LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
1.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE MOSÈ
IL FINE DEL
MONACO
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei Capitoli
I Abitanti di Scito e propositi dell’abate Mosè;
II L’abate Mosè domanda quale
sia lo scopo o fine del monaco;
III La nostra risposta;
IV Altra domanda dell’abate Mosè sullo stesso tema;
V Similitudine dell’arciere;
VI Vi sono alcuni i quali, dopo aver rinunziato al mondo vogliono andare alla
perfezione privi di carità;
VII Ricercare la tranquillità del cuore;
VIII
Il nostro principale sforzo deve tendere alla contemplazione delle cose celesti.
Esempio di Marta e di Maria;
IX Si domanda perché le virtù non durano quanto l’uomo;
X Risposta: la ricompensa della virtù rimane, l’atto termina;
XI La carità non ha mai fine;
XII Domanda sulla durata della contemplazione;
XIII Risposta sul modo d’indirizzare il cuore a Dio e sul regno di Dio e del
diavolo;
XIV Immortalità dell’anima;
XV La contemplazione di Dio;
XVI Domanda riguardante la mobilità dei pensieri;
XVII Risposta: ciò che l’anima può e ciò che non può riguardo ai pensieri;
XVIII L’anima paragonata a una macina da mulino;
XIX I tre principi dei nostri pensieri;
XX Modo di distinguere i pensieri, preso dall’arte dell’abile banchiere;
XXI Illusione in cui cadde l’abate Giovanni;
XXII Le quattro specie del discernimento;
XXIII Il discorso del maestro di spirito risponde al merito di chi lo ascolta.
I
-
Abitanti di Scito e propositi dell’abate Mosè
Il deserto di Scito fu sempre popolato da monaci rinomati: fu anzi la dimora
della perfetta vita monastica. Ma fra tanti fiori elettissimi uno olezzava di
più soave profumo, sia nella vita attiva che in quella contemplativa: l’abate
Mosè. Io, desideroso di metter buone basi nella vita monastica, mi recai alla
sua scuola insieme con l’abate Germano, col quale ho avuto una perfetta
comunione d’intenti fin dai primi passi della milizia cristiana. Con lui sono
stato nel cenobio, con lui sono stato nell’eremo, a tal punto che i nostri
conoscenti, per esprimere l’identità dei nostri propositi, dicevano che eravamo
un’anima in due corpi.
Andammo insieme anche dall’abate Mosè e con molte lacrime gli chiedemmo una
istruzione spirituale edificante. Sapevamo bene che egli non si decideva ad
aprire le porte della perfezione se non a coloro che lo desideravano
sinceramente e lo richiedevano di ciò con cuore contrito. Egli faceva così per
non correre il rischio di presentare la dottrina celeste a gente che non la
desiderava affatto, o la desiderava tiepidamente. Quella dottrina, infatti, è un
segreto da manifestare soltanto a chi arde dal desiderio della perfezione, e da
nascondersi gelosamente a quegli indegni che raccoglierebbero annoiati, facendo
ricadere anche su chi la rivela una parte della loro colpa.
Commosso dalle nostre lacrime, il santo abate così prese a parlare.
II -
L’abate Mosè domanda quale sia lo scopo o fine del monaco
Ogni arte, ogni disciplina ha un suo particolare scopo o fine. Chi vuol far
bella prova in una qualsiasi arte, deve guardare al fine e sopportare con animo
invariabilmente lieto fatiche, pericoli e perdite.
Guarda il contadino. Egli fruga infaticabile la terra, rompe le dure zolle con
l’aratro, senza punto curarsi dei raggi cocenti del sole, né della brina o del
gelo. Quando egli libera la terra dai pruni e dalla malerba e la riduce poi
trita e sciolta come rena, persegue lo scopo di ottenere un raccolto abbondante,
messe strabocchevole, che possa dargli vita tranquilla e ricchezza cospicua.
L’agricoltore vuota lietamente i granai pieni di frumento, e affida con assidua
fatica il suo grano ai solchi umidi, perché la speranza della messe futura non
gli lascia sentire la perdita presente.
Osserva ora i commercianti. Essi non temono le tempeste del mare, non si
spaventano d’alcun pericolo, mentre volano al loro fine con veloce speranza di
guadagno.
Non si dimentichino neppure gli uomini accesi di ambizione militare. Il miraggio
lontano degli onori e della potenza li rende insensibili ai disagi, ai pericoli
dei viaggi, agli affanni presenti, alle guerre: tutto per loro è nulla, pur di
ottenere l’onore che si son proposti come scopo.
Altrettanto deve dirsi per la nostra professione. Anch’essa ha un fine, e per
raggiungerlo noi sopportiamo senza abbatterci — anzi con gioia — tutte le
fatiche. Per quel fine non ci lasciamo vincere dai digiuni e dalla fame,
troviamo gradevole il peso delle veglie, troviamo dilettevole la lettura
continua della sacra Scrittura, né ci fa spavento la fatica senza sosta, la
completa privazione di tutte le cose, la solitudine di questo eremo. Per questo
medesimo scopo — ne sono certo — avete anche voi disprezzato l’amore dei
parenti, la terra che vi dette i natali, le consolazioni del mondo, e avete
attraversato tante regioni per venire da noi, uomini rozzi e ignoranti, sperduti
nella desolazione di questo deserto. Ditemi dunque: qual è lo scopo o fine
vostro? Che cosa vi spinge a sopportare lietamente tutte queste cose?
III
-
La nostra risposta
Poiché l’abate insisteva nel sollecitare la nostra risposta, noi rispondemmo che
eravamo disposti a soffrire qualunque cosa per amore del regno dei cieli.
IV
-
Altra domanda dell’abate Mosè sullo stesso tema
E l’abate riprese: per quanto riguarda il fine, avete risposto magnificamente,
resta ora da vedere quale deve essere lo scopo
[1]
al quale dobbiamo indirizzare ogni nostro atto, se vogliamo raggiungere il fine.
Noi confessammo francamente di non saperlo, e quello continuò: Ogni arte, ogni
disciplina — come ho già detto — deve avere dinanzi a sé un punto a cui
s’indirizzano tutti gli sforzi e tutti i desideri. Se a quel punto non si tende
con ardore e perseveranza, non è possibile raggiungere il fine desiderato.
Il fine del contadino — già portato ad esempio — è quello di vivere in
tranquilla agiatezza godendosi un raccolto abbondante, ma per giungere al fine,
ecco che il contadino libera il campo dalle spine e dalle erbe dannose, né pensa
di poter ottenere l’agognata agiatezza se non possiede prima, nel lavoro e nella
speranza, quel che spera di possedere nella realtà.
Un mercante che desidera ingrossare il suo capitale, mai cessa di ammassare
mercanzie, perché vede che inutilmente vorrebbe il guadagno se non
intraprendesse la via che ad esso conduce.
Coloro che desiderano le più alte dignità del mondo, scelgono prima gl’impieghi
da ricoprire e le carriere da percorrere, per assicurarsi di giungere alla
carica agognata.
Il fine del nostro cammino è il regno di Dio, o regno dei cieli; ma quale è la
via da seguire? Il problema è della massima importanza, perché se non
conosceremo la via, ci affanneremo inutilmente. Infatti il viandante che va
fuori strada, si affatica tanto e non progredisce di un passo.
Vedendo la nostra meraviglia a queste sue parole, il buon vecchio continuò: il
fine della nostra professione è indubbiamente il regno di Dio, o regno dei
cieli, ma la via che ad esso conduce è la purezza del cuore, senza la quale
nessuno può raggiungere quel fine. Fissando lo sguardo sulla purezza del cuore,
come per prendere da essa la nostra direzione, noi orienteremo i nostri passi
sopra
una linea sicura. Se da questa linea il nostro
pensiero si allontanerà qualche poco, torneremo in noi stessi e, con l’occhio
fisso alla regola scelta, correggeremo le deviazioni. Quella stessa regola che
ha sollecitato tutti i nostri sforzi a indirizzarsi sulla via sicura, non
mancherà di richiamarci al dovere se la nostra volontà avrà deviato anche
leggermente, dalla direzione che s’era proposta.
V
-
Similitudine dell’arciere
Pensiamo ad alcuni tiratori d’arco che vogliono dar prova della loro perizia
davanti a un re di questo mondo. Essi si sforzano di conficcare dardi e saette
sopra certi piccoli scudi sui quali stanno dipinti i premi e sanno che, se non
mirano diritto, non potranno ottenere il fine, cioè il premio desiderato.
Supponiamo ora che il bersaglio sia sottratto allo sguardo degli arcieri; anche
se la loro mira sarà lontana dalla buona direzione, non se n’accorgeranno,
perché mancherà un punto di riferimento che indichi se la direzione è buona o
sbagliata. Così fenderanno inutilmente l’aria, incapaci di conoscere il loro
errore, perché non hanno una regola che li avverta della direzione sbagliata, o
del punto verso il quale, la loro vista malcerta debba richiamare e raddrizzare
la traiettoria del tiro.
Applichiamo ora l’immagine alla professione monastica. Il suo fine è la vita
eterna, dice infatti l’Apostolo: « Voi avete come frutto la vostra
santificazione, come fine la vita eterna »
[2].
La via che porta al fine è la purezza del cuore, che l’Apostolo giustamente
chiama santità. Senza di essa è impossibile raggiungere il fine; è come dire in
altre parole: la vostra via è la purezza del cuore, il termine d’arrivo è la
vita eterna. Il santo Apostolo, parlando altrove della nostra meta, dice: «
Dimenticando quel che mi è dietro le spalle, e slanciandomi alle cose davanti,
vado dietro al
segno,
per raggiungere il premio della suprema vocazione di Dio »
[3].
Il testo greco è in questo luogo ancor più chiaro: esso suona così: « Katà
schopón dióco ». È come se l’Apostolo dicesse: « Nel mirare al bersaglio, io
dimentico ciò che sta dietro a me — cioè i vizi dell’uomo carnale — e cerco di
raggiungere il mio fine che è il premio celeste ».
Dobbiamo perciò ricercare con ogni diligenza ciò che può condurci alla purità
del cuore; dobbiamo pure guardarci da tutto ciò che da essa ci allontana. Si
tratta infatti di cose pericolose e dannose.
II bersaglio da raggiungere è la ragione del nostro agire e del nostro soffrire.
Perché la sua vista
ci segua sempre, chiara e inobliabile, abbiamo
abbandonato parenti, patria, onori, ricchezze, piaceri del mondo. Perciò, dopo
che ci siamo proposti questo bersaglio, tutti i nostri atti e pensieri debbono
tendere a raggiungerlo. Se esso, per nostra disgrazia, non ci stesse sempre
davanti agli occhi, tutti i nostri sforzi diventerebbero vani e sprecati, si
disperderebbero senza alcun profitto. Peggio ancora: sorgerebbe in noi una folla
di pensieri sregolati, contrastanti gli uni con gli altri. È inevitabile infatti
che un’anima, la quale non ha più un punto a cui riferirsi e ancorarsi, cambi ad
ogni ora e ad ogni momento, a seconda dei pensieri che sopravvengono e sotto la
sollecitazione degli avvenimenti esteriori: cambi cioè il proposito, col
cambiare delle impressioni.
VI
-
Vi sono
alcuni i quali, dopo aver rinunziato al mondo,
vogliono andare alla perfezione privi di
carità
Ecco spiegato perché molti uomini spirituali, i quali avevano disprezzato
ingenti beni di fortuna, cumuli d’oro e d’argento, sterminati possedimenti
terreni, si lasciarono poi vincere da un nonnulla come un coltello, un pennino,
un ago, una penna. Se essi avessero tenuto lo sguardo fisso al bersaglio, che è
la purezza del cuore, mai si sarebbero persi in simili stupidaggini, dopo che si
erano privati di beni considerevoli e preziosi per
non trovare in essi un ostacolo all’unione con Dio.
Ci sono persone le quali conservano così gelosamente un manoscritto da non
lasciarlo né vedere né toccare da alcuno; così avviene che dove potrebbero
trovare una preziosa occasione di pazienza e di carità, trovano una dannosa
occasione d’impazienza e di morte. Certi uomini spirituali agiscono allo stesso
modo: dopo aver distribuito tutte le loro ricchezze, per amore di Cristo,
conservano l’attaccamento del cuore, trasferito in cose piccolissime, e si
adirano per difendere queste sciocchezzuole, come se non avessero la carità di
cui parla l’Apostolo. Per tal modo la loro vita diventa completamente sterile.
S. Paolo prevedeva in spirito tutto ciò quando scriveva: « Se anche dessi in
favore dei poveri tutto ciò
che posseggo, e dessi il mio corpo per essere arso, e
non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento »
[4].
Ciò dimostra che la perfezione non si raggiunge d’un tratto, rinunciando alle
ricchezze e disprezzando gli onori, senza prima essersi arricchiti di quella
carità della quale l’Apostolo descrive i molteplici aspetti. E la carità
consiste nella purezza del cuore! Che cosa significano infatti le parole di S.
Paolo che dice: « La carità non è ambiziosa, non si gonfia, non s’irrita, non
agisce invano, non è egoista, non si compiace dell’ingiustizia, non pensa
male?... ». Non è lo stesso che invitare ad offrire a Dio un cuore perfetto e
purissimo, e a custodirlo intatto da tutti i moti della passione?
VII
-
Ricercare la tranquillità del cuore
La purezza del cuore deve dunque essere l’unico oggetto delle nostre azioni e
dei nostri desideri. Per ottenerla e conservarla dobbiamo ritirarci nel deserto,
sopportare digiuni, veglie, fatiche, nudità; applicarci alla lettura dei libri
sacri e alla pratica delle altre virtù, convinti che in tal modo renderemo puro
il nostro cuore e lo conserveremo inattaccabile a tutte le passioni perverse.
Così saliremo — come per una scala — verso la perfezione della carità.
Nel caso che un’occupazione buona e necessaria non ci lasciasse osservare con
assoluta completezza il programma che ci siamo proposti, non cadiamo in
tristezza, non andiamo in collera o sdegno; pensiamo piuttosto che quanto non
abbiamo potuto fare, avremmo voluto farlo proprio per vincere questi stessi
vizi. È minore il guadagno che si ha da un digiuno, che lo scapito derivante da
un atto di collera; il frutto di una lettura spirituale, non basta a compensare
il danno che proviene dal disprezzo di un fratello. Bisogna dunque esercitare le
virtù secondarie — digiuno, veglie, vita solitaria, meditazione delle sacre
Scritture — in subordinazione alla virtù principale, che è la purezza del cuore
o carità. Guai a chi sminuisce la virtù della carità per dare il primo posto a
ciò che è accessorio! Finché la carità resta integra e intatta, tutto va bene,
anche se certe pratiche secondarie vengono per necessità tralasciate; se invece
compiamo ogni cosa fedelmente, ma senza la carità, che dev’essere l’anima di
tutto, le nostre azioni non valgono più nulla.
Un artigiano non si studia di procurarsi gli arnesi del mestiere per tenerli
inoperosi, o perché spera che tutto il suo guadagno derivi dal semplice possesso
degli arnesi; egli, invece, col loro aiuto, vuol rendersi esperto nell’arte in
cui quelli sono i mezzi per raggiungere il fine. Così i digiuni, le veglie, la
meditazione delle sacre Scritture, la completa rinunzia al mondo, non
costituiscono la perfezione, ma i mezzi o strumenti della perfezione. Essi non
formano il fine di questa divina arte: sono i mezzi per arrivare al fine.
Inutilmente perciò si applica a questi esercizi colui che li stima un bene
supremo e fissa in essi la mira del suo cuore, senza spingersi più in alto, al
fine per cui queste pratiche sono desiderabili. Chi facesse così, avrebbe tutte
le nozioni della sua arte, ma non conoscerebbe il fine nel quale sta il frutto
desiderato.
Tutto ciò che ha il potere di turbare la purezza e la tranquillità dell’anima
nostra, va dunque fuggito come dannoso, anche se potesse sembrare utile o
addirittura necessario. Seguendo questa regola potremo evitare la divagazione
dei nostri pensieri e potremo giungere — secondo una linea di sicuro indirizzo —
al fine sospirato.
VIII
-
Il nostro principale sforzo deve tendere alla contemplazione delle cose celesti.
Esempio di Marta e di Maria
Questo dev’essere il nostro principale impegno, questo
l'orientamento continuo ed immutabile del cuore:
stare incessantemente occupati di Dio e delle cose celesti. Tutto ciò che
distoglie da questa meta, per grande che possa sembrare, è da stimarsi
secondario e perfino spregevole e dannoso.
Il Vangelo stesso ci invita a formarci una simile mentalità e a proporci un tal
modo di vivere, quando mette a confronto Marta e Maria.
Marta attendeva ad un’occupazione santa, serviva infatti Gesù e i suoi
discepoli; Maria invece, preoccupata esclusivamente della dottrina spirituale,
stava ai piedi di Gesù, e li baciava, e li ungeva col profumo di una sincera
confessione. Noi sappiamo che al Signore fu più gradito il gesto di Maria,
perché essa aveva scelto la parte migliore, una parte che non le sarebbe stata
mai tolta.
Marta, che s’affannava con devota premura nel suo lavoro di massaia, quando
s’accorse di non poter sbrigare da
sola tutte le faccende, domandò
al Signore l’aiuto della sorella, e disse: « Non ti importa nulla che mia
sorella mi lasci sola a lavorare? Esortala ad aiutarmi »
[5].
Non era certo un’opera spregevole quella a cui Marta chiamava la sorella;
tuttavia si sentì rispondere: « Marta, Marta, ti preoccupi e ti affanni per
troppe cose: poche cose son necessarie, anzi basta una sola. Maria ha scelto la
parte migliore, e non le sarà mai tolta »
[6].
Si vede da ciò che il Signore ripone il bene supremo nella sola «
teoria
», cioè nella divina contemplazione. Ne consegue che le altre virtù — per quanto
utili e buone — sono da mettersi in secondo ordine, perché sono tutte da
praticare in vista della sola contemplazione. Quando il Signore dice: « Tu ti
preoccupi e t’affanni per troppe cose, ma poche cose son necessarie, anzi ne
basta una sola », ci fa intendere che il sommo bene non sta nell’azione — anche
se buona e ricca di frutti — ma sta nella contemplazione divina. Bastano poche
cose, dice il Maestro Divino, per la beatitudine perfetta; e così parlando Egli
intende additarci il primo grado della contemplazione, nella quale l’anima è
intenta a meditare gli esempi di un piccolo numero di santi. Chi nella vita
spirituale è ancora allo stadio dei proficienti, con l’aiuto della divina
grazia, e attraverso questa contemplazione, si eleverà fino all’unica cosa
necessaria di cui abbiamo parlato,
cioè alla vista di Dio solo. Emulando allora gli
esempi e i mirabili inviti dei santi, l’anima avrà per unico alimento la
conoscenza di Dio e il gusto della sua bellezza. È vero dunque che Maria ha
scelto la parte migliore, una parte che non potrà esserle tolta.
Ma queste parole vanno considerate più attentamente. Il Signore, dicendo che
Maria ha scelto la parte migliore, non si pronuncia su Marta, e tanto meno la
condanna; tuttavia mentre loda l’atteggiamento di Maria, dichiara che quello di
Marta è meno bello. Quando poi aggiunge: « e quella parte non le sarà tolta »,
afferma implicitamente che a Marta potrà esser tolta la sua parte (un servizio
di natura corporale non potrà infatti durare quanto l’uomo), ma l’occupazione di
Maria, insegna esplicitamente il Signore, non avrà mai termine.
IX
-
Si domanda perché le virtù non durano quanto l’uomo
Profondamente colpiti da queste parole, noi rispondemmo: dunque l’afflizione dei
digiuni, la continua lettura, l’esercizio delle opere di misericordia, di
giustizia, di pietà, di cortesia, costituiscono beni deperibili che non
resteranno con chi ne è stato l’autore? Ma a queste opere il Signore promette il
regno dei cieli quando dice: « Venite, o benedetti dal Padre mio; possedete il
regno dei cieli che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo. Perché
ebbi fame e voi mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere »
[7]...
Come potrà esserci tolto ciò che ci introduce nel regno dei cieli?
X
-
Risposta: la ricompensa della virtù rimane, l’atto termina
Mosè
— Io non ho detto che il premio delle buone opere ci sarà tolto; il Signore
stesso afferma che « colui il quale darà a bere anche un solo bicchiere d’acqua
fresca ad uno di questi piccoli perché è suo discepolo, non perderà la sua
ricompensa »
[8].
Dico però che dovranno cessare le opere di misericordia, le quali sono ora
richieste dalle necessità del corpo, dagli assalti della carne, dalle diverse
condizioni degli uomini.
La lettura assidua dei libri sacri, l’austerità del digiuno, sono utili per
purificare il cuore e sottomettere la carne, nelle condizioni presenti di vita,
finché la carne ha desideri contrari allo spirito
[9],
ma noi vediamo che questi buoni esercizi cessano anche nella vita presente
allorché uno, per eccessiva difficoltà, o per malattia, o per vecchiaia, è
impossibilitato a compierli. A maggior ragione, dunque, cesseranno nella vita
eterna, quando la carne corruttibile si sarà rivestita di incorruttibilità
[10]
e il nostro corpo animale sarà diventato spirituale
[11];
in una parola: quando la carne non avrà più desideri contrari allo spirito.
Tutto ciò è detto chiaramente in S. Paolo: « L’esercizio del corpo è utile a
poco, invece la pietà — e qui certamente si deve leggere carità — è utile a
tutto: essa ha le promesse della vita presente e di quella futura »
[12].
Dire che le opere di pietà esteriore hanno un limite, equivale ad affermare che
non possono essere esercitate sempre, né possono dare — a chi in esse si
affatica — la perfezione suprema. Infatti: quella parola dell’Apostolo: «
utile a poco
», può intendersi in due sensi. In relazione alla durata del tempo, vuol dire
che l’esercizio corporale non è inseparabile dall’uomo, né in questa vita, né in
quella futura; in relazione al poco profitto che si ricava dall’esercizio
corporale, l’espressione di S. Paolo significa che le macerazioni della carne
sono appena un inizio, non già la pienezza di quella perfetta carità alla quale
sono assicurate le promesse della vita presente e futura. Con tutto ciò noi
riteniamo che queste opere sono necessarie: senza di esse non è possibile salire
alla vetta della carità.
Quelle che voi chiamate opere di pietà e di misericordia sono necessarie in
questo mondo, finché le condizioni degli uomini restano disuguali; non sarebbero
più necessarie se non esistesse questo esercito di poveri, di bisognosi,
d’infermi, i quali spesso son ridotti così dalla ingiustizia di altri uomini che
hanno preso per sé — senza poi usarli — i beni che il creatore aveva destinati a
tutti. Finché nel mondo esisterà la disuguaglianza ci sarà bisogno delle opere
di misericordia: esse saranno utili in quanto restituiranno l’eredità eterna a
chi le compie con retta intenzione.
Ma nella vita eterna regnerà l’uguaglianza e cesseranno le opere di pietà, non
essendoci più la ragione che le rendeva
necessarie. Tutti, dalla varietà
della vita attiva, passeranno all’amore di Dio e alla contemplazione delle cose
celesti in perpetua purità di cuore.
A questa contemplazione vogliono liberamente e generosamente dedicarsi — fin da
questa vita — coloro che hanno premura di acquistare la scienza divina e di
purificare la propria anima. Essi, applicandosi mentre sono nella carne
corruttibile al compito che avranno da svolgere quando sia deposta la carne,
hanno già gustato quella promessa del Signore che dice: « Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio »
[13].
XI
-
La carità non ha mai fine
E perché vi meravigliate se gli esercizi corporali enumerati sopra avranno un
termine? Non ricordate che il beato apostolo Paolo ci indica come transitori gli
stessi sublimi carismi dello Spirito Santo, e ci dà come permanente la sola
carità? « Le profezie — egli dice — termineranno, le lingue cesseranno, la
scienza finirà nel nulla; la carità invece non ha mai termine »
[14].
I doni sono elargiti secondo le necessità e per un tempo determinato: terminato
il tempo presente, essi spariranno; la carità invece non verrà mai meno. Essa
opera a nostro profitto, non solo in questo mondo, ma anche nell’eternità.
Quando avremo deposto il fardello delle necessità corporali, essa durerà ancora,
fatta più efficace e perfetta, perché messa al riparo da ogni possibile
corruzione e unita eternamente a Dio in una fiamma più viva e intima.
XII
-
Domanda sulla durata della contemplazione
Germano
— Come può una creatura, rivestita di
una carne tanto fragile, rimanere continuamente
assorta nella contemplazione, tanto da non staccarsene, né per l’arrivo di un
fratello, né per la visita ad un infermo, né per il lavoro manuale, né per i
doveri di ospitalità da rendere a un pellegrino o ad altro viandante?
Infine, chi potrà non essere distratto dalla necessità di provvedere al
sostentamento e alla cura del corpo? Noi vorremmo imparare come e in qual misura
l’anima si possa unire a questo Dio invisibile e incomprensibile.
XIII
-
Risposta sul modo di indirizzare il cuore a Dio e sul regno di Dio e del diavolo
Mosè
— Unirsi a Dio senza interruzione, e rimanere inseparabilmente uniti a Lui nella
contemplazione, nella modalità che voi dite, è veramente impossibile all’uomo
appesantito dalla fragilità della carne. Tuttavia dobbiamo conoscere dov’è che
l’anima nostra deve fissarsi e dove dobbiamo continuamente ricondurre la nostra
attenzione. Se a quel segno abbiamo sempre tenuto fisso lo sguardo dell’anima,
rallegriamoci; se invece ce ne siamo staccati, piangiamo e sospiriamo, convinti
che ci siamo allontanati dal sommo Bene, ogni qualvolta ci siamo trovati a
pensare ad altro. Ogni allontanamento — anche momentaneo — dalla contemplazione
di Cristo, è da giudicare come un adulterio. Quando la nostra attenzione si è un
po’ allontanata dal suo oggetto, riportiamo verso di quello gli sguardi del
cuore, richiamandovi le potenze dell’anima come lungo una linea retta.
L’essenza della vita spirituale sta nel profondo dell’anima: quando dal nostro
intimo è stato cacciato il diavolo e non vi regnano più i vizi, si stabilisce in
noi il regno di Dio. A questo proposito dice l’Evangelista: « Il regno di Dio
non viene in modo da attirare gli sguardi. Non si dirà: eccolo qui, eccolo là;
perché, ecco il regno di Dio è dentro di voi »
[15].
Nel nostro intimo non ci può essere che una situazione: o conoscenza o ignoranza
della verità; o amore del vizio
o
amore della virtù. Così noi prepariamo in cuor nostro un regno: o regno del
diavolo o regno di Cristo. S. Paolo descrive anche la natura di quel regno che
deve istaurarsi in noi; dice infatti: « Il regno di Dio non è cibo né bevanda,
ma giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo »
[16].
Se il regno di Dio è dentro di noi e consiste nella giustizia, nella pace, nella
gioia, chi vive in queste virtù vive certamente nel regno di Dio. Al contrario:
chi vive nell’ingiustizia, nella discordia, nella tristezza generatrice di
morte, è cittadino del regno del diavolo, dell’inferno e della morte. Da questi
segni infatti si distinguono tra loro il regno di Dio e quello del diavolo.
Ora leviamo in alto il nostro sguardo e osserviamo lo
stato in cui si trovano le
schiere celesti, quelle che appartengono veramente al regno di Dio. Che cosa
pensare del loro stato, se non che esso è gioia senza interruzione e senza fine?
Che cosa c’è di così essenziale alla vera beatitudine come la tranquillità
continua e la gioia eterna?
Ma io voglio che sulla verità di queste parole abbiate una prova assai più
convincente di quel che possono essere i miei poveri ragionamenti. Vi porto
l’autorità stessa del Signore; ascoltatelo descrivere con tocchi luminosi la
natura e le condizioni del mondo futuro: « Ecco che io creo nuovi cieli e nuova
terra; e le cose di prima non verranno più nella memoria, né più torneranno in
mente. Ma godrete e gioirete eternamente di quelle cose che io creo »
[17].
E ancora: « Il gaudio e la letizia si troveranno là, l’inno di ringraziamento e
la voce di lode di mese in mese, di sabato in sabato »
[18].
E infine: « Gioia e allegrezza saranno la loro eredità, il dolore e il pianto
fuggiranno »
[19].
Ma se desiderate saperne di più, sulla città celeste e la vita dei santi,
ascoltate quel che dice il Signore rivolto alla celeste Gerusalemme: « ...Alla
tua sorveglianza metterò la pace, e alla tua
sovraintendenza la giustizia. Non si sentirà più
parlare di iniquità nella tua terra, né di devastazione e di sterminio dentro
alle tue frontiere: la salute occuperà le tue mura, e la lode le tue porte. Non
avrai più il sole per farti luce di giorno, né lume di luna ti rischiarerà la
notte: il Signore ti sarà luce eterna e il tuo Dio sarà per te tua gloria. Il
tuo sole non tramonterà e la tua luna non scemerà; perché il Signore ti sarà
luce eterna e i giorni del tuo lutto saranno finiti »
[20].
L’apostolo Paolo si accorda perfettamente a questi testi quando dice che il
regno di Dio non è una gioia qualsiasi e indeterminata, ma è gioia precisa e
specifica: è gioia nello Spirito Santo
[21].
Egli infatti sa che esiste una gioia riprovevole, della quale sta scritto: «
Questo mondo godrà
»
[22]
e ancora: « Guai a voi che ridete, perché piangerete »
[23].
Osserviamo finalmente che il regno dei cieli può essere inteso in tre
significati. Il primo è che i cieli — cioè i santi — regneranno sopra gli altri
uomini sottomessi alla loro potestà. A questo senso ci richiamano due passi del
Vangelo: « Tu governerai cinque città, e tu dieci »
[24],
e l’altro rivolto ai discepoli: « Vi assiderete su dodici seggi a giudicare le
dodici tribù d’Israele »
[25].
Secondariamente « regno dei cieli » può significare che i cieli stessi
diventeranno regno di Cristo, quando — per essere stato sottomesso a Lui tutto
il creato — Dio incomincerà ad essere tutto in tutte le cose
[26].
Infine « regno dei cieli » può significare
che i santi regneranno in cielo
col Signore.
XIV -
Immortalità dell’anima
Ognuno sappia — fin da quando si trova in questo corpo materiale — che egli sarà
assegnato a quel regno e a quella dignità di cui si è reso meritevole nella vita
presente. Ognuno sarà in eterno consorte di colui al quale si sarà dato, come
servo e seguace, nella vita presente. Così ci assicura la parola del Signore che
dice: « Se uno si fa mio servo, venga al mio seguito. Dove sono io, là sarà
anche il mio servo »
[27].
Come vivendo nei vizi si entra nel regno del diavolo, così vivendo nelle virtù,
nella purezza del cuore, nella scienza spirituale, si entra nel regno di Dio. E
dove c’è il regno di Dio, là c’è infallibilmente la vita eterna; dove invece è
il regno del diavolo, là ci sono — altrettanto infallibilmente — la morte e
l’inferno. Chi si trova nel regno del diavolo non ha più neppure la possibilità
di lodare il Signore: dice infatti il profeta: « Non saranno i morti a lodarvi,
o Signore, né coloro che discendono nell’inferno (e quando dice « inferno »
intende senza dubbio l’Inferno del peccato); ma noi che viviamo (non ai vizi o
al mondo, ma a Dio), noi benediremo il Signore ora e in eterno »
[28].
« Perché non v’è nella morte chi si ricordi di Dio: e nell’inferno (del peccato)
chi gli renda lode »
[29].
Nessuno mai — facesse anche mille volte professione di vita cristiana o
monastica — può rendere gloria al Signore
se pecca; nessuno può dire di
ricordarsi di Dio, se fa ciò che Dio condanna; nessuno può chiamarsi
sinceramente servo di Dio se ne disprezza i comandi con superba temerità.
Colpita da questa morte era la vedova vivente in delizie, della quale ci parla
l’Apostolo quando dice: « La vedova che si dà alla lussuria, pur vivendo, è
morta »
[30].
Ci sono tanti che vivono col corpo, eppure sono
morti e giacciono nell’inferno senza poter lodare il Signore. Molti altri, al
contrario, sono morti alla vita del corpo, ma la loro anima benedice e loda Dio,
secondo quel detto: « Benedite il Signore, spiriti e anime dei giusti »
[31];
oppure: « Ogni spirito lodi il Signore »
[32].
Nell’Apocalisse, poi, non solo si dice che le anime dei giusti uccisi lodano il
Signore, ma si afferma che esse intercedono presso di lui
[33].
Con chiarezza ancor maggiore parla su questo argomento Gesù nel Vangelo,
rivolgendosi ai sadducei: « Non avete letto quel che vi fu detto da Dio: Io sono
il Dio di Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti ma
dei vivi
»
[34].
Davanti a lui tutti vivono! E s. Paolo dice di quei Patriarchi: « E però Dio non
si vergogna di esser chiamato il Dio loro, perché preparò ad essi una città »
[35].
Anche la parabola evangelica di Lazzaro il mendicante e del ricco vestito di
porpora, ci avverte che le anime separate dai corpi non restano inattive né
prive di sentimenti. Dice infatti la parabola che Lazzaro meritò una dimora
felicissima, cioè il seno di Abramo, mentre il ricco fu mandato a bruciare negli
ardori intollerabili del fuoco eterno
[36].
Se vogliamo considerare anche la parola rivolta da Gesù al buon ladrone: « Oggi
sarai con me in paradiso »
[37],
qual altro senso le daremo se non questo: nelle anime perdurano le conoscenze
anteriori, e in più esse hanno una sorte corrispondente ai loro meriti e alla
loro vita precedente? Gesù infatti mai avrebbe fatto quella promessa al buon
ladrone se quell’anima, dopo la separazione dal corpo, avesse dovuto rimanere
priva di vita, o avesse dovuto dissolversi nel nulla. Non era il corpo, ma
l’anima del buon ladrone, che doveva entrare in paradiso con Cristo.
Bisogna stare attenti a respingere con tutte le forze un perverso modo di
punteggiare le parole del Vangelo, un modo seguito da certi eretici. Non volendo
ammettere che il Signore sia salito al cielo lo stesso giorno in cui discese
agli inferi, essi leggono le parole dette al buon ladrone secondo questa
punteggiatura: « Oggi ti dico in verità » e qui fanno punto. Poi aggiungono: «
Tu sarai con me in paradiso ». Con questa maniera di leggere il Vangelo, non si
dovrebbe considerare la promessa del Signore come destinata ad avverarsi subito,
appena avvenuta la morte, ma come rimandata a dopo la resurrezione. Costoro però
non capiscono ciò che — molto prima della resurrezione — Gesù disse ai giudei
che lo credevano prigioniero dei ristretti limiti della carne e delle infermità
del corpo: « Nessuno sale in cielo all’infuori
di Colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’Uomo
che è in cielo »
[38].
Tutto ciò dimostra che le anime dei defunti non sono prive delle loro facoltà
intellettuali, e continuano a provare sentimenti di speranza, di tristezza, di
gioia, di timore: godono insomma un anticipo di ciò che è loro riservato dopo il
giudizio universale. Non è dunque vero, come ritengono alcuni infedeli, che
esse, all’uscir da questo mondo, si dissolvono nel nulla; vivono invece di una
vita più alta e si applicano più intensamente a render gloria a Dio.
Se ora vogliamo lasciare da parte le testimonianze della sacra Scrittura e
ragionare un po’ sulla natura dell’anima secondo la debolezza della nostra
intelligenza, non è vero che ci sembrerà sciocchezza, anzi vera pazzia, il solo
supporre che la parte più preziosa dell’uomo, quella che a detta dell’Apostolo
porta impressa l’immagine e la somiglianza di Dio
[39],
diventi insensibile appena avrà deposto il peso di quel corpo che tanto la
grava? E può l’anima — principio ragionevole, sorgente di sensibilità per la
materia inanimata e insensibile — perdere le sue facoltà spirituali perché ha
deposto la carne? La buona logica fa concludere che l’anima nostra, liberata da
questa carne che l’appesantisce, nonché perderle, possederà invece più pronte,
più limpide, più affinate, le sue facoltà intellettuali.
L’apostolo Paolo è tanto persuaso di questa verità da desiderare la separazione
dalla carne per potersi più perfettamente unire a Dio : « Ho il desiderio di
vedere sciolti i legami della carne e andarmene con Cristo. Questo è molto
meglio, perché fino a quando alberghiamo nel corpo siamo, come pellegrini,
lontani dal Signore »
[40].
Perciò: « Stiamo fiduciosi e preferiamo staccarci dal corpo per incamminarci
verso il Signore. E cerchiamo con ogni studio — sia che siamo usciti dal corpo,
sia che vi rimaniamo — di piacere a lui »
[41].
Così l’Apostolo proclama che la permanenza dell’anima nella carne somiglia ad un
esilio lontano da Dio, ad una separazione da Cristo. Con maggior evidenza lo
stesso Apostolo parla in altro luogo dello stato di vita intensissimo delle
anime separate dal corpo: « Ma voi vi siete accostati al monte Sion, alla
Gerusalemme celeste, alle miriadi di angeli, alla adunata e assemblea dei
primogeniti iscritti nei cieli, a Dio giudice di tutti, e agli spiriti dei
giusti che sono arrivati alla perfezione »
[42].
Trattando ancora di questi spiriti beati, l’Apostolo dice: « I nostri padri
secondo la carne, li avevamo castigatori, e pur li rispettavamo; non dovremo
molto più sottoporci al Padre degli spiriti noi, per avere la vita? »
[43].
XV
-
La contemplazione di Dio
La contemplazione divina è da intendersi in più modi. Dio infatti non si conosce
soltanto attraverso la visione della sua incomprensibile essenza — gioia,
questa, ancora
velata nella speranza e nella
promessa — ma la magnificenza della creazione, la divina giustizia, la
Provvidenza, manifestano Dio. Noi contempliamo Dio anche quando osserviamo con
anima pura il modo da lui tenuto, di generazione in generazione, verso i suoi
santi; quando ammiriamo, con cuore tremante, la potenza con la quale egli
governa, tempera e regge tutto il creato. Quando consideriamo la sua scienza
infinita, il suo occhio, al quale non possono nascondersi neppure i segreti del
cuore; quando pensiamo che egli ha contato i granelli di sabbia che sono in riva
al mare, e il numero delle onde; quando pensiamo, stupefatti, che tutte le gocce
di pioggia, tutti i giorni e tutte le ore di cui son fatti i secoli, tutto ciò
che fu e tutto ciò che sarà è presente alla sua conoscenza. Quando consideriamo
— sopraffatti dall’ammirazione — la clemenza ineffabile che gli fa sopportare i
delitti senza numero che ogni momento si commettono davanti al suo sguardo,
senza che la sua longanimità venga mai meno; quando pensiamo alla vocazione con
la quale ci ha chiamati; senza alcun nostro merito, ma per pura sua
misericordia; quando guardiamo alle occasioni di salvezza che ci ha preparate al
fin di adottarci come suoi figli... Egli — non dimentichiamolo — ha voluto che
noi nascessimo in condizioni tali da poter godere fin dalla culla la sua grazia
e la conoscenza della sua legge, e dopo aver trionfato in noi dell’Avversario,
col solo consenso della nostra buona volontà, ci ricompensa col premio della
felicità eterna. Quando infine pensiamo a Dio che intraprende l’opera della
Incarnazione per la nostra salvezza, ed estende a tutti i popoli i prodigi dei
suoi adorabili misteri: in tutte queste occasioni noi ci eleviamo alla
contemplazione divina.
Considerazioni sul tipo di quelle enumerate fin qui se
ne possono avere in quantità
quasi infinita: esse nascono nel nostro intimo in relazione diretta alla
perfezione della nostra vita e alla purezza del nostro cuore.
È però vero che nessun uomo potrebbe intrattenere continuamente simili
considerazioni se lasciasse sopravvivere in sé qualche rimasuglio degli affetti
carnali. Dice infatti il Signore: « Tu non potrai vedere il mio volto e
continuare a vivere »
[44].
S’intende, evidentemente, « vivere al mondo e agli affetti terreni ».
XVI
-
Domanda riguardante la mobilità dei pensieri
Germano
— Come si spiega che i pensieri vani si insinuano in noi contro la nostra
volontà, e persino a nostra insaputa? Essi inoltre hanno modi così sottili e
nascosti che troviamo difficoltà non soltanto a cacciarli ma anche a
riconoscerli. Può la nostra mente esser libera da questi pensieri e non esser
costretta a sopportare illusioni di questo genere?
XVII
-
Risposta: ciò che l’anima può e ciò che non può riguardo ai pensieri
Mosè
— È impossibile che l’anima non sia assalita dai
pensieri, ma accettare o respingere quei pensieri, è possibile a chiunque lo
voglia. La loro nascita non dipende totalmente da noi, dipende però da noi
approvarli e accoglierli.
Ho detto che la mente è necessariamente assalita dai pensieri; ma guardiamoci
bene dal credere che tutto dipenda dal caso o dal suggerimento degli spiriti
maligni, altrimenti non esisterebbe più il libero arbitrio e noi non avremmo più
il dovere di correggerci. Io fermamente sostengo che dipende in gran parte da
noi determinare la qualità dei nostri pensieri e stabilire se nel nostro cuore
dovranno trovare accoglienza quelli santi e spirituali, oppure quelli terreni o
carnali.
La lettura assidua e la meditazione continua della sacra Scrittura, si pratica
proprio per questo: per far sbocciare nella mente pensieri santi. Il canto
continuato dei Salmi è destinato a far nascere in noi la compunzione; le veglie
e i digiuni tendono ad ottenere che l’anima nostra perda il gusto delle cose
terrene e voglia contemplare soltanto quelle celesti. Perciò, se abbandoniamo
queste pratiche, a causa di un cedimento alla negligenza, è inevitabile che
l’anima, gravata dalla pesantezza dei vizi, prima inclini verso la parte
carnale, poi vi cada.
XVIII
-
L’anima paragonata a una macina da mulino
L’esercizio che si richiede al nostro cuore si potrebbe convenientemente
paragonare al lavoro che compiono le
macine di un mulino, mosse in giro dall’acqua che
precipita da un canale. Le macine non possono
assolutamente cessar di girare, perché son trasportate dalla spinta delle acque;
resta però in facoltà del mugnaio far macinare grano, orzo, o loglio. Una cosa è
fuori dubbio: potrà esser macinato soltanto ciò che il mugnaio avrà mandato alle
macine.
Così per l’anima nostra. Nella vita presente i torrenti delle tentazioni le
cadono sopra da ogni parte e la muovono e la sollecitano con i pensieri più
svariati; è però rilasciato al suo zelo e alla sua diligenza stabilire quali di
quei pensieri dovranno essere ammessi e quali respinti. Se — come ho detto —
ricorriamo alla meditazione continua della sacra Scrittura, ad elevare la nostra
mente al pensiero delle realtà soprannaturali, al desiderio della perfezione e
alla speranza della felicità eterna, i nostri pensieri saranno certamente
spirituali e faranno abitare l’anima in quelle stesse altezze alle quali si
elevò nella meditazione. Se invece — dopo aver ceduto alla pigrizia e alla
negligenza — ci lasceremo trasportare da pensieri colpevoli, o prendere dalle
conversazioni inutili, oppure ci faremo guidare da preoccupazioni mondane, da
vane sollecitudini, nascerà in noi una specie di zizzania. Per l’anima nostra
sarà molto dannoso macinare questo malseme, tuttavia, anche in questo triste
caso avvereremo la parola del Signore che dice: « Dove sarà il tesoro delle
nostre opere e delle nostre intenzioni, là necessariamente si troverà il nostro
cuore »
[45].
XIX
-
I tre principi dei nostri pensieri
Dobbiamo innanzi tutto ricordare che tre sono le fonti dalle quali traggono
origine i nostri pensieri: Dio, il demonio, noi stessi.
I nostri pensieri vengono da Dio quando Egli si degna visitarci con una
illuminazione dello Spirito Santo e innalzarci a un più sublime modo di vivere.
Sono altresì da Dio
i pensieri che ci recano una
compunzione salutare per avere noi sciupate certe occasioni di progresso, o per
esser caduti in qualche colpa a causa della nostra accidia. I nostri pensieri
vengono da Dio anche quando ci scoprono i misteri celesti e richiamano i nostri
propositi ad azioni e desideri migliori, come fu nel caso di Assuero
[46].
Castigato da Dio, quel re si sentì spinto a scorrere i libri nei quali erano
narrate le sue gesta; quella lettura gli richiamò alla mente i servizi resigli
da Mardocheo. Ricordandosi che Mardocheo non aveva ricevuto alcuna ricompensa,
volle il re che costui ricevesse onori supremi e, in vista dei suoi meriti,
revocò il decreto di morte promulgato contro gli ebrei.
Ai pensieri che vengono da Dio ci richiama il Salmista quando dice: « Ascolterò
quel che parla in me il Signore Dio »
[47].
C’è poi un profeta che ha questa espressione: « L’angelo che parla in me dice...
»
[48].
Lo stesso concetto ci richiama Gesù nel Vangelo quando promette di venire in noi
insieme col Padre e di stabilire in noi la sua dimora
[49].
Egli dice: « Non siete voi che parlate, ma è lo Spirito del Padre che parla in
voi »
[50]
e s. Paolo ha scritto: « Voi cercate una prova per convincervi che
Cristo parla in me
»
[51].
Nascono dal diavolo quei pensieri con i quali egli cerca di farci cadere; e si
serve a tale scopo o delle attrattive del vizio, o d’insidie nascoste. Talvolta
ci presenta — con astuzia sottilissima — il male come bene, e trasforma se
stesso in angelo della luce.
Di pensieri suggeriti dal diavolo abbiamo un esempio nel Vangelo di s. Giovanni:
« Terminata la cena, il diavolo aveva già messo nel cuore di Giuda Iscariota,
il proposito di tradire il Signore »
[52].
E ancora: « Dopo quel boccone, Satana entrò in lui »
[53].
Anche s. Pietro esprime lo stesso concetto, quando, nel rimprovero mosso ad
Anania, dice: « Perché Satana ha tentato il tuo cuore, per farti mentire allo
Spirito Santo? »
[54].
Al caso nostro fa pure la parola che leggiamo nel Vangelo, ma che già molto
prima era stata scritta nell’Ecclesiaste:
« Se l’animo del potente si leva contro di te, non abbandonare il tuo posto »
[55].
Aggiungiamo anche ciò che dice a Dio — contro Acab — lo spirito immondo nel
terzo libro dei Re: « Uscirò e sarò spirito di menzogna sulla bocca di tutti i
suoi profeti »
[56].
I nostri pensieri vengono da noi stessi ogni volta che ricordiamo — usando le
nostre naturali facoltà — ciò che facciamo, facemmo, e udimmo. A questo
proposito il beato David dice: « Ripenso ai giorni antichi, e gli anni del
passato ho in mente. E vado riflettendo la notte in cuor mio, e medito e scruto
il mio spirito »
[57].
E altrove: « Il Signore sa che i pensieri degli uomini sono vani »
[58].
E ancora: « I pensieri dei giusti sono l’equità »
[59].
Nel Vangelo, infine, il Signore dice ai farisei: « Perché pensate male nei
vostri cuori? »
[60].
XX
-
Modo di distinguere i pensieri, preso dall’arte dell’abile banchiere
Dobbiamo sempre fare attenzione alla fonte da cui derivano i nostri pensieri,
per applicare a tutti quelli che ci nascono in mente un sagace discernimento.
Dobbiamo innanzi tutto ricercare l’origine, la causa, l’autore, per decidere —
secondo il merito di chi ce li suggerisce — il trattamento da usare. Così
diventeremo, come
ci consiglia nostro Signore, abili banchieri
[61].
La scienza e la perizia dei banchieri si mostrano nel distinguere l’oro
purissimo — detto volgarmente obrizio — da altro oro che non sia stato
sufficientemente depurato nel crogiuolo. Se un vile pezzo di metallo si ammanta
del colore dell’oro e imita una moneta preziosa, l’occhio espertissimo dei
banchieri non si lascia trarre in inganno. Costoro non soltanto sanno
riconoscere le monete dal volto dei monarchi in esse impresso, ma, dotati come
sono di penetrantissima oculatezza, arrivano a riconoscere anche le monete che,
pur essendo marcate dall’impronta del legittimo sovrano, sono tuttavia una
contraffazione. Talvolta, poi, per meglio assicurarsi che nulla manca al giusto
peso di una moneta, i banchieri consultano anche la bilancia.
Queste stesse premure noi dobbiamo averle nella vita spirituale, come ci
dimostra il Vangelo quando propone il banchiere a nostro modello. Ecco dunque il
primo dovere: qualunque pensiero sia penetrato nel nostro cuore, qualunque
regola di vita ci sia stata suggerita, dobbiamo domandarci se venga dal fuoco
puro e purificante dello Spirito Santo, o dalla superstizione giudaica, o dalla
orgogliosa filosofia del mondo. Dobbiamo anche osservare se la pietà che certi
pensieri mostrano è reale o apparente. E potremo ben compiere questo dovere di
selezione se metteremo in pratica il consiglio dell’Apostolo: « Non vogliate
credere ad ogni spirito, ma provate gli spiriti per accertarvi se son da Dio »
[62].
In un tranello di tal genere sono caduti coloro che, dopo aver fatto professione
di vita solitaria, si son lasciati sedurre dallo splendore di un linguaggio
elegante e dalle massime dei filosofi, le quali — a prima vista — apparivano pie
e conformi alla religione. Sì, quelle massime avevano certamente il bagliore
dell’oro, ma era un bagliore ingannevole; infatti coloro che si lasciarono
adescare dal loro aspetto si trovarono per sempre miseri e nudi, come gente
ingannata da una falsa moneta. Proprio da quelle massime molti solitari furono
risospinti nello strepito del mondo, o furono attratti verso l’errore degli
eretici, oppure a pensieri d’orgoglio. Una sorte consimile era toccata ad Acoz,
secondo quanto leggiamo nel libro di Giosuè. Egli desiderò ardentemente una
lamina d’oro proveniente dall’accampamento dei Filistei, e la rubò; ma questo
gesto gli meritò di esser colpito d’anatema e d’esser condannato alla morte
eterna
[63].
In secondo luogo bisognerà guardare di non permettere che una errata
interpretazione della sacra Scrittura — simile a marchio falso impresso in oro
genuino — ci tragga in inganno. In tal senso, quel maestro d’astuzia che è il
demonio, tentò d’ingannare anche
il Signore, come se avesse avuto a che fare con un semplice uomo. Certe parole
del libro sacro, che si riferiscono genericamente ai giusti, furono alterate dal
maligno con interpretazione malevola e applicate principalmente a colui che,
unico, non ha bisogno della custodia degli angeli. Disse infatti Satana: « Se tu
sei figlio di Dio, gettati di qui, perché sta scritto: Egli ha dato per te
ordine ai suoi angeli, i quali ti sosterranno nelle loro mani, affinché il tuo
piede non urti contro la pietra »
[64].
Così dicendo il mentitore adulterava maliziosamente le parole della sacra
Scrittura, che stravolgeva a un senso dannoso e contrario al vero, allo scopo di
nascondere il suo volto odioso di tiranno, sotto le fallaci apparenze dell’oro.
Altre volte Satana cerca d’ingannarci con monete falsificate: cerca di farci
compiere qualche opera di pietà che — per non essere approvata dalla
consuetudine — conduce al vizio, sotto apparenza di virtù. Sono esempi di questo
genere d’inganno: i digiuni senza regola e fuori tempo, le veglie eccessive,
le preghiere disordinate, le letture fuori posto:
tutte cose di cui il demonio si serve per farci fare una brutta fine. Ci
suggerisce ancora di intrometterci negli affari, di far visite per motivi di
carità, ma il fine vero è quello di tirarci fuori dalla santa clausura del
monastero e dal segreto di una pace amica. Talvolta
ci spinge a occuparci di donne consacrate a Dio e prive d’appoggio; così
distoglie i poveri monaci dal loro vero scopo, dopo averli avvolti in una rete
inestricabile di preoccupazioni pericolose. Può anche spingerci a desiderare le
occupazioni — peraltro sante — che son proprie
dei sacerdoti; e ciò fa sotto il pretesto di giovare a molte anime e di
conquistarle a Dio. Ma il fine vero è di strapparci, con questo mezzo,
all’umiltà e all’austerità della nostra vita.
Tutte queste opere, pur essendo contrarie alla nostra salute, al nostro sistema
di vita, riescono facilmente a ingannare i semplici e gl’incauti, dato che si
ammantano di un certo velo di pietà religiosa. A guisa di monete che imitano
l’immagine del legittimo sovrano, quelle opere — a prima vista — sembrano
ottime, ma non vengono dal palazzo della zecca e dai coniatori approvati, vale a
dire: non vengono dai Padri approvati e cattolici. Sono perciò monete fabbricate
segretamente, con la frode dei demoni, ed entrano in circolazione con grande
danno degli imprudenti e degli ignoranti.
Ammettiamo pure che le opere possano avere un aspetto di utilità: tuttavia, se
contrastano con la nostra professione e mettono in pericolo l’essenza stessa
della vita monastica, dobbiamo troncarle e gettarle lontano da noi, come si
farebbe con un membro del nostro corpo (per esempio una mano o un piede) che
fosse diventato causa d’infezione mortale per tutte le altre membra. È
preferibile avere un membro di meno (nel caso nostro rinunciare a compiere
un’opera di pietà) ma restar sani nel resto ed entrar deboli nel regno dei
cieli, piuttosto che cadere in qualche scandalo per aver voluto fare tutto.
Da una caduta ci potrebbe derivare una mala abitudine, la mala abitudine
potrebbe staccarci dalla regola di austerità e dai propositi abbracciati; alla
fine — incapaci ormai di riprenderci — noi potremmo vedere tutti i nostri
passati meriti e tutte le opere della nostra vita, diventar preda del
fuoco d’inferno
[65].
Di simili illusioni parla elegantemente anche il libro dei Proverbi: « V’è una
strada che pare all’uomo diritta, ma i suoi estremi conducono alla morte »
[66].
E ancora: « Il maligno nuoce quando si unisce al giusto », che vuol dire: il
diavolo inganna quando si ammanta di apparenze sante. « Egli odia la parola che
ammonisce »
[67],
odia cioè il senso della discrezione che deriva dalle parole e dagli ammonimenti
degli anziani.
XXI
-
Illusione in cui cadde l'abate Giovanni
In questo modo fu ingannato, non molto tempo fa, l’abate Giovanni, che abita a
Lieo. Con un corpo già malandato e cadente, costui volle prolungare il digiuno
per due giorni di seguito, ma il terzo giorno, mentre si accingeva a prendere il
cibo consueto, gli si presentò il diavolo, sotto le apparenze di un etiope
mostruoso, e, gettandosi ai suoi piedi, disse: « Perdonami, perché sono stato io
a farti fare questo digiuno ». Allora quel buon uomo, già tanto progredito nella
via della perfezione, capì che il diavolo lo aveva ingannato servendosi di una
astinenza fuori posto: una astinenza che aveva portato fatica inutile al corpo
già esausto e danno spirituale all’anima. Egli era stato tratto in inganno con
una falsa moneta: aveva onorato in essa l’immagine del vero re, ma non aveva
osservato se il conio fosse autentico.
Dobbiamo ora parlare dell’ultima operazione di un abile banchiere, che consiste,
come abbiamo già detto, nel verificare il peso. Ecco come si deve procedere. Se
ci viene l’idea di fare qualcosa, bisogna prima pensarci ponderatamente, poi
mettere quell’idea sulla bilancia del nostro cuore e soppesarla con rigorosa
esattezza. Vedremo allora se il nostro proposito è conforme alla comune onestà,
se è di giusto peso in relazione al santo timor di Dio, se è puro nel sentimento
che lo ispira. Vedremo dall’altro lato se lo fa meschino una ostentazione umana,
o il desiderio di affettare novità, o se la vanagloria non gli tolga il giusto
peso. La nostra « pesa » si farà prendendo come regola una bilancia verificata e
approvata; vale a dire: noi confronteremo i nostri progetti con la vita e
gl’insegnamenti dei Profeti e degli Apostoli. Se nel confronto i nostri progetti
si riveleranno integri, puri e di buon peso, li terremo; se invece appariranno
difettosi, dannosi, lontani dal giusto peso, li rifiuteremo con assoluta
prontezza.
XXII
-
Le quattro specie del discernimento
Quattro forme di discernimento sono per noi necessarie. Prima si tratta di
giudicare la materia e sapere se è oro vero o falso. Poi dobbiamo rifiutare come
monete false i pensieri che simulano apparenze di pietà; quei pensieri portano
certamente l’immagine del re, ma non sono moneta di conio autentico.
Dovremo in terzo luogo rifiutare quelle monete che portano impresso — sull’oro
prezioso delle sante Scritture — un senso eretico e falso: in questo caso non si
ha più l’effige del re legittimo, ma quella dell’usurpatore.
Infine dovremo rifiutare come monete leggere, dannose, inferiori al peso, i
pensieri intaccati dalla ruggine della vanità, sprovvisti del peso e valore
richiesto, perché non conformi alle regole degli anziani.
In tal modo noi eviteremo il pericolo dal quale ci mette in guardia il Signore,
e non perderemo né il merito né la ricompensa delle nostre fatiche: « Non
accumulate tesori sulla terra, ove la ruggine e il tarlo li consumano, e dove i
ladri li dissotterrano e li rubano »
[68].
Tutto ciò che facciamo per acquistar gloria davanti agli uomini è — secondo la
parola del Signore — un tesoro accumulato sulla terra. È un tesoro nascosto che
i demoni troveranno, che la ruggine della vanagloria roderà, che le tignole
della superbia divoreranno, senza che apporti qualche utilità a colui che lo ha
sotterrato.
Dobbiamo perciò scrutare le profondità del nostro cuore e osservare attentamente
le orme dei pensieri che vi entrano, perché non avvenga che qualche mostro
spirituale — leone o dragone che sia — lasci in noi i segni funesti del suo
passaggio. Se non veglieremo sopra i nostri pensieri, le vie del nostro
santuario interiore saranno percorse da mostri d’ogni specie. Se invece
lavoreremo, ogni ora e ogni momento, il campo del nostro cuore con l’aratro
evangelico, vale a dire col ricordo continuo della croce del Signore, potremo
distruggere il covo delle bestie feroci e i nascondigli dei serpenti velenosi.
XXIII
-
Il discorso del maestro di spirito risponde al merito di chi lo ascolta
Il vecchio abate, vedendoci incantati al suo dire ed accesi di un insaziabile
ardore, vinto d’ammirazione dinanzi al nostro desiderio, s’interruppe un poco.
Poi riprese: la vostra attenzione, cari figlioli, mi ha spinto a parlarvi così a
lungo; vi assicuro che un fuoco misterioso dà alla mia conferenza un fervore
insolito proprio a causa del vostro desiderio. Ma per meglio convincermi che
avete sete di conoscere la scienza della perfezione, voglio ancora brevemente
intrattenervi sull’eccellenza e la bellezza della discrezione, la quale tiene il
posto di comando fra tutte le virtù. Voglio dimostrarvi la sua preziosità e
utilità, non solo con esempi di quotidiana esperienza, ma anche col ripetervi le
antiche sentenze dei nostri Padri.
Ora mi viene in mente che molte volte, altri visitatori mi hanno chiesto con
lacrime e gemiti di trattare questo argomento, ma io non sono mai stato capace
di farlo: mi mancavano le idee e anche le parole. Così mi trovavo costretto a
rimandare quei visitatori senza aver detto niente che li consolasse un poco. Ora
però — da quanto provo in vostra presenza — capisco che la grazia del Signore
ispira colui che parla, secondo il desiderio e il merito di chi lo ascolta. Ma
questa breve parte della notte che ancora ci resta, non consentirebbe di portare
a termine il mio discorso; sarà dunque meglio concedere questo tempo al riposo,
molto più che il corpo chiede quel che non gli è dovuto, quando gli si rifiuta
quel poco a cui ha diritto. Noi rimanderemo a domani, o alla notte prossima,
l’esame e l’esposizione completa del nostro argomento. È giusto infatti che il
maestro desideroso d’insegnare la discrezione dia prova della sua sapienza
incominciando a praticare la virtù che vuole insegnare. Se non fa così, egli si
mette a trattare di una virtù, che è madre della misura e dell’equilibrio,
standosene come immerso nel vizio contrario. E ciò non va bene: sarebbe un
distruggere con i fatti quel che si esalta con le parole.
La virtù della discrezione, della quale con l’aiuto di Dio intendiamo continuare
lo studio,
ci assista fin d’ora e non ci permetta di
oltrepassare i limiti del tempo e del discorso, mentre parliamo di lei e del suo
primo frutto che è il senso della misura.
A questo punto il venerabile Mosè pose fine alla sua conferenza, esortando noi —
avidi di ascoltarlo e quasi pendenti dalle sue labbra — a gustare un po’ di
sonno. C’invitò a distenderci sulle stesse stuoie sulle quali stavamo seduti e
ci dette per guanciali
gli
embrìmi,
che sono fatti con grossi papiri raccolti in fasci lunghi e sottili, legati poi
a intervalli di un piede e mezzo. Gli
embrìmi
formano sedili bassissimi di cui si servono i monaci quando vanno alla
refezione; messi anche sotto la testa di chi vuol dormire, fanno un guanciale
non troppo duro e abbastanza comodo. Sono insomma mirabilmente adatti ai vari
usi monastici e hanno il vantaggio di non chiedere né fatica, né spesa, perché
si fanno con papiro che cresce dappertutto in riva al Nilo. Sono anche facili a
trasportarsi, data la loro leggerezza.
Così — dietro il consiglio del vecchio abate — ci disponemmo a gustare un po’ di
riposo. Non desideravamo però che il sonno venisse, tanto eravamo infiammati
della conferenza ascoltata ed ansiosi di quella che ci era stata promessa.
[1]
D’ora in avanti Cassiano distinguerà frequentemente tra «fine » e « scopo
»
della vita monastica. Per noi quei due termini sono diventati sinonimi,
ma per gli antichi non era così. Il « fine » rappresentava il punto
ultimo a cui si voleva arrivare, lo « scopo » era un passaggio obbligato
per giungere al fine.
La
parola « scopo
»
deriva dal greco e vuol dire « bersaglio »: in questo senso la usa
spesso Cassiano. Per conoscere quale differenza egli trovi tra i due
termini, gioverà fare attenzione all’esempio dell’arciere che colpisce i
segni dipinti sopra uno scudo. Quando la freccia è stata centrata sopra
un determinato segno, l’arciere riceve il premio corrispondente. Così è
nella vita monastica. Il monaco fa centro sopra una virtù (= scopo) e
riceve il premio corrispondente (= fine).
[2]
Rom. 6, 22.
[3]
Fil. 3, 13-14.
[4]
1 Cor 13,3
[5]
Lc.
10, 40.
[6]
Lc. 10, 41-42.
[7]
Mt. 25,
34-35.
[8]
Mt.
10, 42.
[9]
Gal. 5, 17.
[10]
1 Cor. 15, 53.
[11]
1 Cor. 15, 44.
[12]
1
Tim. 4, 8.
[13]
Mt. 5, 8.
[14]
1 Cor. 13, 8 ss.
[15]
Lc. 17,
20-21.
[16]
Rom. 14, 17.
[17]
Is. 65,
17-18.
[18]
Is. 51, 3; 66, 23
[19]
Is. 35, 10.
[20]
Is. 60,
17-20.
[21]
Rom. 14,
17.
[22]
Gv. 16, 20.
[23]
Lc. 6, 25.
[24]
Lc. 19, 19.
[25]
Mt. 19, 28.
[26]
1 Cor. 15, 28.
[27]
Gv. 12, 26.
[28]
Sal.
113, 17-18.
[29]
Sal. 6, 6.
[30]
1
Tim. 5, 6.
[31]
Dan. 3, 86.
[32]
Sal.
150, 6.
[33]
Apoc. 6, 9-10.
[34]
Mt. 22, 31-32.
[35]
Ebr. 11, 16.
[36]
Lc. 16, 18 ss.
[37]
Lc. 23, 43.
[38]
Gv. 3, 13.
[39]
1 Cor. 11, 7; Col. 3, 10.
[40]
Fil. 1, 23; 1 Cor. 5, 6.
[41]
2 Cor. 5, 8-9.
[42]
Ebr. 12, 22-23.
[43]
Ebr. 12, 9.
[44]
Es. 33, 20.
[45]
Mt. 6, 21.
[46]
Est. 6, 1 ss.
[47]
Sal.
84, 9.
[48]
Zac. 1, 14.
[49]
Gv. 14, 23.
[50]
Mt. 10, 20.
[51]
2
Cor. 13, 3
[52]
Gv. 13, 2.
[53]
Gv. 13, 27.
[54]
At. 5, 3.
[55]
Ec. 10, 4; Alcuni
manoscritti non hanno le parole «
leggiamo nel Vangelo
», infatti nessun luogo del Vangelo riporta questa sentenza dell’Ecclesiaste.
Si è tentato da qualche parte di spiegare questo passo dicendo che si
tratta di una citazione a senso e si è rimandato il lettore a san Matteo
5, 25: « Mettiti d’accordo col tuo avversario mentre te ne vai con lui
per via ». La spiegazione non pare, però, convincente. Oltre a ciò va
pure notato che la stessa citazione dell’Ecclesiaste appare non
pertinente all’argomento qui trattato.
[56]
III Re 22, 22.
[57]
Sal. 76, 6-7.
[58]
Sal. 93, 11.
[59]
Prov. 12, 5.
[60]
Mt. 9, 4.
[61]
II termine
corrispondente a « banchiere », nell’originale è «
trapezita »
Si tratta di un vocabolo greco che acquistò diritto di cittadinanza
nella lingua latina al tempo di Plinio. Anzi fu proprio Plinio a dare al
termine «
trapezita
» il significato tanto caro a Cassiano di abile discernitore della
moneta falsa da quella vera. Nello stesso significato usato da Plinio e
da Cassiano, «
trapezita »
si ritrova presso Origene (1. 19 in Iob.), Clemente Alessandrino
(Stromata, 1 in fine), san Girolamo (in Epist. ad Ebr. c. 4),
sant’Ambrogio (in Lucam c. 1), nelle «
Costituzioni Apostoliche
» (1. 2, c. 21).
Quel che più meraviglia, nel testo di Cassiano, è sentire che l’esempio
del «
trapelata
» sarebbe stato proposto dal Vangelo. Nessuno dei quattro Vangeli
contiene un accenno del genere, perciò si può ritenere che il nostro
autore ha citato da un apocrifo; precisamente il Vangelo « Secundum
Hebraeos ». Probabilmente Cassiano era convinto di valersi d’un Vangelo
autentico, ingannato dal fatto che autori antichissimi, come Ignazio
martire, Clemente romano, e Origene, avevano introdotto nei loro scritti
qualche passo di quello stesso Vangelo (cfr. san Girolamo in «
Catalogo degli
Scrittori Ecclesiastici
»). C’è di più: lo stesso san Girolamo, pur affermando che si trattava
di un apocrifo, citò il « Vangelo secondo gli Ebrei » nel commento al c.
40 d’Isaia (n. d. t.).
[62]
1 Gv. 4, 1.
[63]
Gios. 7. Qui Cassiano s’inganna: il libro di Giosuè parla di Acan e non
di Acoz. Oltre a ciò va pure rilevato che il testo sacro accenna a una
pena di morte, ma non di
morte eterna,
che è cosa assai diversa (n. d. t.).
[64]
Mt.
4,
6; Sal.
90, 11-12.
[65]
Mt. 18, 8.
[66]
Prov. 16, 25.
[67]
Prov. 11, 15 (LXX).
[68]
Mt. 6, 19.
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28 febbraio 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net