LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
XXIII
TERZA CONFERENZA DELL'ABATE TEONA
SULL’IMPECCABILITA'
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. Precisazioni dell’abate Teona sulle parole dell’Apostolo: « Non faccio il
bene che vedo »
(Rm. 7, 19).
II. Delle virtù che si trovarono nell’Apostolo.
III. Quale sia il bene vero che l’Apostolo dice di non aver condotto alla
perfezione.
IV. Bontà e giustizia umana non sono più buone se si paragonano con la bontà e
giustizia di Dio.
V. Nessuno può essere continuamente rivolto al bene sommo.
VI. Coloro che si credono senza peccato assomigliano ai ciechi.
VII. Coloro che sostengono la possibilità, per un uomo, di esser senza peccato,
cadono in un doppio errore.
VIII. Pochi son coloro che capiscono che cos’è il peccato.
IX. Con quanta attenzione il monaco deve conservare il ricordo di Dio.
X. Chi tende alla perfezione si umilia sinceramente e riconosce di aver sempre
bisogno della grazia di Dio.
XI. Spiegazione delle parole: «Mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo
interiore...
» (Rm 7,22).
XII. Sul versetto paolino che dice: « Sappiamo che la legge spirituale... »
(Rm 7,22).
XIII. Sulle parole: « So che il bene non abita in me, cioè nella mia carne.. »
(Rm 7,18).
XIV. Obiezione: le parole dell’Apostolo: « Io non faccio il bene che vedo... »
non convengono né agli infedeli né ai santi.
XV. Risposta all’obiezione.
XVI. Che cos’è il corpo di peccato?
XVII. Tutti i santi hanno sinceramente riconosciuto di esser impuri e peccatori.
XVIII. Neppure i santi e i giusti sono senza peccato.
XIX. Anche nel momento in cui ci diamo all’orazione, mal si può evitare il
peccato.
XX. Da chi si deve imparare a liberarsi dal peccato e a divenire perfetti nella
virtù.
XXI. Benché convinti di non essere senza peccato, non dobbiamo astenerci dalla
santa comunione.
I -
Precisazioni dell’abate Teona sulle parole dell’Apostolo:
«
Non faccio il bene che vedo
»
Quando ritornò la luce del giorno, facemmo le più vive istanze al vecchio abate,
affinché volesse profondamente esaminare il senso delle parole di san Paolo
dette sopra. Teona ci rispose così: voi volete portar prove per dimostrare che
l’Apostolo non parlava di se stesso, bensì dei peccatori in genere, quando
diceva: « Io non faccio il bene che vedo, ma faccio il male che odio »; oppure:
« Se io faccio quello che non voglio, non sono io a farlo: è il peccato che
abita in me ». E ancora: « Mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo
interiore, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che si oppone alla legge
dello spirito e mi rende schiavo sotto la legge del peccato, che è nelle mie
membra ». Devo farvi osservare che non esiste alcun motivo per applicare queste
parole di san Paolo alla persona del peccatore.
Il discorso riguarda solo i perfetti: un simile linguaggio si addice soltanto
alla santità di coloro che imitano le virtù degli Apostoli.
Del resto, in qual modo potrebbero applicarsi al peccatore le parole: « Io non
faccio il bene che vedo, ma faccio il male che odio »? Oppure le altre: « Se io
faccio quel che non voglio, non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me
»?
Qual è quel peccatore che si macchia di adulterio o d’impurità, senza volerlo?
Quale è il peccatore che inganna il prossimo senza avvedersene? Chi è forzato da
una necessità inevitabile a dire il falso al fratello, o a recargli danno col
furto? Chi è obbligato a desiderare i beni del prossimo, o a spargere il sangue?
Nella sacra Scrittura si legge: « I pensieri del cuore umano sono malvagi fin
dalla sua fanciullezza » (Gn 8,21). Tutti coloro che sono accesi d’amore per il
vizio, desiderano mandare ad effetto i loro desideri. Vegliano e non dormono
neppure, stanno in timore di arrivar troppo tardi a soddisfare le loro brame. Si
gloriano della loro stessa vergogna, cercano lode da ciò che li disonorerà, come
dice di loro l’Apostolo, in tono di rimprovero (Fil 3,19). Di costoro parla
anche il profeta Geremia e dice che commettono i loro delitti e le loro
turpitudini senza resistenza della volontà, con piena tranquillità del cuore e
del corpo. Anzi si assoggettano a grandi fatiche per mandare ad effetto i loro
piani, tanto ché neppure le difficoltà più ardue che trovano sulla loro via,
valgono a trattenerli dall’appetito orribile del peccato. Dice il profeta: « Si
sono affaticati per fare il male » (Ger 9,5). E chi potrebbe dire che conviene
ai peccatori l’altra parola dell’Apostolo: « Con la mente sono servo della legge
di Dio, ma con la carne sono schiavo della legge del peccato » (Rm 7,25)? Non è
chiaro per tutti che i peccatori non servono Dio né con lo spirito né con la
carne? E come potrebbero servire Dio con la mente coloro che peccano col corpo?
La carne riceve dal cuore — cioè dallo spirito — la spinta a peccare. Colui che
ha creato carne e spirito, dice che da quest’ultimo, come da una fonte, emana lo
stimolo a peccare. « Dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli
adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze » (Mt 15,19).
Da tutto ciò è facile intendere che quelle parole di san Paolo non sono da
prendere come dette in persona dei peccatori
(Nota: La questione toccata in
questo capitolo e in tutta la Conferenza XXIII, è molto difficile. Gli esegeti
moderni, come Lagrange e Prat, dicono che san Paolo parla in persona di un
giudeo che è illuminato dalla legge, ma vinto dalla concupiscenza. Questa
spiegazione ci pare la migliore. Gli esegeti antichi, come sant’Agostino, dopo
aver detto che l’Apostolo parlava a nome di un ebreo, pensarono che parlasse in
persona di un cristiano giustificato, ma combattuto dalla concupiscenza. Di
questo parere è anche sant’Ilario).
Essi infatti non odiano il male, ma lo amano; non solo rifiutano di servire Dio
con la carne, ma non lo servono neppure con lo spirito. Peccano prima con lo
spirito che con la carne: prima di abbandonare il loro corpo al piacere, hanno
già peccato col pensiero e con lo spirito.
II-
Delle virtù che si trovarono nell’Apostolo
Dobbiamo stabilire il senso esatto delle parole dal sentimento intimo di chi le
pronuncia; insomma dobbiamo stabilire che cos’è che l’Apostolo ha chiamato bene
e che cos’è che ha chiamato male, e ciò non dal suono nudo e crudo delle parole,
ma partendo dallo stato d’animo in cui san Paolo si trovava. Noi esploreremo il
pensiero dell’Apostolo tenendo presente la sua dignità e il suo merito. Il
metodo migliore per comprendere le massime ispirate da Dio è quello di
considerare attentamente la dignità e il merito di coloro che le pronunciano; e
rivestirci — non a parole ma realmente — dei medesimi sentimenti. Il modo di
concepire e d’esprimere qualcosa dipende indubbiamente dallo stato in cui uno si
trova.
Vediamo dunque di scoprire quale sia quel bene altissimo che l’Apostolo non è
riuscito a compiere, nonostante che volesse compierlo. Noi conosciamo molti beni
che san Paolo e gli uomini simili a lui, o ebbero per natura o acquistarono per
grazia. È buona la castità, è lodevole la continenza, ammirabile la prudenza,
generosa l’ospitalità, delicata la sobrietà, modesta la temperanza, pietosa la
misericordia, santa la giustizia. Certamente tutte queste virtù si trovarono
nell’Apostolo e negli altri uomini santi e perfetti che insegnarono la religione
più con la santità della vita che con l’eloquenza delle parole. Che dire poi
della sollecitudine continua per tutte le chiese, che li consumava come un
fuoco? E non è segno di grande misericordia, di alta perfezione, ardere per
coloro che subiscono scandalo, sentirsi infermi con coloro che sono ammalati? Se
l’Apostolo è in possesso di tanti e così grandi beni, quale sarà quello che non
ha potuto possedere perfettamente? Non potremo saperlo se prima non saremo
penetrati a fondo nel sentimento che ha spinto san Paolo a parlare così. Tutte
le virtù che l’Apostolo possedeva erano senza dubbio perle splendenti e
preziose; tuttavia, se paragonate a quella margherita unica per la quale il
mercante evangelico vende tutte le sue ricchezze, diventavano di un valore
attenuato e ordinario.
È per questo che si deve esser disposti a rinunciare prontamente a tutti i beni
per acquistare quel bene che solo ci fa ricchi.
III -
Quale sia il bene vero che l’Apostolo dice di non aver condotto alla perfezione
Qual è dunque questo bene unico, così superiore a tutti gli altri da dover
lasciare e disprezzare ogni altro bene pur di possederlo? Si tratta senza dubbio
di quella « parte ottima » che Maria preferì — per la sua magnificenza e
perpetuità — ai doveri di ospitalità. Di questa « parte » parlò, esaltandola, il
Signore, quando disse: « Marta, Marta, ti preoccupi e t’affanni per troppe cose.
Ma poche cose bastano, anzi una sola! Maria ha scelto la parte migliore che non
le sarà tolta » (Lc 10,41-42). Solo la
teorìa, cioè la contemplazione di Dio, è necessaria; il suo merito
sorpassa tutti i meriti delle azioni più sante, tutti gli sforzi della virtù.
Le belle qualità che abbiamo visto brillare nell’apostolo Paolo erano certamente
tutte buone, utili, grandi e illustri. Ma come lo stagno — che sembra possedere
qualche bellezza e valore — diventa vilissimo quando è paragonato con l’argento;
come si dilegua il pregio dell’argento se vien paragonato con l’oro; come lo
stesso oro diviene spregevole se confrontato con le pietre preziose; come la
bellezza di tutte le pietre preziose si offusca davanti allo splendore di una
sola perla, così tutti i meriti della santità appaiono vili e degni di essere
alienati quando si paragonano col merito* della divina contemplazione. E i
meriti della vita attiva —si noti bene — non sono utili solo per la vita
presente, ma ci procurano anche il dono della vita eterna.
L’autorità delle sacre Scritture confermerà la nostra sentenza. Non è vero che
esse dicono di tutte le creature del Signore: « Tutte le cose che fece Dio erano
molto buone » (Gn 1,32)? E ancora: « Tutte le cose che Dio ha fatto sono buone
nel loro tempo » (Lv 39,16)?
È vero dunque che le cose materiali
son
proclamate buone in relazione al tempo presente; né
son
proclamate buone semplicemente, ma molto buone, cioè buone superlativamente. In
realtà, finché rimaniamo in questa terra, quelle cose che sono utili alle
necessità della vita, conferiscono alla salute del corpo, ed hanno- molte altre
utilità a noi sconosciute. La loro bontà si rivela anche dal fatto che ci
aiutano a vedere « gli attributi invisibili di Dio attraverso le opere del mondo
creato, e a contemplare la sua onnipotenza e la sua divinità » (R 1,20),
nell’immensità armoniosa dell’universo creato e di tutti gli esseri che in esso
sussistono.
Ma quando si paragonano queste creature con quel secolo futuro, in cui i beni
restano immutabili, e non c’è più da temere la perdita della vera felicità, si
dovrà concludere che tutti i beni creati, a mala pena possono conservare il nome
di beni.
Ecco la descrizione del mondo futuro: « La luce della luna sarà come quella del
sole, e la luce del sole brillerà sette volte di più, come la luce di sette
giorni » (Is. 30, 26).
Le cose di questo mondo, che pur sono grandi, belle, meravigliose a vedersi,
appariranno nulla se confrontate a quelle che ci promette la fede come premio
futuro. Dice David: « Tutte le cose invecchieranno come un vestito e tu le
cambierai, Signore, come si cambia un mantello. Ma tu sei sempre lo stesso e i
tuoi anni hanno fine » (Sal 101,27-28). Concludiamo dunque: se niente è duraturo
per se stesso, se niente è immutabile, se niente è buono, all’infuori di Dio; se
nessuna creatura può ottenere per se stessa felicità e stabilità eterna, ma può
ottenerne una partecipazione modesta, e per grazia del suo Creatore, è evidente
che tutta la bontà creata diventa nulla quando sia paragonata con la bontà del
Creatore.
IV -
Bontà e giustizia umana non sono più buone se si paragonano con la bontà e la
giustizia di Dio
,
Se vorremo, potremo trovare testimonianze più esplicite per confermare questa
verità. Nel Vangelo, per esempio, molte cose son chiamate buone: si parla di un
buon albero, di un buon tesoro; di un uomo buono, di un buon servo. « Non può un
albero buono fare frutti cattivi » (Mt 7,18). « L’uomo buono tira fuori, dal
tesoro del suo cuore, cose buone » (Mt 12,35). « Vieni servo buono e fedele »
(Mt 25,21). Non c’è alcun dubbio sulla bontà di queste cose; tuttavia se
guardiamo la bontà di Dio nessuna di
queste cose potrà più esser chiamata buona. Dice infatti il Signore: « Nessuno è
buono all’infuori di Dio » (Lc 18,19).
In confronto con Dio, gli stessi Apostoli, che superavano di gran lunga la bontà
comune degli uomini (per il dono della loro elezione) son dichiarati cattivi. Si
rivolge infatti a loro quel discorso del Signore che dice: « Se voi che siete
cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro Padre che è
nei cieli darà i veri beni a coloro che glieli domandano » (Mt 7,11).
E come la nostra bontà diventa cattiveria, se confrontata con la bontà divina,
così la nostra giustizia appare somigliante a un panno sporco, se si confronta
con la giustizia di Dio. « Tutte le nostre giustizie — dice il profeta Isaia —
assomigliano ad un panno immondo » (Is 64,6). Se si vuole una prova più
evidente, si prenda la Legge. I suoi comandi sono precetti di vita, perché «
Essa è stata data per mezzo degli angeli e per l’interposizione di mediatore »
(Gal 3,19). San Paolo dice ancora, a proposito della Legge, che essa è « Santa e
i suoi comandi son giusti e buoni » (Rm 7,12). Ma se la confrontiamo con la
perfezione evangelica si scopre che per testimonianza di Dio è giudicata niente
affatto buona: « Ho dato loro dei comandi che non son buoni, degli ordini nei
quali non trovino la vita » (Ez 20, 25). San Paolo afferma pure che tutto lo
splendore della Legge si oscura al confronto del Vangelo; dopo questo confronto
la Legge non merita più di essere glorificata. « Ciò che una volta fu
glorificato cessa di esser degno di gloria, al confronto di questa gloria
superiore » (2 Cor 3,10).
Anche la sacra Scrittura fa uso di comparazioni simili alle nostre, solo che
essa segue la via opposta, in quanto mette a confronto peccati più gravi e meno
gravi. In confronto con peccatori più perversi, essa giustifica coloro che hanno
peccato più lievemente. Dice infatti: « Tu hai giustificato Sodoma »; e ancora:
« Quale fu il peccato di Sodoma tua sorella? » (Ez 16, 52, 49). Altrove dice: «
L’infedele Israele è apparso giusto in confronto con la perfidia di Giuda » (Ger
3, 11).
Lo stesso avviene per tutte le virtù ricordate sopra: siano pure buone e
preziose in se stesse, lo splendore della
teoria le oscura. La ragione è che i santi, anche se occupati in
opere buone, sono impediti dalle preoccupazioni terrestri dall’attendere
completamente alla contemplazione del bene supremo.
V -
Nessuno può essere continuamente rivolto al bene sommo
Ecco uno che « libera il debole dalle mani dei più forti, il povero e
l’indigente da coloro che lo tiranneggiano » (Sal
34, 10); spezza le zanne degli ingiusti, strappa la preda dai loro denti » (Gb
29, 17). È possibile che costui, mentre esercita il suo ufficio di giustizia,
possa elevare lo sguardo e la sua anima tranquilla verso la maestà divina?
Un altro distribuisce elemosine ai poveri, riceve con squisita cortesia le turbe
degli ospiti o dei visitatori che giungono... certamente fa bene, ma nel tempo
in cui le necessità dei fratelli tengono occupato e preoccupato il suo spirito,
sarà capace di indirizzare il suo sguardo all’oceano senza sponde della
beatitudine celeste? Il suo cuore, così preso dalle inquietudini e dalle
sollecitudini della vita presente, saprà elevarsi al disopra del contagio
terrestre per contemplare la condizione del secolo futuro?
Per queste ragioni David desidera stare continuamente unito al Signore e afferma
che solo quella unione è buona per l’uomo « L’unica cosa buona per me è stare
unito al Signore e porre in Lui la mia speranza » (Sal 72, 28).
L’Ecclesiaste, poi, afferma che nessuno, sia pure un santo, è capace di attuare
alla perfezione questo programma. « Non c’è sulla terra un uomo giusto che operi
il bene senza mai peccare » (Sir 7, 21).
Ora io domando: chi potrà credere di essere riuscito — pur restando in questo
corpo mortale — a possedere immutabilmente il sommo Bene, a non distogliersi mai
dalla contemplazione divina, a non lasciarsi distrarre neppure un istante dal
contemplare Colui che solo è buono? Chi — fosse pure il più eccelso di tutti i
giusti e di tutti i santi — può pensare di giungere a questa altezza? S’è mai
trovato qualcuno che non si preoccupasse neppur minimamente del cibo, dell’abito
e delle altre necessità corporali? Chi può dire di non essersi mai affannato per
ospitare i fratelli, per cambiare dimora, per costruire una cella? Chi è che non
ha mai desiderato il soccorso degli uomini, oppure non ha meritato — per un
timore troppo forte natogli dalla sua povertà — quel rimprovero del Signore: «
Non vi affannate per la vostra vita, pensando a ciò che mangerete, o per il
vostro corpo pensando a ciò di cui vi vestirete » (Mt. 6, 25)?
Perfino l’apostolo Paolo, che sorpassò coi suoi dolori le fatiche di tutti i
santi, potè giungere a tanta perfezione. Dico ciò senza timore di esagerare,
perché lo stesso Apostolo fa questa protesta dinanzi ai suoi discepoli, nel
libro degli
Atti: « Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che
sono con me, hanno provveduto queste mie mani » (Dt 20, 34). Scrivendo ai
Tessalonicesi afferma di aver « lavorato notte e giorno con fatica e pena » (2
Ts Rm 9, 3-4). È vero che da questa condotta gli derivarono tesori di meriti;
l’anima sua però — anche se sublime in santità — non poteva fare a meno di
essere qualche volta separata dalla celeste
teoria, a causa delle occupazioni terrestri. L’Apostolo riconosce
da un lato i frutti preziosissimi che ottiene dalla vita attiva; dall’altro lato
considera in cuor suo il bene della contemplazione; finalmente pone sopra un
piatto della bilancia il frutto delle sue innumerevoli fatiche e sull’altro la
delizia della contemplazione divina, per farne la stima. Dopo aver lungamente
cercato di ridurre alla perfezione il suo giudizio, che era attratto verso una
parte dal valore immenso delle sue fatiche e dall’altra dal desiderio della
perfetta unione con Cristo che gli faceva desiderare perfino il dissolvimento
della sua carne, alla fine esclama incerto: « Non so che cosa scegliere. Sono
angustiato da due parti: desidero di vedere spezzati i legami della carne e di
essere con Cristo, e questo è senza dubbio più bello; ma è più utile che io
rimanga ancora in questa carne per il vostro vantaggio » (Fil 1,22-24).
È chiaro che l’Apostolo pone la contemplazione ai disopra dei frutti prodotti
con le sue fatiche apostoliche; tuttavia vi rinuncia in nome di quella carità
senza la quale non si può aver parte col Signore. Per amore di coloro che egli
nutre — a somiglianza di una madre — col latte del Vangelo, non ricusa la
divisione da Cristo, dannosa per lui, ma utile agli altri. Lo spinge a questa
scelta la sua intensissima pietà, quella stessa pietà che lo spinge a desiderare
— se ciò fosse possibile — il male supremo, che è l’anatema, se ciò può tornare
a vantaggio dei fratelli. « Desidero —- egli dice — essere anatema da Cristo per
il bene dei miei fratelli, che sono i miei consanguinei secondo la carne, cioè
gli Israeliti
» (Rm 9,3-4).
In altre parole l’Apostolo dice: io vorrei sottopormi non solo
alle pene temporali, ma anche a quelle eterne, purché tutti godessero l’unione
con Cristo. Sono infatti convinto che la salvezza di tutti gli uomini è più
utile a Cristo, e anche a me, della mia stessa personale salvezza.
Ma riprendiamo il nostro discorso. L’Apostolo, pur di ottenere il sommo bene,
che consiste nel godere la visione di Dio e nel rimanere per sempre uniti a
Cristo, bramerebbe vedere il suo spirito sciolto dai legami terrestri: il corpo1
infatti è caduco ed è impedito da molte debolezze derivanti dalla sua fragilità;
per questo è impossibile che qualche volta non resti separato dall’unione con
Cristo.
Ma anche l’anima, finché è distratta da tanti affanni, finché è turbata da tante
inquietudini moleste, è incapace di godere ininterrottamente l’unione con Dio.
Quale santo è stato così perseverante, quale vita è stata così austera, da poter
impedire ogni illusione all’astuto avversario? S’è mai conosciuto qualcuno il
quale abbia così penetrato il segreto della solitudine, abbia talmente fuggito i
contatti con gli uomini, da non abbandonarsi mai a pensieri superflui, o da non
staccarsi mai dalla contemplazione divina — che sola è buona — attratto dalla
vista delle cose mondane e occupato dalle azioni terrene? Chi potè conservare il
fervore dello spirito fino al punto che mai lo turbassero pensieri pericolosi,
che lo allontanano dalla preghiera e fanno improvvisamente precipitare dal cielo
sulla terra? C’è qualcuno tra noi al quale non sia accaduto — per non parlare di
altri momenti di distrazione — di esser preso da una certa indolenza proprio nel
momento in cui pregava ed innalzava al cielo la sua mente, cosicché trovò motivo
di offendere Dio proprio là dove sperava di trovare il perdono dei suoi peccati?
Chi è tanto accorto e vigilante da non lasciarsi mai distrarre dal senso della
sacra Scrittura, mentre sta cantando un salmo al Signore? Chi è tanto penetrato
nell’intimità divina da poter dire di aver osservato per un giorno solo il
comando dell’Apostolo: « pregate senza mai cessare » (1 Ts 5,17)?
Queste imperfezioni sembrano cose da nulla a coloro che sono immersi nei vizi
più grossolani, ma per coloro che conoscono il gran bene della perfezione, una
tal moltitudine di imperfezioni — anche se di poca importanza — sembra
gravissima.
VI -
Coloro che si credono senza peccato assomigliano ai ciechi
Poniamo che in una casa, tutta ingombra di bagagli, di mobili, di vasi e altre
cose, entrino due uomini di vista diversa: il primo ha occhi sani e penetranti,
il secondo ha occhi ciechi e cisposi. Quest’ultimo, impedito di vedere ciò che
gli sta dinanzi, a causa della sua vista annebbiata, dirà che là dentro vi sono
armadi, letti, sedie, mense e altre cose di cui ha scoperto l’esistenza più col
tatto che con la vista. Ma colui che ha occhi buoni, allorché un raggio di luce
è penetrato negli angoli più nascosti, vi enumera una quantità di piccole cose
che si possono appena contare, e che sorpasserebbero in volume — qualora si
ammucchiassero insieme — gli stessi mobili che il nostro cieco aveva scoperto
col tatto.
La cosa si ripete pei santi: essi hanno davvero buona vista. Nel loro grande
amore di perfezione scoprono in se stessi — con rara chiaroveggenza — tanto
male; essi condannano senza pietà certe colpe che il nostro sguardo interiore,
così accecato com’è, non saprebbe vedere. Là dove, a giudizio della nostra
negligenza, un peccatuccio veniale non ha per nulla appannato il candore della
nostra coscienza, bianca ancora come la neve, essi vedono tutto coperto di
macchie. E non dico che si sentano così fortemente colpevoli perché un pensiero
vano si è insinuato nell’intimità del loro spirito, basta per condannarsi
severamente che il ricordo di un salmo da recitare li abbia leggerissimamente
distratti durante la preghiera. Essi son soliti dire: Se ci rivolgiamo a qualche
potente personaggio, non perché ci risparmi la vita, ma solo per avere qualche
vantaggio temporale, noi stiamo fissi in lui con gli occhi e con tutta l’anima,
rimaniamo come sospesi in attesa di un suo cenno, timorosi che una parola
stonata o fuori posto ci possa far perdere la grazia del nostro ascoltatore.
Immaginiamo anche di trovarci in tribunale, davanti ai giudici di questo mondo,
mentre il nostro avversario ci sta di fronte. Se nel bel mezzo del dibattito ci
prende la voglia di tossire, di sputare, di ridere, di muoverci, di dormire, non
è vero che il nostro avversario sarà attentissimo ad eccitare la severità del
giudice a nostro danno? Se così è, con quale attenzione, con quale fervore di
preghiera, non dovremo implorare Colui che è il nostro giudice divino, affinché
ci scampi dal pericolo di morte eterna di cui siamo minacciati da quel perfido
seduttore e terribile accusatore che ci sta dinanzi?
In verità si macchierebbe non di una lieve colpa, ma di un gravissimo delitto
colui che innalzasse la sua preghiera a Dio e nel frattempo si sottraesse alla
sua presenza e seguisse la vanità dei suoi sciocchi pensieri, come se Dio fosse
cieco o sordo. Ma coloro che coprono gli occhi del proprio cuore con velo spesso
di vizi e al dire del Signore: « vedendo non vedono, udendo non odono » (Mt. 13,
13), e a mala pena scorgono, nei recessi del loro cuore, le colpe gravi e
capitali. Come dunque potranno avere quello sguardo penetrante che si richiede
per conoscere l’apparizione insensibile dei cattivi pensieri, o dei moti
fuggevoli e nascosti della concupiscenza, che feriscono l’anima con un colpo
leggero e sottile; oppure le distrazioni che li tengono prigionieri? Costoro,
sempre vaganti dietro ai pensieri vani, non si addolorano quando sono strappati
alla divina contemplazione, che è cosa preziosissima. Non hanno neppur motivo di
piangere per aver perduto qualcosa, perché dopo aver aperto tutta la loro anima
ai pensieri che la inondano, non hanno un punto fisso da difendere con tenacia,
o al quale far convergere tutti i loro desideri.
VII -
Coloro che sostengono la possibilità, per un uomo, di esser senza peccato,
cadono in un doppio errore
La causa che ci precipita in questo errore è che noi, completamente ignoranti di
ciò che è
l’anamarteton, o impeccabilità, pensiamo che dalle incursioni di
questi pensieri oziosi e licenziosi non derivi colpa alcuna. Resi insensibili
dalla nostra stoltezza, percossi da spirituale cecità, vediamo soltanto le colpe
mortali e crediamo che sia sufficiente evitare quelle che sono condannate anche
dalle leggi umane. Quando ci sentiamo appena liberi da quei gravi delitti, ci
convinciamo che in noi non c’è alcun peccato.
Segregati dal numero dei veggenti, incapaci di scoprire la moltitudine delle
colpe leggere accumulate in noi, non abbiamo alcun sentimento di compunzione se
ci accorgiamo che la malattia dell’accidia si è insinuata nell’anima nostra.
Nessun dolore proviamo se le suggestioni della vanagloria ci assalgono, non
versiamo una lacrima sulla nostra avversione alla preghiera, o sulla nostra
tiepidezza. Se durante l’orazione o la salmodia ci viene alla mente qualche
pensiero contrario all’orazione o al salmo, non lo stimiamo una colpa. Molte
cose che ci vergogneremmo di dire o di fare davanti agli uomini, non ci
vergogniamo di trattenerle in cuore •—- almeno qualche tempo — pur sapendo che
Dio ci vede internamente. Non piangiamo con lacrime sincere i moti carnali che
ci assalirono nel sonno; non piangiamo neppure le colpe che commettiamo nel
distribuire le nostre elemosine. Talvolta, mentre ci accingiamo a sollevare le
necessità dei nostri fratelli, o ad elargire l’obolo agli indigenti, un velo,
prodotto dall’avarizia, viene ad oscurare la gioia del nostro volto. Eppure, non
ci sentiamo in dovere di rammaricarci per aver dimenticato il pensiero di Dio e
averlo sostituito con le preoccupazioni delle cose temporali e corruttibili.
Valgono esattamente per il nostro caso le parole di Salomone: « Sono stato
ferito ma non ho sentito dolore; sono stato ingannato ma non me ne sono accorto
» (Pr 23,35 LXX).
VIII. -
Pochi son coloro che capiscono che cos'è il peccato
Coloro invece che ripongono il colmo della gioia e della felicità nella
contemplazione delle cose celesti, se per un istante sono strappati ai loro
pensieri da qualche violenta distrazione, credono di aver commesso un sacrilegio
e lo puniscono subito con una severa penitenza. Piangono a calde lacrime per
aver preferito al Creatore una miserabile creatura. Si accusano quasi di
empietà, e sebbene abbiano subito ricondotto lo sguardo della loro mente alla
contemplazione della gloria divina, trovano insopportabile quelle brevi tenebre
di pensieri terrestri da cui furono assaliti: hanno insomma un sacro terrore per
tutto ciò che può allontanare la mente dalla luce di Dio.
Questa era la disposizione di spirito che l’Apostolo Giovanni voleva far nascere
in tutti i cristiani quando diceva: « Figliolini miei, non amate il mondo, né le
cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, sappia che l’amore di Cristo non è
in lui, perché tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne,
concupiscenza degli occhi e superbia della vita. Questi frutti avvelenati non
vengono dal Padre ma dal mondo. Tuttavia il mondo si dissolve con le sue
concupiscenze, colui invece che fa la volontà di Dio rimane in eterno » (Gv
2,15-17).
Certamente i santi disprezzano tutte le cose del mondo, ma non è possibile che
essi le disprezzino a tal punto da non essere portati verso di quelle, sia pure
per qualche istante. Nessuno, fatta eccezione per il Signore nostro Gesù Cristo,
ha potuto tenere così fìssa la mente mobile dell’uomo nella contemplazione
divina, da non allontanarsene mai o da non cadere nel peccato di affetto verso
le cose create. A tal proposito dice la Scrittura: « Neppure gli astri son puri
dinanzi a Dio » (Gb 25,5). E ancora: « Egli non si fida dei suoi santi, e negli
stessi angeli trova delle colpe » (Gb 15,15). Una versione più fedele dice però
così in questo passo: « Tra i suoi santi nessuno è immutabile e i cieli non son
puri al suo cospetto » (Gb 15,15).
IX -
Con quanta attenzione il monaco deve conservare il ricordo di Dio
Mi vien voglia di paragonare i santi agli
scenòbati, che noi chiamiamo con termine più comune funamboli. Il
paragone è calzante. I santi infatti, per poter conservare continua- mente il
ricordo di Dio, camminano come su funi tese nell’aria.
Il funambolo, che affida la sua salvezza e la sua vita ad una sottilissima
corda, sa bene di andare incontro a morte istantanea e crudele se una minima
incertezza del piede gli fa perdere l’equilibrio e lo distoglie da quella
direzione in cui sta la sua salvezza. Mentre egli, con arte ammirevole, compie
le sue evoluzioni aeree, se non tiene prudentemente i piedi sulla via
sottilissima che calca, può accadere che la terra — per tutti gli altri sostegno
naturale e fondamento solido — gli diventi la rovina immediata e sicura e
questo, non perché la terra cambia natura, ma perché il funambolo vi precipita
con tutta la violenza del suo peso.
Applichiamo il paragone. La bontà indefettibile e la sostanza immutabile di Dio
non possono far danno alcuno, ma noi possiamo procurare la morte a noi stessi
quando abbandoniamo le vette della contemplazione e scendiamo alle bassezze
della terra. Dirò di più: il solo scostarsi da quelle altezze è già morte. Dice
infatti il Signore: « Guai a loro perché si sono ritirati da me; essi saranno
devastati perché hanno prevaricato contro di me » (Os 7,13). E ancora:« Guai a
loro quando io mi ritirerò da essi! » (Os 9,12). E sta pure scritto: « Le tue
iniquità ti puniscono, le tue infedeltà ti condannano. Impara e vedi quanto è
amaro e funesto abbandonare il Signore tuo Dio » (Ger 2,19). « L’empio rimane
prigioniero delle sue stesse colpe, ed è preso al laccio dai suoi peccati » (Pr
5,22). A coloro che si allontanano da Lui giustamente il Signore rivolge questo
rimprovero: «Ecco, voi tutti che accendete un fuoco, o attizzate dei bracieri,
gettatevi nella fiamma che voi preparate e sopra il braciere che avete acceso »
(Is 50,11). E ancora: « Chi accende il male perirà » (Pr 19,9).
X -
Chi tende alla perfezione si umilia sinceramente e riconosce di aver bisogno
della grazia di Dio
I santi dunque si sentono ogni giorno pressati dal peso aggravante dei pensieri
terrestri e allontanati dalle altezze sublimi della contemplazione; passano,
contrariamente a quanto vogliono — anzi a loro insaputa — sotto la legge del
peccato e della morte; sono allontanati dalla divina presenza a causa delle
occupazioni enumerate sopra, le quali, per buone e giuste che possano essere,
son
tuttavia terrestri. E taccio di altre opere che buone non sono.
Certamente i santi hanno buone ragioni per elevare gemiti al Signore, hanno
motivi per confessarsi peccatori, per versare costantemente vere lacrime di
pentimento e per chiedere ogni giorno perdono dei peccati nei quali incorrono
continuamente, vinti dall’umana fragilità. Perciò essi si riconoscono
perseguitati, fino all’ultimo momento della vita, da assalti che sono motivo di
continuo e acuto dolore, né possono offrire al Signore le loro stesse preghiere
senza che ad esse si uniscano pensieri di timore.
Convinti, a causa della pesantezza della carne, di non poter raggiungere con le
proprie forze il fine desiderato; convinti anche di non potersi unire — come
vorrebbe il loro cuore —- al sommo bene, a causa delle distrazioni che li
distolgono dalla contemplazione divina e li fanno schiavi delle cose mondane,
essi ricorrono alla grazia di quel Dio che giusti- fica gli empi e dicono con
l’Apostolo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia
di Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signor nostro » (Rm 7,24-25). Si accorgono
infatti di non poter fare il bene che vorrebbero fare e di cadere invece nel
male che vorrebbero evitare e che detestano. In una parola: sono continuamente
presi dal turbine dei pensieri e dalle preoccupazioni delle cose carnali.
XI -
Spiegazione delle parole: « Mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo
interiore...
»
I santi si rallegrano certamente nella legge di Dio, secondo i gusti di
quell’uomo interiore che, passando sopra a tutte le cose esteriori, cerca di
vivere in continua unione con Dio solo. Tuttavia sentono nelle loro membra (cioè
inserita nella natura umana) un’altra legge, che si oppone a quella dello
spirito (Rm 7,23). Essa assoggetta il loro spirito alla legge violenta del
peccato, sottraendolo al Bene sommo e assoggettandolo ai pensieri terrestri. Pur
ammettendo che certe occupazioni umane sono utili e necessarie, specialmente
quando ci sono imposte dalla virtù della religione, per sovvenire alle necessità
del prossimo, messe a confronto col sommo bene, che fa gioire il cuore di tutti
i santi, quelle occupazioni appaiono un male da evitare. La ragione sta nel
fatto che distolgono, sia pure per breve tempo, dalla gioia della beatitudine
perfetta.
È veramente una legge di peccato quella introdotta nel mondo dalla disobbedienza
del primo uomo. Per quella colpa giustamente risonò la sentenza del Giudice
divino: « La terra sarà maledetta per cagion tua; con lavoro faticoso ricaverai
da quella il tuo nutrimento; essa ti produrrà triboli e spine; col sudore della
fronte mangerai il pane » (Gn 3,17-19).
Questa, dico io, è la legge inserita nelle membra di tutti gli uomini, una legge
contraria a quella dello spirito e capace di allontanarci dalla contemplazione
di Dio. A causa di quella legge — dopo che l’uomo ebbe conosciuto il bene e il
male — la terra, maledetta per il nostro peccato, incominciò a produrre i
triboli e le spine dei pensieri. Quelle spine soffocano i germi naturali delle
virtù e impediscono che noi possiamo mangiare il pane che vien dal cielo (Gv
6,33) e fortifica il cuore dell’uomo (Sal 103,15), senza aver prima versato il
sudore della nostra fronte.
Tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, sono sottoposti a questa legge.
Nessuno — neppure i santi — può mangiare questo pane senza il sudore della
fronte e senza una vigilante custodia del cuore. Quando invece si tratta del
pane comune, vediamo che esistono molti ricchi i quali se ne nutrono senza alcun
sudore della loro fronte.
XII -
Sul versetto paolino che dice:
«
Sappiamo che la Legge è spirituale... »
La Legge è spirituale: ce lo dice l’Apostolo. « Sappiamo infatti che la Legge è
spirituale, ma io sono carnale, venduto quasi come schiavo al peccato » (Rm
7,14). Sì la legge che ci comanda di mangiare col sudore della nostra fronte il
pane disceso dal cielo è spirituale, ma per il fatto di essere « venduti al
peccato », noi siamo carnali.
Io mi domando: di quale peccato si tratta? Chi lo ha commesso? Si tratta senza
dubbio del peccato di Adamo. La sua ribellione, il suo commercio (lasciatemi
dire così) rovinoso e fraudolento, ci ha fatti diventare venduti. Quando,
sedotto dalla persuasione del serpente, Adamo mangiò il frutto proibito,
sottopose tutta la sua discendenza al giogo di una schiavitù senza fine. Questa
è la consuetudine che regola i rapporti tra venditore e compratore: chi desidera
farsi schiavo di un altro domanda al suo compratore una somma che serva a
compensarlo della perdita della propria libertà e dell’accettazione di una
schiavitù perpetua. La consuetudine qui descritta non fu smentita dal patto
intercorso tra il serpente e Adamo: Adamo infatti riceve il prezzo della sua
libertà mangiando il frutto proibito. Da quel momento egli perse la libertà
naturale e scelse di farsi schiavo di colui che gli aveva pagato il prezzo
mortale del frutto proibito. C’è di peggio: con quel patto Adamo stabilì per
sempre nello stato di schiavitù tutta la sua discendenza. Un matrimonio tra
schiavi potrebbe generare dei figli che non fossero schiavi?
Che dire allora? È forse vero che quell’astuto e perfido compratore ha strappato
il diritto di possesso al padrone vero e legittimo? Certamente no! Il demonio,
con un inganno, non ha potuto strappare a Dio tutto il suo tesoro, fino al punto
che il vero padrone abbia perduto ogni diritto di proprietà. Anzi, lo stesso
compratore e nemico di Dio, quantunque fuggitivo e ribelle, è costretto a stare
al servizio di Dio. Va però osservato che alle creature ragionevoli Dio aveva
dato il libero arbitrio; non era perciò conveniente che riconducesse alla
libertà originale coloro che si erano venduti per un miserevole peccato di gola,
senza che essi lo avessero desiderato con pentimento. Tutto ciò che è contrario
alla bontà e alla giustizia ripugna all’Autore della giustizia e della bontà.
Non sarebbe stato conveniente che Dio avesse ritolto all’uomo il dono della
libertà; non sarebbe stato giusto che Dio ostacolasse la libertà dell’uomo e la
tenesse schiava con la sua onnipotenza, senza più permetterne il naturale
esercizio. Il Signore volle perciò riservare la salvezza dell’uomo ai secoli
lontani, affinché il suo disegno si compisse nella pienezza dei tempi. Era
conveniente che la discendenza di Adamo rimanesse nella condizione ereditata dal
padre fino al momento in cui Dio stesso non l’avesse sciolta dalle antiche
catene e ristabilita nel primitivo stato di libertà, per mezzo della sua grazia
e a prezzo del suo sangue. È certo che Dio avrebbe potuto salvare il genere
umano subito dopo il peccato, ma non lo volle. La sua giustizia non gli
permetteva di infrangere i suoi stessi decreti.
Vuoi ora sapere perché sei stato venduto? Ascolta Dio stesso che te lo dice
chiaramente per bocca del profeta Isaia: « Dov’è il libello di ripudio della
vostra madre, con il quale io l’ho ripudiata? Ovvero, qual è il mio creditore,
al quale io vi ho venduti? Per le vostre iniquità voi foste venduti, e vostra
madre fu ripudiata per i vostri peccati » (Is 50,1). Vuoi anche sapere perché
Dio non ti volle strappare dal giogo della schiavitù con la sua potenza? Ascolta
le parole con le quali egli rimprovera gli schiavi del peccato per essersi
volontariamente venduti. « Il mio braccio sarebbe dunque troppo corto per
liberarvi, e non ho forza abbastanza per liberare? » (Is 50,2).
Ma ecco che lo stesso profeta dice che cosa è stato che si è continuamente
opposto alla misericordia onnipotente del Signore: « Ecco: la mano del Signore
non è troppo corta per salvarvi, né il suo orecchio tanto duro da non sentire;
ma furono le vostre iniquità che hanno scavato un abisso tra voi e il vostro
Dio. A causa dei vostri peccati egli si copre la faccia per non udirvi » (Is
59,1-2).
XIII -
Sulle parole:
«
So che il bene non abita in me, cioè nella mia carne...
»
Divenuti carnali, condannati alle spine e ai triboli della prima maledizione di
Dio, venduti da nostro padre con un pessimo commercio, siamo incapaci di fare il
bene che vogliamo. Quando la nostra mente si occupa di Dio, ecco che la
necessità ci strappa a quel pensiero per tirarci alle occupazioni della
debolezza umana.
Mentre ci sentiamo accesi di amore per la purezza, ci assalgono le tentazioni
della carne, che noi vorremmo ignorare completamente. Tutto questo ci persuade
che il bene non abita in noi, e quando dico « il bene », intendo quella
contemplazione perpetua e tranquilla di cui ho parlato già prima. In noi si è
operato un lacrimevole e dannoso divorzio. Con la mente vorremmo servire la
legge di Dio e non staccare mai i nostri occhi dalla luce divina; ma dato che
siamo immersi nelle tenebre della carne, la legge del peccato ci stacca
violentemente al bene che abbiamo conosciuto. Dalle altezze della vita
spirituale precipitiamo nelle preoccupazioni e nei pensieri di questa terra. A
questo ci condanna la legge del peccato, vale a dire la sentenza pronunciata da
Dio contro il primo peccatore.
Questa è la ragione per cui il beato Apostolo, pur confessando apertamente la
necessità e l’inevitabilità del peccato che tiene prigioniero lui e gli altri
santi, dice coraggiosamente che nessuno dei santi è perciò da condannare: « Non
c’è dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. La legge infatti
dello spirito di vita, che è in Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del
peccato e dalla morte » (Rm 8,1-2).
È come dire: la grazia che Gesù Cristo spande ogni giorno sopra ai suoi santi,
li assolve da ogni colpa. Quando essi implorano il perdono delle loro colpe,
vengono liberati dalla legge del peccato e dalla morte, alle quali li assoggetta
per sempre — anche se contro loro voglia — l’antico castigo. Vedete dunque che
san Paolo parlava in nome dei santi e dei profeti, non già dei peccatori, quando
diceva: « Io non facico il bene che voglio; ma al contrario faccio il male che
non voglio » (Rm 7,19). Oppure: « Vedo nelle mie membra un’altra legge, che
lotta contro la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del
peccato, che
è nelle mie membra » (Rm 7,23).
XIV -
Obiezione: le parole dell’Apostolo:
«
Io non faccio il bene che voglio... » non convengono né agli infedeli né ai
santi,
A nostro avviso le parole ora riferite non convengono né a coloro che vivono nel
peccato mortale, né all’Apostolo e a coloro che al par di lui vivono da
perfetti. Noi crediamo che debbano applicarsi piuttosto a coloro i quali dopo
aver ricevuto la grazia divina e conosciuta la verità, vorrebbero sì liberarsi
dai vizi della carne, ma si vedono ancora attratti verso le antiche
concupiscenze da una abitur dine inveterata e forte, che li domina, li
tiranneggia, come una legge naturale. Infatti l’abitudine e la ripetizione degli
atti cattivi creano una specie di legge della natura. Conficcata nelle carni
della povera umanità, quella legge assoggetta a sé, per condurle al vizio, le
inclinazioni di un’anima non ancora perfettamente formata alla pratica della
virtù: un’anima — se così posso dire — di castità ancor tenera e nuova. Ma tale
legge sottomette quest’anima debole — in forza di una legge antica — alla morte
e al giogo tirannico del peccato, senza permetterle di appropriarsi il bene
desideratissimo della purezza, costringendola invece a fare il male che quella
detesta.
XV -
Risposta all’obiezione
Teona.
Le vostre opinioni hanno già progredito molto. Ma voi stessi affermate che
quelle parole della sacra Scrittura non son dette a nome di coloro che sono
peccatori nel senso più grave del termine, ma si addicono a coloro che cercano
di tenersi lontani dai peccati della carne. Penso però che, dopo aver separato i
destinatari di quelle parole dalla turba dei peccatori più orrendi, voi
giungerete adagio adagio ad ammettere che le parole dell’Apostolo son rivolte
anche ai fedeli e ai santi.
Quali sono, secondo voi quei peccatori che dopo il battesimo possono commettere
delle colpe dalle quali li può liberare la grazia che il Signore dona ogni
giorno; quale credete che sia quel corpo di morte di cui parla l’Apostolo quando
dice: « Me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio
per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro » (Rm 7,24-25)? Non vi par chiaro? Non
vi sembra che la verità stessa vi spinga a dire non trattarsi qui di tutte
quelle colpe mortali dalle quali deriva la morte eterna? Voglio dire: omicidio,
fornicazione, adulterio, ubriachezza, furto, rapina? No: si tratta di quel corpo
del peccato di cui abbiamo parlato più sopra, e al quale porta rimedio ogni
giorno la grazia del Signore.
Chiunque, dopo aver ricevuto il battesimo e l’illuminazione di Dio, si abbandona
al vecchio corpo di morte, sappia che il suo peccato non sarà assolto dalla
grazia quotidiana del Signore, cioè da quel perdono facile che Dio accorda su
nostra richiesta, alle colpe di poca entità. Chi è reo di tali peccati dovrà
assoggettarsi al dolore di lunghe penitenze e di grandi espiazioni, a meno che
non voglia essere condannato, nella vita futura al supplizio del fuoco eterno. È
proprio l’Apostolo che ci assicura di ciò: « Attenti a non illudervi: né
fornicatori, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né fornicatori, né ladri,
né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori, saranno eredi del regno di
Dio » (1 Cor 6,9-10).
Ora io domando: qual è questa legge che milita nella nostra carne e lotta contro
il nostro spirito? Quale questa legge che, dopo averci fatto schiavi —
nonostante la nostra resistenza — del peccato e della morte, lascia tuttavia che
con lo spirito serviamo il Signore? Io non credo davvero che per legge del
peccato si debbano intendere quelle colpe gravissime di cui abbiamo parlato
sopra. Se uno si macchiasse di tali peccati, non potrebbe più — con lo spirito —
servire la legge di Dio. Prima di commettere uno di questi peccati nella sua
carne, l’uomo dovrebbe fare spiritualmente divorzio da Dio. Che cosa vuol dire,
infatti servire la legge del peccato, se non fare quello che il peccato comanda?
E qual è il peccato di cui possa sentirsi schiavo un santo come l’Apostolo,
senza per questo dubitare di esserne liberato dalla grazia quotidiana di Cristo?
Dice infatti l’Apostolo: « Infelice che sono! Chi mi libererà da questo corpo di
morte? La grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro » (Rm 7,24-25).
Io domando ancora: quale sarà, secondo voi, questa legge nelle nostre membra, la
quale strappandoci alla legge del peccato, ci fa
infelici, ma non
colpevoli? Per essa, non siamo condannati al supplizio eterno, ma
soltanto sospiriamo per il timore di vedere interrotta la gioia della nostra
beatitudine. Per questo —- per essere ristabiliti nella beatitudine — gridiamo
con l’Apostolo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? ».
Esser fatto schiavo della legge del peccato, che altro significa se non rimanere
effettivamente nel peccato? E qual è il bene sommo, quello che neppure i santi
possono ottenere se non la perpetua contemplazione, dinanzi alla quale tutti gli
altri beni impallidiscono, come abbiamo dimostrato sopra?
In questo mondo ci sono molti beni, lo riconosciamo volentieri. Basti dire la
castità, la continenza, la sobrietà, l’umiltà, la giustizia, la misericordia, la
temperanza, la pietà. Ma questi non possono essere paragonati con il bene
supremo: quelli son beni raggiungibili, non solo dagli Apostoli, ma dalle stesse
anime mediocri. È vero che se quei beni non saranno da noi rispettati,
meriteremo il castigo eterno, o il dolore di un lungo purgatorio, ma dopo
l’offesa di quei beni o di quelle virtù non possiamo sperare il perdono dalla
grazia quotidiana di Cristo.
Conveniamone ormai: non resta che applicare le parole dell’Apostolo alle anime
dei santi. Essi, sottomessi ogni' giorno alla legge del peccato — a quella da
noi spiegata e non all’altra che fa commettere peccati mortali — conservano la
fiducia della loro salvezza. Non cadono in colpa grave, ma secondo quel che
abbiamo detto più volte, di-i scendono dalla contemplazione divina alle
preoccupazioni della terra, e si trovano continuamente stornati dalla vera
beatitudine. Se invece fosse vero che per questa legge, agglutinata con la loro
carne, i santi son travolti ogni giorno in peccati mortali, non dovrebbero essi
lamentarsi d’aver perduto la beatitudine, ma l’innocenza, e l’apostolo Paolo non
dovrebbe dire: « Me infelice! », ma piuttosto: « Impuro e scellerato che sono!
». In tal caso l’Apostolo non dovrebbe augurarsi la liberazione da questo corpo
di morte, cioè dalla condizione umana, ma piuttosto la liberazione dai delitti
della carne. Non è invece così. Vedendosi schiavo e incline alla sollecitudine
delle cose carnali, a causa della fragilità umana, l’Apostolo piange su questa
legge di peccato alla quale è oggetto contro la sua volontà e ricorre a Cristo
perché la sua grazia lo salvi con pronto intervento. Tutto quello che la legge
del peccato ha prodotto nel cuore dell’Apostolo: spine, triboli, sollecitudini
carnali; la legge della grazia lo toglie totalmente. « La legge dello spirito di
vita, che è in Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte
» (Rm 8,2).
XVI -
Che cos’è il corpo di peccato?
Questo è dunque l’inevitabile corpo di morte, nel quale i perfetti ricadono ogni
giorno, pur avendo gustato « quanto è buono il Signore » (Sal 33,9); e così
provano anch’essi « quanto sia amaro e funesto abbandonare il Signore »(Ger
2,19). Questo è quel corpo di morte che ritrae i giusti dalla contemplazione
celeste e li fa piombare nelle cose terrestri. È questo corpo che, mentre essi
recitano i salmi o stanno inginocchiati in preghiera, richiama alla loro memoria
forme umane, parole, affari, azioni inutili. Questo è il corpo di morte per il
quale, desiderando imitare la santità degli angeli o starsene per sempre uniti
al Signore, non riescono a raggiungere un sì alto bene e fanno il male che non
vorrebbero perché trasportati dal pensiero verso quelle cose che non giovano né
al progresso spirituale né alla perfezione della virtù. Infine il beato
Apostolo, per farci chiaramente intendere che vuol parlare dei santi, dei
perfetti, di coloro insomma che assomigliano a lui, aggiunge subito dopo: « E
questo è vero anche per me
» (Rm 7,25).
È come se dicesse: quando vi parlo così, io scopro i segreti della mia
coscienza, non quelli della coscienza altrui. È abituale a san Paolo far uso di
simili modi di dire quando vuole accennare a se stesso.
Dice ad esempio: « Io Paolo, vi scongiuro per la mansuetudine e la modestia di
Cristo
»
(2 Cor 10,1).
E in altra occasione: « Per quanto mi riguarda, io non ho voluto esservi di peso
»
(2 Cor 12,13).
E ancora: « E sia pure; io non vi sono stato d’aggravio » (2 Cor 12,16). E
altrove: « Sono io, Paolo, che ve lo dico: se vi fate circoncidere, Cristo non
vi gioverà a nulla
»
(Gal 5,2).
E infine ai Romani: « Desideravo essere anatema io stesso per i miei fratelli »
(Rm 9,3). Si può dunque ragionevolmente pensare che l’Apostolo abbia inteso
sottolineare con enfasi la sua affermazione: « Così io stesso
»
(Rm 7,25).
Pare voler dire: io che son da voi conosciuto come Apostolo di Cristo; io
trattato da voi con ogni riverenza e rispetto; io stimato da voi così eccellente
e perfetto; io che sono il portatore di Cristo, perché Egli parla in me,
confesso che mentre con lo spirito son sottomesso alla legge di Dio, con la
carne resto soggetto alla legge del peccato. Le distrazioni inseparabili dalla
condizione umana, mi obbligano spesso a scendere dal cielo alla terra: dalle
altezze, in cui sarebbe bello rimanere sospesi, l’anima mia discende alle
preoccupazioni delle cose basse e meschine. È la legge del peccato — lo
riconosco — che mi soggioga ad ogni istante; e quantunque i miei desideri
rimangano invariabilmente orientati a Dio, mi sento incapace a liberarmi da
questa schiavitù tremenda, perciò ricorro incessantemente alla grazia del
Salvatore.
XVII -
Tutti i santi hanno sinceramente riconosciuto di esser impuri e peccatori.
I santi son costretti a sospirare continuamente per colpa della loro umana
debolezza. Quando considerano la svagatezza dei loro pensieri, o vanno in fondo
alle pieghe riposte della loro coscienza, esclamano in tono supplichevole: «
Signore, non chiamare in giudizio il tuo servo, perché nessun vivente è giusto
innanzi a te » (Sal 142,2). Oppure: « Chi può dire: ho purificato il mio cuore,
son dunque libero da ogni peccato » (Pr 20,9)? Ancora: « Non esiste in terra un
uomo giusto che faccia il bene senza mai peccare » (Sir 7,21 LX). Oppure: « Chi
è capace di conoscere le sue colpe? » (Sal 18,13). Per tal modo i santi hanno
sempre pensato che la giustizia dell’uomo è imperfetta, debole e sempre
bisognosa della misericordia divina. Dio purificò una volta i peccati di un
grande santo (Isaia) con un carbone acceso, preso dall’altare. E quello stesso
santo profeta, dopo aver goduto una teofania, dopo aver contemplato i serafini
fiammanti e ricevuta la rivelazione dei più sublimi misteri, esclama: « Ahimè!
Sono perduto, perché sono un uomo di labbra impure e vivo in mezzo a un popolo
dalle labbra impure » (Is 6,5).
Io credo che il profeta non avrebbe avvertito l’impurità delle sue labbra se non
avesse imparato a conoscere, attraverso la contemplazione di Dio, ciò che
costituisce la Vera e integra purezza della perfezione. Quando ebbe la visione
di Dio conobbe immediatamente in sé quelle brutture che prima gli rimanevano
nascoste. Isaia infatti parla della impurità delle sue labbra, non già della
impurità del popolo, quando dice: « Misero me! Io sono un uomo di labbra impure
». La prova della validità di questa interpretazione sta nelle parole che
seguono: « ...E abito in mezzo ad un popolo dalle labbra impure ». C’è di più.
Allorché il profeta confessa, nella sua preghiera, l’impurità dei peccati che
imbrattano la terra, non prega soltanto pei grandi peccatori, ma abbraccia con
loro anche la schiera dei giusti e dice: « Ecco tu eri adirato perché noi
peccavamo, trascinati dalle nostre infedeltà e passioni. E noi tutti eravamo
impuri e tutte le nostre opere buone sono come un panno macchiato » (Is 64,4-5).
Ora io domando: che cosa può darsi di più chiaro di questa sentenza? Il profeta
non ha considerato qualcuna delle nostre opere buone, ma le ha considerate
tutte, poi ha considerato quali possono essere per noi le cose più stomachevoli
e rivoltanti e non avendo trovato nulla di più sordido o più sporco di un panno
pieno d’immondizie, a quello ha raffigurato le nostre opere buone. È inutile
dunque che vi ostiniate ad opporre la vostra piccola obiezione alla evidenza dei
fatti. Voi poc’anzi dicevate così il vostro pensiero: se nessuno è senza
peccato, nessuno è santo; ma se nessuno è santo nessuno si salverà. Questa
difficoltà si può sciogliere con le parole stesse del profeta. Egli dice al
Signore: « Ecco che tu sei irritato e noi siamo caduti in colpa » (Is 64,5). Ciò
significa: quando tu, Signore, hai allontanato il tuo sguardo dalla superbia del
nostro cuore e dalle nostre negligenze, ci hai come privati del tuo soccorso, e
subito la voragine ci ha ingoiati. È come se dicesse all’astro splendente del
sole: ecco che tu ti sei ritirato al disotto dell’orizzonte e noi siamo stati
avvolti da una oscurità tenebrosa. Ma quantunque Isaia dica che i santi hanno
peccato, e non solo hanno peccato ma son rimasti altresì nella loro colpa, non
giunge a disperare della loro salvezza: « Noi, dice, siamo sempre stati nel
peccato, ma saremo salvati » (Is 64,5).
Ora vorrei accostare la sentenza d’Isaia: « Ecco che tu ti sei irritato, o
Signore, e noi abbiamo peccato », a quella dell’Apostolo: « Misero me! Chi mi
libererà da questo corpo di morte? ». Quando il profeta soggiunge, cioè: « Noi
siamo sempre stati nel peccato, ma saremo salvati », concorda bene con quanto
soggiunge san Paolo dopo la sua esclamazione: « Mi salverà la grazia di Dio, per
mezzo di Gesù Cristo Signor nostro ». Anche altre parole del profeta sembrano
accordarsi con quelle di san Paolo: intendo dire di quella frase: « Misero me!
Io sono un uomo di labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra
impure » e dell’altra: « Infelice che sono! Chi mi libererà da questo corpo di
morte? ». Finalmente il profeta continua: « Ecco che uno dei serafini volò verso
di me, e aveva in mano un carbone acceso (o una pietra) di fuoco, che aveva
preso con le forbici di sull’altare. Con quello toccò le mie labbra e disse:
Ecco, con questo ho toccato la tua bocca e la tua iniquità sarà tolta e il tuo
peccato sarà cancellato » (Is 6,6-7). Queste parole hanno grandissima
somiglianza con quelle di san Paolo: « Mi libererà la grazia di Dio per mezzo di
Gesù Cristo, nostro Signore » (Rm 7,25).
Vedete dunque che i santi non hanno parlato in nome del popolo peccatore, ma in
nome proprio, e si son riconosciuti veramente peccatori. Nello stesso tempo,
però, mai hanno disperato della propria salvezza. La piena giustizia, che non
sperano di ottenere con le loro forze (a causa della fragilità umana) la sperano
dalla grazia del Signore e dalla sua misericordia.
XVIII -
Neppure i santi e i giusti sono senza peccato
L’insegnamento stesso del Salvatore divino ci assicura che nessuno, sia santo
quanto si vuole, può andare esente dal debito del peccato. Quando il Signore
insegna ai suoi discepoli la formula della preghiera perfetta, fra tanti comandi
che non potrebbero convenire ai cattivi e agli infedeli, perché son dati
soltanto ai fedeli e ai perfetti, include anche il comando di pregare così: «
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt
6,12).
Se questa preghiera non suona stonata sulla bocca dei santi, come si deve
credere indubbiamente, si potrà trovare un uomo così sciocco e presuntuoso,
tanto gonfio di superbia diabolica, da proclamarsi immune da peccato? Non è vero
che questo equivarrebbe a dichiararsi superiore all’apostolo Paolo? Ma che dico?
Questa dichiarazione equivarrebbe a riprendere il Salvatore medesimo come reo di
ignoranza o di leggerezza. Perché i casi son due: o il Signore non sapeva che ci
potevano essere al mondo uomini senza debiti di sorta, oppure insegnò qualcosa
di falso a coloro che conosceva non bisognosi di questo rimedio. Quando i santi,
obbedendo al comando del loro re, dicono ogni giorno: « Rimetti a noi i nostri
debiti », può darsi che dicano il vero, e in tal caso è provato che nessuno è
senza colpa; oppure può darsi che dicano il falso, e in questo caso resta vero
che non sono immuni dalla colpa di menzogna. Anche il sapientissimo Ecclesiaste
— dopo aver considerato mentalmente tutte le azioni e occupazioni degli uomini,
— afferma senza alcuna eccezione: « Non c’è un giusto sopra la terra, il quale
faccia il bene senza mai peccare » (Sir 7,21 LXX). In altri termini: non si è
mai trovato un uomo di tale santità, di tale diligenza e attenzione, da poter
restare continuamente unito al bene vero, senza dover registrare ogni giorno
qualche colpa di distrazione. Però, mentre dice che questo uomo non è immune da
peccato, il libro Sacro nega che sia giusto.
XIX -
Anche nel momento in cui ci diamo all’orazione, mal si può evitare il peccato
Chi vuole attribuire alla natura umana
l’anamarteton, cioè l’impeccabilità, non porti contro di me delle
parole vane, ma produca la testimonianza della sua coscienza e si dichiari senza
peccato, se ha la consapevolezza di non essere mai stato separato dal bene
supremo. Più ancora. Chiunque, interrogando seriamente la sua coscienza, potrà
affermare di aver celebrato senza distrazioni una sola sinassi (e non dico di
più), si faccia avanti e si proclami senza peccato.
Confessiamo che la nostra mente svolazzante non sa fare a meno di incorrere in
pensieri vani e superflui: per questo siamo pronti a riconoscere in tutta verità
che nessuno è immune totalmente dal peccato. Per quanto uno sia attento a
difendere il suo cuore non lo difenderà mai quanto richiede lo spirito, che è
per natura sua diametralmente opposto alla carne.
Quanto più l’anima progredisce, tanto più grande è la purezza della
contemplazione in cui viene a trovarsi, ma è altresì più grande la
consapevolezza della propria impurità, vista nello specchio della divina
purezza. Quando l’anima è protesa verso le più sublimi visioni, e desidera cose
assai più perfette di quelle che compie, necessariamente è portata a disprezzare
come vili e di poco conto le azioni che sta compiendo. Un occhio sano vede più
cose di quello malato; chi vive senza meritare rimprovero rimprovera se stesso
con maggior dolore; chi corregge i suoi costumi e vigila attentamente per
acquistare le virtù, moltiplica gemiti e sospiri. Insomma, nessuno, che sia
veramente spirituale, è contento del grado al quale si trova. Più la sua anima è
pura, e più si vede indegno e trova in sé ragioni per umiliarsi; mai trova
motivo’ d’esaltarsi. Più uno vola rapidamente verso le vette della perfezione,
più vede aumentare il cammino da percorrere. Anche l’Apostolo prediletto, colui
« che Gesù amava » (Gv 13,23), quando posò il capo sul petto del Signore,
estrasse da quel cuore divino questa parola: « Se diciamo che siamo senza
peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi » (1 Gv 13,23). Dunque,
quando diciamo di essere senza peccato non abbiamo in noi la verità, cioè non
abbiamo in noi il Cristo.1E allora che cosa guadagniamo con questa
affermazione? Una triste cosa: da semplici peccatori diventiamo empi e
scellerati.
XX -
Da chi si deve imparare a liberarsi dal peccato e a divenire perfetti nella
virtù
Ma se proprio ci preme approfondire la questione e sapere esattamente se
l’impeccabilità è possibile ad una natura umana, nessuno potrà meglio istruirci
su tale argomento di coloro che « hanno crocifisso la loro carne coi vizi e le
concupiscenze » (Gal 5,23), e pei quali « il mondo è crocifisso
» (Gal 6,14) veramente. Questi santi, dopo essersi sradicati dal
cuore tutti i vizi, mentre cercano di allontanare dalla mente persino il
pensiero e il ricordo del peccato, confessano lealmente e continuamente di non
poter rimanere per un’ora sola senza macchia di peccato.
XXI -
Benché convinti di non essere senza peccato, noni, dobbiamo astenerci dalla
santa comunione
Non dobbiamo astenerci dalla comunione del corpo del Signore perché abbiamo
coscienza d’esser peccatori, dobbiamo al contrario cercarla avidamente, per
trovare in essa la salute dell’anima e la purezza dello spirito. Sì, con
sentimento d’umiltà e di fede, pur giudicandoci indegni d’una grazia sì grande,
dobbiamo andare alla comunione, per aver un rimedio alle nostre ferite. Se
aspettassimo di esser degni non faremmo la comunione neppure una volta all’anno.
Eppure, molti di coloro che vivono nei monasteri hanno l’abitudine di
comunicarsi una sola volta all’anno! Si
son
fatti un tal concetto della santità e della grandezza dei divini misteri, che
secondo loro si può andarli a ricevere solo se siamo santi e senza macchia, non
già per santificarsi e liberarci da ogni macchia. Essi pensano di evitare così
ogni presunzione d’orgoglio e invece cadono in un orgoglio più grande, perché,
almeno nel giorno in cui si comunicano si ritengono degni della comunione.
Quanto è meglio ricevere i sacri misteri ogni domenica, come un rimedio alle
nostre infermità! Conviene accostarsi all’Eucaristia con umiltà di cuore, con la
persuasione e la protesta che non siamo degni di una tal grazia, e non gonfiarci
della stolta presunzione che una volta all’anno ne siamo degni.
Per ben comprendere questi insegnamenti e per conservarne un salutare ricordo,
imploriamo fervorosamente la misericordia del Signore e diciamogli che ci aiuti
a metterli in pratica. Nel caso nostro non si tratta di scienze umane che
s’imparano con l’insegnamento verbale: qui valgono soprattutto la pratica e
l’esperienza. Con ciò non intendo negare che di questi argomenti convenga fare
uno studio attento nelle Conferenze con uomini spirituali; ma vai più
approfondirli con esempi e pratiche quotidiane. Se non si fa così,
gl’insegnamenti cadono in dimenticanza, o sono sopraffatti dalla nostra
negligenza.
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21 giugno 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net