LE ISTITUZIONI CENOBITICHE

di GIOVANNI CASSIANO

LIBRO QUINTO

LO SPIRITO DELL'INGORDIGIA

"Libera traduzione"

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CAPITOLO 1

Transizione dalle istituzioni monastiche alla lotta contro gli otto vizi principali.

Qui inizia, con l'aiuto di Dio, il mio quinto libro. Dopo i primi quattro, che sono stati dedicati alle istituzioni dei monasteri, ho deciso di intraprendere la lotta contro gli otto vizi principali, forte dell'aiuto che il Signore mi concederà, con le vostre preghiere. Il primo è l'ingordigia o gastrimargia, che significa la concupiscenza della gola; il secondo, la fornicazione; il terzo, la filargyria, che significa l'avarizia; il quarto, l'ira; il quinto, la tristezza; il sesto, l'acedia, che è un'ansietà o una tedio del cuore; il settimo, la cenodoxia, che significa la vana o vuota gloria; l'ottavo, la superbia. Al momento di impegnarmi in un tale combattimento io sento più forte, o beatissimo papa Castore, il bisogno delle tue preghiere al fine di analizzare in primo luogo la loro natura, che è qualcosa di così delicato, misterioso ed oscuro, in secondo luogo per esporre le loro cause in modo soddisfacente, in terzo luogo per indicare il trattamento ed i rimedi appropriati.

 

CAPITOLO 2

Come ogni uomo porti in sé le cause dei vizi e tuttavia le ignora. Noi abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio per manifestarle.

Le cause dei vizi sono tali che, manifestate dalla dottrina degli anziani, ciascuno le riconosce immediatamente; ma prima che siano rivelate, sebbene non ci sia nessuno che non ne sia devastato e che non le abbia in sé, tutti le ignorano. Da parte mia ho la certezza di riuscire a spiegarle in una certa misura se, grazie alle vostre intercessioni, verrà rivolta anche a me la parola del Signore precedentemente pronunciata da Isaia: "Io marcerò davanti a te; umilierò i potenti della terra, spezzerò le porte di bronzo e romperò le spranghe di ferro. Ti consegnerò tesori nascosti e misteri segreti" (Is 45,2-3: Volg.). Se la Parola di Dio ci precederà, essa potrà far cadere i potenti della nostra terra, vale a dire le stesse passioni malvagie che desideriamo abbattere e che rivendicano sul nostro corpo un dominio crudele e tirannico. Inoltre, la parola di Dio li sottoporrà alla nostra analisi ed alle nostre spiegazioni e, spezzando le porte dell'ignoranza e le spranghe dei vizi che ci escludono dalla vera conoscenza, ci condurrà ai nostri misteri più segreti. A questo punto, secondo la parola dell'Apostolo, dopo averci illuminati ci "metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori"! (1Cor 4,5). Così, penetrando con il puro sguardo dell'anima le tenebre oscure dove sono nascosti i vizi, possiamo scoprirli e portarli alla luce. Potremo anche riuscire a chiarire le loro cause e la loro natura a coloro che non li hanno sperimentati, così come a coloro che vi sono ancora incatenati. Secondo ciò che dice il profeta, noi possiamo, attraversando il fuoco dei vizi che bruciano così crudelmente le nostre anime, passare immediatamente senza danno attraverso le acque delle virtù che estinguono i vizi. Poi, irrorati dai rimedi spirituali, meriteremo di essere condotti al ristoro della perfezione, nella purezza del cuore (Sal 65,11: Volg.) [1].

 

CAPITOLO 3

Il nostro primo combattimento è contro lo spirito della gastrimargia, ovvero la concupiscenza della gola.

Il primo combattimento che dobbiamo affrontare è contro lo spirito della gastrimargia, che chiamiamo la concupiscenza della gola. Poiché dovremo parlare soprattutto della regola dei digiuni e della qualità del cibo, ci rifaremo alle tradizioni ed agli statuti degli egiziani, che brillano allo stesso tempo per un'astinenza più sublime e per una discrezione perfetta, come tutti sanno.

 

CAPITOLO 4

Testimonianza dell'abate Antonio, secondo il quale si deve imparare ogni virtù da colui che la possiede in modo particolare.

Infatti, c'è una massima antica ed ammirabile del beato Antonio [2]: se un monaco, dopo aver vissuto la vita cenobitica, si sforza di raggiungere la vetta di una perfezione più sublime e, prendendo in mano la regola della discrezione, ha il potere ormai di fare affidamento sul proprio giudizio e di raggiungere le vette della vita anacoretica, questo monaco non deve ricercare in una sola persona, per quanto eminente sia, l'esempio di ogni virtù. L'uno è adornato dai fiori della conoscenza; l'altro sembra più fortemente armato di discrezione; quest'altro ancora è fondato nella gravità della pazienza. Un primo prevale per la virtù dell'umiltà; un secondo, per l'astinenza. Un altro brilla per la grazia della semplicità: un altro ancora supera il resto dei fratelli in magnanimità; quell'altro in misericordia; un altro, nell'amore per le veglie; questo quarto, nell'amore per il silenzio; l'ultimo, nello zelo del lavoro. Il monaco che desidera comporre un miele spirituale, come un'ape prudente, dovrà raccogliere il fiore di ogni virtù da coloro a cui questa è più familiare e lo depositerà diligentemente nell'arnia del proprio cuore. Non dovrà esaminare cosa manca in questo o quello, ma dovrà considerare solo ciò che egli possiede in virtù e raccoglierlo con ardore. Perché, se desideriamo attingere da uno solo tutte le perfezioni, troveremo gli esempi da imitare solo difficilmente, o niente affatto [3]. Noi non vediamo ancora Cristo "tutto in tutti" (1Cor 15,28), secondo la parola dell'Apostolo. In questo modo, tuttavia, intendo per singole parti, è possibile per noi scoprirlo in tutti. Si dice di Lui: " Grazie a Dio (voi siete in) Cristo Gesù, (il quale) per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione " (1Cor 1, 30). Ma mentre la saggezza è in questo, la giustizia in quello, in un primo la santità, in un secondo la mansuetudine, nell'uno la castità e nell'altro l'umiltà, Cristo è diviso membro a membro in ciascuno dei suoi santi; ed è perché tutti contribuiscono all'unità della fede e della virtù che egli ritorna "allo stato di uomo perfetto", completando la pienezza del suo Corpo (Ef 4,13) con l'unione di tutte le membra e delle loro caratteristiche distintive. Così, fino al momento in cui "Dio sarà tutto in tutti" (1Cor 15,28), al tempo presente è nel modo in cui abbiamo detto, cioè con la condivisione delle virtù, che Dio può essere tutto in tutti, anche se non è ancora tutto in tutti quanto alla loro pienezza. Per quanto sia uno solo il fine della nostra religiosità, varie sono le professioni con cui si tende a Dio, come verrà mostrato più abbondantemente nelle Conferenze degli anziani. Di conseguenza, noi dobbiamo chiedere un modello di discernimento e di astinenza in particolare a coloro nei quali vediamo risplendere in abbondanza queste virtù, per grazia dello Spirito Santo. Noi non sosteniamo che qualcuno possa acquisire da solo tutti quei doni che sono divisi tra molti, ma in questi beni di cui possiamo essere capaci, applichiamoci ad imitare coloro che li hanno ottenuti in un grado eminente.

 

CAPITOLO 5.

Non tutti possono osservare un'identica regola di digiuno.

Per questo motivo non è facile mantenere una regola uniforme per il digiuno. Non tutti hanno lo stesso vigore fisico ed il digiuno non è, come le altre virtù, una questione di sola volontà. E proprio perché non dipende unicamente dalla forza dell'anima, ma deve anche contare sulle possibilità del corpo, ecco la dottrina ben definita che ci è stata insegnata su questo punto: la diversità per i tempi, la misura e la qualità, secondo le differenze di costituzione, di età, di sesso; una sola ed uguale regola per tutti riguardo allo spirito della continenza ed alla virtù interiore della mortificazione [4].

Non è possibile a tutti prolungare il digiuno per una settimana, e neppure rimandare il pasto fino a due o tre giorni dopo. Ci sono molti che, stremati già dalle malattie e soprattutto dalla vecchiaia, non possono sopportare di digiunare fino al tramonto senza un'estrema fatica. I legumi bolliti, che sono così poco energetici, non sono adatti a tutti; le piante vegetali, senza nulla che le accompagni, costituiscono una dieta povera, che non va bene a tutti; tutti, infine, non potrebbero accontentarsi di un pasto rigoroso con pane secco. Con due libbre [5] di pane l'uno non si sente sazio, mentre un altro si sente pesante con una libbra o con sei once. Tuttavia, il fine della continenza rimane lo stesso per tutti: che nessuno, in base alla capacità del suo ventre, si riempia fino alla sazietà con voracità. [6] Oltre alla qualità, anche la quantità di cibo attenua l'acutezza del cuore ed accende, dopo aver appesantito l'anima nello stesso momento del corpo, il pernicioso focolaio dei vizi.

 

CAPITOLO 6

Lo spirito non si inebria solo con il vino.

Qualunque sia il cibo, il ventre sazio dà origine ai semi della lussuria e lo spirito, soffocato dal peso del cibo, non è più in grado di dirigere il timone del discernimento. Non è solo il vino che lo inebria; ogni eccesso di cibo lo rende vacillante ed instabile e lo priva del tutto della contemplazione integra e pura. La causa della perversione e del peccato di Sodoma non fu l'ubriachezza del vino, ma la sazietà di pane. Ascolta il rimprovero del Signore al profeta di Gerusalemme: "In cosa ha peccato tua sorella Sodoma, se non per aver mangiato il suo pane a sazietà ed in abbondanza?" (Ez 16,49: Volg. [7]). E poiché la sazietà del pane accendeva i loro inestinguibili fuochi nella loro carne, con un giudizio di Dio una pioggia di zolfo e di fuoco cadde dal cielo e li consumò. Ma se il semplice eccesso di pane li ha precipitati così rapidamente in un abisso di vergogna, cosa dovremo pensare di coloro che, con i corpi sani e vigorosi, si concedono carne e vino con una libertà senza misura, non per soddisfare i legittimi bisogni della debolezza, ma per obbedire alle suggestioni della lussuria.

 

CAPITOLO 7

Perché l'infermità corporale non può impedire la purezza del cuore.

L'infermità fisica non è un ostacolo alla purezza del cuore, purché si ricorra al cibo ascoltando solo le esigenze della fragilità della carne e non quelle del piacere. Ma noi abbiamo visto più facilmente degli uomini astenersi da ogni nutrimento più sostanzioso, piuttosto che prenderli moderatamente, quando erano stati concessi loro come necessari; li abbiamo visti negarsi ogni cosa per amore della continenza, piuttosto che usarne in giusta misura in occasione di una malattia. Anche un corpo debilitato ha modo di raccogliere la palma della vittoria per la propria continenza: lo fa con l'uso degli alimenti che la sua debolezza richiede, non saziandosi completamente e concedendosi con rigido discernimento la quantità considerata sufficiente per vivere, non ciò che il desiderio della natura richiede. I cibi sostanziosi, fornendo la salute al corpo, non oscurano la purezza della castità, se vengono assunti con moderazione. Infatti, il vigore acquisito con questo mezzo sarà consumato dalla stanchezza e dalla spossatezza della malattia. Di conseguenza, nessuna condizione fisica impedisce di vivere con sobrietà, così come non può neanche privare dell'integrità perfetta.

 

CAPITOLO 8

In che modo dobbiamo desiderare ed assumere il cibo.

È quindi vera e provata quella massima dei Padri [8] che il digiuno e l'astinenza consistono solo nella sobrietà e nella moderazione, e che per tutti vale come regola generale che il fine della virtù perfetta è di non saziarsi completamente nell'uso del cibo che siamo obbligati a prendere per sostenere il nostro corpo. Per quanto uno sia malato potrà in questo modo raggiungere la perfezione dell'astinenza proprio come gli uomini robusti e sani, se mortificherà per austerità dell'anima i desideri che non sono giustificati dalla fragilità della carne. Dice infatti l'Apostolo: "Non lasciatevi prendere dai desideri della carne" (Rm 13,14). Perciò non proibisce assolutamente che ci prendiamo cura della carne, ma non vuole che ce ne prendiamo cura così da soddisfare le sue passioni. Egli bandisce le voluttuose attenzioni per la carne, ma non esclude il necessario mantenimento della vita; quello, affinché non cadiamo nel potere dei desideri malvagi per compiacere alla carne; questo, affinché il nostro corpo, spossato per nostra colpa, non possa più soddisfare agli indispensabili obblighi spirituali.

 

CAPITOLO 9

Della misura nelle mortificazioni e del rimedio al digiuno eccessivo.

Non dobbiamo giudicare l'essenza della continenza, né solo dalla sua durata, né dalla qualità del cibo, ma soprattutto dal giudizio della propria coscienza. Ognuno deve fissare il suo programma di frugalità, come richiesto dalla lotta contro le ribellioni della carne. Certo, l'osservanza dei digiuni regolari è utile e questo punto richiede assoluta fedeltà ma, se non ne consegue una refezione frugale, è impossibile raggiungere l'obiettivo che è l'integrità. I pasti abbondanti che seguono ai lunghi digiuni generano la stanchezza corporale piuttosto che la purezza della castità. L'integrità della mente è legata al digiuno dello stomaco. Chi non acconsentirà a mantenere una regola costante di temperanza, non possiederà per sempre la purezza della castità. I digiuni più severi, seguiti da un eccessivo rilassamento, non servono a niente e ci trascinano senza indugio nel vizio dell'ingordigia. E' meglio un pasto quotidiano preso con misura ragionevole, che un digiuno severo e lungo ma saltuario. Un digiuno smisurato non solo danneggia la costanza dello spirito, ma indebolisce l'efficacia della preghiera a causa della stanchezza del corpo.

 

CAPITOLO 10

L'astinenza dai cibi non può essere sufficiente per mantenere la purezza dell'anima e del corpo.

Per preservare l'integrità dell'anima e del corpo, l'astinenza dal cibo non è sufficiente da sola, se non vi si uniscono le altre virtù. Prima di tutto bisogna imparare l'umiltà attraverso la virtù dell'obbedienza, la contrizione del cuore e le fatiche del corpo [9]. Non occorre solo evitare il possesso delle ricchezze, ma bisogna estirparne radicalmente il desiderio. Infatti, non basta non possederne - ciò che molto spesso avviene anche per necessità - ma non dobbiamo neanche accettare il desiderio di possederne, nel caso ci venissero offerte. Dobbiamo reprimere la furia dell'ira, superare lo sconforto della tristezza, disprezzare la "cenodoxia", ovvero la vanagloria, calpestare l'orgoglio della superbia e frenare, col continuo ricordo di Dio, le divagazioni vaganti e volubili dei nostri pensieri. Occorre ricondurre alla contemplazione divina il nostro cuore che se ne allontana, ogni volta che il nemico sottile si insinua con le sue tentazioni nel segreto del nostro cuore e cerca di strapparlo dallo sguardo su Dio.

 

CAPITOLO 11

La concupiscenza carnale si estingue solo con la distruzione di tutti i vizi.

È, infatti, impossibile estinguere il fuoco della carne prima di aver tagliato alle radici anche il fuoco degli altri vizi principali. Noi analizzeremo, con la grazia di Dio, ognuno di essi separatamente, in singoli libri ed a suo tempo. Il nostro attuale proposito è di trattare dell'ingordigia o gastrimargia, ovvero della concupiscenza della gola, contro cui dobbiamo combattere la nostra prima battaglia. Non sarà mai in grado di reprimere il fuoco della concupiscenza chi non riuscirà a frenare i desideri della gola [10]. La castità dell'uomo interiore la si riconosce dal grado di compimento di questa virtù (della continenza). Si può essere certi che non potrà mai combattere contro avversari più robusti colui che avrai visto soccombere, in un combattimento più facile, ad un nemico più debole. Tutte le virtù hanno la stessa natura [11], per quanto sia grande il numero dei generi e dei nomi che le dividono, come l'oro è una sostanza unica, per quanto possa apparire differenziata dal genio e dalla volontà degli artisti, nell'infinita diversità dei gioielli. Colui che risulta mancante in una sola di queste virtù, proverà di non possederne nessuna in modo perfetto. Come possiamo credere che abbia estinto le fiamme ardenti della concupiscenza, che si illuminano in noi su istigazione del corpo e del vizio della mente, colui che non è stato in grado di placare i pungoli dell'ira che sorgono solo attraverso l'intemperanza del cuore? Come pensare che sia riuscito a reprimere le voluttuose eccitazioni della carne, colui che non ha potuto superare il semplice vizio della superbia? Come credere che ha calpestato la lussuria, innata nella nostra carne, chi non è stato capace di abdicare alla concupiscenza delle ricchezze, che è esterna ed estranea alla nostra natura? In qual modo trionferà nella guerra dell'anima e del corpo, colui che non è stato in grado di curare la malattia della tristezza? Per quanto alte siano le mura e le possenti porte chiuse che difendono una città, il tradimento di una sola postierla [12], piccola quanto si vuole, permetterà il suo saccheggio.  Che differenza c'è, infatti, se il nemico mortale penetra nel cuore della città passando sulle alte mura ed attraverso le porte spalancate o dal passaggio segreto di una stretta galleria?

 

CAPITOLO 12

Per la lotta spirituale è necessario prendere esempio anche della lotta fisica.

"Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole". (2 Tim 2,5). Chi desidera estinguere gli appetiti naturali della carne, si affretti prima a superare i vizi che sono al di fuori della nostra natura [13]. Se, infatti, desideriamo provare la portata della parola apostolica, dobbiamo prima imparare le leggi e la disciplina delle lotte mondane [14] in modo da poter conoscere, per confronto, ciò che il beato Apostolo voleva insegnare a noi che combattiamo il combattimento spirituale. Ecco l'usanza osservata nei combattimenti mondani che, secondo lo stesso Apostolo, procurano al vincitore solo "una corona corruttibile". (1 Cor 9,25). Sia nei giochi Olimpici che nei giochi Pitici [15], chi pretende di guadagnare la gloriosa corona, arricchita dal privilegio dell'immunità, e desidera affrontare i combattimenti più difficili, deve innanzitutto mostrare la sua giovane forza e l'addestramento acquisito. È su questi punti che sono giudicati i giovani che aspirano a partecipare ai giochi, sia da parte di chi presiede che da parte di tutto il popolo. Questi decideranno sul loro merito e se devono essere ammessi.

 Si esamina in primo luogo se la vita del candidato non è macchiata da alcuna infamia, in secondo luogo se il giogo degradante della schiavitù non lo ha reso indegno di tale disciplina ed indegno di lottare contro coloro che la praticano, in terzo luogo se ha dato segni sufficienti della sua abilità e forza; inoltre, se si è confrontato con avversari della sua età, deve aver dimostrato sia l'abilità che il vigore della sua giovinezza. In seguito, dopo l'esame di chi presiede, gli si permetterà di abbandonare le battaglie con gli efebi e gli si permetterà di combattere con uomini maturi e con una lunga esperienza. E quando, durante i duri combattimenti, non solo si mostrerà uguale per valore, ma spesso vincerà, allora, infine, meriterà di essere ammesso alle più importanti gare dove possono affrontarsi solo i campioni che hanno già meritato numerose corone.

Se abbiamo compreso questo esempio della lotta materiale, il confronto deve farci comprendere quali siano la disciplina e l'ordine del combattimento spirituale.

 

CAPITOLO 13

Finché non ci liberiamo dal vizio della gola, non possiamo accostarci alle battaglie dell'uomo interiore.

Dobbiamo anche noi dimostrare prima di tutto la nostra qualità di uomini liberi, attraverso la sottomissione della nostra carne. " L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina" (2 Pt 2,19) e " Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8,34). Quindi, quando chi presiede alla lotta scoprirà che non siamo intaccati dall'infamia di nessuna ignobile concupiscenza e che la schiavitù della carne non ci rende indegni di combattere le lotte olimpiche contro i vizi, allora noi saremo in grado di impegnarci in combattimento con i nostri coetanei, vale a dire contro le concupiscenze della carne, i moti e le passioni dell'anima. Perché un ventre sazio non è in grado di sostenere le lotte dell'uomo interiore; né chi viene sopraffatto in una lieve lotta è degno di sottoporsi alla prova di combattimenti più difficili.

 

CAPITOLO 14

Com'è possibile superare la concupiscenza della gola.

Il primo avversario da sconfiggere è quindi la concupiscenza della gola e noi dobbiamo per questo motivo mortificarci non solo con i digiuni, ma con le veglie, le letture e la continua compunzione del cuore nel ricordo delle colpe in cui siamo caduti per inganno o per debolezza. Noi dobbiamo infiammarci sia per l'orrore del vizi sia per il desiderio di perfezione e di purezza finché la nostra anima, tutta presa da questi santi pensieri, non considererà più il nutrimento come un piacere che le è accordato, ma come un fardello che le è imposto, e comprenderà bene che se il cibo è necessario al corpo non è assolutamente desiderabile per l'anima. Quando avremo questa disposizione mentale, unita ad un'incessante compunzione, riusciremo a reprimere la dissolutezza della carne, che viene eccitata dagli eccessi del cibo, ed a smussare i suoi malvagi pungoli. Noi respingeremo questi dannosi attacchi e spegneremo questa fornace ardente che il re di Babilonia (ovvero il demonio) accende nei nostri corpi, sviluppando i vizi e le occasioni di peccato. Noi potremo spegnere, con l'abbondanza delle nostre lacrime ed il pianto del cuore, queste fiamme che bruciano più della nafta e della pece; quando infine, per grazia di Dio, lo Spirito scenderà nei nostri cuori come una dolce rugiada [16], estinguerà tutti gli ardori della concupiscenza della carne.

Quindi, questo è il primo combattimento e la nostra prima prova, in questa specie di gare Olimpiche, per estinguere la concupiscenza della gola e del ventre con il desiderio della perfezione. In questa prospettiva non basta mortificare l'appetito superfluo con la contemplazione delle virtù, ma ciò che è necessario alla natura non deve essere preso con cuore leggero, in quanto contrario alla castità. Infine, è necessario regolare il corso della nostra vita partendo da questa idea, che il tempo in cui siamo più lontani dai pensieri spirituali è quello in cui la fragilità del corpo ci obbliga ad accondiscendere ai suoi bisogni [17]. Perciò ci sottometteremo a questa necessità, ma come uomini che sono pronti a soddisfare le esigenze vitali piuttosto che a soddisfare i loro desideri, e ci affretteremo ad allontanarcene come fosse un ostacolo alle nostre occupazioni salutari. È impossibile disprezzare i piaceri della gola se la nostra anima, applicandosi alla contemplazione di Dio, non trova maggior piacere nell'amore delle virtù e nella bellezza delle cose celesti. E così, chi disprezza come deperibili tutte le cose presenti e guarda senza sosta quelle che sono immutabili ed eterne, potrà già contemplare nel proprio cuore la felicità che lo attende nella futura dimora, pur rimanendo nella carne [18].

 

CAPITOLO 15

Come il monaco deve sempre applicarsi a custodire la purezza del proprio cuore.

Prendiamo l'esempio di un uomo che si sforza di raggiungere, concentrando il suo sguardo nella direzione del giavellotto, la straordinaria ricompensa posta molto in alto e che egli distingue in base ad indizi quasi impercettibili. Sapendo quale grande gloria e quale ricompensa riceverà se riuscirà a colpire il segno, egli non può fare altro che distogliere il suo sguardo da ogni altro oggetto per concentrarlo sul punto dove egli vede che si trova una così grande ricompensa che egli evidentemente perderà se il suo occhio dovesse deviare anche di poco dal bersaglio [19].

 

CAPITOLO 16

Il monaco, seguendo l'esempio di ciò che accade nelle gare Olimpiche, non può portare a termine le lotte spirituali se non ha conseguito la vittoria nei combattimenti della carne.

Se questa contemplazione (della beatitudine eterna) trionfa in noi sulla concupiscenza del ventre e della gola, non saremo dichiarati schiavi del peccato né disonorati dal vizio e, come nelle regole Olimpiche, saremo giudicati degni di affrontare le lotte di grado superiore. Dopo queste prove del nostro valore, saremo reputati in grado di misurarci con gli spiriti del male, che si degnano di combattere solo contro dei vittoriosi e contro coloro che meritano di lottare nel combattimento spirituale.

Il solido fondamento, se così possiamo dire, di tutte le lotte sta innanzitutto nel distruggere gli stimoli dei desideri carnali. Chi non ha vinto la sua stessa carne, non può combattere secondo le regole. E chi non combatte secondo le regole, non può prendere parte alle prove decisive, né meritare con la vittoria la gloria della corona (2 Tm 2,5). Se saremo sconfitti in questo primo combattimento, noi proveremo che siamo schiavi della concupiscenza carnale e privi delle insegne di libertà e di forza e, per questo motivo, noi saremo esclusi, non senza vergogna, dalle lotte spirituali, come indegni e schiavi. Infatti: "Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato" (Gv 8, 34). Ed il beato Apostolo ci dirà, come a coloro di cui si parla di fornicazione: " Nessuna tentazione vi ha sorpresi, se non umana " (1 Cor 10,13). Non meriteremo di conoscere i più formidabili combattimenti contro le potenze celesti, finché non saremo riusciti a conquistare la solidità dello spirito, né a soggiogare la fragile carne che resisteva al nostro spirito. Alcuni non comprendono la testimonianza dell'Apostolo e mettono l'ottativo [20] al posto dell'indicativo, ovvero leggono: "Nessuna tentazione vi sorprenda, se non umana!". È chiaro, tuttavia, che l'Apostolo non ha parlato da uomo che esprime un desiderio, ma un'affermazione o un rimprovero [21].

 

CAPITOLO 17

Il fondamento e la base del combattimento spirituale si trovano nella lotta contro l'ingordigia.

Vuoi sentire cosa dice il vero atleta di Cristo che combatte secondo le regole? " Io dunque corro," dice, " ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato" (1 Cor 9,26-27). Vedete come ha appoggiato su se stesso, cioè sulla sua carne, come una base molto solida, la lotta principale, ed ha fatto dipendere tutto il successo del combattimento nel castigare la sua carne e nella sottomissione del suo corpo? Ed è perciò che dice: " Corro verso la mèta". Non corre senza meta perché, rivolgendo lo sguardo alla Gerusalemme celeste, ha il cuore fisso là dove occorre dirigere la propria attività senza deviazioni. Non corre senza meta, perché " dimenticando ciò che gli sta alle spalle, si protende verso ciò che gli sta di fronte", correndo risolutamente " verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù "(Fil 3,13-14). Dirigendo costantemente lo sguardo del suo spirito verso quella meta ed affrettandosi con tutto l'ardore del cuore, proclama con fiducia: " Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede" (2 Tim 4.7). Consapevole di aver corso instancabilmente dietro "la fragranza degli unguenti" (Ct 1, 3: Volg.) di Cristo e di aver vinto nella lotta spirituale con la mortificazione della sua carne, con fiducia prosegue e dice: " Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno" (2 Tm 4,8).

Quindi, per farci sperare la stessa ricompensa, se vogliamo imitarlo in questa corsa, aggiunge: " non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione" (2Tm 4,8). In questo modo ci assicura che saremo partecipi della sua corona nel giorno del giudizio se, amando la venuta di Cristo - non solo la venuta che un giorno si manifesterà anche a coloro che la rifiutano, ma anche quella che si realizza ogni giorno nelle anime dei santi – noi otterremo la vittoria nel combattimento mortificando il corpo. Di questa venuta il Signore dice nel Vangelo: "Mio Padre ed io verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23) e ancora: " Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).

 

CAPITOLO 18

Attraverso quanti combattimenti e vittorie il beato Apostolo conquistò la corona nella lotta più sublime.

L'Apostolo, tuttavia, non si accontenta di dire che ha terminato la corsa quando dice: "Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta" (1Cor 9,26). E queste parole riguardano soprattutto la tensione della sua anima ed il fervore del suo spirito, che gli facevano seguire Cristo con tutto l'ardore, cantando con la Sposa: "Corriamo dietro a te, alla fragranza dei tuoi unguenti" (Ct 1, 3: Volg.) ed ancora: " A te si stringe l’anima mia" (Sal 63(62),9). Ma testimonia di aver anche vinto in una lotta di diverso genere, dicendo: "Faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù" (1Cor 9,26-27). E ciò si riferisce esattamente alle pene della continenza, del digiuno corporeo e dell'afflizione della carne. Egli si descrive come un pugile senza paura che combatte contro la sua carne. Inoltre, sottolinea che non ha colpito invano la carne a colpi di temperanza, ma che ha ottenuto il trionfo nella lotta attraverso la mortificazione del suo corpo. Mentre lo castigava con le percosse della continenza e lo spezzava con il guantone del digiuno, egli conferiva allo spirito vincitore la corona dell'immortalità e la palma dell'incorruttibilità.

Osserva l'ordine regolare della lotta ed ammira l'esito dei combattimenti spirituali: vedi come l'atleta di Cristo, avendo conquistato la vittoria sulla sua carne ribelle mettendola, per così dire, sotto i suoi piedi, si avanza come un sublime trionfatore. Perciò egli "non corre senza una meta", perché aveva la fiducia di entrare senz'altro nella città santa, la Gerusalemme celeste. Egli combatte così, attraverso digiuni e afflizioni della carne, "non come chi batte l'aria", vale a dire che non assesta invano i colpi della continenza. In effetti, egli non colpisce l'aria vuota, quando castiga il suo corpo, ma percuote gli spiriti che sono nell'aria. Chi infatti dice "non come chi batte l'aria", mostra che, anche se non colpisce l'aria vuota, tuttavia egli colpisce gli esseri che sono nell'aria. E poiché aveva superato questo tipo di combattimento ed avanzava arricchito dalla ricompensa di numerose corone, comincia meritatamente a sperimentare gli assalti di nemici più forti. Dopo aver sconfitto i suoi primi avversari, egli esclama con fiducia: "La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti" (Ef 6,12) [22].

 

CAPITOLO 19

Gli atleti di Cristo hanno sempre da combattere, fintanto che rimangono nel corpo.

Fino a quando l'atleta di Cristo rimane nel suo corpo, non gli mancherà mai la palma della vittoria conquistata nelle lotte. Ma quanto più cresce il numero dei suoi successi, tanto più temibile è la lotta che poi lo attende. Una volta soggiogata e vinta la carne, quante legioni avversarie, quanti battaglioni di nemici insorgono contro questo soldato di Cristo, istigati dalle sue vittorie! E' evidente che ciò avviene per impedirgli di dimenticare i suoi gloriosi combattimenti, assopendosi in un tranquillo riposo e, indebolito dal torpore della sicurezza, di essere privato delle sue ricompense e del trionfo che egli merita. Pertanto, se desideriamo salire a nostra volta, col progresso nelle virtù, ad un così alto trionfo, dobbiamo affrontare questi combattimenti seguendo la stessa strategia. Ed in primo luogo, noi diremo con l'Apostolo: "Faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù" (1Cor 9,26-27). Vittoriosi in questo scontro, noi potremo ancora dire con lui: "La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti" (Ef 6,12). Altrimenti, noi non potremo assolutamente entrare in conflitto con loro e non meriteremo di sperimentare i combattimenti spirituali, fino a quando saremo sconfitti nel conflitto della carne e distrutti nella lotta contro il ventre. A buon diritto l'Apostolo ci dirà, in tono di rimprovero: "Nessuna tentazione vi ha sorpresi, se non umana" (1Cor 10,13).

 

CAPITOLO 20

Il monaco non deve trasgredire l'orario regolare dei pasti, se vuole essere in grado di combattere le lotte interiori.

Il monaco che vuole quindi affermarsi nelle lotte dell'uomo interiore, deve innanzitutto imporsi questa attenzione: non si permetta mai, per una debolezza della gola, di bere o mangiare assolutamente niente al di fuori della tavola, prima della pausa fissata dalla regola e dell'ora comune del pasto; terminato questo, non si permetta di trattenere qualcosa per sé [23]; similmente osservi anche il tempo e la misura di sonno come fissati dalla regola, poiché bisogna sopprimere queste due intemperanze della mente con la stessa attenzione del vizio dell'impurità. In effetti, colui che non è riuscito a contenere gli eccessivi appetiti della gola, come estinguerà il fuoco della concupiscenza carnale? E chi non è riuscito a sottomettere le passioni deboli e che tutti vedono, come potrà, con la sola guida del discernimento, vincere le passioni nascoste e che bruciano senza che nessuno le veda? Ognuno dei nostri movimenti disordinati, ognuno dei nostri desideri è una prova sicura a cui viene sottoposta la forza dell'anima. Se essa viene sconfitta da deboli e visibili passioni, come sopporterà le più forti e violente passioni che restano nascoste? A ciascuno la testimonianza della propria coscienza.

 

CAPITOLO 21

La pace interiore del monaco e l'astinenza spirituale.

Non abbiamo avversari da temere fuori di noi; il nemico è dentro noi stessi. Esso ci fa una guerra intestina ogni giorno dentro di noi; se lo vinciamo, ogni nemico esteriore perderà la sua forza e tutte le cose saranno rappacificate e soggette al soldato di Cristo. Quindi, non dovremo temere nessun avversario dall'esterno se avremo vinto e sottoposto allo spirito quelli che sono in noi. Non pensiamo, quindi, che il digiuno degli alimenti visibili sia sufficiente per la perfezione del cuore e per la purezza del corpo se non vi è congiunto il digiuno dell'anima [24].

Anch'essa ha, infatti, i suoi alimenti nocivi e, una volta che se ne è appesantita, non c'è bisogno di abbondanza di cibo per farla rotolare nei precipizi della lussuria. La denigrazione è un alimento dell'anima e di una dolcezza ineguagliabile. Anche l'ira è un cibo dell'anima, ma senza la minima dolcezza; essa, tuttavia, all'ora stabilita la nutre di un cibo funesto e la prostra allo stesso tempo con un sapore mortale. L'invidia è un nutrimento della mente che la corrompe con i suoi succhi velenosi e, povera lei, non cessa mai di tormentarla alla vista della prosperità e del successo degli altri. La cenodoxia, cioè la vanagloria, è un nutrimento dell'anima che al momento la lusinga con un gusto delizioso, ma poi la lascia vuota, spogliata delle virtù, in una miseria assoluta, sterile e povera di frutti spirituali: l'anima ha perso per causa sua il merito di immense fatiche ed inoltre si è guadagnata maggiori tormenti. Ogni concupiscenza ed ogni divagazione del cuore è come un cibo per l'anima, ma che la nutre con alimenti funesti e la lascia ormai priva del pane celeste e del vero cibo.

Per quanto ci è possibile asteniamoci da questi cibi con un digiuno spirituale in modo che l'osservanza del digiuno corporale sia utile e proficua. Infatti, la fatica del corpo unita alla contrizione dello spirito rende un sacrificio molto gradito a Dio e gli prepara una dimora pura ed incontaminata nel nostro cuore purificato. Ma se, mentre digiuniamo nel corpo ci abbandoniamo ai vizi perniciosi per l'anima, l'afflizione della carne non ci sarà di alcuna utilità per il fatto che, a causa dei nostri peccati, saremo contaminati nella parte più preziosa di noi stessi e che fa di noi la dimora dello Spirito Santo. Perché non è tanto la carne corruttibile quanto il cuore puro che diventa la dimora di Dio ed il tempio dello Spirito Santo. Pertanto, mentre il nostro uomo esteriore sta digiunando, anche il nostro uomo interiore deve astenersi da cibi nocivi, lui che deve presentarsi a Dio senza macchia per meritare di ricevere in sé Cristo come ospite. Il beato Apostolo ci avverte di ciò con queste parole: " Nell’uomo interiore (mediante il suo Spirito), il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori " (Ef 3,16-17).

 

CAPITOLO 22

L'astinenza del corpo deve essere praticata per giungere, grazie a lei, al digiuno spirituale.

Teniamo bene a mente che il lavoro dell'astinenza corporale non ha altro scopo per noi che quello di giungere, per mezzo di questo digiuno, alla purezza del cuore. Ma è una fatica inutile se, mentre la sopportiamo infaticabilmente considerando il suo fine, non riusciamo ad ottenere il fine per il quale abbiamo sopportato tali afflizioni. Sarebbe stato meglio astenersi dai cibi vietati all'anima piuttosto che imporre al nostro corpo il digiuno da alimenti meno nocivi. Questi, in effetti, sono semplici ed innocue creature di Dio; non commettiamo nessun peccato se li consumiamo. Ma il nutrimento dell'anima consiste in quella malsana tendenza a divorare i nostri fratelli, di cui si dice: "Non amare la calunnia, per non essere annientato" (Pr 20,13: LXX) [25]. Ed a proposito dell'ira e dell'invidia il beato Giobbe ha queste parole: " Poiché la collera uccide lo stolto e l’invidia fa morire lo sciocco " (Gb 5,2). Occorre notare che colui che si arrabbia viene giudicato stolto e l'invidioso uno sciocco. Il primo merita la qualifica di sciocco dal momento che, sotto il pungolo della rabbia, si procura volontariamente la morte. Il secondo, per il fatto stesso che si abbandona all'invidia, dimostra la sua pochezza ed inferiorità. In effetti la sua invidia testimonia che è più grande di lui colui della cui la felicità egli è tormentato.

 

CAPITOLO 23

Quale debba essere il cibo del monaco.

Scegliamo allora un alimento che non solo calmi le passioni dell'infiammata concupiscenza e le accenda il meno possibile, ma che sia invece facile da preparare, che si possa procurare in abbondanza a basso prezzo e che serva al regime ed all'uso comune dei fratelli [26]. Ci sono tre tipi di ingordigia. L'una spinge ad evitare i pasti regolari. La seconda guarda alla quantità, indipendentemente dal tipo di cibo, purché ne abbia a sazietà. La terza si diletta dei piatti ricercati e succulenti [27]. E' necessario che il monaco, contro di essa, osservi una triplice osservanza. In primo luogo attenda il tempo stabilito dalla regola prima di rompere il digiuno; poi sia soddisfatto di una quantità limitata di cibo; in terzo luogo si accontenti degli alimenti più comuni e più economici.

D'altra parte, la tradizione più antica dei padri stigmatizza come contaminato da vanità, ambizione ed ostentazione, tutto ciò che esce dall'uso ordinario e comune [28]. In realtà nessuno tra coloro che abbiamo visto risplendere per il merito della conoscenza e della discrezione, o che la grazia di Cristo aveva posti prima di tutti gli altri come splendidi luminari al fine di proporli come modelli per tutti, non si è, a nostra conoscenza, astenuto dal pane che presso di loro è considerato comune e facile da procurare. E neanche abbiamo mai visto conteggiare nel numero dei santi e nemmeno acquisire la grazia della discrezione e della conoscenza qualcuno di loro che, allontanandosi da questa regola, abbia evitato l'uso di pane per applicarsi a vivere solo di legumi, di verdure e di frutti [29]. Secondo i padri, il monaco non solo non deve ricercare alimenti che gli altri non usano, per timore di esporre il suo regime alla vista di tutti e di farne sfoggio e che, rovinato dalla vanagloria, esso rimanga vano ed inutile; non bisogna nemmeno con facilità mostrare a tutti la comune osservanza del digiuno ma, per quanto possibile, tenerla segreta e nascosta. Se vengono a visitarci dei fratelli, i Padri ritengono che sia meglio mostrarsi accoglienti e cordiali, piuttosto che scoprire il rigore della propria astinenza e l'austerità della propria vita; non bisogna prendere in considerazione la propria volontà, i propri interessi o l'ardore dei propri desideri, ma occorre preferire e compiere di buon grado ciò che il bisogno di riposo o la stanchezza dell'ospite richiedono.

 

CAPITOLO 24

In Egitto abbiamo sempre visto, al nostro arrivo, rompere il digiuno quotidiano con indifferenza.

Quando, partiti dalle regioni della Siria, abbiamo raggiunto la provincia d'Egitto, spinti dal desiderio di conoscere le massime degli anziani, abbiamo ammirato la grande cordialità con la quale venivamo accolti: contrariamente a ciò che ci avevano insegnato nei monasteri della Palestina, non si osservava la regola del digiuno fino all'ora definita per i pasti ma, a parte i digiuni del quarto e sesto giorno feriale, imposti dalla legge ecclesiastica, dovunque andavamo il digiuno quotidiano veniva interrotto. Un anziano a cui abbiamo chiesto come mai, presso di loro, si trascuravano così facilmente i digiuni, ci rispose: "Il digiuno è sempre con me; ma voi, che dovrò ben presto congedare, non potrò tenervi costantemente vicino a me. Inoltre, il digiuno, per quanto sia utile e necessario, rimane un'offerta volontaria, mentre il compiere l'opera di carità è una necessità richiesta dal precetto. Ricevendo il Cristo nella vostra persona, ho l'obbligo di ristorarlo. Quando vi avrò congedati, potrò compensare con un digiuno più stretto l'umanità che vi ho manifestato per riguardo a Cristo. " Non possono digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora in quei giorni digiuneranno" (Lc 5, 34-35) [30].

 

CAPITOLO 25

La continenza di un anziano, che prese cibo per sei volte senza soddisfare la fame.

Uno degli anziani, dopo avermi offerto da mangiare, mi esortava a prendere dell’altro cibo. Poiché dicevo di non poterne più prendere, rispose: «Io ho preparato la tavola sei volte perché vi erano dei fratelli, ho invitato ognuno a mangiare, ho mangiato con loro ed ho ancora fame. Tu invece, dopo aver mangiato una volta sola, ti sei tanto saziato da non poter mangiare più» [31].

 

CAPITOLO 26

Un anziano che non ha mai mangiato da solo nella sua cella.

Ne abbiamo visto un altro, che viveva in solitudine e che ci testimoniò che non si era mai permesso di mangiare da solo. Se, durante cinque interi giorni, nessuno dei fratelli giungeva nella sua cella, egli perseverava nel ritardare la sua refezione fino a sabato o domenica, quando si recava in chiesa per la sinossi. Se lì avesse trovato qualche pellegrino lo avrebbe portato nella sua cella e avrebbe preso con lui il suo pasto, non tanto per soddisfare i suoi bisogni, quanto per benevolenza ed in considerazione del suo fratello.

Quindi, se sanno come rompere i digiuni quotidiani senza esitazione all'arrivo dei fratelli, una volta che se ne sono andati compensano con una maggiore astinenza il pasto che si sono concessi per loro e fanno pagare a se stessi un alto prezzo per questo misero cibo che hanno consumato, non solo diminuendo la loro razione di pane, ma persino riducendo il loro sonno.

 

CAPITOLO 27

Elogio degli abati Paesio e Giovanni.

 Quando l'abate Giovanni [32], capo di un grande monastero e di una moltitudine di fratelli, andò a visitare l'abate Paesio che viveva in un immenso deserto e, come ad un amico di vecchia data, gli domandò cosa avesse fatto durante quarant'anni in cui aveva vissuto separato da lui in solitudine, senza essere disturbato dai fratelli. "Il sole, disse, non mi ha mai visto mangiare". Rispose Giovanni: "E non mi ha mai visto adirato" [33].

 

CAPITOLO 28

La bella testimonianza che l'abate Giovanni, sul punto di morire, lasciò ai suoi discepoli.

Lo stesso abate Giovanni, quando fu sul punto di rendere l'ultimo respiro, era pieno di gioia pensando che stava tornando nella sua patria. I suoi discepoli lo circondarono con ansia supplicandolo con insistenza di lasciare loro come eredità un precetto che avrebbe loro consentito di raggiungere più rapidamente e facilmente il sommo della perfezione. Lui, con un sospiro, disse loro: "Non ho mai fatto la mia volontà e non ho mai insegnato ad altri ciò che io stesso non avessi prima fatto" [34].

 

CAPITOLO 29

Dell'abate Machete, che non si assopiva mai durante le conferenze spirituali e che si addormentava sentendo discorsi mondani.

Noi vedemmo anche un anziano, di nome Machete, che viveva lontano dalla folla dei fratelli. A forza di preghiere aveva ottenuto questa grazia del Signore, di non assopirsi mai durante le conferenze spirituali, che si facessero di giorno o di notte. Ma, se qualcuno cercava di dire una parola di malignità od inutile, si addormentava immediatamente e il veleno della maldicenza non aveva nemmeno il tempo di insozzargli l'orecchio [35].

 

CAPITOLO 30

Massima dello stesso anziano: non bisogna giudicare nessuno.

Quello stesso anziano ci ha insegnato a non giudicare nessuno. Egli aggiunse che ci furono tre cose su cui aveva giudicato ed accusato i suoi fratelli: sul fatto di tagliarsi l'ugola [36], sul fatto di avere una coperta nelle loro celle e sul fatto di benedire l'olio per darlo ai secolari che lo richiedevano. E lui stesso diceva di essere caduto in tutti questi errori. "Ho contratto, disse, l'infiammazione dell'ugola che ho sofferto per lungo tempo, fino a quando, pressato da tanto dolore e dalle esortazioni unanimi degli anziani, ho acconsentito che me la asportassero. Questa malattia mi costrinse anche ad avere una coperta. Infine, ho dovuto benedire dell'olio e donarlo alle persone che me ne pregavano, nonostante fosse ciò che più detestavo poiché, a mio avviso, traeva origine da una grande presunzione di cuore. Ma, circondato improvvisamente da una folla di secolari, fui costretto a ciò, non potendo sfuggire a loro in nessun modo se non cedendo alle loro vigorose suppliche: allora ho tracciato il segno della croce ed ho imposto la mano sul vaso che mi hanno presentato. Credendo di aver così ottenuto l'olio benedetto, mi hanno finalmente lasciato andare.

Questi fatti mi hanno mostrato molto chiaramente che il monaco è coinvolto negli stessi difetti e vizi per i quali egli ha la presunzione di giudicare gli altri. Ciascuno deve giudicare solo se stesso e deve sorvegliarsi in tutto con cautela e prudenza, ma non deve giudicare la condotta o la vita degli altri, secondo il precetto dell'Apostolo: "Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone" (Rm 14,10.4) ed anche: "Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi" (Mt 7,1-2). In aggiunta a quanto appena detto, è pericoloso giudicare gli altri anche per questo motivo: ignorando la necessità o il motivo che li costringe a fare ciò che ci sconvolge e che, agli occhi di Dio, è buono e perdonabile, noi li abbiamo giudicati in modo temerario, commettendo in questo modo un grave peccato, avendo avuto nei loro confronti dei sentimenti che non convengono.

 

CAPITOLO 31

Rimprovero dello stesso anziano che aveva visto i fratelli che dormivano durante le conferenze spirituali e che si svegliavano quando si raccontavano frivole sciocchezze.

Secondo lo stesso anziano, il diavolo è istigatore di conversazioni frivole [37] ed il costante nemico delle conferenze spirituali e questo è l'esempio che portava. Mentre infatti discuteva con alcuni fratelli di argomenti utili e spirituali li vide sprofondare in un sonno profondo e, mentre non erano in grado di sollevare il peso che chiudeva i loro occhi, introdusse improvvisamente un racconto frivolo. Vedendo che la sua attrattiva li svegliava subito e faceva loro drizzare le orecchie, disse loro con un sospiro: "Finora abbiamo parlato di cose celesti ed i vostri occhi cedevano ad un sonno mortale; ma quando ho iniziato un vano racconto, dopo esserci tutti svegliati, ci siamo scrollati di dosso il torpore che ci dominava. Almeno da ciò, comprendete quale è stato l'avversario della conferenza spirituale e chi ha ora introdotto questo discorso sterile e carnale. E' veramente molto evidente che si tratta di colui che, dilettandosi del male, non cessa di favorire quest'ultimo discorso e di attaccare la conferenza spirituale" [38].

 

CAPITOLO 32

Lettere bruciate, prima di essere lette.

Non credo che sia meno necessario raccontare questo fatto riguardante un fratello, attento nel mantenere la purezza di cuore e molto desideroso di contemplazione divina. Dopo quindici anni gli portarono una quantità di lettere della provincia del Ponto, di suo padre, di sua madre e di molti amici. Egli prese in mano il voluminoso pacchetto e, riflettendo a lungo dentro di sé, disse: "Quanti pensieri mi suggerirà la loro lettura, che mi spingeranno sia ad una vana gioia che ad una sterile tristezza? Per quanti giorni la memoria di coloro che hanno scritto queste lettere distoglierà l'attenzione del mio cuore dalla contemplazione su cui esso si concentra? Quanto tempo mi ci vorrà per eliminare la confusione che sorgerà nella mia mente? E quanta fatica mi costerà per ristabilire me stesso nella tranquillità dove mi trovo ora se lo spirito, una volta scosso dall'emozione di queste letture e rammentando le parole ed i volti di coloro che ha lasciato per così tanto tempo, comincia a rivederli di nuovo, ad abitare con loro e ad essere loro presente con la mente e con lo spirito? A cosa mi servirà averli lasciati corporalmente, se il mio cuore vuole raggiungerli? Chi è morto rinunciando al ricordo di ciò che ha lasciato nel mondo, forse che non vi ritorna facendolo rivivere?". Considerando questi pensieri nel suo cuore, decise di non aprire nemmeno una lettera e di non disfare neanche il pacchetto per paura che, nel passare in rassegna i nomi di coloro che gli avevano scritto e nel ricordo del loro volto, avrebbe perso l'ardore del suo spirito. Gettò tutto nel fuoco, ben legato come lo aveva ricevuto, dicendo: "Andatevene, pensieri della patria, bruciate con lui e non cercate mai più di richiamare alla mia mente ciò da cui sono fuggito " [39].

 

CAPITOLO 33

La soluzione di una questione che l'abate Teodoro ottenne con la preghiera.

Abbiamo anche visto l'abate Teodoro [40], un uomo di grandissima santità e di notevole scienza, non solo nella vita attiva, ma anche nella conoscenza delle Scritture. Questo abate non doveva questa conoscenza a letture assidue, né alla letteratura di questo mondo, ma piuttosto alla purezza del solo cuore. Inoltre, aveva difficoltà a capire o pronunciare poche parole di greco. Una volta che cercava di chiarire una questione molto oscura (riguardante un brano della Scrittura), rimase in preghiera sette giorni e sette notti, senza stancarsi, finché non ottenne da una rivelazione del Signore la soluzione desiderata [41].

 

CAPITOLO 34

Pensiero dello stesso anziano,Teodoro, per insegnare in che modo il monaco possa acquisire la scienza delle Scritture.

Questo anziano, ad alcuni fratelli che ammiravano il brillante lume della sua scienza e che gli chiedevano il significato di certi passi della Scrittura, rispose: "Il monaco che desidera raggiungere la conoscenza delle Scritture non deve mai sciupare le sue fatiche sui libri dei commentatori, ma deve piuttosto dirigere tutta l'attività della sua mente e l'ardore del suo cuore nel purificarsi dai vizi carnali [42]. Non appena questi sono stati cacciati, il velo delle passioni cade dagli occhi del cuore e questi contemplano naturalmente i misteri delle Scritture. Perché la grazia dello Spirito Santo non li ha rivelati perché restino sconosciuti od oscurati, ma siamo noi che li rendiamo oscuri per colpa nostra, quando il velo dei nostri peccati ottenebra gli occhi del cuore. Quando questi ultimi tornano alla loro naturale salute, la semplice lettura delle Scritture è sufficiente in abbondanza per contemplare la vera scienza e non c'è bisogno che essi imparino dai commentatori; allo stesso modo gli occhi del nostro corpo non hanno bisogno di insegnamenti per vedere, purché non soffrano di cataratta o di cecità. Ecco perché ci sono state tante divergenze ed errori tra i commentatori: la maggior parte di essi si sono precipitati ad interpretare le Scritture senza applicarsi per nulla a purificare la loro mente. Ma a causa della rozzezza e dell'impurità del loro cuore hanno intuito cose diverse, contrarie alla fede e contradditorie tra di loro e non hanno potuto cogliere la luce della verità" [43].

 

CAPITOLO 35

Rimprovero dello stesso anziano, una notte che venne nella mia cella.

Una volta, lo stesso anziano (Teodoro) venne inaspettatamente alla mia cella in piena notte per controllare di nascosto, con paterna curiosità, quello che facevo in solitudine, io che ero un inesperto anacoreta. Egli mi trovò disteso sulla mia piccola stuoia, conclusa la solennità della sera, mentre mi disponevo a dare ristoro al mio stanco corpo. Allora, sospirando profondamente e chiamandomi per nome, disse: "Giovanni, a quest'ora quanti si intrattengono con Dio e lo tengono stretto a sé! E tu ti privi di tanta luce, abbandonandoti ad uno sterile sonno!".

E dal momento che la virtù e la grazia dei padri ci hanno portato a raccontare questi episodi, penso che sia necessario ricordare in questo volume la memorabile opera di una carità di cui abbiamo fatto esperienza grazie all'umanità di un uomo eminente, il cui nome era Archebio [44]. In tal modo, la purezza della continenza brillerà di un nuovo splendore, congiunta alle opere di carità e ravvivata da una così bella varietà. In effetti l'offerta del digiuno è gradita a Dio quando viene perfezionata dai frutti della carità.

 

CAPITOLO 36

Descrizione del deserto di Diolco dove vivevano degli anacoreti.

Nel tempo in cui, ancora giovani ed inesperti, siamo giunti dai monasteri della Palestina in una città dell'Egitto chiamata Diolco [45], noi vi trovammo una numerosa folla di monaci che vivevano sotto la disciplina cenobitica e meravigliosamente formati in questa eccellente forma di vita monastica, che è anche considerata la prima [46]. Ma poi, spinti dagli elogi che tutti ne facevano, ci affrettammo con cuore accorto ad andare a vedere un'altra specie di monaci, considerata più eccellente, quella degli anacoreti. Costoro dimorano inizialmente per lungo tempo nei cenobi, dove vengono accuratamente educati, secondo la regola, alla pazienza ed al discernimento. Quando hanno acquisito sia la virtù dell'umiltà che quella dello spogliamento e si sono purificati da tutti i vizi, allora penetrano nelle profondità segrete del deserto per affrontare i terribili combattimenti dei demoni.

Avendo saputo che gli uomini dediti a questo genere di vita vivevano al di qua del fiume Nilo, in una zona che, delimitata da un lato dal fiume e dall'altro dalla immensità del mare, forma un'isola inospitale per chiunque, tranne che per dei monaci in cerca di solitudine - perché la salinità del suolo e le sabbie sterili lo rendono inadatto a qualsiasi tipo di cultura - noi ci affrettammo a raggiungerli, spinti da un grande desiderio, ed ammirammo oltre ogni misura le fatiche che sostenevano nel loro desiderio di raggiungere la virtù ed anche per amore della solitudine. In verità, hanno anche una tale carenza di acqua che la utilizzano con una parsimonia maggiore di quella che l'uomo più sobrio del mondo dimostra nel conservare e risparmiare i più pregiati vini. Per i loro bisogni, infatti, devono andare a cercarla nell'alveo del fiume e portarla per una distanza di tre miglia e più. Inoltre, questa distanza è come raddoppiata a causa dell'estrema difficoltà che devono sostenere nel superare le dune di sabbia.

 

CAPITOLO 37

La benevolenza dimostrata dall'abate Archebio.

Di conseguenza, la vista di questi monaci ci accese l'ardore di imitarli. Archebio, che tra di loro aveva una grandissima autorità, a prova della sua amabilità ci condusse nella sua cella.  Scoperto il nostro desiderio di imitarli, finse di voler lasciare questo posto e ci offrì la sua cella, sostenendo che l'avrebbe abbandonata e che l'avrebbe fatto ugualmente anche se noi non fossimo giunti lì. Accesi dal desiderio di dimorare in questo luogo ed accordando nello stesso tempo una fiducia incondizionata alle affermazioni di un tale uomo, accettammo di buon grado la sua proposta e prendemmo possesso della cella con tutti i mobili e gli utensili. Egli approfittò del suo caritatevole stratagemma e se ne andò per alcuni giorni per raccogliere le risorse necessarie per la costruzione di un'altra cella; una volta tornato la costruì con grande fatica. Ma poco tempo dopo vennero altri fratelli, che manifestarono a loro volta il desiderio di rimanere. La sua caritatevole menzogna [47] li ingannò nello stesso modo. Anche in questo caso, consegnò loro la sua cella con tutto l'arredamento. Poi, instancabile nell'opera di carità, se ne costruì una terza, dove rimase.

 

CAPITOLO 38

Come l'abate Archebio pagò un debito della madre col lavoro delle sue mani.

Penso anche che valga la pena di raccontare un altro aspetto della carità di questo grande uomo. I monaci di questa regione impareranno, con l'esempio di uno solo, a custodire il rigore della continenza insieme ad un purissimo sentimento di amore. Nato da una ben nota famiglia, a partire dagli anni della sua infanzia disprezzò l'attaccamento al mondo ed ai suoi genitori per fuggire nel monastero distante da Diolco circa quattro miglia. Trascorse lì tutto il tempo della sua vita, vale a dire cinquant'anni, senza entrare né vedere il villaggio da cui era uscito ed anche senza mai vedere il volto di una donna, nemmeno di sua madre. Nel frattempo il padre, colto dalla morte, lasciò un debito di cento soldi. Benché Archebio non fosse per niente preoccupato dal momento che aveva rinunciato ai beni paterni, apprese però che sua madre era molto tormentata dai creditori. Allora, per pietà filiale, addolcì quel rigore evangelico in base al quale, nei giorni di prosperità dei suoi genitori, addirittura ignorava di avere avuto sulla terra una madre e un padre. Si convinse allora di avere una madre e si affrettò a soccorrerla nella sua sventura, ma senza rinunciare in nulla alla regola che si era imposto. E così, rimanendo nel recinto del monastero, richiese di triplicare il suo impegno lavorativo. In questo modo, faticando di giorno e di notte per un anno intero, pagò ai creditori l'ammontare del debito duramente guadagnato col sudore del proprio lavoro, liberando la madre da ogni inquietudine e molestia. Così alleggerì sua madre dal fardello del suo debito, senza ridurre il rigore del suo proposito di vita, a causa della necessaria pietà filiale. Pur conservando la sua usuale austerità di vita, non negò al cuore di sua madre quest'opera di pietà. Per amore di Cristo aveva riconosciuto di nuovo come madre colei che, per lo stesso amore, sembrava aver trascurato.

 

CAPITOLO 39

Trovata di un anziano per fornire un lavoro manuale all'abate Simeone che era inoperoso.

Vi era un fratello a noi molto caro, di nome Simeone, che era venuto dall'Italia e che non sapeva una parola di greco. Uno degli anziani ebbe il desiderio di fare per lui un atto di carità, come si fa per un pellegrino, ma sotto l'apparenza del saldo di un debito. Gli chiese perché rimanesse inattivo nella sua cella, pensando che non avrebbe potuto rimanervi più a lungo, a causa della pigrizia e della carenza dei beni di prima necessità che sarebbero di ostacolo alla perseveranza; egli era persuaso che nessuno può resistere alle tentazioni della solitudine, a meno che non abbia accettato di guadagnarsi da vivere col lavoro delle sue mani [48]. Simeone rispose che non conosceva e non era in grado di fare nessuna delle attività che vedeva fare da parte dei fratelli, tranne il lavoro di copista, ammesso che ci fosse stato qualcuno in Egitto che avesse bisogno di un codice in latino. L'anziano, cogliendo l'occasione per compiere la sua opera di carità sotto l'apparenza del pagamento di un debito, disse: "Ecco un'opportunità che Dio mi ha mandato. Da tempo ero alla ricerca di qualcuno che mi copiasse l'Apostolo (le lettere di Paolo) in latino, perché ho un fratello nella milizia che conosce molto bene il latino ed al quale voglio inviare una parte della Scrittura da leggere per la sua edificazione". Simeone accettò volentieri questa occasione, come offerta da Dio stesso, ma il più felice dei due era ancora l'anziano che approfittava di questo pretesto per compiere liberamente l'atto di carità che meditava. Egli lo rifornì di tutto ciò che gli serviva, come fosse l'anticipo di un anno di salario, e gi ricevette il suo manoscritto, che non gli poteva servire a nulla (dato che in quella regione tutti ignoravano questa lingua), ma la sua accortezza e le notevoli spese non rimasero senza risultato. Simeone, da un lato, aveva ricevuto, senza doversi vergognare, come salario per la sua fatica ed il suo lavoro gli alimenti necessari per vivere: lui stesso, d'altra parte, era riuscito a compiere la sua opera di carità come se fosse un debito da ripagare. Il suo merito davanti a Dio fu così ancor maggiore, in quanto non si accontentò di fornire al fratello pellegrino le necessità vitali, ma gli aveva fornito, con gli strumenti il lavoro, la stessa opportunità di lavorare.

 

CAPITOLO 40

Due giovani che, portando dei fichi ad un malato, si lasciarono morire di fame nel deserto senza assaggiarli.

Noi ci siamo proposti in questo libro di parlare dei digiuni e della continenza e noi vi abbiamo mescolati dei sentimenti e delle opere di carità. Torniamo ora al nostro argomento, inserendo in questo libro un fatto ben degno di memoria che riguarda due giovani di età, ma non di sentimento.

Un giorno, qualcuno proveniente dalla Mareotide Libica aveva portato dei fichi straordinari, come nessuno aveva mai visto da quelle parti, a padre Giovanni. Costui era l'economo nel deserto di Scete e governava gli affari della chiesa di cui, a quel tempo, era presbitero l'abate Pafnuzio. Egli inviò immediatamente i fichi, tramite due giovani, ad un certo anziano che soffriva di malattia nell'interno del deserto e che risiedeva a diciotto miglia dalla chiesa. I due giovani presero i fichi e si diressero alla sua cella. Lungo il percorso si diffuse una spessa nebbia che fece loro perdere la strada: cosa che succede facilmente anche ai più anziani. Essi vagarono tutto il giorno e tutta la notte attraverso l'uniforme vastità del deserto, senza trovare la cella del malato. Alla fine, stremati dalla fatica, così come dalla fame e dalla sete, si piegarono sulle ginocchia e resero il loro spirito al Signore mentre pregavano. In seguito si cercarono a lungo le tracce dei loro passi perché i piedi lasciano delle impronte nella sabbia, come avviene nella neve, finché il benché minimo vento non le copre con una fine sabbia. Vennero trovati con i fichi intatti, come li avevano ricevuti, preferendo donare la loro vita piuttosto che tradire la fedeltà della consegna; perdere la loro vita in questo mondo, piuttosto che violare l'ordine dell'anziano.

 

CAPITOLO 41

Sentenza dell'abate Macario sull'osservanza del monaco; egli deve osservare il digiuno sia come se dovesse vivere cento anni, sia come se dovesse morire lo stesso giorno [49].

Dirò ancora un comandamento molto salutare del beato Macario ed è con una sentenza di un così grande uomo che voglio terminare questo libro dedicato ai digiuni ed alla continenza. "Il monaco, diceva, deve praticare il digiuno come se dovesse vivere cento anni e frenare le passioni della sua anima, dimenticare gli insulti, respingere la tristezza, il disprezzo del dolore e dei danni subiti, come se dovesse morire quello stesso giorno". Vi è, infatti, nella prima regola un saggio e prudente discernimento, che il monaco si comporti sempre con una uguale austerità, senza darsi l'occasione, con il pretesto di una salute cagionevole, di lasciarsi trascinare in sentieri scoscesi verso i precipizi e la morte. Nel secondo comandamento vi è la salutare grandezza d'animo, in grado non solo di disprezzare l'apparente prosperità di questo mondo, ma di non farsi scoraggiare dalle avversità e dalla tristezza, disprezzandole come piccole cose e senza importanza, con gli occhi dell'anima costantemente fissati là dove, ogni giorno ed in ogni momento, possiamo essere chiamati [50].

 

Note estratte da vari testi:


[1] Sal 65, 11: Volg.: "Siamo passati attraverso il fuoco e l'acqua, ma ci hai condotti in un luogo di ristoro".

[2] Si veda Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 3, 4: "In un primo tempo cominciò anch’egli ad abitare nei dintorni del villaggio e di là, non appena sentiva parlare di qualcuno che era pieno di fervore, andava a cercarlo come l’ape sapiente e non faceva ritorno a casa sua prima di averlo visto e di aver ricevuto una sorta di viatico per camminare nella via della virtù…. 4,1-2 Così viveva Antonio e per questo era amato da tutti. Si sottometteva con cuore sincero a quegli uomini pieni di fervore che andava a visitare e da ciascuno apprendeva lo zelo e l’ascesi in cui eccelleva. Di uno contemplava l’amabilità, di un altro l’assiduità nella preghiera; in uno osservava la mitezza, in un altro l’amore per il prossimo; vedeva come l’uno amasse la veglia, l’altro la lettura delle Scritture, ammirava l’uno per la sua perseveranza, l’altro per i digiuni e l’abitudine di dormire sulla nuda terra; osservava la mitezza dell’uno e la generosità dell’altro e di tutti, poi, notava la fede in Cristo e l’amore vicendevole. 2. Così arricchitosi, se ne ritornava là dove viveva la sua vita ascetica, raccoglieva quello che aveva imparato da ciascuno e cercava di dar prova di tutto".

[3] Questa sentenza di Antonio contraddice in apparenza il consiglio dato precedentemente da Pinufio in Istituzioni, Libro IV,40: "E perché tu possa raggiungere questa meta nel tuo dover vivere in comunità, ti occorrerà prendere esempi da imitare, in vista di una vita perfetta, da parte di un numero molto ristretto, fosse pure di uno o di due, e non certo di molti". In realtà Pinufio si indirizzava ad un principiante, mentre nel caso di Antonio si tratta di un monaco perfettamente provato alla vita cenobitica.

[4] Si veda Basilio, Regole diffuse 19,1: "R.: Per ciò che riguarda le passioni dell’anima c'è soltanto una misura da fissare alla temperanza: è la rinuncia completa a tutte quelle che tendono al piacere immorale. Quanto agli alimenti, al contrario, poiché le necessità differiscono per gli uni e gli altri secondo l'età, le occupazioni e la costituzione fisica, occorrono regimi e trattamenti diversi. Ne risulta che non si possono inglobare in una sola regola tutte quelle che si impongono nell'esercizio della pietà ma, fissando ciò che conviene alle normali costituzioni fisiche, permettiamo ai superiori di stabilire prudentemente delle eccezioni per i casi particolari. Non è possibile infatti parlare di ciascuno; occorre limitarsi a dare direttive comuni e generali".

[5] La libbra romana equivaleva a circa 327,2 g, ed era divisa in 12 once di circa 27,3 g.

[6] Si confronti anche Detti dei Padri, Serie alfabetica, Poemen 31. "Il padre Giuseppe chiese al padre Poemen: «In che modo bisogna digiunare?». Il padre Poemen gli dice: «Vorrei che chi mangia ogni giorno mangiasse poco, così da non saziarsi». Gli dice il padre Giuseppe: «Padre, quando eri più giovane non digiunavi a giorni alterni?». L’anziano disse: «In verità, digiunavo anche tre e quattro giorni e una settimana intera. I padri, che erano capaci, hanno provato tutte queste cose, e hanno trovato che è bene mangiare ogni giorno, ma poco; e ci hanno tramandato la via regale, che è leggera»".

[7] Frase completa secondo la Volgata:" Ecco, questa fu l’iniquità di tua sorella Sòdoma e delle sue figlie: la superbia, la sazietà e l'abbondanza di pane, l'ozio".

[8] Si veda Basilio, Regole per i monaci, 9,9: "Non si può neanche stabilire il tempo della refezione per tutti, né il metodo né la qualità del cibo, ma per tutti valga la prospettiva che non si arrivi a mangiare sino alla sazietà" ("Regole monastiche antiche" a cura di Giuseppe Turbessi, Ed. Studium 1990). Ed anche Cassiano, Conferenze, II, 22: "La regola generale, in materia d’astinenza, si enuncia così: «ognuno deve prendere tanto cibo quanto ne occorre per sostentarlo, non per satollarlo»".

[9] Si veda Detti dei Padri, Serie sistematica XV, 82. Nei Detti dei Padri si racconta che un fratello chiese all'Anziano: "Che cos'è l'umiltà?" e l'Anziano rispose: "L'umiltà è una via di fatica per il corpo, fatiche compiute con discernimento; è mettere se stessi al di sotto di ogni creatura e invocare Dio senza sosta". Questa è la via dell'umiltà; ma l'umiltà è divina e sfugge ad ogni comprensione. ("I Padri del deserto" a cura di Luciana Mortari, Città Nuova 1972, pag. 293).

Ed anche Giovanni Climaco, Scala del Paradiso, grado XXV, 59: "I Padri di eterna memoria hanno affermato che via e fondamento dell'umiltà sono le fatiche fisiche, ma io dico che sono l'obbedienza e la rettitudine del cuore, che anche per natura si oppongono alla presunzione".

[10] Si confronti Detti dei Padri, Serie alfabetica, Antonio 22: "Il padre Antonio disse: «Ritengo che nel corpo ci sia un moto fisico connaturale, ma che non agisce se l’anima non vuole: è il semplice moto corporeo non passionale. C’è poi un altro moto che viene dal nutrire e curare il corpo con cibi e bevande: riscaldato da questi elementi, il sangue desta energia nel corpo. E' a proposito di questo che l’Apostolo diceva: Non inebriatevi di vino, nel quale è la lussuria (Ef 5,18), e che il Signore nel Vangelo ordinò ai discepoli: Guardatevi dall'appesantire il cuore in crapula ed ebbrezza (Lc 21,34). E c’è anche un terzo moto: quello di chi è combattuto dall’assalto invidioso dei demoni. Si può dire dunque che ci sono tre moti corporei: uno che viene dalla natura, uno dai cibi presi senza discrezione, e il terzo dai demoni". ("Vita e detti dei Padri del deserto" a cura di Luciana Mortara, Città Nuova 2008)

[11] Si confronti Evagrio Pontico, Trattato pratico, 98: "La virtù è unica per natura, ma assume forme diverse nei poteri dell'anima. È come la luce del sole che è informe, ma prende naturalmente forma dalle finestre che attraversa".

[12] Postierla (latino: posterula): Nelle fortificazioni del passato, piccola porta nascosta da utilizzarsi in speciali circostanze. (Dizionario Treccani dei Sinonimi e dei Contrari).

[13] Cassiano, nella "Quinta Conferenza dell'abate Serapione sugli otto vizi capitali", oppone ai vizi naturali della carne, come la lussuria e l'ingordigia, i vizi che non dipendono dalla natura umana, come l'avarizia e l'invidia.

[14] Qui inizia un lungo confronto, ispirato a san Paolo, con i combattimenti atletici. Questo confronto sarà sottostante agli otto libri delle Istituzioni e richiamato di volta in volta dalle parole "lottare secondo le regole" di 2 Tm 2,5. Si vedano per esempio: V,16,1; VII,20; VIII,22; X,15; XI,19; XII,32.

[15] Le competizioni atletiche nella Grecia antica vedevano coinvolti rappresentanti delle diverse póleis del mondo ellenico e costituirono un aspetto assai importante della vita religiosa, politica e sociale. In particolare i giochi Olimpici si svolgevano ad Olimpia e quelli Pitici a Delfi. I vincitori a Olimpia ricevevano corone di ulivo selvatico ed onori vari, mentre a Delfi ricevevano una corona d’alloro, pianta sacra ad Apollo.

[16] Si confronti Daniele 3,49-50: "Ma l’angelo del Signore, che era sceso con Azaria e con i suoi compagni nella fornace, allontanò da loro la fiamma del fuoco della fornace e rese l’interno della fornace come se vi soffiasse dentro un vento pieno di rugiada".

[17] Si veda anche Basilio di Cesarea, Lettera II a Gregorio: "Si deve stabilire un’unica ora in cui prender cibo e sia sempre la stessa che ritorna ciclicamente, in modo che, delle ventiquattr’ore del giorno, soltanto questa sia spesa per il corpo: le altre, l’asceta le impiegherà nell’attività dello spirito". (Basilio di Cesarea, Opere ascetiche, Utet 2013)

[18] Si confronti Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, Cap. 45,1-2, Antonio vive nel desiderio del regno dei cieli: "Antonio, ritiratosi nella sua dimora, come era sua abitudine, intensificava la sua ascesi; ogni giorno sospirava pensando alle dimore celesti, ne aveva desiderio e meditava sulla breve durata della vita umana. Al momento di mangiare, dormire o di soddisfare altre necessità del corpo, si vergognava pensando alla natura spirituale dell’anima. (Atanasio di Alessandria - Antonio abate, Vita di Antonio, Detti – Lettere, Paoline Editoriale Libri 2007).

[19] Cassiano si serve dello stesso paragone nella Conferenza I, cap. V, Similitudine dell'arciere, dove il bersaglio è la purezza del cuore ed il fine è il regno dei cieli. Qui invece il fine è la vita eterna e questa prospettiva deve essere capace di attirare lo sguardo interiore in modo che non venga distolto dalle preoccupazioni terrene.

[20] L'ottativo è un modo finito del verbo greco e di altre lingue indoeuropee, che esprime il desiderio e la possibilità.

[21] Questo versetto è citato quattro volte da Cassiano (Istituzioni V, 19,2; Conferenze, III, XVII e XIII, XIV,7). Questo versetto è sempre all'indicativo secondo il testo greco, e non al congiuntivo come nella Vulgata di Girolamo.

[22] Questo tema del combattimento "contro i Principati e le Potenze" è lungamente sviluppato nella Conferenza VIII: "Gli spiriti che si dicono principati".

[23] Si veda una simile raccomandazione in Istituzioni IV, 18. Divieto di prendere cibo fuori tempo: "Prima e dopo la refezione regolare e comune si osserva con cura straordinaria che nessuno, fuori della mensa, osi concedere qualche cibo alle proprie labbra".

[24] Si possono trovare numerose citazioni dei Padri riguardanti questa necessità della temperanza "spirituale" unita a quella della gola. Si veda Giovanni Crisostomo, Catechesi quarta post battesimale, 1: "Anche se è trascorso il periodo del digiuno, o amati, deve tuttavia rimanere la pietà. Anche se è terminato il tempo della santa quaresima, almeno non cancelliamone il ricordo. Ma che nessuno di voi, vi scongiuro, si mostri insofferente verso l’esortazione: non per costringervi di nuovo a digiunare dico queste cose, ma perché voglio che siate rilassati e che piuttosto ora pratichiate in modo più rigoroso il vero digiuno. E possibile infatti digiunare pur senza digiunare. E come? Ve lo dico subito: quando assumiamo dei cibi, ma ci asteniamo dai peccati. È questo il digiuno veramente utile e grazie ad esso si realizza anche l’astinenza dai cibi, affinché ci mettiamo a correre più speditamente verso la virtù. Se dunque vogliamo sia prenderci la cura del corpo che si conviene, sia mantenere l’anima libera dai peccati, facciamo così, ben convinti.

Ed anche Basilio di Cesarea, Regole diffuse, 16: "Non è soltanto contro i piaceri della bocca che è diretta la pratica della temperanza, poiché comprende anche la rinuncia a tutto ciò che potrebbe ostacolare la pratica della virtù. Chi vive nella temperanza perfetta non controlla il suo ventre per essere in seguito vinto dalla gloria umana; non controlla i suoi cattivi istinti, senza dominare anche l'appetito della ricchezza e qualsiasi altra inclinazione spregevole: alla collera, alla gelosia o ad altre sensazioni, che dominano di solito le anime ribelli. Penso proprio che si possa osservare in modo particolare, a proposito del precetto della temperanza, ciò che si constata riguardo ai comandamenti, e cioè che sono uniti tra loro e che è impossibile osservarli separatamente". E ancora Basilio, Regola per i monaci, 8, 23-28: "La chiamiamo continenza non per il fatto che ci si debba astenere dal cibo del tutto, ciò che significa stroncare violentemente la vita, ma consideriamo tale quella continenza, per la quale l’uso della vita risulta non superfluo, ma necessario; se evitiamo quanto è piacevole, compiamo ciò che richiede solo la necessità del corpo. E, per dirla in breve, la virtù della continenza consiste nell’astenersi da tutto ciò che viene ricercato con un desiderio passionale. E perciò dunque non solo nel mangiare cibi e nel piacere si riconosce la virtù della continenza, ma quando ci asteniamo da tutte quelle le cose, nelle quali proviamo sì una dilettazione carnale ma restiamo offesi nell'anima. Il vero continente non desidera nemmeno la gloria umana, ma si tiene lontano dai vizi, dall'ira, dalla tristezza, e da tutto ciò che suole tenere troppo impegnate le anime incolte e imprudenti. Quasi in tutti i comandamenti di Dio constatiamo che uno è strettamente unito all’altro, ed è impossibile che uno venga osservato senza che si osservi anche l’altro.

[25] Il tema del digiuno collegato con la misericordia lo si trova sia nella Sacra Scrittura che nella tradizioni dei Padri. Per esempio si veda Isaia 58,6-8: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto, davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà».

San Pietro Crisologo, Discorso 43: «Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola, e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia».

Detti dei padri del deserto, Collezione alfabetica, Iperechio 4: «vano è il digiuno senza carità, ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli».

[26] Si confronti Basilio di Cesarea, Regole diffuse 19 (oppure molto simile Regola per i monaci 9): "In ogni caso bisogna preferire ciò che è più ordinario perché, col pretesto della continenza, non ci preoccupiamo di trovare cose particolarmente pregiate e dispendiose, approntando i cibi con condimenti di gran valore. Bisogna anzi scegliere ciò che vi è in ciascuna regione di facilmente reperibile e di poco pregio, in uso presso la maggior parte della gente, servendoci di cose importate solo per quelle strettamente necessarie alla vita, come l’olio e simili, oppure per qualcosa che sia adatto al necessario ristoro da offrire ai malati. Ma anche in questi casi, a patto che sia possibile ottenerle senza traffici, tumulto e agitazione".

Ed anche Evagrio Pontico, Rerum monachalium rationes, 3: "Assumi cibo in scarsa quantità e di basso prezzo, che non sia di pregio e che non richieda grande cura".

[27] Si confronti anche Cassiano, Conferenza V, 11: "Esistono tre sottospecie di golosità. La prima spinge il monaco a nutrirsi senza tener conto dell’ora stabilita dalla regola; la seconda si diletta nell’ingurgitarsi e nel mangiare con voracità; la terza vuole cibi ricercati e delicati".

[28] Cassiano utilizza lo stesso principio a proposito dell'abito dei monaci. Si veda per esempio Istituzioni, I,3: "Infatti, qualunque cosa sia detenuta da uno solo o da una minoranza dei servi di Dio, ma non sia posseduta universalmente da tutto il corpo della fraternità, tutto ciò è superfluo o pretenzioso. Per questa ragione deve essere giudicata nociva e come manifestazione di vanità piuttosto che di virtù. Perciò sarà necessario che noi eliminiamo come superfluo ed inutile tutto ciò di cui non vediamo esempi né tra i santi dell'antichità che hanno posto le basi di questo stato di vita, né tra i Padri del nostro tempo che, fino ad oggi, conservano le istituzioni che hanno ricevuto".

[29] Si confronti Cassiano, Conferenza II,19: "Quale sia la misura ottima del cibo quotidiano - Mosè - Posso dirvi che i nostri Padri hanno molto discusso su questo argomento. Dopo aver osservato il metodo di non pochi solitari, i quali erano sempre vissuti di legumi, d’erbe, di frutti, i Padri stimarono preferibile l’uso del solo pane, e stabilirono che la giusta misura giornaliera era quella di due « passamazi (lat. paxamatiis)», che sono pagnottelle di circa mezza libbra ciascuna".

[30] Questo capitolo esprime la dottrina costante del monachesimo primitivo nel Basso Egitto ed è citato nelle grandi collezioni degli apoftegmi. Per esempio Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 1 (= Serie Sistematica, XIII, 2): Il padre Cassiano raccontò: «Mi recai in Egitto assieme al santo Germano da un anziano che ci ospitò. Gli chiedemmo: - Come mai nell’ospitare dei fratelli forestieri non osservate la regola del digiuno quale l’abbiamo ricevuta in Palestina? - Il digiuno è sempre con me - rispose -, mentre non posso trattenere voi con me sempre. Il digiuno è certo utile e necessario, ma dipende dalla nostra scelta, mentre la legge di Dio esige l’adempimento della carità come dovere assoluto. Poiché in voi accolgo Cristo, devo servirvi con tutto il mio zelo; quando vi avrò congedati, potrò riprendere la regola del digiuno. Non possono i figli del talamo digiunare finché lo sposo è con loro. Quando lo sposo sarà loro tolto, allora per forza digiuneranno». ("Vita e detti dei Padri del deserto" a cura di Luciana Mortara, Città Nuova 2008).

[31] Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 3 e Serie Sistematica, XIII, 3 è quasi uguale.

[32] Molto probabilmente si tratta dell'abate Giovanni di cui viene detto nella Conferenza XIV,4: "il quale governò il grande cenobio situato nelle vicinanze della città che porta il nome di Tmuis (Thumuis, città posta sulla riva destra del Nilo, lungo il Delta, non lontana da Panefisi)".

[33] Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 4 e Serie Sistematica, IV, 24 è quasi uguale. Si confronti anche Sulpicio Severo, Dialoghi, I,12,1: "In questo monastero io vidi due anziani che si diceva vivessero lì da quarant'anni e che non se ne sarebbero mai andati da lì. Non mi sembra di dover tacere della loro menzione: ho infatti sentito la seguente dichiarazione rilasciata riguardo alle loro virtù, con la testimonianza dell'Abate stesso e di tutti i fratelli, che nel caso di uno di loro, il sole non l'ha mai visto prendere cibo e, nel caso dell'altro, il sole non l'ha mai visto adirato".

[34] Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 5 e Serie Sistematica, I, 10 è quasi uguale.

[35] Si confronti Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 6 e Serie Sistematica, XI, 18: "Raccontò ancora di un altro anziano che viveva nel deserto e aveva chiesto a Dio la grazia di non addormentarsi mai quando si teneva un discorso spirituale; di sprofondare invece immediatamente nel sonno se qualcuno facesse della maldicenza o dicesse parole oziose, perché le sue orecchie non gustassero questo veleno. Diceva: «Il diavolo è fautore delle parole oziose e nemico di ogni insegnamento spirituale». E portava questo esempio: «Un giorno in cui dicevo ad alcuni fratelli delle cose utili, furono presi da un sonno così profondo da non potere nemmeno muovere le palpebre. Per mostrare l’azione del demonio, cominciai a fare chiacchiere sciocche. A ciò si rallegrarono e si svegliarono subito; e io dissi sospirando: - Finché abbiamo parlato di cose celesti, tutti voi avevate gli occhi appesantiti dal sonno. Ma appena sono uscite dalla mia bocca parole oziose, vi siete destati subito con entusiasmo. Perciò, fratelli, vi esorto a riconoscere l’azione del demonio; vegliate su voi stessi e guardatevi dal sonnecchiare quando fate o udite qualcosa di spirituale» ".

[36] Operazione praticata in certi casi di infiammazione dell'ugola, frequenti nelle regioni paludose. Secondo gli anziani l'ugola veniva curata normalmente con gargarismi ed applicazioni di unguenti, salvo i casi più gravi in cui occorreva ridurla alla sua lunghezza abituale.

Si veda per esempio Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.), Storia Naturale, Lib. XXIII, LXXX ed altri capitoli: "In caso di infiammazione dell'ugola si dovranno bollire tre once di queste bacche o di foglie di alloro in tre misure di acqua fino a ridurre il tutto a un terzo. Fare poi dei gargarismi con questo decotto".

Ed anche Aulo Cornelio Celso (17 a.C. – 37 d.C.), De medicina, VII, 12, 3: "Se l'ugola, a causa dell'infiammazione, è allungata verso il basso, ed è dolorosa e di colore rosso scuro, non può essere eliminata senza pericolo; di solito molto sangue scorre e quindi è meglio impiegare il trattamento descritto altrove. Ma se, anche se non vi è infiammazione, è stata trascinata verso il basso a causa della flemma ed è sottile, appuntita e bianca, dovrebbe essere tagliata via; così anche quando la punta è bluastra e nera, ma la base è sottile".

[37] Cfr. Mt 12, 36: "Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio".

[38] Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Cassiano 6 finale, e Serie Sistematica, XI, 18 finale, è quasi uguale.

[39] Molto probabilmente il "fratello" di cui parla in questo capitolo è Evagrio Pontico, morto nel deserto di Nitria verso il 399 e la cui dottrina ha avuto molta influenza su Cassiano.

[40] Molto probabilmente si tratta di Teodoro delle Celle, protagonista della Conferenza VI, da non confondere con il suo più celebre omonimo, amico di Pacomio, terzo abate di Tabenna e che morì prima che Cassiano andasse in Egitto. Tutta la Conferenza, imperniata sul perché molti santi monaci erano stati "trucidati da bande di briganti saraceni" senza che il Signore sia intervenuto a proteggerli, è un susseguirsi di citazioni bibliche a cui Teodoro da chiare spiegazioni. La Conferenza termina infatti con queste parole: "La gioia di questa conferenza superava di gran lunga la tristezza che aveva cagionato il pensiero della morte dei santi, Non solo erano stati sciolti i nostri dubbi, ma c'erano state rivelate, in questa occasione, molte altre cose che la nostra corta intelligenza non avrebbe mai pensato di indagare".

L'insediamento di monaci anacoretici chiamato le Celle fu fondato da Ammonio, stando all'episodio narrato fra i detti di Antonio (n.34). Dopo essersi consigliato con Antonio, Ammonio si ritirò ad una certa distanza dal centro monastico di Nitria e fondò un insediamento costituito da celle sparse su di un'area più vasta, ad una distanza più grande l'una dall'altra e dalla chiesa. In questo modo i monaci vivevano in una solitudine maggiore rispetto a Nitria che, essendo distante circa 60 miglia da Alessandria, era maggiormente a contatto con la città e più coinvolto nelle vicende ecclesiali e nelle dispute teologiche.

[41] Si confronti anche Detti dei Padri, Serie Alfabetica, Antonio 26. Dei fratelli fecero visita al padre Antonio e gli proposero una parola del Levitico. L’anziano allora si appartò nel deserto; il padre Ammone, che ne sapeva le abitudini, lo seguì di nascosto. L’anziano, allontanatosi assai, ritto in preghiera, gridò a gran voce: «O Dio, manda Mosè a spiegarmi questa parola». E gli giunse una voce, e gli parlò. Ora, il padre Ammone disse: «La voce che gli parlava l’ho udita, ma non ho compreso il senso del discorso».

[42] Cassiano è ben lungi dall'insegnare la dottrina della libera interpretazione, seguendo l'esempio ed il consiglio dell'abate Teodoro. Egli non dice che tutti possono facilmente comprendere le Sacre Scritture, ma che il modo migliore per capirle è di purificare il proprio cuore. I cuori puri sono necessariamente soggetti all'autorità della Chiesa e, se l'abate Teodoro raccomanda di non affaticarsi a leggere i commenti alle Scritture, è perché questi commenti, ai suoi tempi, erano pieni di contraddizioni e di errori che oscuravano la verità, invece di farla conoscere. Nota estratta da" Institutions de Cassien", a cura di E. Cartier, Parigi, Poussielgue frères 1872.

[43] Si confronti Cassiano, Conferenza XVI, 9: "E allora, mantenendo costante la premura della lettura (della Scrittura), che io già m’accorgo da voi coltivata, procurate di perfezionare con ogni cura la vostra vita attiva, vale a dire quella morale. Senza di questa infatti non è possibile arrivare alla purezza della contemplazione, di cui già ho parlato; una tale purezza, infatti, la raggiungono soltanto coloro che sono divenuti perfetti, non per effetto degli insegnamenti altrui, ma per l’efficacia della propria condotta e quasi come per ricompensa dopo essersi impegnati con molta dedizione e molte fatiche. E in realtà essi non hanno conseguito quell’intelligenza dalla meditazione della Legge, ma dal frutto della loro operosità, e così perciò possono cantare con il salmista: “Dai tuoi decreti io ricevo intelligenza” (Sal 118,104), come pure, dopo avere soppresse tutte le loro passioni, possono ripetere con fiducia: “Voglio cantare inni a Te e agirò con intelligenza nella via dell’innocenza” (Sal 100,1-2). Di fatto, nella recitazione dei salmi, comprenderà quello che viene cantato proprio colui che pone i passi del suo cuore puro lungo le vie dell’innocenza. Perciò, se voi volete disporre nel vostro cuore il sacro tabernacolo della scienza spirituale, purificatevi dal contagio di tutti i vizi e dalle influenze del secolo presente. Non è infatti possibile che un’anima, occupata anche per poco nelle faccende del mondo, meriti il dono della scienza o la capacità di produrre frutti spirituali o di divenire tenace prosecutrice delle sante letture.

[44] Da non confondere con l'omonimo vescovo di Panefisi. Si veda Conferenza VII, 26 e XI,2.

[45] Città del Basso Egitto, ai bordi del mare, nel Delta del Nilo.

[46] Nella Conferenza XVIII, cap. IV e V, sulle tre specie dei monaci che si trovano in Egitto, Cassiano parla dei cenobiti, degli anacoreti e dei sarabaiti. "La prima è la specie dei cenobiti, vale a dire di quei monaci che vivono raggruppati in una comunità, sotto la guida e la direzione di un Anziano. Costoro sono sparsi in tutto l'Egitto e il loro numero è molto elevato". Oltre ad essere la prima per importanza, Cassiano ritiene che sia la prima anche cronologicamente, poiché "nacque al tempo della predicazione apostolica... Questa è la sola specie di monaci dei tempi più antichi: essa è la prima nel tempo e la prima per grazia". In realtà il monachesimo nacque agli inizi del IV secolo, con Antonio e Pacomio.

Anche Girolamo, Lettera 22 a Eustochio, (scritta nel 383/384), utilizza questa classificazione: “Giacché il discorso è caduto sui monaci, e so come ascolti volentieri i discorsi edificanti, prestami attenzione per un momento. In Egitto ci sono tre categorie di monaci: i cenobiti, che nella parlata locale sono detti sauhes, che potremmo definire: «coloro che vivono in comunità»; gli anacoreti, che abitano soli nel deserto, denominati così perché vivono segregati dal resto dell’umanità; la terza categoria è costituita dai cosiddetti remnuoth: pessima sorta di monaci da tutti disprezzata, la sola, o almeno la più numerosa nella mia provincia”.

[47] L'insegnamento di Cassiano riguardo alle "menzogne caritatevoli" ha posto delle difficoltà ai suoi commentatori. Secondo alcuni la teoria di Cassiano risalirebbe a Clemente Alessandrino, Origene e Giovanni Crisostomo e si opporrebbe alla teoria agostiniana. Agostino conclude così il suo Trattato sulla menzogna: "Dall’insieme delle discussioni fatte risulta con estrema chiarezza che dalle testimonianze scritturali addotte non ci viene altro monito all’infuori di quello di non mentire mai e poi mai. In realtà nella condotta dei santi e nelle loro opere non si trova alcun esempio di menzogna che debba essere imitato".

[48] Si confronti Istituzioni X, 8: "«Noi non fummo mai inquieti in mezzo a voi» (2 Ts 3, 7). Volendo dimostrare di non essere mai stato inquieto in mezzo a loro, proprio in merito alla sua operosità, san Paolo pone in evidenza che coloro i quali ricusano di lavorare, vivono in una continua inquietudine a causa della loro oziosità".

[49] La stessa sentenza di Macario è citata da Evagrio Pontico, Trattato pratico, 29: "Ecco ciò che diceva il nostro santo e molto pratico (cioè grande asceta) maestro: «Bisogna che il monaco stia sempre pronto, come se dovesse morire l'indomani e, inversamente, usi del suo corpo come se dovesse vivere con lui numerosi anni. Ciò, infatti, diceva, da un lato sopprime i pensieri dell'acedia e rende il monaco più zelante e, dall'altro, mantiene il suo corpo in buona salute e mantiene sempre uguale la sua astinenza»".

[50] Si noti come questa prospettiva escatologica concluda quasi tutti i libri della seconda parte delle Istituzioni. Per esempio si veda Istituzioni XII, 33. "Rifletteremo sul fatto che presto emigreremo da questo mondo e, dopo questa corta esistenza, condivideremo la loro sorte (del Signore e dei santi). Questo pensiero trionferà non solo sulla superbia, ma su tutti i vizi in generale".


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1 febbraio 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net