LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
Cassianus Ioannes - Collationes
COLLATIO VIGESIMA, Quae est abbatis Pinufii.
Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne |
XX
CONFERENZA DELL’ABATE PINUFIO
SULLA FINE DELLA PENITENZA E SUI SEGNI DELLA SODDISFAZIONE
Estratto
da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
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CAPUT PRIMUM. De abbatis Pinufii humilitate et latendi studio.
CAPUT II. De adventu nostro ad abbatem Pinufium. |
Indice dei capitoli
I. Umiltà dell’abate Pinufio e suo nascondimento. II. Il nostro arrivo alla sua cella. III. Domanda sul termine della penitenza e sui segni di soddisfazione. IV. Risposta sull’umiltà della nostra interrogazione. V. Modo della penitenza e prova del perdono. VI. Domanda; è bene ricordare le colpe passate, allo scopo di alimentare la compunzione del cuore? VII. Risposta: fino a quando sia da conservare il ricordo delle colpe commesse. VIII. Le varie forme della penitenza. IX. Ai perfetti è utile la dimenticanza dei loro peccati. X. Il ricordo dei peccati più orribili è da evitare. XI. Il segno della soddisfazione e dell’abolizione dei peccati passati.
XII. In che senso la penitenza ha un fine e in che senso è senza fine.
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CAPUT PRIMUM. De abbatis Pinufii humilitate et latendi studio.
Hic siquidem cum haud longe a Panephysi Aegypti, ut illic dictum est, civitate, abbas et presbyter ingenti coenobio praesideret, tantumque eum in omni illa provincia virtutum suarum atque signorum gloria sublimasset, ut sibi jam videretur retributione laudis humanae laborum suorum recepisse mercedem,
timens ne sibi specialiter invisa popularis favoris inanitas, fructum praemii evacuaret aeterni, occulte monasterium suum fugiens, ad intima Tabennensium monachorum secreta contendit, ubi non eremi solitudinem, non singularis vitae securitatem, quam etiam imperfecti quique, laborem obedientiae in coenobiis non ferentes, superba non numquam praesumptione sectantur, sed celeberrimo praeelegit coenobio subjugari.
Ubi tamen ne ullo habitus sui proderetur indicio, indutus veste saeculari, multis, ut illic moris est, diebus lacrymans pro foribus excubavit, atque ad omnium genua provolutus, post eorum diuturna fastidia, qui ad explorandum ejus desiderium in ultima eum jam aetate velut panis egestate compulsum, non sincere illius propositi sanctitatem expetisse dicebant,
tandem ut susciperetur, obtinuit, ubi adolescenti cuidam fratri qui hortum susceperat excolendum, in adminiculum deputatus, cum non solum omnia quae idem praepositus imperasset, vel quae injuncti operis cura poscebat, cum admiratione tam sanctae humilitatis impleret, verum etiam quaedam necessaria opera, quae propter horrorem sui a caeteris vitabantur, ita furtivo per noctem labore perficeret, ut diluculo omnis illa congregatio tam utilium operum admirans ignoraret auctorem. Cumque ita triennium ferme illic, gaudens desideratis tam injuriosae subjectionis laboribus, exegisset, accidit ut quidam frater eidem cognitus ex illis, unde ille discesserat, Aegypti partibus, adveniret. Qui cum indumentorum ejus atque officii vilitate, promptissimae cognitionis facilitatem diu haesitans cohiberet, post explorationem manifestissimam ad ejus genua provolutus, primum stuporem fratribus cunctis, dehinc prodito etiam nomine, quod apud illos quoque praecipuae sanctitatis fama vulgaverat, etiam dolorem compunctionis incussit, quod scilicet tanti meriti ac sacerdotii virum tam injuriosis operibus deputassent. Sed postquam flens ubertim, et diabolicae invidiae quasi gravem proditionis suae imputans casum [causam],
ad monasterium
suum honorifica fratrum custodia ambiente perductus est, exiguo illic
tempore demoratus, rursus offensus est ipsis honoris sui ac primatus
obsequiis; ac furtim ascendens navem, ad Palaestinam Syriae provinciam
transmeavit, ubi velut incipiens atque novitius in illo in quo nos
degebamus, monasterii receptus habitaculo, in nostra cellula ab abbate
praeceptus est commanere. Sed ne illic quidem diu virtutis ejus merita
latere potuerunt. Nam simili proditione detectus, atque ad monasterium
suum cum ingenti honorificentia ac laude revocatus, tandem quod erat
esse compulsus est.
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I. -
Umiltà dell’abate Pinufio e suo nascondimento
Accingendomi a riferire gl’insegnamenti dell’abate Pinufio a proposito
della penitenza, mi parrebbe di mutilare il mio discorso, qualora non
spendessi qualche parola in lode dell’umiltà straordinaria di quest’uomo
illustre e veramente unico. È vero che su Pinufio ho già detto qualcosa
nel quarto libro delle
Istituzioni Monastiche,
che s’intitola: « Del modo di formare coloro che rinunciano al mondo ».
Ma tutta la voglia che ho di non annoiare i lettori, non mi permette ora
di tacere del tutto. Penso anche che molti leggeranno questa
Conferenza
senza aver letto prima, né leggere dopo, il libro delle
Istituzioni
ricordato sopra; mi parrebbe quindi di togliere qualcosa all’autorità
dell’insegnamento se nascondessi il merito di colui che insegna.
Pinufio dirigeva, con autorità d’abate e di prete, un grande monastero
vicino a Panefisi, che è — come spiegavo nelle
Istituzioni
— una città egiziana. Virtù e miracoli avevano reso celebre questo
monaco in tutta la regione; l’avevano anche innalzato a tal grado di
gloria che egli credeva d’aver già ricevuto, nelle lodi degli uomini, il
premio delle sue fatiche.
Per timore che il grande (ma temuto) favore popolare avesse a togliergli
il frutto della ricompensa eterna, fuggì di nascosto dal suo monastero e
si ritirò nell’eremo abitato dai monaci di Tabenna. Egli non cercava la
solitudine riposante, non la tranquillità della vita solitaria, quella
tranquillità che, mossi da superbia, talvolta cercano anche i monaci
imperfetti, stanchi di praticare l’obbedienza nei monasteri di vita
cenobitica. No: Pinufio cercava il giogo della vita comune in quel
celebre monastero.
Per timore che il suo abito di monaco lo tradisse, indossò vesti
secolaresche e andò a mettersi davanti alla porta di quel monastero. Là
fu lasciato per molti giorni, secondo un uso proprio a quei monaci. Si
prostrò ai piedi di tutti e dovette sostenere molte villanie che gli
venivano inflitte per mettere alla prova la sua vocazione. Lo accusavano
di essersi rivolto alla vita monastica quand’era ormai alla fine dei
suoi giorni, gli rinfacciavano che era stato il desiderio di
procacciarsi il pane a buon mercato il motivo della sua richiesta,
sostenevano insomma che non abbracciava sinceramente la santità della
vita monastica.
C’era in quel monastero un giovane monaco addetto all’orto, Pinufio gli
fu dato come aiuto. Il vecchio abate faceva tutto ciò che gli comandava
il suo superiore, o che stimasse richiesto dal suo ufficio; e lo faceva
con tanta umiltà da far nascere in tutti meraviglia. Di più. Pinufio
lavorava anche la notte, per fare certi servizi necessari, ma che gli
altri monaci non volevano fare, a motivo del disgusto che ne provavano
Avveniva così che al mattino tutta la comunità rimaneva meravigliata nel
veder fatto quel lavoro, senza sapere chi fosse stato a compierlo.
Avendo passato allegramente quasi tre anni nelle fatiche più dure e
nella sottomissione più assoluta, un monaco che lo conosceva, e che era,
come lui, partito dalla provincia d’Egitto, venne a quel monastero.
Subito e senza sforzo riconobbe Pinufio, ma gli abiti di cui lo vedeva
vestito e gli uffici vili che gli vedeva sbrigare, lo fecero rimanere a
lungo esitante. Lo osservò ancor meglio finché un giorno tutti i dubbi
svanirono. Allora il monaco pellegrino cadde in ginocchio davanti a
Pinufio. Sul principio gli altri monaci rimasero stupefatti, poi, quando
fu rivelato il nome di colui che lo straniero onorava in modo tanto
insolito — un nome la cui fama di eminente santità risuonava da ogni
parte — alla meraviglia successe il dolore. Quei buoni monaci si
dolevano e si vergognavano di aver usato in mansioni così basse un uomo
d’altissimo merito, e per di più insignito della dignità sacerdotale.
Pinufio però piangeva copiosamente e rimproverava al demonio invidioso
di averlo così tradito.
I confratelli gli si schierarono attorno come una guardia d’onore e lo
ricondussero al suo monastero; però vi rimase poco. Offeso nuovamente
dai segni d’onore resi alla sua dignità, salì di nascosto sopra ima nave
e salpò alla volta della Palestina, provincia della Siria. Là fu
ricevuto, come principiante e novizio, nel monastero in cui vivevamo
Germano ed io, e l’abate comandò che abitasse con noi nella stessa
cella. Scoperto ancora, come la prima volta, fu ricondotto al suo
monastero con i più grandi segni d’onore che si possano immaginare.
Così, per gli altri anni, fu costretto ad essere quello che veramente
era.
II.
-
Il nostro arrivo
alla sua cella
Quando, poco tempo dopo, il desiderio di essere istruiti nella scienza
dei santi, obbligò anche noi ad emigrare in Egitto, ricercammo Pinufio
con immenso affetto e desiderio di rivederlo. Ci ricevette con tanto
amore che ci volle alloggiare, come vecchi compagni di cella, in una
capanna che si era costruito nell’angolo estremo del suo orto. In quella
stessa capanna, ad un monaco che voleva porsi sotto il giogo della
regola, Pinufio dette — in presenza di tutti gli altri monaci — quegli
insegnamenti austeri e sublimi che ho riferito con la più grande brevità
nel quarto libro delle
Istituzioni.
Quando giungemmo da lui, le vette della vera rinunzia ci sembravano
tanto incomprensibili e tanto sublimi, da credere che la nostra miseria
non avrebbe mai potuto raggiungerle. Abbattuti dallo scoraggiamento e
palesando nel volto l’amarezza che c’invadeva il cuore, ricorremmo al
santo vecchio con l’anima in tumulto. Egli, senza porre tempo in mezzo,
domandò quale fosse la causa della nostra grande tristezza. Germano gli
rispose così, sospirando profondamente.
III.
-
Domanda sul termine della penitenza e sui segni di soddisfazione
Il tuo discorso ci ha scoperto una scienza sconosciuta, ci ha mostrato
la via ardua della più sublime rinuncia. Diradando le nubi che in certo
modo oscuravano la vista, tu ci hai fatto ammirare una rinuncia che
penetra con la sua cima fino in cielo. Ma quanto più bella e alta è
stata la visione, tanto più profondo è lo scoraggiamento che ci assale.
Quando confrontiamo la grandezza del compito che ci attende, con la
pochezza delle nostre forze; quando paragoniamo la bassezza della nostra
ignoranza, con l’altezza infinita della virtù di cui tu ci hai parlato,
non solo ci sentiamo incapaci di arrivare fin lassù, ma temiamo di
cadere anche da quel grado in cui ora ci troviamo. Sì: oppressi dal peso
d’un immenso scoraggiamento, dalla bassezza in cui ci troviamo,
roviniamo ancora più in basso. Una sola cosa, e di valore inestimabile,
può aiutarci e portar rimedio alle nostre ferite: voglio dire qualche
insegnamento sul termine della penitenza e soprattutto sui segni dai
quali si può intendere che i nostri debiti con Dio sono annullati.
Quando siamo certi che le colpe sono cancellate, acquistiamo coraggio
per tentare la scalata alle vette della perfezione di cui ci hai
parlato. |
CAPUT IV. Responsio abbatis Pinufii.
Sed quia idipsum summa laude dignissimum est, quod velut adhuc rudes incognita vobis esse ista sanctorum instituta testamini, id quod a nobis sedulo postulatis breviter ut possumus complectamur. Necesse est enim ut ultra possibilitatem nostram atque virtutem antiquae familiaritatis vestrae pareamus imperio.
Itaque de poenitentiae exhortatione vel merito multi non solum dictis, verum etiam scriptis plurima vulgaverunt, monstrantes quanta ejus utilitas, quantaque sit gratia, ita ut Deo praeteritis facinoribus offenso, tamque justissimam poenam pro tantis criminibus inferenti, si dici fas est, quodammodo obsistat, et quasi inviti (ut ita dixerim) dexteram suspendat ultoris. Verum haec omnia vobis, vel pro sapientia
supernaturali, vel pro indefesso sacrarum studio litterarum, ita cognita
esse non ambigo, ut de his prima plantatio vestrae conversationis
inoleverit. Denique non de poenitentiae qualitate, sed de ejus fine ac
satisfactionis indicio solliciti, id quod ab aliis praetermissum est,
sagacissima interrogatione disquiritis. Quapropter omni brevitate atque
compendio propositionis vestrae desiderio satisfacere nitimur.
Itaque tunc se is qui pro satisfactione pervigilat a criminibus absolutum, ac de praeteritis admissis veniam percepisse cognoscat, cum nequaquam cor suum eorumdem vitiorum illecebris senserit vel imaginatione perstringi. Quamobrem verissimus quidam examinator
poenitentiae et indulgentiae [ Lips. in marg. index] in conscientia
residet nostra, qui absolutionem reatus nostri ante cognitionis et
judicii diem adhuc nobis in hac carne commorantibus detegit et finem
satisfactionis ac remissionis gratiam pandit. Et ut haec eadem quae
dicta sunt, significantius exprimantur, tum demum praeterita nobis
vitiorum contagia remissa esse credenda sunt, cum fuerint de corde
nostro praesentium voluptatum desideria pariter passionesque depulsae.
ut illud quoque quod sequitur efficaciter dicere mereamur: Et tu remisisti impietatem cordis mei (Ibid.)? vel quemadmodum in oratione prostrati nosmetipsos ad confessionis lacrymas valebimus excitare, per quas delictorum veniam consequi mereamur, secundum illud: Lavabo per singulas noctes lectum meum, lacrymis meis stratum meum rigabo (Psal. VI); si peccatorum nostrorum memoriam de nostris cordibus extrudamus, quam jubemur econtrario tenaciter custodire, dicente Domino: Et iniquitatum tuarum non recordabor; tu vero memento (Esa. XLIII sec. LXX)? Ob quam rem non solum operans, verum etiam orans ad peccatorum meorum recordationem mentem meam etiam de industria revocare contendo, ut ad humilitatem veram et contritionem cordis efficacius inclinatus, audeam dicere cum Propheta: Vide humilitatem meam et laborem meum, et dimitte omnia peccata mea (Psal. XXIV). |
IV.
-
Risposta sulla umiltà della nostra interrogazione
Mi rallegro molto dei bei frutti di umiltà che trovo in voi. Già
un’altra volta, quando fui ospite della vostra cella, potei ammirare le
prove della vostra umiltà, ne fui commosso e ne concepii una stima non
comune. Ora sono molto contento che voi riceviate aiuto da me, ultimo
dei servi del Signore (per il quale l’audacia della parola è forse
l’unico merito). Sono contento che riceviate da me qualche insegnamento.
Le parole che vi dirò saranno da voi messe in pratica con uno zelo non
inferiore a quello che me le detta: così vedo e credo per chiari segni.
Sono certo che voi farete quanto io sto per dirvi: le vostre azioni
saranno pari all’austerità delle mie parole. Tuttavia dovrete nascondere
il merito della vostra virtù come se delle pratiche a cui vi
applicherete ogni giorno non aveste mai sentito far cenno.
La modestia con la quale confessate la vostra ignoranza circa i mezzi
per raggiungere la santità — quasi che voi foste in questo campo gli
ultimi arrivati — è degna di essere altamente lodata. Perciò io vi
esporrò brevemente, e nel modo migliore possibile, quella dottrina che
avidamente mi domandate. È dovere per me, in nome della nostra
familiarità dei tempi passati, obbedire al vostro invito in modo da
superare la mia stessa possibilità e capacità.
Della potenza e del merito della penitenza hanno già parlato molti, sia
a viva voce che per scritto. È stato detto quanto sia grande la sua
utilità e quanto sia grande la virtù e la grazia che possiede. Se così
mi è permesso esprimermi, dirò che la penitenza resiste a Dio, offeso
dalle nostre colpe passate e pronto a scagliarci i castighi per i nostri
delitti. La penitenza trattiene — se così posso dire — la mano punitrice
di Dio.
Penso che la vostra naturale perspicacia e lo studio continuo della
sacra Scrittura vi abbiano rese familiari queste verità; credo che
proprio di qui sia incominciata la vostra conversazione. Del resto, a
voi non preme conoscere la natura della penitenza, ma il suo termine e i
segni da cui si possa giudicare che tutto ciò che apparteneva al peccato
è stato cancellato. Voi domandate, con un quesito acutissimo ciò che gli
altri hanno lasciato nell’ombra.
V.
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Modo della penitenza e prova del perdono
Per soddisfare con brevità e chiarezza al desiderio da voi manifestato,
diamo prima la definizione piena e completa di penitenza. La penitenza
consiste nel non commettere più quei peccati dei quali ci pentiamo e dei
quali la nostra coscienza prova rimorso. Il segno invece della
soddisfazione, o del perdono ottenuto, consiste nell’aver cacciato via
dal nostro cuore ogni affetto al peccato. Nessuno — sappiatelo bene —
può ritenersi completamente libero dai suoi peccati passati finché
l’immagine di quelle colpe, o di altre somiglianti a quelle, si mostra
dinanzi al penitente e, pur non provocandogli compiacenze di sorta, ne
infesta le parti segrete dell’anima.
Perciò colui che veglia tutto intento ad ottenere la soddisfazione dei
suoi peccati, potrà conoscere di essere stato assolto e perdonato dalle
sue colpe, da questo segno: se il suo cuore non sarà più commosso
neppure dal ricordo di quei vizi.
Noi dunque portiamo, nella nostra coscienza, un giudice informatissimo
sulla penitenza fatta e sul perdono ottenuto. Prima ancora del giorno
del giudizio, mentre viviamo nella carne mortale, quel giudice ci
manifesta l’assoluzione delle nostre colpe, il termine della
soddisfazione, la grazia del perdono. Per riassumere tutto quel che ho
detto in una forma più concettosa, dirò così: noi dobbiamo credere che
le nostre colpe passate sono state rimesse, quando i desideri e i
turbamenti dei piaceri terrestri saranno completamente cacciati via dai
nostri cuori.
VI.
-
Domanda: è bene ricordare le
colpe passate, allo scopo di alimentare la compunzione del cuore?
Germano.
Ma se allontaniamo dal cuore il ricordo dei peccati, da dove ci verrà
quella santa e salutare compunzione che è propria di uno spirito umile?
Non è vero che la Scrittura ci presenta la compunzione con questi
accenti attribuiti a un’anima penitente? « Ora confesso e non nego il
mio peccato. A te dissi: mi confesso in colpa » (Sal 31,5-6).
E come potremo dire le parole che seguono: « E tu gli empi miei falli
perdonasti » (Sal 31,5-6)?
E come faremo, prostrati in preghiera, ad eccitarci alle lacrime di una
sincera confessione, per meritare il perdono dei nostri peccati, secondo
quelle parole dei salmi: « Vo’ bagnando ogni notte il mio giaciglio,
irrigo di lacrime il mio letto » (Sal 6,7)? A me pare, al
contrario, che noi siamo obbligati ricordare tenacemente i nostri
peccati; il Signore infatti comanda: « Io non mi ricorderò delle tue
colpe, ma tu ricordale » (Is 43,25-26 LXX).
Per questa ragione io sono solito richiamare alla mente i miei peccati,
non solo mentre sto lavorando, ma anche quando prego. E così, più
efficacemente sospinto verso la vera umiltà e la contrizione del cuore,
trovo il coraggio per dire col profeta: « Osserva, Signore, la mia
umiltà e il mio affanno, e perdona tutti i miei peccati
» (Sal 24,18). |
CAPUT VII. Responsio quousque anteriorum actuum recordatio sit habenda. Pinufius:
Interrogatio vestra, ut jam supra dictum est, non de poenitentiae
qualitate, sed de ejus fine proposita est, et de satisfactionis indicio,
ad quam congrue (ut arbitror) consequenterque responsum est. Caeterum
hoc quod de peccatorum recordatione dixistis utile satis ac necessarium
est, sed adhuc agentibus poenitentiam, ut cum jugi pectoris sui
contusione proclament, Quoniam iniquitatem meam ego agnosco, et peccatum
meum contra me est semper (Psalm. L); illud etiam, Et cogitabo pro
peccato meo (Psalm. XXXVII). Dum ergo agimus poenitentiam, et adhuc
vitiosorum actuum recordatione mordemur, necessarium est ut ignem
conscientiae nostrae obortus ex confessione culpae lacrymarum imber
exstinguat; cum vero cuiquam in hac humilitate cordis et spiritus
contritione defixo, atque in labore et gemitu perduranti, horum
recordatio fuerit consopita, et conscientiae spina de medullis animae
gratia Dei miserentis evulsa, certum est eum ad satisfactionis finem
atque indulgentiae merita pervenisse, et ab universorum criminum labe
purgatum. Ad quam tamen oblivionem non alias pervenitur, nisi per
oblitterationem vitiorum atque affectuum pristinorum et perfectam cordis
atque integram puritatem; quam sine dubio nullus eorum qui per ignaviam
sive contemptum vitia sua purgare neglexerit assequitur, nisi qui
gemitus atque suspiria moesta jugitate continuans omnem sordium
pristinarum excoxerit labem, et virtute animi atque opere proclamaverit
ad Deum: Delictum meum cognitum tibi feci, et injustitiam meam non
operui (Psal. XXXI). Et Fuerunt mihi lacrymae meae panes die ac nocte
(Psal. XLI); ut consequenter mereatur audire: Quiescat vox tua a
ploratu, et oculi tui a lacrymis, quia est merces operi tuo, ait Dominus
(Jerem. III). Illud quoque similiter ad eum voce Domini dirigatur,
Delevi ut nubem iniquitates tuas, et quasi nebulam peccata tua (Isa.
XLIV). Et iterum: Ego sum qui deleo iniquitates tuas propter me, et
peccatorum tuorum jam non recordabor (Isa. XLIII). Et ita funiculis
peccatorum suorum, quibus unusquisque constringitur (Prov. V), absolutus
Domino cum omni gratiarum actione cantabit: Dirupisti vincula mea, tibi
sacrificabo hostiam laudis (Psal. CXV). Post illam namque generalem baptismi gratiam, et illud pretiosissimum martyrii donum, quod sanguinis ablutione conquiritur, multi sunt poenitentiae fructus, per quos ad expiationem criminum pervenitur. Non enim tantum simplici illo poenitentiae nomine salus aeterna repromittitur, de quo beatus apostolus Petrus (Actor. III): Poenitemini, inquit, et convertimini, ut deleantur peccata vestra. Et Joannes Baptista, vel ipse Dominus (Matth. III et IV): Poenitentiam agite, appropinquabit enim regnum coelorum. Sed etiam per charitatis affectum peccatorum moles obruitur: Charitas enim operit multitudinem peccatorum (I Petr. IV). Similiter etiam per eleemosynarum fructum vulneribus nostris medela praestatur; quia sicut aqua exstinguit ignem, ita eleemosyna exstinguit peccatum (Eccles. III). Ita etiam per lacrymarum profusionem conquiritur ablutio peccatorum: Lavabo enim per singulas noctes lectum meum, lacrymis meis stratum meum rigabo; denique subjungit, ostendens eas non inaniter fuisse profusas: Discedite, inquiens, a me omnes, qui operamini iniquitatem, quoniam exaudivit Dominus vocem fletus mei (Psal. VI). Nec non per criminum confessionem eorum abolitio conceditur: Dixi enim, ait, Pronuntiabo adversum me injustitiam meam Domino, et tu remisisti impietatem peccati mei (Psal. XXXI). Et iterum: Narra tu iniquitates tuas primus, ut justificeris (Isai. XLIII). Per afflictionem quoque cordis et corporis, admissorum scelerum remissio similiter obtinetur. Nam vide, inquit, humilitatem meam et laborem meum, et dimitte omnia peccata mea (Psal. XXIV). Praecipueque per emendationem morum: Auferte, inquit, malum cogitationum vestrarum ab oculis meis, quiescite agere perverse, discite benefacere, quaerite judicium, subvenite oppresso, judicate pupillo, defendite viduam, et venite et arguite me, dicit Dominus. Et si fuerint peccata vestra ut coccinum, velut nix dealbabuntur; et si fuerint rubra quasi vermiculus, velut lana alba erunt (Isai. I). Interdum etiam intercessione sanctorum impetratur venia delictorum. Qui enim scit fratrem suum peccare peccatum non ad mortem, petat et dabit ei vitam Deus peccanti non ad mortem (I Joan. V). Et iterum: Infirmatur quis ex vobis, inducat presbyteros Ecclesiae, et orent super eum, ungentes eum oleo in nomine Domini, et oratio fidei salvabit infirmum; et allevabit eum Dominus; et si in peccatis sit, dimittentur ei (Jacobi V). Nonnumquam etiam misericordiae ac fidei merito labes excoquitur vitiorum, secundum illud: Per misericordiam et fidem purgantur peccata (Proverb. XV). Per conversionem plerumque et salutem eorum qui nostris monitis ac praedicatione salvantur. Quoniam qui converti fecerit peccatorem ab errore viae suae, salvat animam ejus a morte, et operit multitudinem peccatorum (Jacobi V). Per indulgentiam nihilominus et remissionem nostram, ad indulgentiam nostrorum facinorum pervenitur: Si enim dimiscritis hominibus peccata eorum, dimittet et vobis Pater vester coelestis delicta vestra (Matth. VI). Videtis ergo quantos misericordiae aditus patefecerit clementia Salvatoris, ut nemo salutem cupiens, desperatione frangatur, cum videat se tantis ad vitam remediis invitari. Si enim pro infirmitate carnis afflictione jejuniorum abolere te peccata non posse causaris, nec potes dicere: Genua mea infirmata sunt a jejunio, et caro mea immutata est propter oleum (Psal. CVIII); quia cinerem tamquam panem manducabam, et poculum meum cum fletu miscebam (Psal. CI): eleemosynarum ea redime largitate. Indigenti si non habes quod impartias (licet nullum ab hoc opere necessitas inopiae ac paupertatis excludat, quandoquidem et illius viduae duo tantum aera ingentibus divitum muneribus praeferuntur (Luc. XXI), et pro calice aquae frigidae mercedem se redditurum Dominus (Matth. X) repromittit), certe absque illis morum poteris emendatione purgari. Quod si perfectionem virtutum exstinctione vitiorum omnium non potes adipisci, sollicitudinem piam erga utilitatem alienae salutis impende. Si autem te idoneum huic ministerio non esse conquereris, operire peccata poteris charitatis affectu. In hoc quoque si te fragilem fecerit quaelibet mentis ignavia, oratione saltem atque intercessione sanctorum remedia vulneribus tuis humilitatis affectu submissus [subnixus] implora. Postremo quis est qui non possit suppliciter dicere: Peccatum meum cognitum tibi feci, et injustitiam meam non operui (Psal. XXXI)? ut per hanc confessionem etiam illud confidenter subjungere mereatur, Et tu remisisti impietatem cordis mei (Ibid.). Quod si verecundia retrahente revelare coram hominibus erubescis, illi quem latere non possunt confiteri ea jugi supplicatione non desinas, ac dicere, Iniquitatem meam ego cognosco, et peccatum meum contra me est semper; tibi soli peccavi, et malum coram te feci (Psal. L); qui et absque illius verecundiae publicatione curare, et sine improperio peccata donare consuevit. Post istud quoque tam promptum certumque subsidium, aliud quoque adhuc facilius largita est nobis divina dignatio, ipsamque remedii opem nostro commisit arbitrio, ut indulgentiam nostrorum scelerum pro nostro praesumamus affectu, dicentes ei: Dimittite nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris (Matth. VI). Quisquis igitur ad indulgentiam suorum criminum desiderat pervenire, istis semetipsum aptare studeat instrumentis, nec obdurati cordis pervicacia a remedio salutari fontem tantae pietatis avertat; quia etiamsi haec omnia fecerimus, non erunt idonea ad expiationem scelerum nostrorum, nisi ea bonitas Domini clementiaque deleverit, qui cum religiosi conatus obsequia supplici mente a nobis oblata perspexerit, exiguos parvosque conatus immensa liberalitate prosequitur, dicens: Ego sum, ego sum qui deleo iniquitates tuas propter me, et peccatorum tuorum jam non recordabor (Isai. XLV). Ad hunc ergo quem praediximus statum quisquis conscenderit, satisfactionis gratiam quotidianis jejuniis et mortificatione cordis et corporis assequetur: quia, sicut scriptum est, sine sanguinis effusione non fit remissio (Hebr. IX). Nec immerito. Caro enim et sanguis regnum Dei possidere non possunt (I Cor. XV). Et ideo quisquis ab hujus sanguinis effusione gladium spiritus, quod est verbum Dei, voluerit inhibere, absque dubio illa Jeremiae prophetae maledictione plectetur. Nam maledictus, inquit, qui prohibet suum gladium a sanguine (Jer. XLVIII). Hic namque est
gladius qui illum noxium, sanguinem, quo animatur materia peccatorum,
salubriter fundens, quidquid repererit in membris nostris carnale
terrenumve concretum, resecat et abscindit, ac mortificatos vitiis
vivere Deo et spiritalibus facit vigere virtutibus; et ita jam non
recordatione veteris admissi, sed spe futurorum gaudiorum flere
incipiet; nec tam de praeteritis malis quam de venturis cogitans bonis,
non ex peccatorum moerore lacrymas, sed ex aeternae illius laetitiae
alacritate profundet, atque obliviscens ea quae posteriora sunt, id est,
carnalia vitia, ad ea quae in ante sunt extendetur, hoc est, spiritalia
dona atque virtutes. Caeterum quod paulo ante dixisti, te etiam de industria praeteritorum peccatorum memoriam retractare, hoc fieri penitus non oportet, quinimmo etiamsi violenter irrepserit, protinus extrudatur. Multum namque retrahit mentem a contemplatione puritatis, ejus praecipue qui in solitudine commoratur, implicans eam sordibus mundi hujus, et praefocans fetore vitiorum. Dum enim recolis ea quae secundum principem saeculi sive per ignorantiam sive per lasciviam commisisti, ut concedam tibi quod in hac cogitatione posito oblectatio nulla subrepat, certe antiquae putredinis vel sola contagio necesse est ut tetro mentem fetore corrumpat, et spiritalem virtutum fragrantiam, id est, suavitatem boni odoris excludat. Cum ergo praeteritorum memoria vitiorum pulsaverit sensum, ita ab ea resiliendum est, sicut refugit vir honestus et gravis, si impudicae ac procacis feminae in publico aut colloquiis aut amplexibus appetatur. Qui utique nisi se a contactu ejus festinus abstraxerit, et vel brevissimam moram inhonestae confabulationis admiserit, etiamsi consensum impudendae respuat voluptatis, infamiae tamen ac reprehensionis notam cunctorum praetereuntium judicio non evadet. Ita igitur etiam nos oportet cum fuerimus in hujusmodi cogitationes pestifera recordatione deducti, raptim ab earum contemplatione discedere, et implere illud quod a Salomone praecipitur: Sed exili [Lips. in marg. exi], inquit, noli demorari in loco ejus, neque intendas oculo tuo in eam (Prov. V); ne videntes nos angeli immundis ac turpibus cogitationibus involutos, non possint de nobis praetereuntes dicere: Benedictio Domini super vos, benediximus vobis in nomine Domini (Psal. CXXVIII). Impossibile namque est mentem bonis cogitationibus immorari, cum principale cordis ad turpes atque terrenos intuitus fuerit devolutum. Vera est enim illa Salomonis sententia: Oculi tui cum viderint alienam, os tuum tunc loquetur prava, et jacebis tamquam in corde maris, et sicut gubernator in magna tempestate; dices autem: Ferierunt me, sed non dolui; et deluserunt me, ego autem nescivi (Prov. XXIII). Derelictis autem non solum turpibus, sed etiam terrenis cogitationibus universis, erigenda est semper ad coelestia nostrae mentis intentio, secundum Salvatoris nostri sententiam. Ubi enim ego sum, inquit, illic et minister meus erit (Joan. XII). Solet enim frequenter accidere ut dum vel suos vel aliorum lapsus imperitorum quispiam miserantis retractat affectu, ipse etiam subtilissimi teli voluptario perstringatur assensu; et initium sub specie pietatis exortum, obsceno ac noxio fine concludit. Sunt enim viae quae videntur hominibus rectae, novissima autem earum venient in profundum inferni (Prov. XVI). Quapropter studendum est nobis ut virtutum potius appetitu et desiderio regni coelorum, quam noxiis vitiorum recordationibus, nosmetipsos ad compunctionem laudabilem provocemus, quia necesse est tamdiu quempiam pestilentissimis cloacae fetoribus praefocari, quamdiu supra eam stare vel coenum ejus voluerit commovere |
VII.
-
Risposta: fino a quando sia da conservare il ricordo delle colpe
commesse
Pinufio.
La vostra domanda, come è già stato detto sopra, non riguarda la natura
della penitenza, ma il suo termine e i segni della soddisfazione. E se
questa era la domanda, mi pare di aver dato una risposta conveniente e
soddisfacente. Peraltro quel che avete detto sul ricordo dei peccati, è
veramente utile e necessario, ma a coloro che fanno ancora penitenza.
Tocca a loro battersi il petto e ripetere incessantemente: « Le mie
colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta dinanzi » (Sal 50,5).
E ancora: « Sto in angustia per il mio peccato » (Sal 37,19). Finché
facciamo penitenza e sentiamo il rimorso delle nostre colpe, è
necessario che le lacrime di un’umile confessione cadano come pioggia
sull’anima nostra e spengano il fuoco accesovi dal peccato. Ma se uno è
stato tanto tempo in questa umiltà del cuore e contrizione di spirito;
se si è dato continuamente alle fatiche e ai gemiti, può darsi che alla
fine il ricordo del male commesso si sia cancellato e che la spina del
rimorso sia stata tolta dal midollo dell’anima, per una grazia della
divina misericordia. Ecco il segno sicuro che quest’uomo è giunto al
termine della soddisfazione e che ha conquistato la completa remissione:
ogni macchia dei suoi peccati passati è tolta. A questa perfetta
dimenticanza del male commesso si giunge soltanto con la estirpazione
dei vizi e delle passioni della vita antecedente, con una perfetta e
integrale purità di cuore. Nessuno di coloro che, per pigrizia o
malizia, trascurano di correggere i loro vizi, potrà giungere a questa
meta. Vi giungerà solo colui che, con lacrime, sospiri e penitenze
continue, avrà tolto dal suo cuore fin la più piccola macchia dei suoi
peccati passati, e potrà sinceramente dire al Signore, dal più profondo
dell’anima: « Io ho manifestato il mio peccato, non ho cercato di
nascondere la mia ingiustizia » (Sal 31,5). E ancora: « Le lacrime sono
state il mio cibo, di giorno e di notte » (Sal 41,4). Costui, in
risposta, meriterà di sentirsi dire: « Lascia di lamentarti, asciuga i
tuoi occhi dal pianto, perché vi è un compenso alle tue pene » (Ger
31,16). E la voce del Signore gli dirà pure: « Ho fatto sparire le tue
colpe come nubi, e come nebbia i tuoi peccati » (Is 44,22). Oppure: «
Sono io che cancello le tue colpe e non ricordo più i tuoi peccati » (Is
43,25). Sciolta « dai lacci del peccato, nei quali ciascuno si trova
legato » (Pr 5,22), l’anima canterà allora al Signore questo canto di
ringraziamento: « Tu sciogliesti i miei ceppi. T’immolerò vittime di
grazie » (Sal 115,16-17).
VIII.
-
Le varie forme della penitenza
Oltre alla grazia comune del battesimo, oltre al dono preziosissimo del
martirio, che consiste nel versare il proprio sangue, ci sono ancora
molti frutti di penitenza, maturando i quali si giunge alla espiazione
delle colpe. La salvezza eterna non è promessa soltanto alla penitenza
propriamente detta; voglio dire a quella penitenza di cui parla
l’apostolo Pietro quando dice: « Fate penitenza e convertitevi, affinché
i vostri peccati siano cancellati » (At 3,19). Neppure alla sola
penitenza che predicarono il Battista e il Signore, quando dissero: «
Fate penitenza perché il regno dei cieli è vicino » (Mt 3,2). Anche la
carità è capace di togliere i più gravi peccati. Sta scritto: « La
carità copre un gran numero di peccati » (1 Pt 4,8). Anche l’elemosina è
una medicina alle nostre ferite spirituali, perché « Come l’acqua spegne
il fuoco, così l’elemosina spegne la colpa » (1 Pt 3,33). Anche le
lacrime hanno la virtù di togliere la lordura del peccato. Sta scritto
infatti: « Vo’ bagnando ogni notte il mio giaciglio, irrigo di lacrime
il mio letto » (Sal 6,7). E subito dopo, per dimostrare che quel pianto
non è inutile, il salmista soggiunge: « Via da me, voi tutti, o
malfattori, perché il Signore udì il grido del mio pianto » (Sal 6,9).
Né bisogna dimenticare che anche la confessione dei peccati è un mezzo
per cancellarli. Dice il Libro Sacro: « Confesso e non nego il mio
peccato. Mi confesso in colpa. E tu gli empi miei falli perdonasti »
(Sal 31,5). Oppure: « Racconta le tue iniquità per esserne perdonato »
(Is 43,26: LXX). Il perdono dei peccati si ottiene altresì per mezzo
dell’afflizione fisica e spirituale. Sta scritto a tal proposito: «
Osserva, Signore, la mia bassezza e il mio affanno, e perdona tutti i
miei peccati » (Sal 24,18). Soprattutto si ottiene il perdono di Dio
correggendo la propria condotta. Dice il Signore: « Togliete dal mio
sguardo la malizia dei vostri pensieri. Cessate di fare il male,
imparate a fare il bene, cercate la giustizia, aiutate l’oppresso,
rendete giustizia all’orfano, proteggete la vedova; poi venite e
discutiamo insieme, dice il Signore. Se i vostri peccati sono come lo
scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; se sono rossi come la
porpora, diventeranno come candida lana » (Is 1, 16-18).
Talvolta anche l’intercessione dei santi ci ottiene il perdono dei
nostri peccati: « Se uno vede il suo fratello commettere un peccato che
non lo conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà vita. Questo vale per
coloro il cui peccato non conduce alla morte
» (Gv 5,16).
E altrove si legge: « Qualcuno di voi è infermo? Chiami gli Anziani
della Chiesa, e gli Anziani preghino per lui; ungendolo con olio nel
nome del Signore. La preghiera della fede salverà il malato e il Signore
lo solleverà, e se ha commesso dei peccati sarà perdonato » (Gc
5,14-15). In certi casi la macchia del vizio viene tolta per merito
della misericordia e della fede, secondo quella parola che dice: « Per
la misericordia e per la fede sono mondati i peccati » (Pr 15,27).
Spesso possiamo liberarci dalle nostre colpe convertendo e conducendo a
salvezza, per mezzo della nostra predicazione, altri peccatori. Dice il
Signore: « Colui che ricondurrà un peccatore dalla via del suo
traviamento, salverà quell’anima dalla morte e coprirà la moltitudine
dei propri peccati » (Gc 5,20).
Possiamo in ultimo meritare il perdono delle nostre colpe dimenticando e
perdonando le offese ricevute: « Se perdonerete agli uomini i loro
falli, il vostro Padre celeste perdonerà anche a voi » (Mt 6,14).
Vedete dunque quante porte ci ha aperto la bontà del Salvatore perché
possiamo giungere al suo perdono. E ha fatto così perché nessuno di
coloro che desiderano la salvezza si lasci vincere dallo scoraggiamento,
visto che tanti rimedi lo invitano alla vita.
Se per caso ti lamenti di non poter cancellare i tuoi peccati col
digiuno, perché sei di salute malferma; se non puoi dire: « Sono fiacchi
i miei ginocchi dal digiuno, e il mio corpo è scarno e dimagrito (Sal
108,24), perché di cenere io mi cibo come di pane e la mia bevanda
mescolo col pianto » (Sal 101,10), potrai sempre riscattare i tuoi
peccati con generose elemosine. Non hai nulla da dare ai poveri? Prima
di tutto osserva che la scarsezza di denaro e l’indigenza più autentica
non dispensano alcuno da quest’opera di misericordia: le due monetine
della vedova evangelica furono preferite alle offerte grandissime dei
ricchi; e per un bicchiere di acqua fresca il Signore promette di dare
generosa ricompensa. Ma sia pur vero che tu sei povero; potrai sempre
acquistare la perfezione della virtù con l’emendazione della tua vita.
Se ti pare impossibile acquistar la perfezione della virtù sradicando
tutti i tuoi vizi, puoi applicarti con pietosa sollecitudine a procurare
la salvezza degli altri. Ti lamenti di non essere tagliato a questo
ufficio? Potrai ricoprire i tuoi peccati con sentimenti di carità. C’è
in te una certa debolezza che ti rende mal disposto anche a questo
proposito? Con sentimenti di sincera umiltà puoi implorare la medicina
contro i tuoi mali dalla preghiera e dalla intercessione dei santi. In
ultimo, chi è che non possa dire in tono supplichevole: « Ho fatto
conoscere il mio peccato, non ho nascosto la mia ingiustizia » (Sal
31,5)? Chi farà questa confessione potrà anche aggiungere: « E tu,
Signore, hai perdonato l’empietà del mio cuore » (Sal 31,5). Se la
vergogna ti impedisce di manifestare i tuoi peccati dinanzi agli uomini,
puoi però confessarli incessantemente e supplichevolmente a colui che ti
vede, e del quale ti è impossibile fuggire lo sguardo. A lui puoi dire:
« Le mie colpe io riconosco, e il mio peccato sempre mi sta dinanzi.
Contro di te soprattutto io ho peccato e ho commesso il male nel tuo
cospetto » (Sal 50,5-6). Chi ascolta una tale confessione ci risparmia
la vergogna di svelare ad altri i nostri peccati e ci perdona senza
maltrattarci.
Ma dopo questo mezzo di salvezza, così facile e così sicuro, la divina
bontà ne ha preparato un altro ancor più facile. La scelta e l’efficacia
di quest’altro rimedio è lasciata unicamente alla nostra libera volontà,
cosicché la misura del perdono che ci viene accordato dipende dai nostri
sentimenti di bontà verso il prossimo. Il Signore infatti ci ha
insegnato a dire così: « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6,12).
Chiunque desidera ottenere il perdono delle sue colpe, ne ha i mezzi:
basta che si studi di usarli. Nessuno renda vano, per l’ostinazione del
suo cuore indurito, un rimedio così salutare; nessuno si allontani da
una fonte così abbondante di perdono. Già, perché non bisogna
dimenticare che se non è la bontà e misericordia del Signore a perdonare
i nostri peccati, tutte le opere che abbiamo enumerate fino ad ora non
valgono a nulla. Dio, quando scorge in noi qualche segno di buona
volontà, qualche ossequio che gli viene offerto con animo supplichevole,
ricompensa questi nostri sforzi, piccoli e poveri, con una generosità
senza limiti. « Sono io — egli dice — che cancello i tuoi peccati e non
ricordo più le tue colpe » (Is 43,25). Ecco detto quale disposizione
preliminare bisogna avere per ottenere il perdono delle colpe.
In seguito, i digiuni ininterrotti, le mortificazioni dello spirito e
della carne, ci otterranno la soddisfazione. Sta scritto infatti: «
Senza spargimento di sangue non c’è remissione » (Eb 9,22). E questo è
giusto, perché sta scritto ancora che « la carne e il sangue non possono
possedere il regno di Dio » (1 Cor 15,50). Perciò, chiunque trattiene la
spada dello spirito, che è la parola di Dio (Ef 6,17), e impedisce
questa effusione di sangue, sarà colpito certamente dalla maledizione
del profeta Geremia: « Maledetto chi rifiuta d’ immergere la sua spada
nel sangue » (Ger 48,1).
Questa è la spada che, con salutari ferite, fa sgorgare il sangue
corrotto da cui nascono i peccati. Tutte le vegetazioni carnali o
terrestri che trova nell’anima nostra le colpisce e le taglia. Ci fa
così morire al vizio, per farci vivere a Dio, nel rigoglio delle virtù
spirituali. Fatta che sia questa operazione, non è più il ricordo dei
peccati commessi a far piangere il monaco, ma è invece la speranza della
gioia futura. Allora l'anima, più intenta alla gioia futura che al male
passato, non versa lacrime per il dolore d’aver peccato, ma per la
contentezza dell’eterna gloria. Dimenticando « ciò che le sta dietro
» (Fil 3,13)
— cioè i vizi carnali — tutta si protende a « ciò che le sta dinanzi »,
cioè ai doni e alle virtù spirituali.
IX -
Ai perfetti è utile la dimenticanza dei loro peccati
Quel che tu hai detto poco fa, caro Germano, cioè di richiamarti a bella
posta il ricordo dei peccati passati, è una cosa che non va
assolutamente. Anzi, se quel ricordo viene senza averlo cercato, bisogna
subito cacciarlo via.
Per tutti, ma specialmente per coloro che vivono nella solitudine, certi
ricordi sono pericolosi: allontanano l’anima dalla contemplazione della
purezza e la ravvolgono fra le brutture del mondo, cosicché viene quasi
asfissiata dal fetore del vizio.
Se tu ripensi le colpe commesse per ignoranza o per intemperanza, quando
seguivi il principe di questo mondo, voglio ammettere che in questi
pensieri tu non provi alcuna compiacenza peccaminosa. Ma se si tratta di
lussuria, è certo che anche il semplice ricordo dell’antico marciume
corrompe l’anima col suo insopportabile fetore e ne allontana il profumo
spirituale delle virtù, cioè la soavità del buon odore.
Perciò, quando il ricordo dei peccati passati tenta di entrare nella
nostra mente, bisogna fuggirlo come un uomo serio e virtuoso fuggirebbe
una donna di mala vita che lo affrontasse sulla pubblica piazza, per
invitarlo a parole sconce e atti impudichi. Quest’uomo, se subito non si
sottrae a quella vergognosa vicinanza, ma si ferma a rispondere anche
per pochi momenti, non potrà fare a meno di perdere la sua buona fama e
di meritare la condanna dei passanti, anche se non avrà acconsentito
alle proposte che gli erano fatte. Anche noi quando un ricordo impuro ci
vuol condurre a pensieri indegni, dobbiamo allontanarlo al più presto.
Così metteremo in pratica il comando di Salomone che dice: « Esci
subito, non ti fermare nella casa di una cortigiana, non posare gli
occhi su di lei » (Pr 9,18: LXX):, altrimenti gli angeli che ci vedono
occupati in pensieri impuri e vergognosi, non potranno dire — volando su
noi — « La benedizione di Dio vi raggiunga » (Sal 128,8). È impossibile
che l’anima s’intrattenga in buoni pensieri, se gli affetti principali
del cuore son rivolti ad oggetti turpi e terreni. È vera la sentenza di
Salomone che dice: « Se i tuoi occhi vedranno una donna straniera, la
tua bocca dirà cose insensate, e tu sarai come un uomo coricato nel
fondo del mare, come un pilota in mezzo ad una grande tempesta. Dirai
allora: ”Mi hanno ferito e non ho sentito male, mi hanno canzonato e non
me ne sono accorto” » (Pr 23,33-35).
Dopo aver disprezzato tutti i pensieri turpi e persino quelli
semplicemente terreni, l’acume della nostra mente dev’essere sempre
rivolto alle cose celesti, secondo la parola del Signore: « Là dove sono
io, sarà anche il mio ministro » (Gv 12,26). Avviene infatti spesso,
alle persone di poca esperienza, che mentre ripensano le proprie colpe o
quelle degli altri, (allo scopo lodevole di piangerle), avviene dico che
la freccia sottilissima del consenso peccaminoso li ferisca. Per tal
modo, ciò che era incominciato col pretesto della pietà, finisce nella
oscenità e nella colpa: « All’uomo talora sembra retta la via che poi —
lo creda o non — conduce alla morte » (Pr 16,25).
X.
-
II ricordo dei peccati più orribili è da evitare
Da quanto detto consegue che dobbiamo eccitarci alla santa compunzione
piuttosto con la brama della virtù, col desiderio del regno dei cieli,
che col ricordo dannoso dei vizi. Se uno pretende di stare sopra una
fogna e frugarne le immondezze, sarà necessariamente corrotto da quelle
esalazioni pestilenziali. |
CAPUT X. De satisfactionis indicio, et oblivione praeteritorum criminum.
Verum ista praedictae oblivionis definitio super capitalibus tantum sit criminibus constituta, quae Mosaica quoque damnantur, quorum sicut per conversationem bonam abjiciuntur vel consumuntur affectus, ita etiam accipit poenitentia finem. Caeterum ab istis minutis in quibus septies justus cadit, ut scriptum est (Prov. XXIV), et resurgit, numquam deerit poenitudo. Aut enim per ignorantiam, aut per oblivionem, aut per cogitationem, aut per sermonem, aut per obreptionem, aut per necessitatem, aut per fragilitatem carnis, singulis diebus vel inviti, vel volentes frequenter incurrimus, pro quibus et David orans Dominum, purificationem atque indulgentiam deprecatur, dicens: Delicta quis intelligit? ab occultis meis munda me, et ab alienis parce servo tuo (Ps. XVIII). Et Apostolus: Non enim quod volo facio bonum, sed quod odi malum, hoc ago (Rom. VII). De quibus idem etiam ejulans exclamavit: Infelix ego homo, quis me liberabit de corpore mortis hujus (Ibid.). Tanta enim in his facilitate tamquam naturali lege prolabimur, ut quantalibet circumspectione atque custodia caveantur, non possit ad plenum ista vitari; de istis siquidem unus discipulorum, quem diligebat Jesus, abrupta definitione pronuntiat, dicens: Si dixerimus quia peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, et verbum ejus non est in nobis (Joan. I). Proinde perfectionis culmen pertingere cupienti non satis proderit ad finem poenitentiae pervenisse, id est ab illicitis temperare, nisi etiam in illis virtutibus indefesso cursu semetipsum semper extenderit quibus ad satisfactionis indicia pervenitur. Nec enim a fetidissimis criminum sordibus, quae abhorret Dominus, quemquam abstinuisse sufficiet, nisi etiam illam bonam virtutum fragrantiam qua Dominus delectatur, puritate cordis et Apostolicae charitatis perfectione, possederit.
Hucusque abbas Pinufius de satisfactionis indicio ac poenitentiae fine disseruit. Qui licet ut in ejus coenobio residere mallemus sollicito deprecaretur affectu, tamen fama Scythioticae solitudinis invitatos, cum retinere non posset, emisit. |
XI.
-
Il segno della soddisfazione e dell’abolizione dei peccati passati
Ripeto ora quel che ho detto più volte. Noi saremo certi di aver
soddisfatto i nostri peccati quando i moti e gli affetti che a quei
peccati ci sospinsero saranno scomparsi dal nostro cuore. Ma nessuno
creda di poter ottenere questo effetto, se prima non avrà soppresso, con
tutto il fervore dell’anima, ciò che fu occasione o causa delle sue
colpe. Per esempio: se uno è caduto in peccato di fornicazione o di
adulterio per l’eccessiva familiarità con donne, fugga con la più grande
prontezza la stessa loro vista. Se invece si è lasciato trasportare a
intemperanze nel mangiare e nel bere, combatta con rigorosa astinenza le
attrattive della mensa. Potrà darsi che qualcuno sia caduto nel peccato
di spergiuro, di furto, di omicidio o di bestemmia, per il desiderio
smodato del denaro; costui dovrà allontanare da sé quegli oggetti che lo
hanno ingannato sollecitando la sua avarizia. Chi dalla superbia è stato
spinto al peccato d’ira, dovrà svellere la radice dell’orgoglio con la
pratica di una profonda umiltà. E così di seguito. Per poter vincere un
qualsiasi peccato bisogna prima trovare la causa o l’occasione che ce
l’ha fatto commettere. Con la cura qui indicata si arriva
infallibilmente alla dimenticanza delle colpe commesse.
XII.
-
In che senso la penitenza ha un fine e in che senso è senza fine
La dottrina sulla dimenticanza
delle colpe, da me fin qui esposta, riguarda soltanto i peccati mortali
dei quali parla anche Mosè nella Legge, per condannarli. Siccome la
nostra buona vita allontana questi peccati dall’anima e ne estirpa le
radici, è naturale che la penitenza e la deplorazione d’averli commessi
abbiano un termine. Ma per quanto riguarda le piccole colpe, nelle quali
secondo la Scrittura « il giusto cade sette volte e. si rialza » (Pr
24,16), dirò che la penitenza non deve cessare mai. In esse cadiamo più
volte al giorno, talvolta volontariamente, altra volta
involontariamente. Pecchiamo per ignoranza o per dimenticanza; in
pensieri, o in parole; per inavvertenza, o per necessità; per la
fragilità della carne, o per turbamento degli stessi sogni. Di questi
peccati chiedeva al Signore purificazione e perdono il profeta David,
quando pregava: « Ma dei peccati, chi se n’avvede? Da quelli che mi
sfuggono assolvimi, o Signore » (Sal 18,13-14).
E l’Apostolo dice: « Non faccio il bene che voglio, ma al contrario
faccio il male che non voglio » (Rm 7,19). Per questo lo stesso Apostolo
dice gemendo: « Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? »
(Rm 7,24). Noi cadiamo in queste colpe con tanta facilità che sembrano
quasi una necessità di natura. Qualunque sia il grado di circospezione e
d’attenzione che usiamo, non possiamo evitarli compietamente. Su tale
argomento uno degli Apostoli, precisamente il prediletto del Signore, ha
una parola molto forte: « Se diciamo di non aver alcun peccato,
inganniamo noi stessi, e la verità del Signore non abita in noi » (1 Gv
1,8 e 10).
Peraltro, chi desidera raggiungere il culmine della perfezione, non
basta che sia arrivato a far a meno della penitenza, cioè ad astenersi
da ciò che è proibito. Egli deve anche esercitarsi infaticabilmente e
continuamente in quelle virtù dalle quali si può arguire di essere
giunti alla piena soddisfazione delle proprie colpe. Non basta astenersi
dalle colpe vergognose che Dio aborre, bisogna anche acquistare la
purezza del cuore e la perfezione della carità di cui parla l’Apostolo.
Bisogna possedere quel buon odore della virtù di cui si compiace il
Signore.
★
Qui finì la conferenza dell’abate Pinufio sui segni della soddisfazione
e sul termine della penitenza. Il buon abate insiste lungamente e
affettuosamente per indurci a rimanere nel suo monastero, ma noi eravamo
attratti dalla fama di un altro luogo: il deserto di Scito. Visto che
non poteva trattenerci, Pinufio ci lasciò partire. |
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24 settembre 2017 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net