LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
24.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE ABRAMO
SULLA MORTIFICAZIONE
Estratto da
“Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali”
– Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. Come manifestammo all’abate Abramo i segreti della nostra mente.
II. Come il vecchio abate mise a nudo i nostri errori.
III. Carattere dei luoghi che devono scegliere gli anacoreti.
IV. Qual genere di lavoro convenga scegliere ai solitari.
V. L’ansietà del cuore è piuttosto aggravata che alleviata dalle uscite verso
l’esterno.
VI. Un paragone per dimostrare come il monaco deve custodire i suoi pensieri.
VII. Domanda: perché la vicinanza dei genitori debba essere stimata dannosa agli
altri monaci e non a quelli che dimorano in Egitto.
VIII. Risposta: tutto non va bene per tutti.
IX. Soltanto coloro che son capaci d’imitare la mortificazione dell’abate
Apollo, hanno diritto a non temere la vicinanza dei loro genitori.
X. Domanda: se sia nocivo al monaco ricevere il sostentamento dai suoi genitori.
XI. Risposta: che cosa pensa in proposito sant’Antonio.
XII. Utilità del lavoro e danni dell’ozio.
XIII. Favola del barbiere, inventata per scoprire le illusioni diaboliche.
XIV. Domanda: qual è l’origine dei pensieri dannosi?
XV. Risposta sui tre movimenti dell’anima.
XVI. La parte ragionevole dell’anima nostra è corrotta.
XVII. La parte più debole dell’anima è la prima a soccombere dinanzi agli
assalti del diavolo.
XVIII. Domanda: se il desiderio di un silenzio più intenso ci avvicini al cielo.
XIX. Risposta sulla illusione del diavolo che consiste nel promettere la pace
come frutto di una solitudine più vasta.
XX. Quanto sia utile prendersi un poco di svago all'arrivo di qualche
confratello.
XXI. Come san Giovanni evangelista ha dimostrato l’utilità del riposo.
XXII. Come vanno intese le parole evangeliche: «Il mio giogo è soave e il mio
peso è leggero»?
XXIII. Spiegazione di quelle parole.
XXIV. Perché il giogo del Signore sembra amaro e pesante.
XXV. Utilità delle tentazioni.
XXVI. In qual senso è promesso il centuplo in questo mondo a chi opera perfetta
rinunzia.
I. -
Come manifestammo all’abate Abramo i segreti della nostra mente
Inizio, con l’aiuto del Signore, la ventiquattresima
Conferenza, quella dell’abate Abramo, che sarà l’ultima della serie. Con questa
si concludono gl’insegnamenti dei vecchi monaci.
Quando, con l’aiuto delle vostre preghiere, io avrò
terminato questo lavoro, crederò di aver mantenuto le mie promesse e di aver
simbolicamente richiamato i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse, che
offrivano le loro corone all’Agnello. Se i ventiquattro vegliardi delle nostre
Conferenze meritano una corona di gloria, per la loro bella dottrina,
l’offriranno anch’essi, con la testa chinata nella polvere, all’Agnello divino,
che è stato immolato per la salvezza del mondo. È lui — l’Agnello divino — che
ha donato ai vecchi monaci qui ascoltati la dottrina sublime, e a me una certa
capacità di riprodurne la profondità. È un dovere riferire il merito dei nostri
doni all’Autore d’ogni bene, verso il quale tanto più siamo debitori quanto più
cerchiamo di sdebitarci.
Portammo all’abate Abramo la confessione ansiosa della
lotta ingaggiata contro di noi dai pensieri che ci spingono continuamente a
tornare a casa per rivedere i nostri familiari. Il motivo che più d’ogni altro
alimenta simili pensieri è il ricordo della religione e della pietà dei nostri
genitori: siamo sicuri che essi non vorrebbero mai esser di ostacolo alla nostra
forma di vita. Anzi, pensiamo continuamente che dal contatto prolungato con loro
ci può derivare un profitto. Nessuna preoccupazione per le cose materiali,
nessun affanno per provvederci il vitto quotidiano verrebbe più a turbarci,
qualora essi stessi, con grande gioia, ci provvedessero del necessario.
Va anche detto che noi pascevamo la nostra mente con
vane gioie e vane speranze. La nostra fantasia ci dipingeva la conversazione di
molti nostri conoscenti che sarebbero stati chiamati alla via della salvezza dal
nostro esempio e dai nostri ammonimenti. La stessa amenità dei luoghi che furono
possesso dei nostri antenati, ci si spiegava davanti agli occhi incantati: una
distesa solitaria dolce e invitante, dove un monaco avrebbe trovato segrete
foreste e cibi spontanei. Noi rivelammo al santo vegliardo tutti questi
pensieri, come ci dettava la coscienza. Gli dicemmo anche, piangendo, che non
eravamo più capaci di sostenere questi assalti, se la grazia del Signore non
veniva ad aiutarci con un rimedio che attendevamo dalla sua conferenza. Udito
questo, il vecchio abate rimase alquanto pensieroso, poi prese a dire così, dopo
un profondo sospiro.
II. -
Come il vecchio abate mise a nudo i nostri errori
Voi non avete ancora rinunciato ai desideri del mondo,
né avete ancora mortificato le vostre antiche passioni: si nota chiaramente dai
pensieri che manifestate. La leggerezza del vostro cuore corre dietro ai
capricci di desideri fluttuanti: solo col corpo, e non con lo spirito, avete
intrapreso il grande viaggio e vi siete separati dai vostri familiari. Se voi
sapeste che cos’è la rinuncia e qual è il motivo della nostra vita solitaria, a
quest’ora codesti pensieri sarebbero completamente morti, del tutto sradicati
dal vostro cuore. Mi accorgo che soffrite di un male che si chiama oziosità. Di
quel male il libro dei Proverbi dice: «L’ozio è pieno di desideri» (Pr 13, 4:
LXX). E ancora: «I desideri uccidono il pigro» (Pr 21, 25).
A me non sarebbero mancati gli aiuti e i comodi carnali
di cui avete parlato, tuttavia non pensai che fossero convenienti alla vita
monastica, né stimai che la dolcezza dei mezzi umani potesse giovarmi quanto mi
giova l’asprezza di questi luoghi e la penitenza corporale. Non è poi vero che
siamo sprovvisti completamente dell’aiuto dei nostri familiari. Essi sarebbero
lieti di aiutarci con le loro largizioni, se noi non ricordassimo quelle parole
del Signore che escludono tutto quanto può solleticare i gusti della carne:
«Chiunque non lascia — anzi non odia — il padre e la madre, i fratelli e le
sorelle, non può essere mio discepolo» (Lc 1,26). Ma anche se fossimo totalmente
privi dell’aiuto dei nostri familiari, non ci potrebbero mancare i favori dei
potenti del mondo, i quali sarebbero lieti di provvederci il necessario alla
vita, e lo farebbero ringraziandoci di aver accettato il loro dono. Noi potremmo
ben accettare una simile munificenza e liberarci così da ogni preoccupazione del
vitto quotidiano, se non ci fossero a spaventarci ed a ritrarci le parole del
profeta: «Sia maledetto l’uomo che pone la sua speranza in un altro uomo» (Ger
17, 5: LXX), e ancora: «Non abbiate fiducia negli uomini potenti» (Sal 146
(145), 2). Io avrei potuto costruire la mia cella lungo le sponde del Nilo per
aver così l’acqua a portata di mano; questo mi avrebbe risparmiato la fatica di
portarmela a spalle da quattro miglia di lontananza. Ma c’è la parola di S.
Paolo che ci esorta ad essere infaticabili e a cercare la fatica: «Ciascuno —
egli dice — riceverà la ricompensa secondo la fatica» (1 Cor 3,8). Anche in
questa regione esistono luoghi incantevoli ed appartati, lo so benissimo. Là c’è
abbondanza di frutti, amenità e fertilità di giardini da cui potremmo ottenere,
senza lavoro, il necessario alla vita. Ma in tal caso temeremmo di meritare il
rimprovero del Vangelo: «Hai ricevuto la tua ricompensa mentre eri ancor vivo»
(Lc 16,25).
Noi monaci invece abbiamo disprezzato e reputato zero
tutte queste comodità e tutti i piaceri del mondo. La nostra preferenza va ai
luoghi aridi e deserti. A tutte le gioie anteponiamo la dura solitudine di
questo deserto; le più attraenti ricchezze della terra ci sembrano spregevoli se
messe a confronto con queste sabbie abbandonate. Noi infatti non cerchiamo i
transitori guadagni del corpo, ma il guadagno dell’anima, che dura per tutta
l’eternità.
Non basta che un monaco rinunci una sola volta, che
disprezzi cioè le cose del mondo solo al momento della sua conversione: egli
deve ripetere ogni giorno la sua rinuncia. Noi dobbiamo dire col profeta, fino
all’ultimo della nostra vita: «Tu sai o Signore, che io non ho desiderato il
giorno dell’uomo» (Ger 17, 16). Anche il Signore nel Vangelo ha detto: «Se uno
vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e
mi segua» (Lc 9, 23).
III. -
Carattere dei luoghi che devono scegliere gli anacoreti
È spiegato in tal modo perché colui che vuol tener
continuamente desta la sollecitudine dell’uomo interiore, deve cercare dei
luoghi che non lo mettano in tentazione per motivo della loro ricchezza e
fertilità, né gl’impediscano di rimanere fisso nella sua cella, obbligandolo
continuamente a lavorare all’aria aperta. Se vivesse sempre all’aperto, i suoi
pensieri cambierebbero direzione e lo sguardo dell’anima si rivolgerebbe a molti
oggetti distraenti, dopo essersi allontanato da Dio.
Questi pericoli non possono essere evitati da alcuno —
sia pure vigilante e sollecito — se non si terrà continuamente chiuso, col corpo
e con lo spirito, entro le pareti della sua cella. Il monaco, così, assomiglia
ad uno spirituale pescatore che si procura il cibo secondo l’arte imparata dagli
Apostoli. Fermo e attento, egli osserva nelle profondità tranquille del suo
cuore le torme naviganti dei suoi pensieri. Poi, come da uno scoglio prominente,
abbassa fino a fondo uno sguardo penetrante, e distingue con occhio esperto
quali di quei pensieri deve tirare a sé con l’amo, e quali deve lasciar correre
o disprezzare come dannosi.
IV. -
Qual
genere di lavoro convenga scegliere ai solitari
Chi è perseverante nella custodia del cuore, mette bene
in pratica quel che dice con molta chiarezza il profeta Abacuc: «Io starò al mio
posto d’osservazione, salirò sopra la pietra e osserverò per vedere cosa si
potrà dire contro di me, e che cosa potrò rispondere al mio accusatore» (Ab 2,
1: LXX). Ma un tal modo di vivere è pieno di fatica e di difficoltà: lo
dimostrano chiaramente le esperienze di coloro che vivono nel deserto di Calamo
o di Porfirione. La solitudine che li separa dalla città e dai luoghi abitati
dagli uomini è più vasta di quella che si riscontra per il deserto di Scito.
Quei monaci devono fare sette o otto giorni di cammino, attraverso un deserto
che non finisce mai, per arrivare al luogo in cui son situate le loro celle.
Nonostante ciò essi si dedicano all’agricoltura e non stanno nelle loro celle.
Ma quando vengono nei nostri luoghi, oppure vanno nella solitudine di Scito,
sono assaliti da tale turbine di pensieri, sono oppressi da tante ansietà di
animo, che a guisa di novellini, del tutto ignari degli esercizi della
solitudine, non sanno sopportare la permanenza in cella, né il silenzio del
riposo. Così li vediamo uscir di cella e agitarsi come pazzi. Ciò avviene perché
non hanno imparato a dominare i movimenti dell’uomo interiore, né ad acquietare
le tempeste dei loro pensieri, con una continua vigilanza e una perseverante
attenzione. Per il fatto che lavorano e s’affaticano tutto il giorno fuori della
cella, il loro corpo e la loro anima sono in continua agitazione esteriore, i
loro pensieri s’intonano coi loro movimenti incessanti e si disperdono in tutte
le direzioni. Pur tuttavia essi non si accorgono della incostante leggerezza del
loro cuore e non hanno la forza di frenarne le divagazioni capricciose. Non
sopportano la compunzione dello spirito e stimano insopportabile perfino la
continuità del silenzio. Proprio loro, che non si lasciano domare dai lavori
pesanti dei campi, sono vinti dalla quiete: la continuità del riposo li
annienta.
V. -
L’ansietà del cuore è piuttosto aggravata che alleviata dalle uscite verso
l’esterno
Quando il monaco se ne sta nella sua cella, non c’è da
meravigliarsi se anche i suoi pensieri son come costretti in una clausura
forzata e l’opprimono con la loro ansietà. Se il monaco esce di cella, i
pensieri si precipitano fuori del luogo che li teneva costretti e incominciano a
galoppare in tutte le direzioni, a somiglianza di cavalli sfrenati. Nel momento
in cui i pensieri si sfrenano l’anima prova una breve e amara consolazione. Poi
bisogna tornare in cella e anche la turbolenta schiera dei pensieri deve
rientrare al suo luogo, e di là, secondo l’abitudine di una indisciplinatezza
inveterata, suscita stimoli più dolorosi.
Quelli che non sanno, o non vogliono, resistere alle
istigazioni della loro volontà, quando l’accidia fa sentire con più violenza i
suoi assalti al cuore non temprato, escono, (per superare l’ansietà) fuori della
cella. Ma se infrangono l’austerità della regola e si concedono la libertà di
uscire molto spesso, susciteranno contro se stessi una peste più micidiale,
proprio con quel mezzo nel quale credevano di trovare un rimedio. Così fanno
anche certi ammalati, i quali credono di estinguere gli ardori della febbre
bevendo acqua fresca, ma è chiaro che accendono, invece di spegnere il fuoco che
hanno dentro. A quel momentaneo sollievo, seguirà un dolore più grave.
VI. -
Un
paragone per dimostrare come il monaco deve custodire i suoi pensieri
Il
monaco dunque deve tener fissa la sua attenzione
sempre ad un solo scopo, che è il ricordo di Dio: a quello farà convergere tutti
i pensieri che nascono o si agitano nel suo cuore. Il monaco assomiglia
all’architetto che vuole costruire la volta di un’abside. Egli deve tracciarne
l’intera circonferenza partendo dal centro, che è un punto molto delicato; poi
deve calcolare, con esattezza infallibile, la perfetta rotondità e la forma
della costruzione. Colui che pretendesse di compier bene una tale opera senza
l’esatta determinazione del punto centrale, anche se fosse abile fino alla
genialità, si verrebbe a trovare nell’impossibilità d’avere un disegno regolare
e perfetto. Non potrebbe accorgersi, così ad occhio, in quale misura il suo
errore ha impedito la bellezza che deve risultare da una perfetta rotondità. Per
giudicare esattamente è necessario riferirsi al punto che permette di stabilire
le giuste proporzioni e poi, secondo le indicazioni che vengono da quel punto,
conviene determinare con precisione l’ambito esterno ed interno della
costruzione. Un solo punto dunque è il sostegno e il centro di tutta la mole.
Lo stesso va detto per l’anima nostra. Se il monaco non
pone nell’amor di Dio il centro fisso attorno al quale fa girare tutte le sue
opere; se non raddrizza e talvolta non respinge i suoi pensieri, facendosi
guidare, per dir così dal compasso esattissimo della carità, non potrà mai
costruire con vera abilità quell’edificio spirituale del quale l’apostolo Paolo
è l’architetto. Non potrà conoscere neppure la bellezza di quel tempio interiore
che David voleva offrire a Dio quando diceva: «Signore, ho amato la bellezza
della tua dimora e il luogo nel quale risiede la tua gloria» (Sal 26 (25), 8).
In cambio, quel monaco costruirà maldestramente nel suo cuore un tempio senza
bellezza, indegno dello Spirito Santo e destinato a franare assai presto. Invece
di aver la gioia di abitarvi dentro, in compagnia dell’Ospite divino, sarà
schiacciato miseramente sotto le sue rovine.
VII. -
Domanda: perché la vicinanza dei genitori debba essere stimata dannosa agli
altri monaci e non a quelli che dimorano in Egitto
Germano.
È bene che sia stabilito per precetto il genere di opere che son da compiere
dentro la cella. A parte l’esempio della tua Beatitudine, che noi vediamo
fondata nell’imitazione degli Apostoli, ci convince di ciò la nostra stessa
esperienza, che ci ha resi consapevoli della necessità di quel precetto.
Ma per quanto riguarda la vicinanza dei familiari ci
restano dei dubbi; non vediamo perché noi dovremmo fuggirli, dal momento che voi
restate vicino a loro. Voi che vivete irreprensibili nella via della perfezione,
conducete vita monastica nel vostro stesso paese; anzi conosciamo alcuni monaci
che stanno nei pressi del loro stesso borgo natale. Se questo non è dannoso a
voi, perché dovrebbe esserlo per noi?
VIII. -
Risposta: tutto non va bene per tutti
Abramo.
Capita abbastanza spesso che da una cosa buona si tirano conseguenze cattive.
Qualche presuntuoso pretende d’imitare il suo prossimo senza avere gli stessi
sentimenti, gli stessi propositi, la stessa virtù. Così il presuntuoso si
perderà tra i lacci dell’errore e della morte, là dove gli altri hanno trovato i
frutti della vita eterna. Sarebbe capitato così anche a David — che era per
altro un giovane fortissimo — nel combattimento col gigante Golia, supposto che
avesse accettato di rivestire la pesante armatura di Saul, che era fatta per un
uomo. Un uomo più robusto di David, rivestito delle armi di Saul, avrebbe
gettato a terra intere schiere nemiche, ma quel giovinetto avrebbe trovato in
quelle armi la sua rovina sicura. Fu così che David seppe scegliere, con
discrezione prudente, ciò che si confaceva alla sua età. Andò contro un sì
terribile nemico munito di quelle armi con le quali sapeva di poter combattere;
lasciò la corazza e lo scudo di cui vedeva rivestiti gli altri guerrieri.
Anche noi dobbiamo similmente considerare le nostre
forze e, secondo quelle, scegliere il genere di vita che ci conviene. Tutte le
vocazioni son buone, ma non son buone per tutti. Buona è la vita eremitica, ma
noi non la riteniamo conveniente per tutti: a molti può riuscire infruttuosa e
perfino dannosa. Ammettiamo volentieri che la vita cenobitica e la convivenza
fraterna sono cose belle e sante, tuttavia non crediamo che tutti debbano
diventare cenobiti. Inoltre, l’opera di chi riceve in ospitalità stranieri e
pellegrini produce frutti bellissimi, ma tutti non potrebbero dedicarsi a
quest’opera senza che la pazienza ne ricevesse danno.
Ora voi
dovete paragonare gli usi delle vostre regioni con quelli della nostra regione;
poi dovete considerare in ciascuna regione le forze che gli abitanti hanno
acquistato, con la continua pratica della virtù o del vizio. Vedrete allora che
una cosa difficile per gli abitanti di una certa regione può essere diventata
facile e naturale agli abitanti dell’altra, a causa di una lunga consuetudine.
Ci son popoli separati dalla diversità più grande del clima che son capaci di
sopportare, senza la protezione degli abiti, i più rigidi freddi e i più ardenti
calori del sole. Quelli però che non hanno fatto l’esperienza di un clima così
forte non possono sopportare temperature tanto insolite, anche se sono molto
robusti. Così è anche per voi, che in questi luoghi vi sforzate a tutto potere
di combattere la natura della vostra patria. Considerate attentamente se nelle
vostre contrade, così fredde e quasi agghiacciate da un infido inverno
[1],
potreste sopportare la nudità che si trova qui da noi. Nel nostro paese la
stessa antichità della vita monastica ha fatto diventare quasi naturale la
perseveranza nel santo proposito. Se ritenete di possedere uguale costanza e
uguale virtù, non siete più obbligati a fuggire la vicinanza dei vostri genitori
e dei vostri fratelli.
IX.
-
Soltanto coloro che sono capaci d’imitare la mortificazione dell’abate Apollo,
hanno diritto a non temere la vicinanza dei loro genitori
Perché possiate avere una regola sicura nel giudicare
esattamente le vostre forze, voglio raccontarvi l’esempio che ha come
protagonista un vecchio abate di nome Apollo. Se, dopo avere scrutato in
profondità il vostro cuore, potrete dire a voi stessi di non essere inferiori a
lui, né alla sua virtù, vi sarà possibile senza alcun danno della vostra
professione e del vostro proposito, abitare nella vostra terra, a contatto con i
vostri familiari. Vi sarà possibile, dico, perché avrete ormai la certezza che
l’austera rinuncia della nostra vita (di cui volete essere seguaci per libera
scelta e con la permanenza in questa regione), non potrà essere sopraffatta
dagli affetti familiari, o dalla amenità dei luoghi.
Era circa mezzanotte quando venne alla cella di Apollo
suo fratello, il quale lo pregava piangendo di uscir dal monastero per aiutarlo
ad estrarre un bove che gli era rimasto sommerso in un pantano. «Vieni ad
aiutarmi — diceva il fratello — perché da solo non riesco nell’impresa». Rispose
Apollo: «Perché non ti sei rivolto al nostro fratello minore, che abita proprio
lungo la strada da te percorsa per venire al monastero?». L’altro pensò tra sé:
si è dimenticato, il poveretto, che quel nostro fratello è morto e sotterrato da
tanto tempo: si vede che la lunga penitenza e la solitudine gli han fatto
perdere la testa. Poi rispose: come potevo chiamare dalla sua tomba un uomo che
è morto da cinque anni?». «Bravo! — rispose l’abate Apollo — e non lo sai che io
sono morto da vent’anni? Io sono morto al mondo, e dalla tomba della mia cella
non posso esserti di alcun aiuto per quanto riguarda gli affari materiali.
Potrebbe il Signore approvare anche una piccola sospensione alla mia vita di
mortificazione, per aiutarti a tirar fuori il tuo bove? Ricorda che Gesù non
concesse il tempo di andare a seppellire il proprio padre, ed era un affare più
svelto e più degno di quello che tu mi proponi».
Ora esaminate il mistero del vostro cuore e chiedetevi
sinceramente se voi sareste capaci di usare coi vostri familiari altrettanta
austerità. Se vi sentite uguali a quel vecchio abate, in fatto di mortificazione
interiore, sappiate che la vicinanza dei genitori e dei fratelli non potrà
recarvi danno, perché — pur restando loro materialmente vicini — vi riterrete
morti per loro e non acconsentirete a prestar loro il vostro aiuto o a ricevere
aiuto da essi.
X. -
Domanda: se sia nocivo al monaco ricevere il sostentamento dai suoi genitori
Germano.
Su questo argomento non ci hai lasciato il minimo dubbio. Lo vediamo bene, se
fossero vicini i nostri familiari non saremmo capaci di vestire così
miseramente, o di andare in giro a piedi scalzi, come facciamo in questi luoghi.
Neppure potremmo tanto faticare per procurarci le cose necessarie alla vita,
come ad esempio, portare l’acqua a spalle da tre miglia di distanza. La
vergogna, il timore di far arrossire i nostri parenti, c’impedirebbero d’agire
così sotto i loro occhi. Mi pare però che non sarebbe un ostacolo al nostro
proposito l’ipotesi di attendere unicamente alla lettura e alla preghiera, dopo
essere stati liberati dalle preoccupazioni del cibo per intervento dei nostri
familiari. Il lavoro che qui esercitiamo è per noi una distrazione; se fosse
soppresso, potremmo dedicarci con più intensità ai soli esercizi spirituali.
XI. -
Risposta: che cosa pensa in proposito sant’Antonio
Abramo.
A questo proposito non voglio dirvi il mio parere personale, ma quello del beato
Antonio. Una volta che un monaco era vittima della tiepidezza, Antonio lo scosse
dal suo torpore in maniera tale da poter dare, con le sue parole, la giusta
risposta alla domanda posta da voi.
Quel monaco dunque si presentò un giorno al beato
Antonio e gli disse che la vita eremitica non meritava tutta l’ammirazione di
cui veniva circondata: era segno di più alta virtù praticare la perfezione
cristiana in mezzo al mondo che nel deserto. Il beato Antonio gli domandò: «Dove
abiti?». Quello rispose: «Sto vicino ai miei genitori e da loro sono provvisto
di tutto ciò che mi abbisogna. In tal modo sono libero da ogni preoccupazione o
inquietudine che possa derivare dalla necessità quotidiana, e posso — continuava
con una certa compiacenza — applicarmi alla preghiera continua senz’alcun motivo
di distrazione». Antonio allora domandò: «Dimmi, caro fratello, senti tristezza
nelle disgrazie che capitano ai tuoi familiari? Provi gioia quando la fortuna li
assiste?» Il monaco ammise che era turbato sia dal bene che dal male riguardante
i suoi familiari. Allora Antonio concluse: «Sappi dunque che nel secolo futuro
tu sarai annoverato fra coloro coi quali qui sulla terra hai diviso guadagni e
perdite, gioie e dolori».
Non contento di questa sentenza, il beato Antonio
allargò gli orizzonti del monaco interrogante. «Quello di cui ho parlato —
proseguì — non è il solo danno che ti arreca la tiepidezza in cui vivi. Tu del
resto non sei capace neppure di conoscere questo primo danno, e sembri dire col
libro dei Proverbi: «Mi feriscono e io non sento male; mi ingannano e io non me
ne accorgo» (Pr 23, 35). Oppure col profeta: «I nemici hanno divorato la sua
forza ed egli non se n’è accorto» (Os 7,9).
C’è anche da considerare il danno consistente nel fatto
che la tua anima cambia tutti i giorni secondo gli eventi che si succedono, e si
trova continuamente sommersa in pensieri terrestri. La tua tiepidezza produce un
altro danno: ti priva del frutto che tu produrresti col lavoro, e della
ricompensa connessa con la fatica. Di tutto provvisto dalla generosità dei tuoi
genitori, ti dimentichi di provvedere alle tue necessità con l’opera delle tue
mani, come stabilisce la regola del beato Apostolo, il quale nel fare le sue
ultime raccomandazioni agli anziani della chiesa di Efeso fa notare come egli
anche durante il santo lavoro di predicatore del Vangelo, non ha trascurato di
procacciare a se stesso e ai suoi ausiliari il necessario sostentamento
quotidiano. «Voi sapete che queste mie mani hanno provveduto tutto ciò che era
necessario a me e a coloro che erano con me» (At 20, 34). Poi, per dimostrare
che agiva così per dare a noi un esempio da seguire, l’Apostolo soggiunge: «Noi
non siamo stati in ozio quando eravamo tra voi; ma abbiamo piuttosto lavorato
notte e giorno, con dolore e fatica, per non essere a carico di qualcuno di voi.
Non è che non avessimo diritto al sostentamento da parte vostra, ma volevamo
darvi un esempio da imitare» (2 Ts 3, 10).
XII. -
Utilità del lavoro e danni dell’ozio
Anch’io avrei potuto usufruire dell’assistenza dei miei
genitori, ma ho preferito a tutte le ricchezze questa nudità in cui mi vedi.
Invece di appoggiarmi sull’assistenza dei miei genitori ho preferito guadagnare
il cibo quotidiano per il corpo, col sudore della mia fronte. Questa mia è una
dolorosa indigenza, ma la stimo superiore alla vana meditazione della sacra
Scrittura e alle sterili letture che tu esalti tanto. Né devi credere che avrei
sdegnato di seguire il tuo metodo se mi fosse stato dimostrato come migliore
dall’esempio degli Apostoli e dalla consuetudine dei nostri Anziani. È bene poi
che tu sappia di un altro danno, non certo più leggero di quello già descritto,
col quale ti sei caricato: tu, sano e robusto quale sei, ti fai mantenere con
l’elemosina, che è riservata ai soli invalidi per il lavoro. In certo senso
tutto il genere umano — eccezion fatta per quei monaci obbedienti al comando di
san Paolo, che vivono col lavoro delle loro mani — aspetta il suo sostentamento
dalla fatica di altri. Non solo coloro che si gloriano di vivere con le
elargizioni dei loro genitori, o del lavoro dei loro servi, o dei frutti dei
loro possedimenti, ma anche i re di questo mondo sono mantenuti con elemosine.
Parla di ciò quella regola dei nostri Anziani che dice: quanto si attribuisce al
nostro vitto quotidiano e non viene dal lavoro delle nostre mani è da riferirsi
alla carità degli altri. In questo caso i Padri nostri seguivano l’insegnamento
di san Paolo che nega agli oziosi ogni elemosina. «Chi non lavora — dice
l’Apostolo — non mangi» (2 Ts 3,10).
Questa fu la risposta di Antonio a quel monaco; il suo
esempio c’insegna a fuggire le dannose liberalità dei genitori e di tutti coloro
che vorrebbero donarci — per pura carità — i cibi necessari alla vita o un
soggiorno piacevole in luoghi ameni. Il beato Antonio ci insegna ancora a
preferire queste sabbie amare e sterili a tutte le ricchezze del mondo; a
compiacerci di queste terre bruciate dalle inondazioni dell’acqua marina, sulle
quali nessun uomo vivente esercita un diritto di proprietà. Abbiamo scelto
questi luoghi, com’è evidente, per evitare la presenza degli uomini, protetti da
una solitudine impervia, ma anche perché la fertilità del terreno non ci sollevi
a forme molto impegnate di agricoltura, nelle quali l’anima, dopo essersi
distratta dal suo fine essenziale, si condannerebbe alla sterilità spirituale.
XIII. -
Favola del barbiere, inventata per scoprire le illusioni diaboliche
Vi dimostrate desiderosi di ritornare in patria perché
avete speranza di convertire là molti vostri conoscenti e far così una grande
conquista. Ascoltate in proposito una favola del beato Macario composta con arte
e sapienza insieme. Quel santo monaco la raccontava un tempo a certi solitari
che soffrivano del vostro stesso male, e la raccontava allo scopo di guarirli.
C’era una volta, in una città, un barbiere bravissimo
che rasava i suoi avventori al prezzo di tre soldi l’uno. Quantunque il prezzo
fosse molto basso, ne ricavava di che vivere e di che riporre ogni giorno cento
danari nella sua borsa. Mentre era intento a questo risparmio venne a sapere che
in una città lontana i barbieri prendevano una moneta d’oro per ogni avventore.
A quella notizia disse a se stesso: fino a quando me ne starò contento di questa
paga da pezzente? Starò qui a prendermi tre soldi per ogni barba, quando potrei
recarmi in quella città e arricchirmi in poco tempo? Subito si decise: prese gli
arnesi del mestiere e, dopo avere spesi per il viaggio tutti i denari che aveva
risparmiati, arrivò con gran fatica in quella città ricchissima.
Fin dal primo giorno del suo lavoro ricevette da ogni
cliente il prezzo che aveva sentito dire, e la sera — con la borsa ben rigonfia
— se n’andò al mercato per fare la spesa. Ma là tutto si comprava a peso d’oro.
Dopo aver speso tutto, fino all’ultimo centesimo, per comperarsi il cibo, se ne
tornò a casa senza un soldo in tasca.
Si accorse allora che spendeva ogni giorno l’intero
guadagno e invece di ammassare qualche poco di risparmio, a mala pena riusciva a
campare. Incominciò pertanto a pensare così: ritornerò nella città in cui
abitavo prima e ricomincerò a lavorare per la stessa modesta mercede. Era certo
una piccola paga, ma dava a sufficienza di che vivere e mi lasciava ogni giorno
qualche avanzo con cui mettevo da parte un capitale per i bisogni della
vecchiaia. Il risparmio quotidiano era modesto, ma aumentava continuamente e a
lungo andare avrebbe fatto un bel gruzzolo. Per me era più vantaggioso quel
guadagno di pochi soldi che questa ricompensa in monete d’oro. I guadagni
favolosi di qui, oltre a non lasciarmi nulla per il risparmio, bastano a stento
alle spese quotidiane».
Anche per noi è preferibile il piccolissimo guadagno
che ci è concesso in questa solitudine. Né le preoccupazioni secolaresche, né le
occupazioni mondane, né i tumori della superbia potranno mettere in pericolo il
nostro guadagno, come non potranno diminuirlo le necessità quotidiane. «Meglio
il piccolo patrimonio del giusto che le grandi ricchezze del peccatore» (Sal 37
(36), 16). Perché desiderare guadagni più alti? Anche ammesso che possiamo
ottenerli, producendo molte conversioni, la vita che si osserva nel mondo e le
distrazioni giornaliere ce li faranno perdere ben presto. Dice Salomone: «Meglio
una manciata nel riposo, che due manciate nella fatica e nell’affanno» (Qo
(Eccle) 4, 6).
Ma tutti i deboli son soggetti a queste pericolose
illusioni. Non ancora sicuri della loro salvezza, bisognosi ancora di formarsi
alla scuola degli altri, sono invitati da un artificio diabolico ad occuparsi
della conversione e della guida del prossimo. Ammesso però che riescano a fare
qualche conquista, a convertire delle anime, si vedrà poi che la loro
impazienza, la loro condotta sregolata, rovinerà tutto. Si avvererà in loro quel
che dice il profeta Aggeo: «Chi ammassa tesori li mette in un sacco sfondato»
(Ag 1,6). Mette davvero i suoi guadagni in una borsa sfondata colui che perde
con l’intemperanza del cuore e la continua distrazione, ciò che aveva acquistato
con la conversione di qualche anima. Infine, questi monaci intraprendenti,
mentre credono di guadagnare molto istruendo gli altri, mandano all’aria tutto
il lavoro della loro riforma personale. «Ci sono alcuni che si dicono ricchi e
non posseggono nulla, e ci son quelli che si tengono umili pur essendo molto
ricchi» (Pr 13, 7: LXX). E ancora: «È preferibile un povero che basta a se
stesso ad uno che è in dignità ma è privo di pane» (Pr 12, 9:LXX).
XIV. -
Domanda: qual è l’origine dei pensieri dannosi?
Germano.
I tuoi ragionamenti hanno rivelato molto opportunamente gli errori che
c’ingannano. Ora però vorremmo sapere le cause e i rimedi del nostro errore.
Vorremmo insomma sapere qual fu l’origine del nostro inganno. Nessuno infatti
potrà negare che è possibile curare il proprio male soltanto a chi ne ha
scoperto la causa.
XV. -
Risposta sui tre movimenti dell’anima
Abramo.
Tutti i vizi hanno una stessa sorgente, un’identica origine, ma il nome del
vizio varia a seconda della parte dell’anima, o del membro spirituale che ne è
infetto. Si hanno così le diverse passioni o malattie spirituali, che si
denominano per analogia coi difetti e le malattie corporali. Anche per i mali
del corpo la causa è una sola, ma si distinguono molte specie di malattie
secondo le membra che ne sono colpite. Se un umore dannoso penetra nel capo, che
è come la fortezza di tutto il corpo, si ha la cefalgia; se lo stesso umore
prende le orecchie o gli occhi, si avrà l’otalgia o l’oftalmia; se va alle
giunture o alle articolazioni delle mani, si ha il male articolare o la
chirargia; se l’umore scende ai piedi, il male cambia nome e si chiama podagra.
Una stessa sorgente, cioè l’umore maligno, dà origine a tanta varietà di nomi, a
seconda delle parti o delle membra che raggiunge.
Se dalle cose visibili passiamo a quelle invisibili,
possiamo ritenere che tutta la forza dei vizi si trovi raccolta nelle varie
parti o potenze dell’anima. I filosofi ci avvertono che nell’anima umana ci sono
tre zone o facoltà distinte: quella ragionevole, quella irascibile, quella
concupiscibile. Qualcuna di queste potenze dovrà essere alterata quando un male
si impadronirà di noi. Allorché una passione funesta attacca qualcuna delle
varie potenze dell’anima, vi produce una alterazione: da quell’alterazione
prende nome un particolare vizio. Se una peste spirituale s’impossessa della
parte ragionevole, vi produce la vanagloria, la sostenutezza, la superbia, la
presunzione, la contenzione, l’eresia. Se ferisce la parte irascibile, genera
furore, impazienza, tristezza, accidia, pusillanimità, crudeltà. Se infetta la
parte concupiscibile, produce golosità, impurità, avarizia, amore del denaro,
desideri nocivi e terrestri.
XVI.
-
La
parte ragionevole dell’anima nostra è corrotta
Se volete conoscere la sorgente del male che vi
affligge ricordate prima che è stata colpita una parte dell’anima vostra ed è
proprio da quella che derivano i vizi della presunzione e della vanagloria. È
quindi necessario curare quest’organo principale, cioè la potenza dell’anima,
col giudizio della retta discrezione e con la virtù dell’umiltà. È stato infatti
a causa di questa alterazione che voi, immaginando di essere arrivati al colmo
della perfezione e stimandovi capaci di formare gli altri, siete stati presi
dalla vanagloria e trasportati in quei vani pensieri che non avete confessato.
Potrete facilmente troncare queste sciocche vanità se sarete ben fondati, come
vi ho detto sopra, nell’umiltà della vera discrezione. In tal caso, compunti dal
dolore, comprenderete quanto sia faticosa e dolorosa per ciascuno l’opera della
salvezza. Potrete anche convincervi che, invece d’insegnare la perfezione agli
altri, avete bisogno voi stessi di un maestro che vi aiuti.
XVII. -
La
parte più debole dell’anima è la prima a soccombere dinanzi agli assalti del
diavolo
Applicate perciò al membro o alla parte dell’anima che
abbiamo detto particolarmente ammalata il rimedio dell’umiltà. Questa virtù, per
il fatto di essere più debole delle altre, cede per prima agli attacchi del
demonio. Anche nelle malattie dello spirito avviene come in quelle del corpo: le
parti più deboli, se sono assalite da una fatica insolita o da un’aria recante
infezione, sono le prime a cedere e a soccombere. Quando poi la malattia si è
insinuata in quella parte, raggiunge di là anche le parti che erano rimaste
sane. Così avviene per le anime nostre. Quando soffia il vento pestilenziale del
vizio, l’anima ne è toccata nel suo lato più delicato e più debole, nel lato
cioè che presenta minor resistenza agli assalti del nemico.
Così l’anima è in pericolo di essere espugnata da
quella parte in cui una difesa poco attenta apre un varco più facile al
tradimento.
Basandosi su questo ragionamento Balaan capì per segni
sicuri che il popolo di Dio poteva essere ingannato, e dette il consiglio di
tendere i lacci da quella parte in cui vedeva che i figli d’Israele erano più
deboli. Egli non dubitò minimamente della loro pronta caduta, se ad essi fosse
stata offerta una occasione di lussuria: sapeva bene che la parte concupiscibile
della loro anima era la più debole e pronta a corrompersi.
Questa è pure la tattica usata dalla perfida malignità
delle potenze infernali quando ci tentano. Tendono soprattutto le loro reti
insidiose da quelle parti in cui sanno che l’anima è già ammalata. Se vedono che
in noi è viziata la parte ragionevole, cercano d’ingannarci con lo stratagemma
usato dai Siri col re Acab. Ecco come lo racconta la sacra Scrittura: «Noi
sappiamo che i re d’Israele sono buoni, rivestiamoci dunque di sacco, poniamo le
funi al nostro collo, andiamo dal re d’Israele e diciamogli: il tuo servo
Benadab parla così: risparmia, te ne prego, la mia vita». Acab, non per vera
compassione, ma perché commosso dal discorso adulatorio, rispose: «Se il vostro
re vive ancora, sia mio fratello» (1 Re 20, 31-32). In modo simile cercano i
demoni di ingannare la parte razionale dell’anima nostra, per farci offendere
Dio con quegli atti dai quali ci attendevamo di ricevere una ricompensa e di
ottenere il premio della nostra clemenza. Così anche noi meritiamo il rimprovero
rivolto ad Acab: «Poiché ti sei lasciato sfuggire di mano un uomo che meritava
la morte, la tua vita sostituirà la sua vita, il tuo popolo sostituirà il suo
popolo» (1 Re 20, 42).
Anche quando lo Spirito maligno dice: «Uscirò e sarò
spirito di menzogna sulla bocca di tutti i suoi profeti» (1 Re 22, 22), è
evidente che il demonio tende le sue reti dalla parte razionale dell’anima,
perché la conosce più indifesa di fronte alle sue insidie mortali. Anche sul
conto di nostro Signore il maligno s’era fatta una idea di questo genere, perciò
lo tentò nelle sue tre facoltà dell’anima, infatti è sempre da una di queste
porte che entra il male a far prigioniero il genere umano. Ma tutti gli assalti
diabolici con Gesù furono vani. Fu attaccata la parte concupiscibile quando il
tentatore disse: «Comanda che queste pietre diventino pane» (Mt 4, 3); fu
attaccata la parte irascibile quando satana spinse il Signore a desiderare la
potenza del mondo presente e i regni della terra; fu assalita la parte
ragionevole quando il tentatore disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù»
(Mt 4, 6). Ma tutti i tentativi diabolici son vani, perché — contrariamente a
quel che il tentatore aveva pensato — in Gesù non c’era nulla che fosse
intaccato dal vizio. Per questo nessuna parte dell’anima sua acconsentì alle
insidie del nemico tentatore. «Ecco che viene il principe di questo mondo — dice
il Signore — ma in me non troverà nulla» (Gv 14, 30).
XVIII. -
Domanda: se il desiderio dì un silenzio più intenso ci avvicini al cielo.
Germano.
Erano una follia le illusioni e gli errori che ci avevano accesi del desiderio
di rivedere la nostra patria e ci sollecitavano — come la tua Beatitudine ha
messo bene in chiaro — con la vana speranza di trovarvi vantaggi spirituali. Fra
tutte le nostre illusioni primeggia questa: i confratelli che qui ci vengono a
visitare, di tempo in tempo, ci impediscono di esser completamente soli e di
conservare, come noi vorremmo, un continuo silenzio. Oltre a ciò siamo anche
costretti, quando arriva da noi un ospite, a rompere la regola della quotidiana
astinenza e ad aumentare la misura del nostro cibo, mentre il nostro desiderio
sarebbe quello di restar fedeli alla regola, per meglio castigare il nostro
corpo. Ci pare che questo inconveniente non si dovrebbe verificare nella nostra
regione, perché là non s’incontra nessuno, che professi il nostro genere di
vita.
XIX. -
Risposta sulla illusione del diavolo che consiste nel promettere la pace come
frutto di una solitudine più vasta
Abramo.
Il desiderio di non ricevere mai una visita è un segno di severità irragionevole
e sciocca; peggio ancora: è segno di gravissima tiepidezza. Quel monaco che
cammina a passi lenti per la via intrapresa e sente vivere ancora in sé l’uomo
vecchio, è bene che non sia visitato né dai santi, né dalle persone comuni. Ma
se siete accesi dal vero e perfetto amore di Dio, se siete al seguito del
Signore, che è carità, con un fervore sincero, potrete ben fuggire nei luoghi
più inaccessibili che si possono trovare, gli uomini verranno sempre a trovarvi.
Più la fiamma dell’amore divino vi avvicinerà a Dio, più grande sarà la
moltitudine di santi che verrà a trovarvi. Ci dice che è così anche la sentenza
del Signore: una città posta sul monte non può rimanere nascosta. «Coloro che mi
amano — dice il Signore — io li glorificherò, ma coloro che mi disprezzano
saranno senza onore» (1 Sam 2, 30). Ricordatevi che l’astuzia più sottile del
diavolo, il trabocchetto più occulto nel quale precipitano le anime imprudenti,
consiste nel rubare ad esse il necessario guadagno del progresso quotidiano,
mentre promette beni più considerevoli. Esorta a cercare solitudini più nascoste
e più vaste, che dipinge come ornate di ammirevoli bellezze; presenta persino
immagini di luoghi ignorati, neppur reali, e i monaci li contemplano come se
fossero veri, li trovano belli, pronti ad accoglierli, tutti disponibili per
loro, senza che ci sia difficoltà a prenderne possesso. Riguardo agli abitanti
della zona, il menzognero li presenta gentili, facilmente persuasibili ad
intraprendere la via della salvezza; assicura che il monaco potrà cogliere là
frutti abbondantissimi. Ma col miraggio di queste promesse non tende ad altro
che ad impedire il progresso reale e possibile in quel momento. Se il monaco
darà ascolto a queste vane speranze, si vedrà svanire tutte le larve che si era
dipinto in cuor suo; sarà come uno che si sveglia da un sonno profondo e non
trova più nulla di quel che aveva sognato. Il demonio lo legherà poi con lacci
più forti e inestricabili: le necessità della vita presente lo avvolgeranno come
una rete. Non avrà più neppure il tempo per sospirare i beni che aveva sperato
di raggiungere. Ha voluto sfuggire le visite dei suoi confratelli, rare e tutte
piene di spirito soprannaturale, ed ecco che ora è stretto tutto il giorno dalle
visite dei secolari. Non sa più trovare, neppure per breve tempo, la calma e la
regolarità della vita eremitica.
XX. -
Quanto sia utile prendersi un poco di svago all’arrivo di qualche fratello
Quel momento di gentile riposo che ci procura il dovere
dell’ospitalità, quando viene a trovarci un confratello, sento che a voi sembra
una noia da evitare, mentre è al contrario un’occasione molto utile, sia per il
corpo che per l’anima. Fate un poco attenzione a quel che ne dirò. Spesso
capita, non solo ai novizi e ai deboli, ma anche ai monaci giunti alla
perfezione, un momento difficile. Se una certa varietà di vita non porta al loro
spirito, sempre occupato in cose serie, un poco di sollievo, essi cadono nella
tiepidezza, oppure la loro salute subisce un danno pericoloso. Perciò anche gli
eremiti, se sono prudenti e perfetti, devono fare qualcosa di meglio che
sopportare con pazienza le visite dei confratelli: devono riceverle
gioiosamente. Quelle visite ci stimolano a desiderare sempre più ardentemente il
segreto della solitudine. Potrebbe sembrare che ritardassero il nostro corso, ma
in realtà salvaguardano la sua indefettibile continuità. Infatti se non ci fosse
mai un ostacolo a farci segnare il passo, non potremmo andare sino in fondo con
la stessa velocità. Inoltre quelle visite ci offrono, insieme col frutto
dell’ospitalità, un supplemento di cibo che fa bene al nostro povero corpo e ci
fa progredire di più che se avessimo perseverato nel proposito dell’astinenza.
Ora voglio dirvi su questo argomento una similitudine
che mi pare calzante: è vecchia e conosciuta quasi dovunque.
XXI. -
Come S. Giovanni evangelista ha dimostrato l’utilità del riposo.
Si dice
che il beato evangelista Giovanni accarezzasse dolcemente una pernice, quando si
vide venire incontro un filosofo in tenuta da cacciatore. Quello si meravigliò
molto che un uomo così celebrato e stimato si abbassasse ad atti così piccoli, a
così umili passatempi. Gli disse perciò: «Sei tu il famoso Giovanni, quello
tanto rinomato e illustre fra tutti gli uomini, quello che io ho ardentemente
desiderato di conoscere? Perché ti perdi in un passatempo così basso?». Il beato
Giovani gli rispose: «Che cosa hai in mano?» Disse il filosofo: «Un arco».
«E perché — soggiunse l’Evangelista — non lo porti sempre teso?». Il filosofo
allora: «Perché un arco sempre teso si allenta e perde vigore. Se dovessi
scagliare una freccia più potente contro qualche animale — supposto che l’arco
avesse perduto vigore a causa della tensione continua — il colpo non partirebbe
più con la forza necessaria». «Allora — concluse Giovanni — tu non devi
meravigliarti che io conceda al mio spirito questo breve e innocente sollievo.
Se di tempo in tempo non lo faccio riposare con un poco di ricreazione, lo
sforzo lo indebolirà e non potrà più obbedire all’impulso della parte razionale,
quando ciò sarà richiesto».
XXII. -
Come
vanno intese le parole evangeliche:
«Il
mio giogo è soave e il mio peso è leggero»
Germano.
Ora che tu hai dato il conveniente rimedio a tutte le nostre illusioni; ora che
la tua dottrina ha svelato tutti quegli inganni diabolici che prima ci agitavano
così violentemente, ti preghiamo di spiegarci quelle parole di nostro Signore:
«Il mio giogo è dolce, il mio peso è leggero» (Mt 11, 30).
Queste parole sembrano contrastare con le altre del profeta: «In conseguenza
delle parole delle tue labbra io ho tenuto vie dure» (Sal 17 (16), 4). C’è poi
anche san Paolo che dice: «Tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo
Gesù, dovranno soffrire persecuzione» (2 Tm 3, 12). Ciò che è duro e irto di
persecuzioni, come può essere leggero e soave?
XXIII. -
Spiegazione di quelle parole
Abramo.
La parola del Signore e Salvatore nostro è perfettamente vera: ce lo attesta la
stessa nostra esperienza. Per conoscerne la verità basta entrare nella via della
perfezione nel modo conveniente e secondo la volontà di Cristo. Ciò significa
mortificare tutti i nostri desideri; contrariare le nostre voglie cattive; non
permettere che ci rimangano beni di questa terra, che darebbero un punto
d’appiglio al demonio per angariarci e lacerarci a suo piacere. Più ancora:
significa convincerci che noi non dobbiamo essere noi stessi, ma dobbiamo
compiere nella sua perfezione quella parola di san Paolo che dice: «Io vivo, ma
non sono io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).
Che
cosa potrebbe essere grave o duro per colui che ha accettato il giogo di Cristo
con tutta l’anima, si è fondato nella vera umiltà, tiene l’occhio sempre fisso
ai dolori del crocifisso, si rallegra di tutte le ingiurie che gli possono
essere arrecate, e dice con l’Apostolo: «Io mi compiaccio nelle debolezze, nelle
offese, nelle privazioni, nelle persecuzioni, nelle difficoltà, sopportate per
Cristo? Quando sono debole, allora sono forte»! (2 Cor 12, 10). Quale danno dei
beni di fortuna potrà far soffrire colui che, lieto di essersi spogliato d’ogni
cosa per amore del Signore, ha rifiutato tutte le ricchezze di questo mondo e
stima tutte le concupiscenze simili a letame, pur di poter acquistare l’unione
con Cristo? Un tal uomo disprezza e scaccia dal cuore ogni dolore che potrebbe
venirgli dalla perdita dei beni terreni, e medita continuamente le parole del
Signore: «Che giova all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi perde l'anima
sua? Che cosa può dare l’uomo in cambio dell’anima?» (Mt 16, 26). Quale
privazione potrà rattristare colui per il quale tutto ciò che altri possono
rapirgli è cosa che non gli appartiene? Egli dice infatti con invincibile
coraggio: «Niente abbiamo portato in questo mondo ed è certo che niente potremo
portarcene via» (1 Tm 6, 7). Quale povertà potrà fiaccare la forza di uno che
non vuole avere né bisaccia per il viaggio, né denaro nella cintura, ma si vanta
con l’Apostolo «Nei molteplici digiuni, nella fame, nella sete, nel freddo,
nella nudità» (2 Cor 11, 27)? Quale fatica, o quale duro comando di un
superiore, potrà turbare la tranquillità di cuore di chi, dopo aver rinunciato
alla propria volontà, affronta ciò che gli viene comandato non solo con
pazienza, ma anche con gioia? Costui segue l’esempio del Signore: non vuol più
fare la volontà propria, ma quella del Padre; perciò dice con Gesù: «Non come
voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 33). Quali ingiurie, quali persecuzioni
potranno atterrire; o meglio: quale supplizio non farà contento, colui che in
mezzo a tutte le piaghe esulta e si rallegra continuamente come gli Apostoli,
perché è stato trovato degno di soffrire persecuzione per il nome di Cristo?
XXIV. -
Perché il giogo del Signore sembra amaro e pesante
Se
il
giogo
di Cristo non ci sembra né leggero né soave, è colpa della nostra resistenza
ostinata. Sono la sfiducia e la mancanza di fede a metterci contro il comando —
o meglio contro il consiglio — di colui che ha detto: «Se vuoi essere perfetto,
va’, vendi tutto quello che hai (vendere vuol dire lasciare), poi vieni e
seguimi» (Mt 9, 21). In altre parole: la colpa è di chi vuol conservare i beni
della terra.
Da questa volontà traggono origine infinite catene con
le quali il demonio ci tiene attaccati alla terra. La conseguenza che ne deriva
è funesta. Per allontanarci dalle gioie spirituali il nemico ci farà soffrire
delle diminuzioni, o delle perdite totali, della nostra ricchezza. Tutte le sue
astuzie mirano a questo scopo: quando la nostra concupiscenza viziosa ci avrà
reso pesante il dolce giogo del Signore e dura la sua lievità; dopo che saremo
tornati schiavi delle ricchezze che abbiamo ricercato per nostro riposo e nostra
consolazione, ci perseguiterà incessantemente coi flagelli delle preoccupazioni
terrene, troverà in noi stessi i motivi per batterci. E questo avviene perché
«ogni uomo è legato coi lacci del suo peccato» (Pr 5, 22: LXX). Anche il profeta
dice: «Voi tutti che accendete il fuoco e vi circondate di fiamme, gettatevi nel
vostro fuoco e nelle fiamme che avete acceso» (Is 50, 11). Salomone, a sua
volta, dice qualcosa di simile: «Ognuno è punito con quelle cose che gli hanno
servito a peccare» (Sap 11, 17).
I piaceri da noi cercati diventano il nostro tormento;
le gioie e le consolazioni del corpo si rivoltano contro di noi a somiglianza di
carnefici. Il monaco che conta su questi beni e su questi aiuti della sua prima
vita, non raggiungerà la perfetta umiltà del cuore, né la sincera mortificazione
dei piaceri peccaminosi. Con l’aiuto delle virtù proprie alla vita monastica si
possono invece ben sopportare le strettezze della vita presente; le stesse
perdite che il nemico c’infligge si sopportano, non con pazienza soltanto, ma
con gioia sincera. L’assenza di quelle virtù, invece, produce un innalzamento
dannoso che al più piccolo urto ci fa precipitare nei vortici mortali
dell’impazienza. Allora il profeta Geremia ci rivolge queste parole: «E ora, che
cosa cerchi sulla via d’Egitto? Vuoi andare a bere l’acqua torbida? Che cosa
cerchi sulla via dell’Assiria? Forse di bere l’acqua del fiume? La tua malizia
ti accuserà, la tua infedeltà ti sarà di rimprovero. Sappi e comprendi quale
male amaro è stato per te aver abbandonato il Signore Dio tuo e aver cacciato da
te il suo timore» (Ger 2, 18-19).
Se ci pare amara la soave leggerezza del giogo del
Signore, è segno che noi vi mescoliamo amarezza coi nostri tradimenti. Se
l’amabile levità del peso impostoci da Dio ci diventa pesante, è segno che noi,
con la nostra presunzione orgogliosa, disprezziamo il soccorso di Colui che ci
aiuta a portarlo. Questo insegna la sacra Scrittura: «Se camminassero per vie
diritte, troverebbero dolci i sentieri della giustizia» (Pr 2, 20). Siamo noi,
soltanto noi, che facciamo diventare impraticabili, con le pietre dei nostri
desideri duri e cattivi, le vie dritte e agevoli del Signore. Siamo noi che
abbandoniamo scioccamente la via regia, costruita con le pietre apostoliche e
profetiche, spianata dai passi santi del Signore, per seguire vie contorte,
piene di precipizi. Accecati dai miraggi dei piaceri terrestri, ci arrampichiamo
per vie tutte spinose, coi ginocchi rotti alle pietre del vizio, con la veste
nuziale fatta in brandelli. Così, non solo siamo punti dalle spine acutissime,
ma siamo preda dei serpenti e degli scorpioni che per quella via hanno i loro
nascondigli. Sta scritto infatti: «Nelle vie perverse ci sono spine e agguati,
ma chi teme il Signore ne va immune» (Pr 22, 5: LXX). In altro luogo il Signore
parla così per bocca del profeta: «Il mio popolo si è dimenticato di me, ha
fatto sacrifici vani, ha camminato per le sue vie, per i sentieri del mondo, ha
intrapreso un cammino che non era agevole» (Ger 18, 15). Salomone dice ancora:
«Le vie dei pigri sono lastricate di spine, quelle dei forti sono bene sgombre»
(Pr 15, 19).
Certamente chi si allontana dalla via regia, non potrà
giungere alla città santa, alla città-madre, dove il nostro viaggio dovrebbe
essere continuamente indirizzato.
L’Ecclesiaste
presenta bene queste verità: «La fatica degli stolti è afflizione per loro: essi
non conoscono neppure la via per andare alla città» (Qo (Eccli) 10, 15). E vuol
dire naturalmente «quella Gerusalemme celeste che è madre di tutti noi» (Gal 4,
26).
Chi invece ha rinunciato sinceramente al mondo e ha
preso sopra di sé il giogo di Cristo, ha imparato da lui, con la sopportazione
quotidiana delle ingiurie, ad essere «dolce e umile di cuore» (Mt 11, 29).
Costui rimarrà irremovibile in mezzo a tutte le tentazioni e «tutte le cose
concorreranno al suo bene» (Rm 8, 28). Dice infatti il profeta Abdia: «Le parole
di Dio sono con colui che cammina per la via retta» (Mi 2,7). E ancora: «Le vie
del Signore sono diritte e i giusti camminano in esse, i cattivi invece in esse
cadono» (Os 14, 10).
XXV. -
Utilità delle tentazioni
La grazia del Signore, sempre generosa con noi, ci
procura una corona di gloria, attraverso la lotta contro le tentazioni, più
bella di quella che avremmo meritato se fossimo stati dispensati dal
combattimento. È segno di virtù sublime ed eccellente conservare la propria
fermezza intrepida, rimanere fino all’ultimo confidenti nell’aiuto divino, pur
in mezzo a un turbine di persecuzioni e di prove. È segno di alta virtù
trionfare degli assalti degli uomini, rivestiti della corazza di una virtù
invincibile, e riportare vittoria sull'impazienza, quasi trasformando in una
virtù la nostra stessa debolezza. È detto infatti nel libro Sacro: «Ecco che io
ti ho stabilito in questo giorno come una città fortificata, come una colonna di
ferro e un muro di bronzo su tutto il popolo della regione. Ti assaliranno, ma
non vinceranno, perché io sono con te per liberarti, dice il Signore» (Ger 1,
18-19; Cfr. 2 Cor 12, 9). Concludiamo dunque che secondo le testimonianze divine
la via regia è breve e soave, anche se appare dura e aspra.
Quando i servi buoni e fedeli avranno preso sopra di sé
il giogo del Signore, impareranno ad imitare Lui, che è mite e umile di cuore.
Si libereranno così dal peso delle passioni terrestri
e, con l’aiuto di Dio, troveranno pace, non fatica, per le loro anime. È quel
che Dio stesso promette per bocca del profeta Geremia: «State sulla via e
osservate; interrogatevi sul vostro passato cammino; domandatevi qual è la via
buona e camminate per quella: così troverete quiete per le anime vostre» (Ger 6,
16). Per costoro, subito «le vie tortuose saranno raddrizzate e le vie aspre
saranno appianate» (Is 40, 4). Allora gusteranno e vedranno «quanto è buono il
Signore» (Sal 34 (33), 9). All’udire il Signore che nel Vangelo esclama: «Venite
a me, voi tutti che siete affaticati e aggravati da un peso; venite e io vi
ristorerò (Mt 11, 28), essi si sbarazzano dal peso dei loro vizi; così possono
meglio intendere le parole seguenti: «Il mio giogo è soave e il mio peso è
leggero» (Mt 11, 30).
Certamente la via del Signore è facile, basta
camminarvi secondo la legge del Signore. Siamo noi a procurarci dolori e
tormenti con le nostre preoccupazioni sproporzionate e confuse; e questo avviene
perché preferiamo seguire le vie tortuose del mondo, anche a costo di gravissimi
pericoli e immense difficoltà. Quando con una simile condotta abbiamo fatto
diventare duro e pesante il giogo del Signore, lo spirito di bestemmia ci induce
a lamentarci del giogo, o del Signore stesso che ce l’ha posta sopra le spalle.
Meritiamo così quel rimprovero: «La stoltezza dell’uomo corrompe le sue vie, ma
in cuor suo l’uomo accusa Dio» (Pr 19, 3). Se noi diremo — come si legge nel
profeta Aggeo: — «La via del Signore non è diritta» (Ez 18, 25), Dio ci
risponderà: «La via del Signore non è diritta? Non è vero, piuttosto, che le vie
vostre sono storte?» (Ez 18, 25).
Se si paragona il fiore soavemente profumato della
verginità e l’infinita delicatezza della castità, con l’odore tetro e fetido dei
piaceri carnali; se si paragona il riposo e la quiete dei monaci, con i pericoli
e le disgrazie da cui sono sommersi gli uomini di mondo; la pace della nostra
povertà, con le tristezze divoranti e le preoccupazioni continue che struggono
giorno e notte i ricchi, con pericolo per la loro stessa vita, ci sarà
facilissimo ammettere che il giogo del Signore è dolcissimo e il suo peso è
molto leggero.
XXVI. -
In qual senso è promesso il centuplo in questo mondo a chi opera una
perfetta rinunzia
In
questo senso giustissimo, verissimo e conforme alla fede, va intesa la promessa
fatta dal Signore di pagare col centuplo in questa vita chi fa una perfetta
rinunzia: «Chi lascia la casa, i fratelli, le sorelle, il padre, la madre, la
moglie, i figli, i campi, per il mio nome, riceverà il centuplo e avrà la vita
eterna» (Mt 19, 20). Queste parole son prese da molti in un senso errato; dànno
così occasione per affermare che i santi godranno, per un millennio dopo la
morte, il centuplo di ciò che abbandonarono in vita
[2].
Quando però questi eretici affermano che il felice millennio avverrà dopo la
risurrezione, manifestano chiaramente che quel periodo sarà ben diverso dal
tempo presente.
Ma il nostro pensiero è molto più credibile e chiaro.
Se uno, per seguire la chiamata di Cristo, avrà disprezzato affetti e ricchezze
terrestri, dai fratelli che troverà nella vocazione da lui seguita, avrà in
questa vita un amore cento volte più grande di quello lasciato. Infatti l’amore
che nasce qui sulla terra dall’amicizia e dalla parentela, come quello tra
genitori e figli, fratelli e sorelle, sposo e sposa, appare fragile e di breve
durata. Quando i figli son cresciuti può darsi che si allontanino — anche se
buoni e obbedienti — dalla casa paterna e dal patrimonio degli avi; il legame
coniugale talvolta è rotto, anche per motivi onesti; si vedono i fratelli
dividersi i loro beni con liti e processi. Soltanto i monaci rimangono per tutta
la vita in una strettissima unione, e posseggono ogni cosa in comune. Ognuno
stima suo ciò che appartiene ai fratelli; stima proprietà dei fratelli ciò che
appartiene a lui. Se si paragona la bellezza dell’amore fraterno vigente nei
monasteri, con gli affetti che derivano dai legami carnali, si scorge che
l’amore dei monaci è di gran lunga più dolce e sublime.
Anche la continenza monastica sarà cento volte più
soave e più bella della gioia che traggono gli sposi dall’unione coniugale.
Oltre a ciò si veda quale abbondanza e quale centuplo di ricchezze costituisca
aver lasciato un campo, o una casa, per passare all’adozione dei figli di Dio e
possedere come proprio tutto ciò che appartiene al Padre celeste, Quale
ricchezza, poter dire veramente e dal profondo del cuore, ad imitazione del
Figlio eterno: «Tutto ciò che è di mio Padre, è mio!» (Gv 16, 15). Senza più
sentire le dolorose inquietudini della vita mondana, il cuore del monaco è
tranquillo e contento, dappertutto si trova come a casa sua, ogni giorno sente
risuonare al suo orecchio la parola dell’Apostolo: «Tutto è vostro: il mondo, le
cose presenti e quelle future!» (1 Cor 3, 22). Oppure quelle di Salomone:
«L’uomo fedele è padrone del mondo e delle ricchezze» (Pr 17, 6: LXX).
Si ha
dunque una ricompensa centuplicata nella quantità del premio e nella superiore
sua qualità. Se per una certa quantità di bronzo, o di ferro, o di qualche altro
metallo, uno vi desse uno stesso peso d’oro, non pensereste forse che egli vi ha
dato più che il centuplo? Così, quando in cambio del disprezzo dei pensieri e
degli affetti terreni, vi è data la gioia spirituale e la contentezza della
preziosissima carità, la quantità dello scambio può restare identica da una
parte e dall’altra, ma è vero che il centuplo dato da Dio è cento volte più
grande e prezioso. Ma voglio ripetermi, per rendere più chiaro il mio concetto.
Figuriamoci un tale che ama sua moglie con tutti gl’impeti della concupiscenza,
poi — passato alla vita religiosa — l’ama nell’amore e nella santità della vera
carità; la sposa è la stessa, ma il valore dell’amore è salito cento volte più
in alto. Paragonate anche le perturbazioni dell’ira e del furore con la costante
dolcezza della pazienza; il tormento degli affanni e delle preoccupazioni, col
riposo della tranquillità; la tristezza infruttuosa del mondo presente, col
frutto di quella tristezza penitenziale che produce salvezza; la vanità delle
soddisfazioni temporali, con l’abbondanza della gioia spirituale: in questo
scambio il centuplo vi apparirà evidente. Così pure se si paragona col breve e
fuggevole piacere del vizio il merito della opposta virtù, la gioia che dalle
virtù deriva in abbondanza, ci dirà che abbiamo ricevuto il centuplo. Il numero
100 si ottiene passando dalla mano sinistra alla mano destra, e quantunque la
figura formata con le dita sia identica, la quantità significata è immensamente
più grande
[3].
Finché stiamo a sinistra siamo tra i caproni, quando passiamo a destra
diventiamo pecore.
Consideriamo ora la quantità di quei beni che il
Signore ci rende, già in questo mondo, per aver noi disprezzato le comodità
della terra. Il testo del Vangelo di san Marco ci persuade a fare questo
conteggio, là dove dice: «Nessuno ha lasciato la casa, i fratelli, le sorelle,
la madre, il padre, i figli, i campi, per me e per il Vangelo, senza che qui
riceva, in questo tempo, il centuplo in case, fratelli, sorelle, madri, figli,
campi, insieme con la persecuzione. Nel secolo futuro avrà poi la vita eterna»
(Mc 10, 29-30). È chiaro dunque che colui il quale rinuncia in nome del Signore,
all’amore di un padre, d’una madre, di un figlio, per entrare nella vera e pura
carità verso tutti i servi del Signore, riceve una quantità cento volte più
grande di fratelli e di genitori. Invece di un solo padre e di un solo fratello,
ne avrà in seguito una vera moltitudine, e tutti gli saranno uniti con un
affetto più ardente e più alto. Costui vedrà anche moltiplicarsi le sue case e i
suoi campi, perché dopo aver lasciato per amore di Cristo una sola casa, avrà a
sua disposizione innumerevoli monasteri, nei quali potrà entrare come padrone,
in qualunque parte del mondo si trovi. Si potrà dire che non riceve il centuplo
e anche più del centuplo — se è lecito fare un’aggiunta alla parola del Signore
— colui che, dopo aver rinunciato al servizio poco sicuro e poco spontaneo di
dieci o venti schiavi, si vede poi attorniato dalle amorose attenzioni di tante
persone libere e di nobile origine? Ora la vostra personale esperienza vi
attesta che questo fenomeno si avvera con frequenza. Per un padre, una madre,
una casa, che potete aver lasciato, avete trovato, in ogni parte del mondo in
cui vi siete trovati, padri, madri, fratelli senza numero. Avete altresì
ottenuto, senza fatica o affanno, molte case, molti campi, servi fedelissimi che
vi accolgono, vi amano, vi offrono i loro servigi, vi rispettano come se foste i
loro veri padroni, vi esprimono i segni del più sincero onore. Ma di questi
servigi io penso che potranno rallegrarsi veramente solo quei santi che per
primi hanno tutto abbandonato — perfino se stessi — per consacrarsi al servizio
dei fratelli in volontario sacrificio. Secondo la promessa del Signore, essi
riceveranno infallibilmente ciò che hanno donato agli altri. Colui invece che
non avrà dato tutto ai fratelli, con umiltà sincera, non accetterà con pazienza
il dono degli altri. In certi atti di servizio sentirà più un peso che una
consolazione, perché egli ha preferito esser servito piuttosto che servire.
Il vero monaco, infine, non godrà tutti questi doni in
una calma pigra e in una gioia sciocca; li godrà in mezzo alle afflizioni della
vita presente, fra le angosce e le prove dolorose. Dice così anche il saggio:
«Chi vive nella gioia e senza dolore, sarà in povertà»(Pr 14, 23: LXX). Ciò
equivale a dire che il regno dei cieli è possesso dei violenti, non già dei
pigri, dei deboli, dei delicati, dei flessibili. E chi sono questi fortunati
«violenti»? Coloro che fanno una gloriosa violenza alla loro stessa vita: non
agli altri; coloro che, con un furto onorevole, privano la propria anima del
piacere che deriva da tutte le cose del mondo. Questi sono quei ladri gloriosi
dei quali parla il Signore; essi penetrano a forza — per mezzo di questa rapina
— nel regno dei cieli. «Il regno dei cieli — dice Gesù — si prende con la
violenza e solo i violenti se ne impossessano» (Mt 11, 12). Certo, son violenti
coloro che fanno violenza alla loro perdizione. Sta scritto infatti che l’uomo
«in mezzo ai dolori, fa il suo vantaggio e impedisce con la violenza la sua
perdizione» (Pr 16, 26: LXX). La nostra perdizione è la gioia della vita
presente, o per dirla in maniera più chiara, è il soddisfacimento dei nostri
desideri e dei nostri gusti. Colui che allontana da sé, con la mortificazione,
questi gusti personali, fa davvero una violenza gloriosa e utile alla sua
perdizione, perché rinuncia a ciò che ha di più caro. Son proprio questi nostri
gusti che la parola del Signore molte volte condanna per bocca del profeta: «La
vostra volontà trionfa nei giorni del vostro digiuno» (Is 58, 3). E ancora: «Se
non ti metti in cammino in giorno di sabato; se rinunci a far la tua volontà nel
giorno che mi è consacrato; se onori quel giorno rinunciando completamente a
seguire le tue vie, a far la tua volontà, a dire parole vane...» (Is 58, 13). A
chi agisce così, lo stesso profeta dice subito dopo quale felicità è promessa:
«Allora troverai nel Signore la tua gioia; io ti innalzerò al disopra di tutte
le altezze terrestri e ti nutrirò con l’eredità di Giacobbe tuo padre. Così ha
parlato la bocca del Signore» (Is 58, 14). Per offrirci un modello di questa
rinuncia alla nostra volontà, Gesù, Signore e Salvatore nostro, disse: «Io non
son venuto per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato»
(Gv 6, 38). E ancora: «Padre, non si faccia come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt
26, 39).
Questa virtù della rinuncia alla propria volontà la
praticano soprattutto coloro che vivono nelle case cenobitiche. L’autorità d’un
Anziano li guida; essi non fanno nulla di propria elezione: in tutto li guida
l’autorità d’un altro abate. E prima di chiudere questa Conferenza lasciatemi
dire una cosa: non è chiaro che i servi fedeli di Cristo sono compensati col
centuplo, dal momento che i più alti personaggi della terra li onorano per
rispetto al nome di Cristo? Un vero servo di Dio non cerca certamente la gloria
umana, ma con tutto ciò egli è oggetto di rispetto per principi e per potenti,
anche in mezzo alle angustie della persecuzione.
Se quel monaco ora rispettato dai prìncipi fosse
rimasto nella vita del mondo, forse l’umiltà dei suoi natali, o la sua
condizione di schiavo, lo avrebbero fatto apparire spregevole anche alla gente
di poco conto. La milizia di Cristo lo ha invece nobilitato. Nessuno osa più
deridere la sua condizione sociale, nessuno gli rinfaccia la bassezza delle sue
origini. C’è di più: la bassezza delle origini, che di solito è motivo di
disonore e confusione per gli altri uomini, diventa un titolo di nuova nobiltà e
di maggior gloria per il servitore di Cristo. Tutto questo si può vedere
applicato con molta chiarezza nell’abate Giovanni, che vive nel deserto, presso
la città di Lico. Egli era nato da genitori oscurissimi, ma il nome di Cristo lo
ha fatto degno d’ammirazione presso tutto il genere umano. I dominatori della
terra, coloro che detengono il dominio e il governo di questo mondo, coloro che
fanno tremare con la potenza gli stessi re della terra, lo venerano come loro
Signore, mandano dai luoghi più lontani ad interrogarlo, affidano alle sue
preghiere la loro sovranità, la loro vita, l’esito delle loro battaglie.
Questa fu la conferenza dell’abate Abramo sull’origine
e il rimedio delle nostre illusioni. In tal modo furono messi a nudo, davanti ai
nostri occhi, gli inganni nascosti dal demonio nei pensieri che ci aveva
suggeriti. Nello stesso tempo fu acceso nel nostro cuore il desiderio della
mortificazione. Questo stesso desiderio infiammerà anche molti altri cuori di
monaci, sebbene io abbia riferito in forma inelegante l’insegnamento dell’abate
Abramo.
È vero: le mie parole coprono d’una cenere appena
tiepida le parole tutte fuoco di tanti eminentissimi Padri, tuttavia io spero
che attraverso questa lettura molti potranno riaccendersi di fervore; basterà
che scostino la cenere delle mie parole e suscitino la fiamma dei pensieri che
vi stanno nascosti sotto.
Non intendo però dire, o miei fratelli, che vi spedisco
questo fuoco (portato dal Signore sulla terra e destinato per volontà sua a
bruciare senza misura) con la presunzione o con la pretesa di animare, con
questo fuoco nuovo, il vostro proposito che so tanto fervente. Vorrei soltanto
che la vostra autorità ne fosse rafforzata presso i vostri figli, i quali
vedranno confermati—attraverso i precetti dei Padri più grandi e più antichi —
quegli insegnamenti che voi impartite: e li impartite, non già con parole smorte
e inefficaci, ma con esempi di vita.
Resta ora che io, dopo essere stato fin qui agitato
dalla più pericolosa tempesta, sia accompagnato dal soffio spirituale delle
vostre preghiere, nel porto munitissimo del silenzio.
[1]
Nota del redattore del sito. Il testo originale recita: "dall'inverno
dell’infedeltà".
[2]
I millenaristi erano una setta che ammetteva un millennio fa la
risurrezione e l’inizio della vita celeste. In quel millennio gli uomini
sarebbero in uno stato di perfetta felicità naturale.
[3]
Cassiano allude qui ad un uso degli antichi di indicare le cifre con
segni della mano. La sinistra contava fino a 90, la destra - con gli
stessi segni - contava da 100 in su.
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23 aprile 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net