare del debito duramente
guadagnato col sudore del proprio lavoro, liberando la madre da ogni
inquietudine e molestia. Così alleggerì sua madre dal fardello del suo debito,
senza ridurre il rigore del suo proposito di vita, a causa della necessaria
pietà filiale. Pur conservando la sua usuale austerità di vita, non negò al
cuore di sua madre quest'opera di pietà. Per amore di Cristo aveva riconosciuto
di nuovo come madre colei che, per lo stesso amore, sembrava aver trascurato.
CAPITOLO 39
Trovata di un anziano per fornire un lavoro manuale all'abate Simeone
che era inoperoso.
Vi
era un fratello a noi molto caro, di nome Simeone, che era venuto dall'Italia e
che non sapeva una parola di greco. Uno degli anziani ebbe il desiderio di fare
per lui un atto di carità, come si fa per un pellegrino, ma sotto l'apparenza
del saldo di un debito. Gli chiese perché rimanesse inattivo nella sua cella,
pensando che non avrebbe potuto rimanervi più a lungo, a causa della pigrizia e
della carenza dei beni di prima necessità che sarebbero di ostacolo alla
perseveranza; egli era persuaso che nessuno può resistere alle tentazioni della
solitudine, a meno che non abbia accettato di guadagnarsi da vivere col lavoro
delle sue mani
[48]. Simeone rispose che non conosceva e non era in grado di
fare nessuna delle attività che vedeva fare da parte dei fratelli, tranne il
lavoro di copista, ammesso che ci fosse stato qualcuno in Egitto che avesse
bisogno di un codice in latino. L'anziano, cogliendo l'occasione per compiere la
sua opera di carità sotto l'apparenza del pagamento di un debito, disse: "Ecco
un'opportunità che Dio mi ha mandato. Da tempo ero alla ricerca di qualcuno che
mi copiasse l'Apostolo (le lettere di Paolo) in latino, perché ho un fratello
nella milizia che conosce molto bene il latino ed al quale voglio inviare una
parte della Scrittura da leggere per la sua edificazione". Simeone accettò
volentieri questa occasione, come offerta da Dio stesso, ma il più felice dei
due era ancora l'anziano che approfittava di questo pretesto per compiere
liberamente l'atto di carità che meditava. Egli lo rifornì di tutto ciò che gli
serviva, come fosse l'anticipo di un anno di salario, e gi ricevette il suo
manoscritto, che non gli poteva servire a nulla (dato che in quella regione
tutti ignoravano questa lingua), ma la sua accortezza e le notevoli spese non
rimasero senza risultato. Simeone, da un lato, aveva ricevuto, senza doversi
vergognare, come salario per la sua fatica ed il suo lavoro gli alimenti
necessari per vivere: lui stesso, d'altra parte, era riuscito a compiere la sua
opera di carità come se fosse un debito da ripagare. Il suo merito davanti a Dio
fu così ancor maggiore, in quanto non si accontentò di fornire al fratello
pellegrino le necessità vitali, ma gli aveva fornito, con gli strumenti il
lavoro, la stessa opportunità di lavorare.
CAPITOLO 40
Due giovani che, portando dei fichi ad un malato, si lasciarono morire
di fame nel deserto senza assaggiarli.
Noi
ci siamo proposti in questo libro di parlare dei digiuni e della continenza e
noi vi abbiamo mescolati dei sentimenti e delle opere di carità. Torniamo ora al
nostro argomento, inserendo in questo libro un fatto ben degno di memoria che
riguarda due giovani di età, ma non di sentimento.
Un
giorno, qualcuno proveniente dalla Mareotide Libica aveva portato dei fichi
straordinari, come nessuno aveva mai visto da quelle parti, a padre Giovanni.
Costui era l'economo nel deserto di Scete e governava gli affari della chiesa di
cui, a quel tempo, era presbitero l'abate Pafnuzio. Egli inviò immediatamente i
fichi, tramite due giovani, ad un certo anziano che soffriva di malattia
nell'interno del deserto e che risiedeva a diciotto miglia dalla chiesa. I due
giovani presero i fichi e si diressero alla sua cella. Lungo il percorso si
diffuse una spessa nebbia che fece loro perdere la strada: cosa che succede
facilmente anche ai più anziani. Essi vagarono tutto il giorno e tutta la notte
attraverso l'uniforme vastità del deserto, senza trovare la cella del malato.
Alla fine, stremati dalla fatica, così come dalla fame e dalla sete, si
piegarono sulle ginocchia e resero il loro spirito al Signore mentre pregavano.
In seguito si cercarono a lungo le tracce dei loro passi perché i piedi lasciano
delle impronte nella sabbia, come avviene nella neve, finché il benché minimo
vento non le copre con una fine sabbia. Vennero trovati con i fichi intatti,
come li avevano ricevuti, preferendo donare la loro vita piuttosto che tradire
la fedeltà della consegna; perdere la loro vita in questo mondo, piuttosto che
violare l'ordine dell'anziano.
CAPITOLO 41
Sentenza dell'abate Macario sull'osservanza del monaco; egli deve
osservare il digiuno sia come se dovesse vivere cento anni, sia come se dovesse
morire lo stesso giorno
[49].
Dirò
ancora un comandamento molto salutare del beato Macario ed è con una sentenza di
un così grande uomo che voglio terminare questo libro dedicato ai digiuni ed
alla continenza. "Il monaco, diceva, deve praticare il digiuno come se dovesse
vivere cento anni e frenare le passioni della sua anima, dimenticare gli
insulti, respingere la tristezza, il disprezzo del dolore e dei danni subiti,
come se dovesse morire quello stesso giorno". Vi è, infatti, nella prima regola
un saggio e prudente discernimento, che il monaco si comporti sempre con una
uguale austerità, senza darsi l'occasione, con il pretesto di una salute
cagionevole, di lasciarsi trascinare in sentieri scoscesi verso i precipizi e la
morte. Nel secondo comandamento vi è la salutare grandezza d'animo, in grado non
solo di disprezzare l'apparente prosperità di questo mondo, ma di non farsi
scoraggiare dalle avversità e dalla tristezza, disprezzandole come piccole cose
e senza importanza, con gli occhi dell'anima costantemente fissati là dove, ogni
giorno ed in ogni momento, possiamo essere chiamati
[50].
Note estratte da vari testi:
[1]
Sal 65, 11: Volg.: "Siamo passati attraverso il fuoco e l'acqua,
ma ci hai condotti in un luogo di ristoro".
[2]
Si veda Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 3, 4:
"In un primo tempo cominciò anch’egli ad abitare nei dintorni del
villaggio e di là, non appena sentiva parlare di qualcuno che era pieno
di fervore, andava a cercarlo come l’ape sapiente e non faceva ritorno a
casa sua prima di averlo visto e di aver ricevuto una sorta di viatico
per camminare nella via della virtù…. 4,1-2 Così viveva Antonio e per
questo era amato da tutti. Si sottometteva con cuore sincero a quegli
uomini pieni di fervore che andava a visitare e da ciascuno apprendeva
lo zelo e l’ascesi in cui eccelleva. Di uno contemplava l’amabilità, di
un altro l’assiduità nella preghiera; in uno osservava la mitezza, in un
altro l’amore per il prossimo; vedeva come l’uno amasse la veglia,
l’altro la lettura delle Scritture, ammirava l’uno per la sua
perseveranza, l’altro per i digiuni e l’abitudine di dormire sulla nuda
terra; osservava la mitezza dell’uno e la generosità dell’altro e di
tutti, poi, notava la fede in Cristo e l’amore vicendevole. 2. Così
arricchitosi, se ne ritornava là dove viveva la sua vita ascetica,
raccoglieva quello che aveva imparato da ciascuno e cercava di dar prova
di tutto".
[3]
Questa sentenza di Antonio contraddice in apparenza il consiglio
dato precedentemente da Pinufio in Istituzioni, Libro IV,40: "E
perché tu possa raggiungere questa meta nel tuo dover vivere in
comunità, ti occorrerà prendere esempi da imitare, in vista di una vita
perfetta, da parte di un numero molto ristretto, fosse pure di uno o di
due, e non certo di molti". In realtà Pinufio si indirizzava ad un
principiante, mentre nel caso di Antonio si tratta di un monaco
perfettamente provato alla vita cenobitica.
[4]
Si veda Basilio, Regole diffuse 19,1: "R.: Per ciò che
riguarda le passioni dell’anima c'è soltanto una misura da fissare alla
temperanza: è la rinuncia completa a tutte quelle che tendono al piacere
immorale. Quanto agli alimenti, al contrario, poiché le necessità
differiscono per gli uni e gli altri secondo l'età, le occupazioni e la
costituzione fisica, occorrono regimi e trattamenti diversi. Ne risulta
che non si possono inglobare in una sola regola tutte quelle che si
impongono nell'esercizio della pietà ma, fissando ciò che conviene alle
normali costituzioni fisiche, permettiamo ai superiori di stabilire
prudentemente delle eccezioni per i casi particolari. Non è possibile
infatti parlare di ciascuno; occorre limitarsi a dare direttive comuni e
generali".
[5]
La libbra romana equivaleva a circa 327,2 g, ed era divisa in 12
once di circa 27,3 g.
[6]
Si confronti anche Detti dei Padri, Serie alfabetica,
Poemen 31. "Il padre Giuseppe chiese al padre Poemen: «In che modo
bisogna digiunare?». Il padre Poemen gli dice: «Vorrei che chi mangia
ogni giorno mangiasse poco, così da non saziarsi». Gli dice il padre
Giuseppe: «Padre, quando eri più giovane non digiunavi a giorni
alterni?». L’anziano disse: «In verità, digiunavo anche tre e quattro
giorni e una settimana intera. I padri, che erano capaci, hanno provato
tutte queste cose, e hanno trovato che è bene mangiare ogni giorno, ma
poco; e ci hanno tramandato la via regale, che è leggera»".
[7]
Frase completa secondo la Volgata:" Ecco, questa fu l’iniquità di
tua sorella Sòdoma e delle sue figlie: la superbia, la sazietà e
l'abbondanza di pane, l'ozio".
[8]
Si veda Basilio, Regole per i monaci, 9,9: "Non si può
neanche stabilire il tempo della refezione per tutti, né il metodo né la
qualità del cibo, ma per tutti valga la prospettiva che non si arrivi a
mangiare sino alla sazietà" ("Regole monastiche antiche" a cura
di Giuseppe Turbessi, Ed. Studium 1990). Ed anche Cassiano,
Conferenze, II, 22: "La regola generale, in materia d’astinenza, si
enuncia così: «ognuno deve prendere tanto cibo quanto ne occorre per
sostentarlo, non per satollarlo»".
[9] Si veda Detti
dei Padri, Serie sistematica XV, 82. Nei Detti dei Padri si racconta
che un fratello chiese all'Anziano: "Che cos'è l'umiltà?" e l'Anziano
rispose: "L'umiltà è una via di fatica per il corpo, fatiche compiute
con discernimento; è mettere se stessi al di sotto di ogni creatura e
invocare Dio senza sosta". Questa è la via dell'umiltà; ma l'umiltà è
divina e sfugge ad ogni comprensione. ("I Padri del deserto" a
cura di Luciana Mortari, Città Nuova 1972, pag. 293).
Ed anche Giovanni Climaco, Scala del Paradiso,
grado XXV, 59: "I Padri di eterna memoria hanno affermato che via e
fondamento dell'umiltà sono le fatiche fisiche, ma io dico che sono
l'obbedienza e la rettitudine del cuore, che anche per natura si
oppongono alla presunzione".
[10]
Si confronti Detti dei Padri, Serie alfabetica, Antonio
22: "Il padre Antonio disse: «Ritengo che nel corpo ci sia un moto
fisico connaturale, ma che non agisce se l’anima non vuole: è il
semplice moto corporeo non passionale. C’è poi un altro moto che viene
dal nutrire e curare il corpo con cibi e bevande: riscaldato da questi
elementi, il sangue desta energia nel corpo. E' a proposito di questo
che l’Apostolo diceva: Non inebriatevi di vino, nel quale è la lussuria
(Ef 5,18), e che il Signore nel Vangelo ordinò ai discepoli: Guardatevi
dall'appesantire il cuore in crapula ed ebbrezza (Lc 21,34). E c’è anche
un terzo moto: quello di chi è combattuto dall’assalto invidioso dei
demoni. Si può dire dunque che ci sono tre moti corporei: uno che viene
dalla natura, uno dai cibi presi senza discrezione, e il terzo dai
demoni". ("Vita e detti dei Padri del deserto" a cura di Luciana
Mortara, Città Nuova 2008)
[11]
Si confronti Evagrio Pontico, Trattato pratico, 98: "La
virtù è unica per natura, ma assume forme diverse nei poteri dell'anima.
È come la luce del sole che è informe, ma prende naturalmente forma
dalle finestre che attraversa".
[12] Postierla
(latino: posterula): Nelle fortificazioni del passato, piccola
porta nascosta da utilizzarsi in speciali circostanze. (Dizionario
Treccani dei Sinonimi e dei Contrari).
[13] Cassiano, nella
"Quinta Conferenza dell'abate Serapione sugli otto vizi capitali",
oppone ai vizi naturali della carne, come la lussuria e l'ingordigia, i
vizi che non dipendono dalla natura umana, come l'avarizia e l'invidia.
[14]
Qui inizia un lungo confronto, ispirato a san Paolo, con i
combattimenti atletici. Questo confronto sarà sottostante agli otto
libri delle Istituzioni e richiamato di volta in volta dalle
parole "lottare secondo le regole" di 2 Tm 2,5. Si vedano per
esempio: V,16,1; VII,20; VIII,22; X,15; XI,19; XII,32.
[15] Le competizioni
atletiche nella Grecia antica vedevano coinvolti rappresentanti delle
diverse póleis del mondo ellenico e costituirono un aspetto assai
importante della vita religiosa, politica e sociale. In particolare i
giochi Olimpici si svolgevano ad Olimpia e quelli Pitici a Delfi. I
vincitori a Olimpia ricevevano corone di ulivo selvatico ed onori vari,
mentre a Delfi ricevevano una corona d’alloro, pianta sacra ad Apollo.
[16] Si confronti
Daniele 3,49-50: "Ma l’angelo del Signore, che era sceso con Azaria e
con i suoi compagni nella fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco
della fornace e rese l’interno della fornace come se vi soffiasse dentro
un vento pieno di rugiada".
[17] Si veda anche
Basilio di Cesarea, Lettera II a Gregorio: "Si deve stabilire
un’unica ora in cui prender cibo e sia sempre la stessa che ritorna
ciclicamente, in modo che, delle ventiquattr’ore del giorno, soltanto
questa sia spesa per il corpo: le altre, l’asceta le impiegherà
nell’attività dello spirito". (Basilio di Cesarea, Opere ascetiche,
Utet 2013)
[18] Si confronti
Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, Cap. 45,1-2,
Antonio vive nel desiderio del regno dei cieli: "Antonio, ritiratosi
nella sua dimora, come era sua abitudine, intensificava la sua ascesi;
ogni giorno sospirava pensando alle dimore celesti, ne aveva desiderio e
meditava sulla breve durata della vita umana. Al momento di mangiare,
dormire o di soddisfare altre necessità del corpo, si vergognava
pensando alla natura spirituale dell’anima. (Atanasio di Alessandria
- Antonio abate, Vita di Antonio, Detti – Lettere, Paoline
Editoriale Libri 2007).
[19]
Cassiano si serve dello stesso paragone nella Conferenza I,
cap. V, Similitudine dell'arciere, dove il bersaglio è la purezza
del cuore ed il fine è il regno dei cieli. Qui invece il fine è la vita
eterna e questa prospettiva deve essere capace di attirare lo sguardo
interiore in modo che non venga distolto dalle preoccupazioni terrene.
[20]
L'ottativo è un modo finito del verbo greco e di altre lingue
indoeuropee, che esprime il desiderio e la possibilità.
[21]
Questo versetto è citato quattro volte da Cassiano (Istituzioni
V, 19,2; Conferenze, III, XVII e XIII, XIV,7). Questo versetto è
sempre all'indicativo secondo il testo greco, e non al congiuntivo come
nella Vulgata di Girolamo.
[22] Questo tema del
combattimento "contro i Principati e le Potenze" è lungamente
sviluppato nella Conferenza VIII: "Gli spiriti che si dicono
principati".
[23] Si veda una
simile raccomandazione in Istituzioni IV, 18. Divieto di prendere
cibo fuori tempo: "Prima e dopo la refezione regolare e comune si
osserva con cura straordinaria che nessuno, fuori della mensa, osi
concedere qualche cibo alle proprie labbra".
[24]
Si possono trovare numerose citazioni dei Padri riguardanti
questa necessità della temperanza "spirituale" unita a quella della
gola. Si veda Giovanni Crisostomo, Catechesi quarta post battesimale,
1: "Anche se è trascorso il periodo del digiuno, o amati, deve tuttavia
rimanere la pietà. Anche se è terminato il tempo della santa quaresima,
almeno non cancelliamone il ricordo. Ma che nessuno di voi, vi
scongiuro, si mostri insofferente verso l’esortazione: non per
costringervi di nuovo a digiunare dico queste cose, ma perché voglio che
siate rilassati e che piuttosto ora pratichiate in modo più rigoroso il
vero digiuno. E possibile infatti digiunare pur senza digiunare. E come?
Ve lo dico subito: quando assumiamo dei cibi, ma ci asteniamo dai
peccati. È questo il digiuno veramente utile e grazie ad esso si
realizza anche l’astinenza dai cibi, affinché ci mettiamo a correre più
speditamente verso la virtù. Se dunque vogliamo sia prenderci la cura
del corpo che si conviene, sia mantenere l’anima libera dai peccati,
facciamo così, ben convinti.
Ed anche Basilio di Cesarea, Regole diffuse,
16: "Non è soltanto contro i piaceri della bocca che è diretta la
pratica della temperanza, poiché comprende anche la rinuncia a tutto ciò
che potrebbe ostacolare la pratica della virtù. Chi vive nella
temperanza perfetta non controlla il suo ventre per essere in seguito
vinto dalla gloria umana; non controlla i suoi cattivi istinti, senza
dominare anche l'appetito della ricchezza e qualsiasi altra inclinazione
spregevole: alla collera, alla gelosia o ad altre sensazioni, che
dominano di solito le anime ribelli. Penso proprio che si possa
osservare in modo particolare, a proposito del precetto della
temperanza, ciò che si constata riguardo ai comandamenti, e cioè che
sono uniti tra loro e che è impossibile osservarli separatamente". E
ancora Basilio, Regola per i monaci, 8, 23-28: "La chiamiamo
continenza non per il fatto che ci si debba astenere dal cibo del tutto,
ciò che significa stroncare violentemente la vita, ma consideriamo tale
quella continenza, per la quale l’uso della vita risulta non superfluo,
ma necessario; se evitiamo quanto è piacevole, compiamo ciò che richiede
solo la necessità del corpo. E, per dirla in breve, la virtù della
continenza consiste nell’astenersi da tutto ciò che viene ricercato con
un desiderio passionale. E perciò dunque non solo nel mangiare cibi e
nel piacere si riconosce la virtù della continenza, ma quando ci
asteniamo da tutte quelle le cose, nelle quali proviamo sì una
dilettazione carnale ma restiamo offesi nell'anima. Il vero continente
non desidera nemmeno la gloria umana, ma si tiene lontano dai vizi,
dall'ira, dalla tristezza, e da tutto ciò che suole tenere troppo
impegnate le anime incolte e imprudenti. Quasi in tutti i comandamenti
di Dio constatiamo che uno è strettamente unito all’altro, ed è
impossibile che uno venga osservato senza che si osservi anche l’altro.
[25] Il tema del
digiuno collegato con la misericordia lo si trova sia nella Sacra
Scrittura che nella tradizioni dei Padri. Per esempio si veda Isaia
58,6-8: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le
catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli
oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane
con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel
vestire uno che vedi nudo senza distogliere gli occhi da quelli della
tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si
rimarginerà presto, davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria
del Signore ti seguirà».
San Pietro Crisologo, Discorso 43:
«Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola,
e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e
la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non
riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha
tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi
digiuna abbia misericordia».
Detti dei padri del deserto,
Collezione alfabetica, Iperechio 4: «vano è il digiuno senza carità,
ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la
maldicenza i propri fratelli».
[26] Si confronti
Basilio di Cesarea, Regole diffuse 19 (oppure molto simile
Regola per i monaci 9): "In ogni caso bisogna preferire ciò che è
più ordinario perché, col pretesto della continenza, non ci preoccupiamo
di trovare cose particolarmente pregiate e dispendiose, approntando i
cibi con condimenti di gran valore. Bisogna anzi scegliere ciò che vi è
in ciascuna regione di facilmente reperibile e di poco pregio, in uso
presso la maggior parte della gente, servendoci di cose importate solo
per quelle strettamente necessarie alla vita, come l’olio e simili,
oppure per qualcosa che sia adatto al necessario ristoro da offrire ai
malati. Ma anche in questi casi, a patto che sia possibile ottenerle
senza traffici, tumulto e agitazione".
Ed anche Evagrio Pontico, Rerum monachalium
rationes, 3: "Assumi cibo in scarsa quantità e di basso prezzo, che
non sia di pregio e che non richieda grande cura".
[27] Si confronti
anche Cassiano, Conferenza V, 11: "Esistono tre sottospecie di
golosità. La prima spinge il monaco a nutrirsi senza tener conto
dell’ora stabilita dalla regola; la seconda si diletta nell’ingurgitarsi
e nel mangiare con voracità; la terza vuole cibi ricercati e delicati".
[28] Cassiano
utilizza lo stesso principio a proposito dell'abito dei monaci. Si veda
per esempio Istituzioni, I,3: "Infatti, qualunque cosa sia
detenuta da uno solo o da una minoranza dei servi di Dio, ma non sia
posseduta universalmente da tutto il corpo della fraternità, tutto ciò è
superfluo o pretenzioso. Per questa ragione deve essere giudicata nociva
e come manifestazione di vanità piuttosto che di virtù. Perciò sarà
necessario che noi eliminiamo come superfluo ed inutile tutto ciò di cui
non vediamo esempi né tra i santi dell'antichità che hanno posto le basi
di questo stato di vita, né tra i Padri del nostro tempo che, fino ad
oggi, conservano le istituzioni che hanno ricevuto".
[29] Si confronti
Cassiano, Conferenza II,19: "Quale sia la misura ottima del cibo
quotidiano - Mosè - Posso dirvi che i nostri Padri hanno molto discusso
su questo argomento. Dopo aver osservato il metodo di non pochi
solitari, i quali erano sempre vissuti di legumi, d’erbe, di frutti, i
Padri stimarono preferibile l’uso del solo pane, e stabilirono che la
giusta misura giornaliera era quella di due « passamazi (lat.
paxamatiis)», che sono pagnottelle di circa mezza libbra ciascuna".
[30]
Questo capitolo esprime la dottrina costante del monachesimo
primitivo nel Basso Egitto ed è citato nelle grandi collezioni degli
apoftegmi. Per esempio Detti dei Padri, Serie Alfabetica,
Cassiano 1 (= Serie Sistematica, XIII, 2): Il padre Cassiano
raccontò: «Mi recai in Egitto assieme al santo Germano da un anziano che
ci ospitò. Gli chiedemmo: - Come mai nell’ospitare dei fratelli
forestieri non osservate la regola del digiuno quale l’abbiamo ricevuta
in Palestina? - Il digiuno è sempre con me - rispose -, mentre non posso
trattenere voi con me sempre. Il digiuno è certo utile e necessario, ma
dipende dalla nostra scelta, mentre la legge di Dio esige l’adempimento
della carità come dovere assoluto. Poiché in voi accolgo Cristo, devo
servirvi con tutto il mio zelo; quando vi avrò congedati, potrò
riprendere la regola del digiuno. Non possono i figli del talamo
digiunare finché lo sposo è con loro. Quando lo sposo sarà loro tolto,
allora per forza digiuneranno». ("Vita e detti dei Padri del deserto" a
cura di Luciana Mortara, Città Nuova 2008).
[31]
Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 3 e
Serie Sistematica, XIII, 3 è quasi uguale.
[32] Molto
probabilmente si tratta dell'abate Giovanni di cui viene detto nella
Conferenza XIV,4: "il quale governò il grande cenobio situato nelle
vicinanze della città che porta il nome di Tmuis (Thumuis, città posta
sulla riva destra del Nilo, lungo il Delta, non lontana da Panefisi)".
[33]
Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 4 e
Serie Sistematica, IV, 24 è quasi uguale. Si confronti anche
Sulpicio Severo, Dialoghi, I,12,1: "In questo monastero io vidi
due anziani che si diceva vivessero lì da quarant'anni e che non se ne
sarebbero mai andati da lì. Non mi sembra di dover tacere della loro
menzione: ho infatti sentito la seguente dichiarazione rilasciata
riguardo alle loro virtù, con la testimonianza dell'Abate stesso e di
tutti i fratelli, che nel caso di uno di loro, il sole non l'ha mai
visto prendere cibo e, nel caso dell'altro, il sole non l'ha mai visto
adirato".
[34]
Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 5 e
Serie Sistematica, I, 10 è quasi uguale.
[35]
Si confronti Detti dei Padri, Serie Alfabetica,
Cassiano 6 e Serie Sistematica, XI, 18: "Raccontò ancora di un
altro anziano che viveva nel deserto e aveva chiesto a Dio la grazia di
non addormentarsi mai quando si teneva un discorso spirituale; di
sprofondare invece immediatamente nel sonno se qualcuno facesse della
maldicenza o dicesse parole oziose, perché le sue orecchie non
gustassero questo veleno. Diceva: «Il diavolo è fautore delle parole
oziose e nemico di ogni insegnamento spirituale». E portava questo
esempio: «Un giorno in cui dicevo ad alcuni fratelli delle cose utili,
furono presi da un sonno così profondo da non potere nemmeno muovere le
palpebre. Per mostrare l’azione del demonio, cominciai a fare
chiacchiere sciocche. A ciò si rallegrarono e si svegliarono subito; e
io dissi sospirando: - Finché abbiamo parlato di cose celesti, tutti voi
avevate gli occhi appesantiti dal sonno. Ma appena sono uscite dalla mia
bocca parole oziose, vi siete destati subito con entusiasmo. Perciò,
fratelli, vi esorto a riconoscere l’azione del demonio; vegliate su voi
stessi e guardatevi dal sonnecchiare quando fate o udite qualcosa di
spirituale» ".
[36]
Operazione praticata in certi casi di infiammazione dell'ugola,
frequenti nelle regioni paludose. Secondo gli anziani l'ugola veniva
curata normalmente con gargarismi ed applicazioni di unguenti, salvo i
casi più gravi in cui occorreva ridurla alla sua lunghezza abituale.
Si veda per esempio Plinio il Vecchio (23 – 79
d.C.), Storia Naturale, Lib. XXIII, LXXX ed altri capitoli: "In
caso di infiammazione dell'ugola si dovranno bollire tre once di queste
bacche o di foglie di alloro in tre misure di acqua fino a ridurre il
tutto a un terzo. Fare poi dei gargarismi con questo decotto".
Ed anche Aulo Cornelio Celso (17 a.C. – 37
d.C.), De medicina, VII, 12, 3: "Se l'ugola, a causa
dell'infiammazione, è allungata verso il basso, ed è dolorosa e di
colore rosso scuro, non può essere eliminata senza pericolo; di solito
molto sangue scorre e quindi è meglio impiegare il trattamento descritto
altrove. Ma se, anche se non vi è infiammazione, è stata trascinata
verso il basso a causa della flemma ed è sottile, appuntita e bianca,
dovrebbe essere tagliata via; così anche quando la punta è bluastra e
nera, ma la base è sottile".
[37]
Cfr. Mt 12, 36: "Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli
uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio".
[38]
Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 6
finale, e Serie Sistematica, XI, 18 finale, è quasi uguale.
[39]
Molto probabilmente il "fratello" di cui parla in questo capitolo
è Evagrio Pontico, morto nel deserto di Nitria verso il 399 e la cui
dottrina ha avuto molta influenza su Cassiano.
[40]
Molto probabilmente si tratta di Teodoro delle Celle,
protagonista della Conferenza VI, da non confondere con il suo
più celebre omonimo, amico di Pacomio, terzo abate di Tabenna e che morì
prima che Cassiano andasse in Egitto. Tutta la Conferenza,
imperniata sul perché molti santi monaci erano stati "trucidati da bande
di briganti saraceni" senza che il Signore sia intervenuto a
proteggerli, è un susseguirsi di citazioni bibliche a cui Teodoro da
chiare spiegazioni. La Conferenza termina infatti con queste parole: "La
gioia di questa conferenza superava di gran lunga la tristezza che aveva
cagionato il pensiero della morte dei santi, Non solo erano stati
sciolti i nostri dubbi, ma c'erano state rivelate, in questa occasione,
molte altre cose che la nostra corta intelligenza non avrebbe mai
pensato di indagare".
L'insediamento di monaci anacoretici chiamato le
Celle fu fondato da Ammonio, stando all'episodio narrato fra i detti di
Antonio (n.34). Dopo essersi consigliato con Antonio, Ammonio si ritirò
ad una certa distanza dal centro monastico di Nitria e fondò un
insediamento costituito da celle sparse su di un'area più vasta, ad una
distanza più grande l'una dall'altra e dalla chiesa. In questo modo i
monaci vivevano in una solitudine maggiore rispetto a Nitria che,
essendo distante circa 60 miglia da Alessandria, era maggiormente a
contatto con la città e più coinvolto nelle vicende ecclesiali e nelle
dispute teologiche.
[41]
Si confronti anche Detti dei Padri, Serie Alfabetica,
Antonio 26. Dei fratelli fecero visita al padre Antonio e gli
proposero una parola del Levitico. L’anziano allora si appartò nel
deserto; il padre Ammone, che ne sapeva le abitudini, lo seguì di
nascosto. L’anziano, allontanatosi assai, ritto in preghiera, gridò a
gran voce: «O Dio, manda Mosè a spiegarmi questa parola». E gli giunse
una voce, e gli parlò. Ora, il padre Ammone disse: «La voce che gli
parlava l’ho udita, ma non ho compreso il senso del discorso».
[42] Cassiano è ben
lungi dall'insegnare la dottrina della libera interpretazione, seguendo
l'esempio ed il consiglio dell'abate Teodoro. Egli non dice che tutti
possono facilmente comprendere le Sacre Scritture, ma che il modo
migliore per capirle è di purificare il proprio cuore. I cuori puri sono
necessariamente soggetti all'autorità della Chiesa e, se l'abate Teodoro
raccomanda di non affaticarsi a leggere i commenti alle Scritture, è
perché questi commenti, ai suoi tempi, erano pieni di contraddizioni e
di errori che oscuravano la verità, invece di farla conoscere. Nota
estratta da" Institutions de Cassien", a cura di E. Cartier,
Parigi, Poussielgue frères 1872.
[43]
Si confronti Cassiano, Conferenza XVI, 9: "E allora,
mantenendo costante la premura della lettura (della Scrittura), che io
già m’accorgo da voi coltivata, procurate di perfezionare con ogni cura
la vostra vita attiva, vale a dire quella morale. Senza di questa
infatti non è possibile arrivare alla purezza della contemplazione, di
cui già ho parlato; una tale purezza, infatti, la raggiungono soltanto
coloro che sono divenuti perfetti, non per effetto degli insegnamenti
altrui, ma per l’efficacia della propria condotta e quasi come per
ricompensa dopo essersi impegnati con molta dedizione e molte fatiche. E
in realtà essi non hanno conseguito quell’intelligenza dalla meditazione
della Legge, ma dal frutto della loro operosità, e così perciò possono
cantare con il salmista: “Dai tuoi decreti io ricevo intelligenza” (Sal
118,104), come pure, dopo avere soppresse tutte le loro passioni,
possono ripetere con fiducia: “Voglio cantare inni a Te e agirò con
intelligenza nella via dell’innocenza” (Sal 100,1-2). Di fatto, nella
recitazione dei salmi, comprenderà quello che viene cantato proprio
colui che pone i passi del suo cuore puro lungo le vie dell’innocenza.
Perciò, se voi volete disporre nel vostro cuore il sacro tabernacolo
della scienza spirituale, purificatevi dal contagio di tutti i vizi e
dalle influenze del secolo presente. Non è infatti possibile che
un’anima, occupata anche per poco nelle faccende del mondo, meriti il
dono della scienza o la capacità di produrre frutti spirituali o di
divenire tenace prosecutrice delle sante letture.
[44]
Da non confondere con l'omonimo vescovo di Panefisi. Si veda
Conferenza VII, 26 e XI,2.
[45]
Città del Basso Egitto, ai bordi del mare, nel Delta del Nilo.
[46] Nella
Conferenza XVIII, cap. IV e V, sulle tre specie dei monaci che si
trovano in Egitto, Cassiano parla dei cenobiti, degli anacoreti e dei
sarabaiti. "La prima è la specie dei cenobiti, vale a dire di quei
monaci che vivono raggruppati in una comunità, sotto la guida e la
direzione di un Anziano. Costoro sono sparsi in tutto l'Egitto e il loro
numero è molto elevato". Oltre ad essere la prima per importanza,
Cassiano ritiene che sia la prima anche cronologicamente, poiché "nacque
al tempo della predicazione apostolica... Questa è la sola specie di
monaci dei tempi più antichi: essa è la prima nel tempo e la prima per
grazia". In realtà il monachesimo nacque agli inizi del IV secolo, con
Antonio e Pacomio.
Anche Girolamo, Lettera 22 a Eustochio,
(scritta nel 383/384), utilizza questa classificazione: “Giacché il
discorso è caduto sui monaci, e so come ascolti volentieri i discorsi
edificanti, prestami attenzione per un momento. In Egitto ci sono tre
categorie di monaci: i cenobiti, che nella parlata locale sono detti
sauhes, che potremmo definire: «coloro che vivono in comunità»; gli
anacoreti, che abitano soli nel deserto, denominati così perché vivono
segregati dal resto dell’umanità; la terza categoria è costituita dai
cosiddetti remnuoth: pessima sorta di monaci da tutti
disprezzata, la sola, o almeno la più numerosa nella mia provincia”.
[47]
L'insegnamento di Cassiano riguardo alle "menzogne caritatevoli"
ha posto delle difficoltà ai suoi commentatori. Secondo alcuni la teoria
di Cassiano risalirebbe a Clemente Alessandrino, Origene e Giovanni
Crisostomo e si opporrebbe alla teoria agostiniana. Agostino conclude
così il suo Trattato sulla menzogna: "Dall’insieme delle
discussioni fatte risulta con estrema chiarezza che dalle testimonianze
scritturali addotte non ci viene altro monito all’infuori di quello di
non mentire mai e poi mai. In realtà nella condotta dei santi e nelle
loro opere non si trova alcun esempio di menzogna che debba essere
imitato".
[48] Si confronti
Istituzioni X, 8: "«Noi non fummo mai inquieti in mezzo a voi» (2 Ts
3, 7). Volendo dimostrare di non essere mai stato inquieto in mezzo a
loro, proprio in merito alla sua operosità, san Paolo pone in evidenza
che coloro i quali ricusano di lavorare, vivono in una continua
inquietudine a causa della loro oziosità".
[49]
La stessa sentenza di Macario è citata da Evagrio Pontico,
Trattato pratico, 29: "Ecco ciò che diceva il nostro santo e molto
pratico (cioè grande asceta) maestro: «Bisogna che il monaco stia sempre
pronto, come se dovesse morire l'indomani e, inversamente, usi del suo
corpo come se dovesse vivere con lui numerosi anni. Ciò, infatti,
diceva, da un lato sopprime i pensieri dell'acedia e rende il monaco più
zelante e, dall'altro, mantiene il suo corpo in buona salute e mantiene
sempre uguale la sua astinenza»".
[50]
Si noti come questa prospettiva escatologica concluda quasi tutti
i libri della seconda parte delle Istituzioni. Per esempio si
veda Istituzioni XII, 33. "Rifletteremo sul fatto che presto
emigreremo da questo mondo e, dopo questa corta esistenza, condivideremo
la loro sorte (del Signore e dei santi). Questo pensiero trionferà non
solo sulla superbia, ma su tutti i vizi in generale".
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1 febbraio 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net