LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
22.a CONFERENZA
SECONDA
CONFERENZA DELL'ABATE TEONA
SULLE ILLUSIONI NOTTURNE
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. Nostro ritorno presso Teona e sua esortazione.
II. È riproposta la nostra domanda: perché ad una più rigida astinenza segue
talvolta una più violenta ribellione della carne?
III. Questi attacchi possono derivare da tre cause.
IV. Domanda: se sia lecito accostarsi alla santa comunione, quando nella notte
si sono subite sensazioni carnali.
V. Risposta: quando, anche dormendo, si possa peccare.
VI. Questi turbamenti notturni possono derivare anche da opera diabolica.
VII. Nessuno può mai giudicarsi degno della santa comunione.
VIII. Obiezione: se nessuno è senza peccato, tutti debbono essere allontanati
dalla comunione.
IX. Risposta: sebbene ci siano molti santi, nessuno, all’infuori di Cristo, è
senza peccato.
X. Solo il Figlio di Dio ha vinto il tentatore senza essere minimamente ferito
dal peccato.
XI. Solo Cristo è venuto nella somiglianza di una carne infetta dal peccato.
XII. I santi e i giusti non hanno la somiglianza del peccato, ne hanno la
realtà.
XIII. I peccati dei santi non sono gravi da toglier loro la corona della
santità.
XIV. Come va intesa la parola dell’Apostolo: «Io non faccio il bene che vedo»?
XV. Obiezione: non è meglio pensare che l’Apostolo abbia parlato a nome del
peccatore?
XVI. La questione è rimandata a più tardi.
I. -
Il nostro ritorno presso Teona e sua esortazione
Circa una settimana dopo, quando ormai erano trascorsi i giorni della
Pentecoste, al calar delle prime ombre, cioè dopo la sinassi vespertina,
raggiungemmo la cella del venerabile Teona. Avevamo il fiato sospeso
nell’aspettativa della Conferenza che c’era stata promessa.
Il vecchio era pronto e ci ricevette con maniere affabili. Mi meraviglio, disse,
che l’ardore del vostro zelo vi abbia permesso di rimandare alla settimana
seguente la soluzione di quel problema che mi avevate proposto. Avete concesso
al vostro debitore una discreta dilazione, e senza che egli ve l’avesse
domandata. È dunque conveniente che io non indugi a pagare il mio debito, visto
che la vostra benevolenza mi ha concesso una dilazione così lunga. Devo
confessare che pagare questo debito è per me cosa gradita, perché le ricchezze
che si donano in tal modo, crescono nelle mani del donatore. Queste ricchezze
aumentano il patrimonio di colui che le riceve senza diminuire quello di chi le
dispensa. Infatti il dispensatore della dottrina spirituale fa due guadagni: al
vantaggio di chi ascolta, si unisce quello di chi parla. Chi istruisce gli
altri, accende se stesso del desiderio della perfezione. Così il vostro fervore
è per me causa di progresso spirituale, la vostra sollecitudine mi ispira
compunzione. Io stesso sarei ora spiritualmente tiepido, me ne rimarrei lontano
dagli argomenti che ci stanno interessando, se il vostro fuoco e la vostra
attesa non mi svegliassero dal torpore, per ricondurmi al ricordo delle cose
spirituali.
Ecco dunque il momento di riproporre quel tema che, per brevità di tempo,
preferimmo già rimandare a migliore occasione.
II.
- È
riproposta la nostra domanda: perché ad una più
rigida astinenza segue talvolta una più violenta
ribellione della carne?
Se non m’inganno, la vostra domanda riguardava questo punto: perché talvolta
avviene che gli assalti della carne sono più blandi durante un periodo di poca
penitenza, mentre al contrario si fanno più insistenti e potenti quando il corpo
è afflitto ed esausto da una penitenza più severa. Anzi avviene proprio allora —
come voi avete confessato — di svegliarsi contaminati dal flusso degli umori
naturali.
III.
-
Questi attacchi possono derivare da tre cause
I nostri Padri hanno ridotto a tre le cause di questi fenomeni, tutte cause
consistenti in eccessi che offendono le misure stabilite. O si tratta di una
sovrabbondanza di cibo, che appesantisce; o di mancata custodia dell’anima; o di
insidiose illusioni del nemico.
Innanzi tutto è il vizio della gola, cioè la voracità o la ghiottoneria, che
produce in noi l’abbondanza degli umori impuri. Quando avviene che la purezza si
trovi così offesa in un periodo di stretta penitenza, non se ne deve dar la
colpa alle astinenze del momento presente, ma alla sazietà del tempo passato.
L’umore che si è accumulato in noi con la voracità e la golosità, bisogna che in
un modo o nell’altro sia espulso, anche se il corpo è castigato da un rigoroso
digiuno. Per questo, non basta evitare i cibi delicati, bisogna star lontani con
uguale astinenza anche dai cibi più vili. Neppure il pane e l’acqua son da
prendersi fino alla sazietà, se vogliamo che la purezza del corpo
precedentemente acquistata, perduri in noi e imiti in qualche modo la purezza
inviolata dello spirito. Detto questo, bisogna anche riconoscere che molti
riescono ad evitare, in parte o del tutto, i fenomeni contrari alla purezza fin
qui descritti, senza alcuna volontaria attenzione. A loro basta l’equilibrio
naturale, o la maturità degli anni. Ma il merito è diverso per colui che ottiene
la pace senza il minimo combattimento e per colui che ottiene il trionfo a
prezzo di una lotta gloriosa. Nel secondo è degna della massima ammirazione
quella forza che riporta vittoria di tutti i vizi; colui invece che da una virtù
spontanea è conservato in uno stato d’ignavia, mi sembra più degno di
commiserazione che di lode.
Passiamo ora alla seconda causa di questo flusso impuro. Se l’anima è
completamente priva di occupazioni spirituali, o sante esercitazioni; se non
vive secondo la disciplina dell’uomo interiore, abbandonata alla tiepidezza, va
a precipitare nel fondo della pigrizia. Allora non si guarda più dagli assalti
dei cattivi pensieri e desidera così debolmente la purezza sublime del cuore, da
far consistere il culmine della perfezione e della castità nella sola penitenza
esteriore. Da questo errore, da questa colpa di trascuratezza, deriverà
naturalmente che vere nuvole di pensieri inverecondi penetrino audacemente
nell’intimo di quell’anima; anzi ritorneranno in essa tutti i semi degli antichi
peccati. E finché tutti quei semi staranno nascosti nei penetrali dell’anima, i
digiuni più rigorosi applicati al corpo, non potranno impedire che fantasie
impure vengano ad inquietare il sonno. Saranno quei sogni a provocare il flusso
degli umori impuri, prima del tempo voluto dalla natura. L’effetto si
verificherà non per una necessità naturale, ma per una specie di frode
maliziosa. Eppure questi fenomeni, potrebbero essere — se non eliminati — almeno
ridotti a qualcosa di materiale soltanto, indebolendo la carne, sorvegliando lo
spirito, praticando la virtù, con l’aiuto della grazia divina.
Ecco perché è necessario reprimere innanzi tutto le divagazioni della fantasia:
così s’impedisce che l’anima, abituata ai suoi eccessi, sia condotta nel sogno
ad immagini ripugnanti di lussuria.
Siamo ora alla terza causa del triste fenomeno.
Con la disciplina regolare ed attenta dell’astinenza, con la contrizione del
cuore e del corpo, noi abbiamo sperato di acquistare la purezza di una castità
perpetua. Ma ecco che, mentre ci prendiamo tanta cura per il bene vero del corpo
e dello spirito, la gelosia del nostro nemico astutissimo ricorre ad uno
stratagemma: pensa di farci perdere la fiducia e di umiliarci con qualcosa che
ci appaia come una colpa. Sceglie così i giorni in cui maggiormente desideriamo
piacere alla divina presenza con una purezza più delicata; in quei giorni eccita
in noi il flusso degli umori impuri, senza alcun movimento della carne, senza
consenso di sorta, senza fantasmi osceni. Produce questo fenomeno materiale al
solo scopo di allontanarci dalla comunione.
Ma coi principianti, cioè con coloro nei quali la lunga consuetudine del digiuno
non ha ancora completamente domato il corpo, le illusioni diaboliche sembrano
avere un altro scopo. Quando li vede applicati ai digiuni più intensi, il
maligno cerca di renderli sfiduciati, applicando questo piano d’assalto. Fa loro
credere di non aver acquistato nulla che giovi alla purezza del corpo,
applicandosi a digiuni tanto rigorosi. Anzi, nel digiuno gli assalti della carne
sono diventati più furiosi. Il demonio pensa che così quei monaci impareranno a
odiare l’astinenza e vedranno un nemico nella virtù che è maestra di castità,
educatrice della purezza.
Di qui dobbiamo capire che la necessità di liberarci dai singoli vizi, non nasce
dal fatto che ogni vizio può occupare l’anima nostra coi suoi turbamenti. No:
questo non è tutto. Il peggio è che un vizio qualsivoglia non si accontenta di
esercitare su noi il suo dominio indipendentemente dagli altri; introduce con sé
una legione più crudele di lui, devasta l’anima in cui penetra e l’abbandona in
balia di molti tiranni (Rm 7, 19).
Se è necessario vincere la gola, non si pensi che ciò sia da farsi solo perché
la gola non ci corrompa con la pesantezza dei cibi; neppure soltanto per
impedire che il cibo accenda in noi il fuoco della concupiscenza carnale. No.
Bisogna frenare la gola perché non ci assoggetti all’ira, al furore, alla
tristezza e agli altri vizi. Infatti, quando cibo e bevanda ci vengono portati
in quantità minore del solito, o con ritardo, o con malgarbo, se siamo schiavi
della golosità, è inevitabile che ci sentiamo sollecitati anche dagli impeti
dell’ira.
Né d’altra parte è possibile dilettarsi dei sapori squisiti senza incorrere
anche nel vizio dell’amore per il denaro. È infatti con il denaro che la gola
riesce a prepararsi tutte le sue soddisfazioni. Ma l’amore al denaro, la
vanagloria, la superbia (e la schiera di tutti gli altri vizi) formano una
società indissolubile. Quando un vizio comincia a radicarsi in noi, non resta
solo: ne educherà inevitabilmente anche altri.
IV.
-
Domanda: se sia lecito accostarsi dia santa comunicane, quando nella notte si
son subite sensazioni carnali
Germano.
È stata la Provvidenza a farci porre il problema di cui stiamo trattando. Finora
non eravamo mai stati istruiti su questo argomento, perché la modestia ci aveva
tolto il coraggio d’interrogare. Ma ora la conferenza in cui ci intratteniamo e
l’ordine stesso della nostra materia ci invitano a trattare a fondo il tema
delicato. Ecco dunque la nostra domanda: se nel tempo in cui stiamo per
accostarci alla santa comunione ci capita una di queste illusioni notturne,
potremo accostarci al Pane sacrosanto della salvezza, oppure dovremo starne
lontani?
V.
-
Risposta: quando, anche dormendo, si possa peccare
Teona.
È certo che dobbiamo custodire con tutta l’attenzione possibile la purezza
immacolata della nostra castità, soprattutto quando desideriamo accostarci alla
mensa eucaristica.
Dobbiamo evitare con la massima circospezione che l’integrità della nostra
carne, conservata per l’addietro, ci sia rapita proprio nella notte in cui ci
prepariamo ad accostarci al banchetto della salvezza.
Ma se il nostro astutissimo nemico, per toglierci la medicina del pane celeste,
inganna nel sonno la nostra anima incustodita, noi possiamo e dobbiamo
accostarci ugualmente alla grazia del cibo celeste. Basterà che non ci sia stato
da parte nostra né commozione carnale, né consenso al piacere cattivo; tutto
dovrà ridursi ad un fenomeno naturale che si è verificato per necessità, o anche
per suggestione diabolica, ma senza alcun sentimento di piacere.
Se invece l’illusione notturna è dipesa da nostra colpa, dobbiamo mettere sotto
accusa la nostra coscienza e ripetere a noi stessi le parole severe
dell’Apostolo: «Chiunque mangia questo Pane, o beve il Calice del Signore
indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Ognuno dunque esamini
prima se stesso, e così mangi di quel pane e beva del calice; perché chi mangia
e beve, senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria
condanna» (1 Cor 2, 27-28). E intende dire: chi si comunica senza la necessaria
purezza, non distingue questo cibo celeste dagli alimenti comuni e vili, e non
sa distinguerlo perché questo cibo dev’essere ricevuto con piena purezza
dell’anima e del corpo. L’Apostolo soggiunge: «È per questo che vi sono tra voi
molti ammalati e privi di forze, e tanti son morti» (1 Cor 2, 30). Vuol far così
intendere che la malattia e la morte dello spirito nascono principalmente dalla
comunione mal fatta
[Nota: Gli esegeti non riconoscono per buona la spiegazione di Cassiano].
Molti che ardiscono comunicarsi male son deboli nella fede e nella vita
spirituale, cioè sono avvolti nei languori del vizio e dormono il sonno del
peccato, senza che qualche scossa salutare venga a svegliarli dal loro sonno
funesto.
A questo punto l’Apostolo continua: «Se invece ci esaminassimo da noi, non
saremmo giudicati» (1 Cor 11, 31). E ciò significa: Se ci giudichiamo indegni di
ricevere i sacri misteri tutte le volte che la ferita del peccato ci ha colpiti,
ci studieremo anche di liberarci, con la salutare penitenza, dalla colpa
commessa, per poi accostarci degnamente alla sacra mensa. Ma se non facciamo
così il Signore deve punire la nostra indegnità con durissime malattie, affinché
così colpiti, andiamo in cerca del rimedio per le nostre ferite. Se Dio non ci
trattasse così, sarebbe segno che ci ha giudicati indegni della breve pena da
scontare in questo mondo e ci terrebbe preparati i castighi eterni, stabiliti
per i peccatori.
Anche il
Levitico
ci rivolge un comando simile a quello dell’Apostolo: «Solo chi è puro può
mangiare la carne della vittima. La persona che avrà mangiato la carne del
sacrificio pacifico, offerto a Dio, con qualche immondezza addosso, perirà
davanti al Signore» (Lv 7, 19-20). Nel
Deuteronomio,
poi, l’uomo impuro è misticamente segregato dagli accampamenti spirituali:
«Quando uscirai in campo contro i tuoi nemici, guardati da ogni azione cattiva.
Se in mezzo a te vi è qualcuno divenuto impuro per qualche caso notturno, esca
dal campo e non vi rientri» (Dt 23, 10-11).
VI.
-
Questi turbamenti notturni possono derivare anche da opera diabolica
Ora porterò un esempio per provare più chiaramente che certi fenomeni impuri
provengono da artificio diabolico.
Ho conosciuto un monaco che possedeva una castità a tutta prova, sia di spirito
che di corpo: se l’era guadagnata con l’umiltà e con l’attenta custodia dei
sensi. Egli non era mai assalito dalle illusioni notturne, però tutte le volte
che si preparava a far la comunione, era assalito nel sonno da un flusso di
umori impuri. Tremebondo, si astenne per lungo tempo dalla sacra mensa; alla
fine portò il suo problema agli Anziani, con la speranza di trovare nel loro
prudente consiglio il rimedio a questi assalti e ai suoi dolori.
Udito il fatto, la scienza di quei medici spirituali cercò innanzi tutto la
prima causa di un tal male, che è — come abbiamo detto — l’abbondanza del cibo.
Ma di questa causa non si trovò in quel monaco il più piccolo segno. La sua
austerità era nota a tutti; il fatto poi che fosse tormentato da quel fenomeno,
proprio in occasione delle grandi solennità, dissuadeva dall’insistere su una
tale spiegazione. Passarono quindi prontamente a considerare la seconda causa
del male, e cominciarono a domandarsi se non potesse dipendere da colpa
dell’anima che quella carne estenuata dai digiuni fosse assalita da illusioni
impure. Avviene infatti che anche uomini di somma austerità, per essersi
insuperbiti della purezza del loro corpo, cadano in questa umiliazione. Dio li
punisce così, per aver essi creduto di raggiungere con le sole loro forze quella
castità che è unicamente un dono di Dio.
Gli anziani dunque domandarono a quel monaco se si stimasse capace di praticare
la castità per le sole sue forze, senza bisogno dell’aiuto divino. Ma quello
rispose di rigettare nella maniera più assoluta questo pensiero blasfemo, e
disse umilmente che neppure nei giorni in cui si conservò puro avrebbe potuto
far ciò se non fosse stato sostenuto dalla grazia del Signore.
Allora gli Anziani ricorsero alla terza causa e stabilirono trattarsi di un
inganno diabolico. Sicuri ormai che non c’era colpa, né del corpo né dello
spirito, decisero coraggiosamente che il monaco si accostasse al banchetto
eucaristico. Temevano infatti che, rimanendo ancora lontano dalla comunione, il
monaco si impigliasse più che mai nelle reti pericolose del nemico astuto;
temevano, insomma, che non potesse partecipare al Corpo, e alla santità di
Cristo, che fosse fraudolentemente escluso dal mezzo più efficace di salvezza.
Così avvenne, e tutta la trama dell’inganno diabolico fu svelata. La potenza del
Corpo di Cristo fece cessare per incanto quella illusione divenuta ormai
abituale.
Così apparve evidente l’inganno del nemico e fu confermata e chiarita la
sentenza degli Anziani, secondo la quale una simile impurità non deriva né da un
vizio della carne, né da un vizio dell’anima, ma da una accorta illusione
diabolica.
Chi vuol ignorare per sempre o almeno per qualche lungo periodo — secondo il
nostro umile e comune stato — quei fallaci fantasmi notturni che provocano nel
corpo effetti impuri, prima di tutto abbia fede, perché in questa virtù, per una
grazia speciale di Dio sta il fondamento del dono della castità. Poi si guardi
da ogni eccesso nel mangiare e nel bere. Gli eccessi della mensa, infatti,
producono necessariamente e naturalmente certi umori che poi debbono in qualche
modo essere espulsi, e possono in tal caso provocare qualche sensazione impura o
fantasma osceno. Se fuggiremo ogni sazietà ne avremo come effetto che questi
fenomeni impuri saranno più rari. Così avverrà che le illusioni inquieteranno
meno i nostri sonni e si presenteranno in modi meno rudi. Non è l’evacuazione di
quegli umori che nasce dai fantasmi notturni, son piuttosto quei fantasmi che
nascono dall’eccesso degli umori.
Pertanto, se vogliamo liberarci da ogni illusione impura, dobbiamo procurare con
ogni possibile sforzo, prima di tutto di vincere la passione carnale, affinché,
secondo quanto dice l’Apostolo, «Il peccato non regni nel nostro corpo mortale,
in modo da tenerci soggetti alle sue concupiscenze» (Rm 6, 12). In secondo luogo
è necessario calmare e sopire i moti sregolati della carne, cosicché non
«abbandoniamo le nostre membra al peccato» (Rm 6, 13). In terzo luogo dobbiamo
mortificare fino nei più intimi recessi il nostro uomo interiore da ogni istinto
di concupiscenza, di modo che «da morti che eravamo, possiamo offrirci a Dio
come viventi» (Rm 6, 13).
Questi continui progressi ci faranno raggiungere la perpetua calma della carne e
ci metteranno in grado di offrire «le nostre membra a Dio, come strumenti di
giustizia» (Rm 6, 13) e non d’impudicizia.
Quando saremo così fondati nella virtù della castità, «Il peccato non eserciterà
più il suo dominio su di noi» (Rm 6, 14). Non saremo più «sotto la Legge», la
quale prescrive l’uso lecito del matrimonio, ma senza estinguere nelle nostre
membra quel fuoco che si manifesta nelle opere impure; saremo invece sotto la
grazia, la quale insinua l’amore per la verginità incorruttibile, toglie dal
corpo i moti carnali più semplici e innocenti, il desiderio stesso del
matrimonio.
Dopo aver così inaridite tutte le fonti degli umori impuri, noi diventeremo quei
nobili e ammirevoli eunuchi dei quali parla il profeta Isaia, e meriteremo di
possedere la gloria che a loro è promessa: «Agli eunuchi che osservano il mio
sabato, praticano quello che mi è gradito, mantengono la mia alleanza, io darò
nella mia casa, nelle mie mura, un posto ed un nome migliore dei figli e figlie,
darò loro un nome eterno che non perirà mai più» (Is 56, 4-5).
Ora domandiamoci: chi sono questi «figli» e queste «figlie» a cui gli eunuchi
son preferiti fino al punto di ricevere un luogo e un nome migliore? Sono quei
santi dell’Antico Testamento che vissero nel matrimonio e giunsero ad acquistare
l’adozione di figli di Dio per mezzo dell’osservanza dei comandamenti. E che
cosa è poi quel nome che vien promesso come la più alta ricompensa? È il nome di
Cristo che noi dobbiamo portare come nostro. A proposito di questo nome il
medesimo profeta dice: «Ai miei servi si darà un altro nome, nel quale colui che
deve esser benedetto sulla terra sarà benedetto dal Dio di verità, e colui che
giurerà sulla terra, giurerà per il Dio di verità» (Is 65 15-16). Lo stesso
profeta dice ancora: «Sarà chiamato con un nome nuovo che la bocca di Dio
pronuncerà» (Is 62, 2).
Va poi aggiunto che coloro i quali godranno di questa purezza del cuore e del
corpo, avranno l’altissima e singolare gioia di cantare l’inno che nessun altro
santo può cantare, l’inno riservato a coloro che seguono l’Agnello divino
dovunque egli vada, perché: «Essi son vergini e non si sono macchiati con donne»
(Ap 14, 4).
Se vogliamo giungere alla gloria delle schiere verginali, procuriamoci con tutte
le nostre forze la purezza dell’anima e del corpo, altrimenti andremo a finire
nella schiera di quelle vergini stolte alle quali la verginità non giovò niente.
Costoro si erano accontentate di tenersi lontane da ogni contatto carnale, e per
questo meritarono d’essere insignite del nome di vergini, ma furono dette
vergini stolte perché nei loro vasi mancava l’olio: vale a dire la purezza
interiore. Per questo si spense la luce della loro purezza esteriore.
Bisogna infatti che sia la purezza interiore a dilatarsi e irradiarsi attraverso
la purezza dell’uomo esteriore; dev’essere la castità interiore che alimenta
quella esteriore e la incoraggia a perseverare nella integrità perpetua. Ecco la
ragione per cui le stolte, pur essendo vergini, non poterono entrare con le
prudenti nella camera dello sposo; le prudenti, sì, perché avevano conservato
intatto il loro spirito, avevan conservato senza macchia anima e corpo per il
giorno del Signore Nostro Gesù Cristo.
Ecco quali sono le vere vergini di Cristo, immuni da ogni corruzione; ecco quali
sono i veri eunuchi, ammirabili e nobili, di cui parla il profeta Isaia: non
coloro che temono la fornicazione e la compiacenza che ne deriva, non coloro che
dominano l’impudicizia, ma coloro che hanno superato nella loro anima il più
piccolo fremito e il più piccolo moto della passione; coloro che hanno talmente
indebolito la potenza della carne, da non provare più — dai suoi movimenti — un
piacere o turbamento anche leggero.
VII. -
Nessuno può mai giudicarsi degno della santa comunione
Noi dobbiamo custodire il nostro cuore con una munitissima trincea di umiltà.
Ecco una massima che deve starci continuamente scolpita nel cuore; non è merito
nostro il raggiungimento della perfetta castità. Perciò, anche se per grazia del
Signore, noi avessimo fatto tutto ciò che fin qui abbiamo detto, ci dovremmo
ugualmente stimare indegni di comunicarci col Corpo del Signore.
I motivi per pensare così sono molti. Innanzi tutto perché questa manna celeste
possiede una tale maestà che nessuno, circondato da questa carne di fango, può
pensare di riceverla in virtù dei suoi meriti e non per dono gratuito del
Signore. In secondo luogo, nessuno, nel combattimento di questo mondo, può esser
tanto guardingo da evitare che le frecce del peccato lo raggiungano con ferite
anche rare e leggere. È impossibile non cadere in qualche peccato, o per
ignoranza, o per negligenza, o per inavvertenza o per pensiero, o per passione,
o per immaginazione notturna. Ma facciamo l’ipotesi di uno che abbia raggiunto
le più alte cime della virtù, così da poter dire sinceramente con l’Apostolo: «A
me non importa affatto di esser giudicato da voi, o da un tribunale umano; anzi
non giudico neppure me stesso, perché io non mi sento colpevole di nulla (1 Cor
4,3-4). Ebbene, quest’uomo deve sapere che non è senza peccato. Non per nulla lo
stesso Apostolo soggiunge: «Tuttavia da questo non si deduce che io sia
riconosciuto giusto» (1 Cor 4,3-4). E questo significa: per il fatto che io mi
credo giusto, non posseggo immediatamente la gloria della vera giustizia;
oppure: dal fatto che i rimorsi della coscienza non mi rimproverano alcuna
colpa, non segue che io sia libero da ogni macchia. Ci sono molte cose che
sfuggono alla mia coscienza, ma sebbene nascoste e sconosciute a me, esse sono
ben note a Dio. E l’Apostolo continua: «Chi mi giudica è il Signore» (1 Cor 4,
4). Vale a dire: soltanto Colui che penetra nel segreto dei cuori può
pronunciare su di me un vero giudizio.
VIII.
-
Obiezione: se nessuno è senza peccato, tutti debbono essere allontanati dalla
comunione
Germano.
Prima tu hai detto che nessuno deve partecipare al celeste banchetto se non è
santo, ora tu dici che è impossibile per l’uomo essere completamente esente da
colpa, cioè santo. E allora? Se nessuno è senza colpa, nessuno è santo; se
nessuno è santo, nessuno può partecipare alla comunione eucaristica. Di
conseguenza, nessuno può sperare di raggiungere il regno dei cieli che il
Signore promette soltanto ai santi.
IX.
–
Risposta: sebbene ci siano molti santi, nessuno,
all’infuori di Cristo, è senza peccato
Teona.
Io non posso negare che esistano molti santi e molti giusti, ma tra santo e
immacolato c’è una bella differenza. Altro è essere santo, cioè consacrato al
culto divino, altro è esser senza peccato. Santo — secondo la testimonianza
della sacra Scrittura — è nome comune, conviene agli uomini, ai luoghi, ai vasi,
agli utensili del tempio. Esser senza peccato appartiene singolarmente alla
maestà di nostro Signore Gesù Cristo, del quale l’Apostolo proclama l’attributo
altissimo e singolare: «Egli non ha commesso peccato» (1 Pt 2, 22). Se fosse
possibile anche a noi vivere completamente immuni dal peccato, la lode tributata
al Signore, come attributo incomparabile e divino, sarebbe stata ben poca cosa.
Ma non è così. S. Paolo dice nella lettera agli Ebrei: «Noi non abbiamo un
Pontefice che non sia in grado d’aver compassione delle nostre infermità, ma al
contrario, egli è stato messo alla prova in tutto come noi, tranne il peccato»
(Eb 4, 15). Se fosse vero che la nostra bassezza terrestre sta alla pari con
l’altezza del Pontefice celeste, se fosse vero cioè che anche noi siamo tentati
senza cadere in peccato, potrebbe l’Apostolo celebrare l’impeccabilità di Cristo
come unico e sublime privilegio? Come potrebbe innalzarlo al di sopra di tutti
gli altri uomini, proprio in ragione di quel privilegio? Questa dunque è l’unica
eccezione che distingue il Signore da noi: noi non siamo tentati senza cadere in
peccato, egli fu tentato senza che cadesse in peccato. Chi è infatti quell’uomo
tanto coraggioso e valoroso che non possa esser mai raggiunto da qualche dardo
del nemico? Chi è colui che può restare nel tumulto di questa lotta senza
correre alcun pericolo, quasi fosse rivestito di una carne invulnerabile? Cristo
solo, «il più bello dei figli degli uomini» (Sal 45 (44), 3),
assumendo la nostra condizione mortale e la fragilità della carne, non fu
toccato mai dalla macchia del peccato.
X. -
Solo il figlio di Dio ha vinto il tentatore senta essere minimamente ferito dal
peccato
Gesù, a somiglianza di noi, provò la tentazione della gola. L’astuto serpente,
seguendo la tattica usata con Adamo, tentò di sedurre e superare il Signore che
aveva fame, col desiderio del cibo. «Se tu sei figlio di Dio — disse — comanda
che queste pietre diventino pane» (Mt 4, 3). Ma la tentazione non apre in questo
caso la via al peccato. Quantunque un tale miracolo fosse pienamente possibile,
il Signore rifiuta il cibo suggeritogli dall’odiatore di tutti gli uomini:
«L’uomo — risponde — non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla
bocca di Dio» (Mt 4, 4).
Il Signore, a somiglianza nostra, fu tentato anche di vanagloria. Gli fu detto:
«Se sei figlio di Dio, gettati giù» (Mt 4, 6). Ma non si lasciò prendere dalla
sciocca suggestione diabolica e respinse il malaccorto seduttore con un’altra
citazione della sacra Scrittura: «Sta scritto — disse — non tenterai il Signore
Dio tuo» (Mt 4, 7).
Il Signore fu tentato, a somiglianza nostra, anche di superbia, quando il
demonio gli promise tutti i regni del mondo e la loro gloria. Ma la vanità del
tentatore fu derisa e respinta. Gli rispose infatti: «Vattene, Satana! Poiché
sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a lui solo» (Mt 4, 10).
Questi fatti ci insegnano che anche noi dobbiamo resistere alle pericolose
suggestioni del demonio col ricordo della sacra Scrittura.
Gesù fu tentato ancora una volta di superbia quando il demonio gli fece offrire
dagli uomini quella dignità regia che aveva già rifiutato al tempo delle
tentazioni nel deserto. Ma anche questa volta si liberò dalle insidie del
tentatore senza cadere in peccato. «Accortosi che venivano a rapirlo per farlo
re, si ritirò di nuovo solo, sulla montagna» (Gv 6, 15)
Gesù fu tentato, a somiglianza nostra, anche quando fu battuto coi flagelli,
colpito da schiaffi, ricoperto orribilmente di sputi, quando finalmente sopportò
i tormenti indicibili della croce. Ma oltre a non rispondere con offese alle
offese, non si lasciò andare neppure al più piccolo moto di sdegno. Anzi,
dall’alto della croce lanciò questa invocazione di bontà: «Padre, perdonali: non
sanno quello che fanno» (Lc 23, 34).
XI -
Solo Cristo è venuto nella somiglianza di una carne infetta dal peccato
Come si dovrebbero spiegare le parole dell’Apostolo: «È venuto nella somiglianza
della carne di peccato», qualora fosse vero che possiamo avere anche noi una
carne esente dalla macchia del peccato? No. Con le parole: «Dio ha mandato il
suo proprio Figlio in una carne somigliante a quella del peccato» (Rm 8, 3),
l’Apostolo ha inteso di indicare il privilegio unico e personale di Colui che è
senza peccato. Dobbiamo ritenere che Cristo, assumendo veracemente e
integralmente la sostanza della nostra carne, non assunse con quella anche il
peccato, ma solo la somiglianza del peccato. Per tal modo il termine
somiglianza
non si oppone alla verità della carne di Cristo, come falsamente pensano alcuni
eretici, ma è da riferirsi unicamente al peccato. In Gesù c’era una vera carne,
ma non c’era il peccato: di questo c’era soltanto un’immagine, un’apparenza. La
prima parte del versetto paolino afferma la realtà della natura umana, la
seconda parte (quella della somiglianza) si riferisce ai vizi e ai costumi
dell’uomo. Gesù mostrò la sua somiglianza con la carne peccatrice allorché
domandò, come un uomo ignaro e preoccupato: «Quanti pani avete?»(Mt 6, 38). Ma
come il suo corpo non era soggetto al peccato, così neppure la sua anima era
soggetta all’ignoranza. Infatti il Vangelo subito aggiunge: «Diceva ciò per
metterli alla prova; egli infatti sapeva bene quanto stava per fare» (Gv 6, 6).
Aveva una carne somigliante a quella peccatrice, quando domandava da bere, come
un qualsiasi assetato, alla donna samaritana. Ma la sua carne non era contagiata
dal peccato, perché subito dopo invitava la donna a domandare a Lui un’acqua
viva che le avrebbe tolta per sempre la sete. Anzi prometteva che in lei si
sarebbe sprigionata una fonte capace di salire fino alla vita eterna.
Gesù aveva una vera carne quando si addormentò nella nave. Ma perché quelli che
navigavano non pensassero che egli avesse anche la realtà del peccato, si alzò,
«comandò ai venti e al mare e si fece una gran calma» (Mt 8, 26). Egli sembrava
sottomesso alla comune legge del peccato quando si diceva di lui: «Se quest’uomo
fosse profeta, saprebbe chi è questa donna che lo tocca» (Lc 7, 39). Ma non
aveva la realtà del peccato, perché subito rintuzzò il pensiero malevolo del
Fariseo e perdonò i peccati alla donna. Si poteva pensare che avesse una carne
peccatrice al pari di tutti gli altri uomini, quando, vicino a morte, e assalito
dal terrore alla vista dei mali che stavano per assalirlo, uscì in questa
preghiera: «Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice» (Mt 26,
39). E ancora: «L’anima mia è triste fino alla morte» (Mt 26, 38). Ma quella
tristezza era immune dal contagio del peccato, perché il creatore della vita non
poteva temere la morte. Diceva infatti: «Nessuno mi può togliere la vita; la dò
io da me stesso; e ho il potere di darla e di prenderla di nuovo» (Gv 10, 18).
XII.
-
I santi e i giusti non hanno la somiglianza del peccato, ma hanno la realtà
Ecco dunque la grande differenza che corre tra l’Uomo nato dalla Vergine e tutti
coloro che nascono da una unione carnale. Noi tutti portiamo nella carne, non la
somiglianza, ma la realtà del peccato; lui invece, pur avendo preso una vera
carne, non ebbe la verità del peccato, ma ne ebbe la somiglianza soltanto.
Questo spiega perché i farisei, pur avendo letto in Isaia: «Egli non commise
peccato, e sulle sue labbra non si trovò inganno» (Is 53, 9), vedendolo poi
nella somiglianza di una carne peccatrice, si ingannarono e dissero: «Ecco un
mangione e un bevitore, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11, 19). Al
cieco guarito dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è
peccatore» (Gv 9, 24). E a Pilato: «Se non fosse un malfattore non te l’avremmo
consegnato» (Gv 18, 30).
Chi ardisce proclamarsi senza peccato, pecca di superbia e di bestemmia, perché
si arroga l’uguaglianza di un privilegio che spetta unicamente al Signore. Dice
in altri termini che ha, lui pure, la somiglianza con la carne peccatrice, ma
non ha vero peccato.
XIII.
-
I peccati dei santi non sono tanto gravi da toglier loro la corona della santità
La stessa sacra Scrittura attesta chiaramente che anche i santi e i giusti non
sono immuni dal peccato. Dice infatti: «Il giusto cade sette volte e si rialza»
(Pr 24, 16). Che altro significa quel «cadere», se non peccare? Tuttavia colui
che cade sette volte si chiama ancora «giusto»: ciò vuol dire che le cadute per
pura fragilità non recano danno alla sua giustizia. Fra le cadute del giusto e
quelle del peccatore c’è una differenza abissale. Altro è commettere un peccato
mortale, altro è lasciarsi sorprendere da un pensiero che non è privo di un
aspetto peccaminoso; oppure cadere per ignoranza, per dimenticanza, per parole
inutili improvvisamente scappate dalle labbra, o per aver avuto un momento
d’esitazione sulla fede, o per essere stato solleticato da un sottile sentimento
di vanagloria, o per essersi un poco allontanato dal culmine della perfezione,
dato il peso della natura. Tali sono le sette specie di cadute che si trovano
nella vita dei santi, senza che essi cessino per questo di esser giusti.
Tuttavia, per quanto leggere e di poco danno, quelle cadute impediscono ai
giusti di esser senza peccato. Così anche i santi hanno un vero motivo per far
penitenza ogni giorno, per chiedere perdono, per pregare incessantemente a causa
dei loro peccati, e dire: «Rimetti a noi i nostri debiti» (Mt 6, 12).
Voglio ora provare con qualche esempio che i santi hanno peccato, senza venir
meno per questo alla giustizia. Prendiamo il beato Pietro, principe degli
Apostoli. Come pensare che egli non fosse santo, specialmente quando il Signore
gli diceva: «Beato te, o Simone figlio di Giona, perché non la carne né il
sangue ti ha rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli»? E: «A te darò le
chiavi del regno dei cieli: qualunque cosa avrai legata sulla terra, sarà legata
anche nei cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sulla terra, sarà sciolta anche
nei cieli» (Mt 16, 17 e 19). Che cosa ci può essere di più bello che questa lode
risonata sulle labbra del Signore? Che cosa può esserci più sublime di questa
potestà e di questa beatitudine? Tuttavia, poco tempo dopo, nella sua ignoranza
del mistero della passione, Pietro si oppone, senza saperlo, all’atto da cui
doveva nascere la salvezza del genere umano: «Deh, che non sia, Signore! Questo
non ti avverrà mai» (Mt 16, 22). Perciò si merita di sentirsi rispondere: «Va’
lontano da me, Satana! Tu mi sei di scandalo; perché non ragioni secondo Dio ma
secondo gli uomini» (Mt 26, 22). E se Gesù, che è la verità e la giustizia
stessa, rimprovera il suo Apostolo con queste parole, potremo credere che non
sia veramente caduto, oppure che — cadendo — non sia rimasto nella santità e
nella giustizia? E quando il timore della persecuzione porta Pietro a rinnegare
tre volte il suo Maestro, si potrà negare che egli è veramente caduto? Tuttavia
il rimorso segue immediatamente la colpa; lacrime amarissime lavano la macchia
di un sì grande peccato: così l’Apostolo non perde il merito della santità e
della giustizia.
A Pietro dunque, e ai santi che a lui somigliano, dobbiamo riferire le parole di
David: «Dio custodisce il cammino del giusto, gli dà fermezza e in esso si
compiace; se pure egli cade, non rimane prostrato, perché il Signore lo regge
per mano» (Sal 37 (36), 23-24).
Colui che il Signore guida passo per passo, chi può essere se non il giusto?
Eppure di esso si dice: «Se cade, non si abbatterà». Che cosa significa quel «se
cade?».
Certamente la caduta in un peccato! «Non
si abbatterà»,
dice il Signore. Che significa? Che gli assalti del peccato non l’opprimeranno a
lungo. Se per il momento sembra spezzato, con una pronta risurrezione ricupererà
la stabilità della giustizia: risollevato dall’aiuto di Dio che ha implorato.
Quel che momentaneamente ha perduto, per la fragilità della carne, glielo
renderà la mano del Signore che lo sostiene.
Un uomo non cessa d’essere santo per una caduta. Basta che riconosca di non
poter esser giustificato dal valore delle sue opere; basta che sia persuaso che
solo la grazia del Signore può liberarlo dalle catene del peccato; basta che
incessantemente ripeta con l’Apostolo: «Me infelice! Chi mi libererà da questo
corpo di morte? La grazia di Dio, per Gesù Cristo Signor nostro» (Rm 7, 24-25).
XIV.
-
Come va intesa la parola dell’Apostolo:
«Io
non faccio il bene che vedo»
L’apostolo Paolo riconosce che l’uomo — a causa dei suoi pensieri in continuo
stato d’ebollizione — non è capace di penetrare fino nella profondità senza
limite della purezza. Lui stesso — benché apostolo — si è sentito sballottato in
alto mare e ha lasciato scritto: «Io non faccio il bene che voglio; ma al
contrario, faccio il male che non voglio» (Rm 7, 19). E ancora: «Ora, se io
faccio quello che non voglio, non sono io che lo faccio, ma il peccato che abita
in me» (Rm 7, 20). E insiste: «Provo diletto nella legge di Dio, secondo l’uomo
interiore; ma vedo nelle mie membra un’altra legge, che lotta contro la legge
della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie
membra» (Rm 7, 22-23). L’Apostolo dunque è consapevole della sua fragilità e
della fragilità della natura umana.
Atterrito davanti a questo abisso incommensurabile, cerca rifugio nel porto
sicuro dell’aiuto divino. Disperando per la sua imbarcazione che vede prossima
al naufragio, per la pesantezza della carne che l’opprime, supplica
l’Onnipotente a volerlo salvare dal naufragio. Così implora gemendo: «Me
infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7, 24). E subito,
quella liberazione che non poteva attendere dalla debolezza della natura, la
spera dalla misericordia divina. Soggiunge infatti: «Mi libererà la grazia di
Dio, per mezzo di Gesù Cristo Signor Nostro» (Rm 7, 25).
XV.
-
Obiezione: non è meglio pensare che l’Apostolo abbia parlato a nome del
peccatore?
Germano.
Molti pensano che questo passo di san Paolo non sia da intendersi nel senso che
l’Apostolo parli in persona propria, ma in persona di quei peccatori che
vorrebbero allontanarsi dai piaceri della carne. Nonostante la buona volontà,
costoro restano prigionieri di vizi inveterati, sedotti dalle passioni della
carne; perciò sono incapaci di dominarsi. L’abitudine al male li opprime sotto
una crudele tirannia che non permette di respirare l’aria pura della libertà e
della virtù.
Per quanto concerne l’apostolo Paolo, dato che egli era certamente arrivato al
culmine della perfezione, non vedo come gli si potrebbero applicare queste
parole: «Io non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio».
Neppure gli si addicono le parole che seguono: «Ma se faccio quello che non
voglio, non sono io a farlo, ma il peccato che abita in me». Lo stesso dicasi
delle altre: «Io mi compiaccio nella legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma
vedo nelle mie membra un’altra legge che si oppone alla legge dello spirito e mi
rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra».
Come si può applicare tutto ciò alla persona dell’Apostolo? Qual è il bene che
egli non poteva compiere? Qual è il male che commetteva, nonostante che non lo
volesse, anzi, nonostante che lo odiasse? Sotto quale legge del peccato si trovò
ad essere schiavo questo «vaso d’elezione» per bocca del quale parlava il
Signore? Non è lui che dice di aver soggiogato ogni disobbedienza e «ogni
orgogliosa potenza che osa levarsi contro Dio»? (2 Cor 10, 5). Non è lui che
dice fiduciosamente di se stesso: «Ho combattuto la buona battaglia, ho compiuto
la mia corsa, sono stato fedele. Ormai non
mi
resta che ricevere la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi
darà in quel giorno e non soltanto a me, ma anche a tutti quelli che avranno
atteso con amore la sua venuta»? (2 Tm 4, 7-8).
Teona.
Mentre sto entrando nel porto sicuro del silenzio, voi cercate di ricondurmi nel
mare immenso di una questione piena di misteri profondi. Ma dopo aver compiuto,
con la Conferenza, un viaggio già molto lungo, valendoci ora di un approdo
propizio, gettiamo l’àncora del silenzio. Domani, se non si opporrà la violenza
di qualche tempesta, alzeremo le vele per una nuova navigazione, posto che il
vento ci si mostri propizio.
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23 aprile 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net