LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
11.a CONFERENZA
PRIMA CONFERENZA DELL'ABATE CHEREMONE
LA PERFEZIONE
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. La città di Tenneso.
II. Il vescovo Archebio.
III. Il deserto in cui vivevano Cheremone, Nestero e Giuseppe.
IV. L’abate Cheremone e la scusa da lui addotta per non tenerci la conferenza
richiesta.
V. Nostra risposta.
VI. Proposizione dell’abate Cheremone: i vizi si vincono in tre modi.
VII. Per quali gradi si giunge alla vetta della carità. Stabilità di questa
virtù.
VIII. Eccellenza di coloro che sfuggono ai vizi per mezzo della carità vissuta.
IX. La carità non solo ci trasforma da servi in figli, ma imprime in noi
l’immagine e la somiglianza di Dio.
X. La perfezione della carità consiste nel pregare per i nemici; da qual segno
si può riconoscere che un’anima non è ancora purificata.
XI. Perché i sentimenti di timore e di speranza son giudicati imperfetti?
XII. Risposta sui diversi gradi di perfezione.
XIII. Il timore che nasce dall’abbondanza della carità.
XIV. Domanda sulla castità perfetta.
XV. La risposta è rinviata ad altro tempo.
I -
La
città, di Tenneso
La nostra vita monastica incominciò in un monastero di Siria. Là imparammo i
primi elementi della fede e facemmo qualche progresso; ben presto però sentimmo
il desiderio di una perfezione più alta e decidemmo di recarci in Egitto.
Volevamo giungere fino al deserto lontano della Tebaide, per visitare il più
gran numero possibile di quei santi monaci di cui la fama aveva sparso il nome
per tutta la terra. Ci sospingeva a questa impresa il desiderio di conoscere
questi santi uomini; se non proprio quello di gareggiare con loro in santità.
Alla fine della navigazione giungemmo ad una città egiziana chiamata Tenneso.
Essa è circondata dalle acque: da una parte ha il mare, dall’altra laghi salati.
I suoi abitanti, non avendo terra da coltivare, si danno alla mercatura: tutta
la loro ricchezza nasce dal commercio marittimo. Hanno sì poca terra che quando
vogliono costruire delle abitazioni, sono costretti a portarla di lontano con le
navi.
II -
II
vescovo Archebio
Noi arrivammo quando il Signore, sempre benevolo ai nostri voti, faceva giungere
pure il vescovo Archebio.
Egli era uomo di grande santità, ammirabile in tutto. Quantunque lo avessero
strappato alla vita anacoretica per farlo vescovo di Panefisi, egli conservò
sempre la più stretta fedeltà alla vita monastica. Nessuno lo vide mai
abbandonare, sia pure per poco, la sua primitiva umiltà, nessuno lo vide
compiacersi della dignità vescovile. Egli credeva di essere stato eletto a
quell’ufficio, non già perché lo avevano trovato degno, ma perché avevano voluto
cacciarlo dal monastero, come indegno di continuare ancora la vita monastica. La
sua colpa — egli affermava — consisteva in questo: in trentasette anni che era
stato nel deserto non aveva saputo raggiungere quella purezza del cuore che la
professione monastica esige.
Archebio si trovava in quel giorno a Tenneso perché chiamatovi dalla elezione di
un nuovo vescovo. Ci accolse con tutti i segni della più squisita carità; poi,
quand’ebbe conosciuto il nostro desiderio di andare a visitare i Padri, fino
nelle regioni più remote dell’Egitto, ci disse: «Venite intanto a vedere quei
santi vecchi che abitano qui, non lontano dal nostro monastero. La loro
anzianità si riconosce chiaramente dalla positura curva del loro corpo, la loro
santità brilla in tutto l’aspetto. Il solo vederli è già un grande insegnamento
per quei fortunati ai quali è concessa tal grazia. Da loro imparerete — più
dall’esempio di una vita santa che dalle parole del labbro — quel segreto divino
che io ho perduto e ora non sono più in grado di comunicarvi. Ma con questo
consiglio che vi dò, spero di sollevare un poco la mia miseria: infatti, pur non
possedendo più io quella preziosa margherita di cui parla il Vangelo (Mt 13,45
Vulg.), posso e voglio procurare a voi il mezzo per acquistarvela più
facilmente».
III -
Il
deserto in cui vivevano Cheremone, Nestero e Giuseppe
Prese bastone e bisaccia, com’è costume di tutti i monaci di quel luogo quando
si mettono in cammino, e ci guidò alla sua città vescovile.
I dintorni di Panefisi, come la più gran parte di quella regione, erano un tempo
campi fertilissimi, tanto che proprio da quelle terre si prendevano i cibi per
la mensa del re. Ora invece tutto era sommerso dal mare. Le acque del mare,
sollevate da un violento terremoto, avevano rotto le dighe e sommerso tutti i
villaggi all’intorno, e ora coprivano con paludi salmastre un territorio altra
volta ridente e fecondo. Lì si era avverato in senso letterale quello che il
Salmo canta in senso spirituale e mistico: «Egli mutò i fiumi in deserto e le
fonti d’acqua in assetata steppa, e la terra fruttifera in una salina, per la
malvagità dei suoi abitanti » (Sal 106,33-34).
C’erano in quella zona molti paesi costruiti sulle alture; l’inondazione, dopo
averne cacciati gli abitanti, ne fece delle isole deserte che offrivano ai
monaci in cerca di luoghi appartati, la solitudine desiderata. Là dimoravano,
ormai vecchissimi, tre eremiti: Cheremone, Nestero e Giuseppe.
IV. -
L’abate
Cheremone e la scusa da lui addotta per non tenerci la conferenza richiesta
Il beato Archebio preferì condurci prima dall’abate Cheremone, sia perché
abitava più vicino al suo monastero, sia perché dei tre egli era il più vecchio.
Egli aveva passato i cento anni e di vivo gli rimaneva soltanto lo spirito. Gli
anni e le preghiere continue lo avevano curvato a tal punto che — quasi fosse
tornato alla prima infanzia — camminava con le mani poggiate a terra.
Noi osservammo meravigliati l’ammirabile bellezza del suo volto e il suo modo
strano di camminare. Aveva le membra consunte, come se già fossero morte; con
tutto ciò non aveva minimamente diminuito il rigore della sua antica austerità.
Gli domandammo umilmente di accordarci una istruzione spirituale e di
comunicarci la sua dottrina; gli protestammo anche che la nostra visita aveva
uno scopo solo: conoscere le regole della vita spirituale. Alla nostra domanda
emise un profondo sospiro e disse: «Quale insegnamento posso darvi io? La
debolezza dell’età, che mi obbliga ad attenuare il rigore dei tempi andati, mi
toglie anche il coraggio di parlare. Come potrei presumere d’insegnare quello
che io stesso non faccio? Come potrei ammaestrare altri in quelle pratiche che
io stesso compio tanto malamente? Questa è la ragione per cui non ho permesso
che alcuno dei giovani solitari abitasse con me: temevo che il mio esempio
intiepidisse il fervore degli altri. Infatti la parola del maestro ha forza ed
autorità soltanto quando la virtù delle sue azioni la imprimono nel cuore dello
scolaro».
V -
Nostra
risposta
Non poco confusi da queste parole, noi rispondemmo: « Dovrebbe bastare ad
istruirci perfettamente la vista del luogo in cui vivi e la vita solitaria che
osservi ancora, a questa età avanzatissima.
Il tuo tenore di vita sarebbe appena sopportabile per un giovane robusto. Anche
se tu taci, queste cose parlano eloquentemente: ci danno grandi insegnamenti, ci
producono sincera compunzione. Tuttavia ti preghiamo di rompere il silenzio e di
volerci dire qualcosa per cui noi, oltre ad imitare la virtù che vediamo in te,
abbiamo anche motivo per ammirarla come lo merita.
Se la tiepidezza che scopri in noi non vale ad ottenere quel che domandiamo,
valgano almeno le fatiche di un lungo viaggio che dal monastero di Betlemme,
dove s’imparano soltanto i rudimenti della vita monastica, ci hanno condotti fin
qui, sospinti dal desiderio di udire i tuoi insegna- menti e di progredire nella
via della perfezione».
VI -
Proposizione dell’abate Cheremone: i vizi si vincono in tre modi
Allora il beato Cheremone prese a dire: tre cose trattengono l’uomo
dall’abbandonarsi al vizio: il timore dell’inferno o di altri castighi
minacciati dalle leggi umane; la speranza e il desiderio del regno dei cieli;
l’amore del bene in quanto bene, o amore delle virtù.
Leggiamo infatti che il timore respinge il contagio del male: «Il timore di Dio
odia il male » (Pr 8,32).
Anche la speranza sbarra la via alle incursioni dei vizi: «Coloro che sperano in
Lui non peccheranno » (Sal 33,23). L’amore, poi, non teme il danno del peccato,
perché «la carità non viene mai meno » (1 Cor 13,8), essa « copre la moltitudine
dei peccati » (1 Pt 4,8).
L’Apostolo ha compendiato nella perfezione di queste tre virtù l’essenza della
salute: « Ora — egli dice — restano queste tre cose: la fede, la speranza e la
carità » (1 Cor 13,13).
La fede ci fa evitare il contagio del vizio per paura del giudizio divino e dei
castighi eterni; la speranza distoglie la nostra mente dalle cose presenti e,
nell’attesa del premio celeste, disprezza tutti i piaceri del corpo; la carità,
accendendoci ad amare Cristo e a cogliere il frutto delle virtù spirituali, ci
fa detestare con tutto il cuore ciò che a questo fine si oppone.
Pur essendo vero che queste tre virtù tendono allo stesso fine, che è quello di
tenerci lontani dalle cose illecite, tuttavia sono assai diverse per dignità ed
eccellenza. Le prime due sono proprie di quegli uomini che cercano il progresso
spirituale, ma non hanno concepito ancora un affetto sincero per le virtù. La
carità invece è propria di Dio e di chiunque ha ricevuto in sé l’immagine e la
somiglianza di Dio.
Dio solo fa il bene senza essere a ciò sospinto dalla paura di un castigo o
dalla speranza di un premio: egli lo fa soltanto per amore e bontà: « Il Signore
ha fatto tutto per sé stesso » (Pr 16,4), dice Salomone. A causa della sua bontà
egli dona l’abbondanza di tutti i beni ai degni e agli indegni. Le ingiurie non
lo muovono, le iniquità degli uomini non lo irritano o l’addolorano: egli rimane
sempre Bontà perfetta, Natura immutabile.
VII -
Per
quali gradi si giunge alla vetta della carità. Stabilità di questa virtù
Se uno vuol tendere alla perfezione, dovrà incominciare dal primo grado, che è
quello del timore. Si tratta di uno stato che è proprio degli schiavi o dei
servi, come abbiamo già detto; di esso sta scritto: «Quando avrete fatto tutto
quello che era di dovere, direte: noi siamo dei servi inutili » (Lc 17,10).
Dal timore, il nostro ricercatore della perfezione, dovrà passare, attraverso un
progresso continuo, al grado più alto, che è quello della speranza. Questo
secondo grado non somiglia più alla condizione del servo, ma a quella del
mercenario: la speranza infatti resta in attesa d’una ricompensa. Chi ne è
dotato è certo del perdono ricevuto, non ha timore del castigo, è anzi cosciente
delle sue buone opere e aspetta il premio promesso da Dio. Tuttavia la speranza
non è giunta ancora a quel sentimento affettuoso del figlio, il quale, fiducioso
nell’amore e nella generosità paterna, è certo già di possedere tutto quanto
appartiene al padre suo.
A queste altezze non osa più aspirare il prodigo del Vangelo, il quale ha
perduto, oltre all’eredità paterna, anche il titolo di figlio: «Io non sono più
degno — egli dice — di essere chiamato tuo figlio » (Lc 15,19). Aveva strappato
le ghiande ai porci: aveva cioè voluto il cibo sordido del vizio e non gli era
stato concesso di saziarsene. Rientrò allora in sé stesso, fu preso da salutare
timore, concepì orrore per l’immondezza dei porci, ebbe paura dei tormenti
crudeli della fame. Questi sentimenti lo fecero somigliante ad uno schiavo. Poi
pensò alla ricompensa che i mercenari ricevevano in casa sua, invidiò la loro
condizione e disse: «Quanti mercenari in casa di mio padre hanno pane in
abbondanza, mentre io, qui, muoio di fame. Tornerò da mio padre e gli dirò:
Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te; non sono più degno di esser
chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi mercenari » (Lc 17-19).
Ma il padre gli si è mosso incontro: egli accetta e ricambia la parola di umile
pentimento, dettata da sentimenti affettuosi, con un affetto ancora più grande.
Non vuole concedergli i beni minori che il figlio umilmente chiedeva, ma subito
lo restituisce alla dignità di figlio suo, senza neppur pensare un istante a
farne un suo schiavo o un mercenario.
Affrettiamoci anche noi a salire, con l’aiuto della divina grazia al terzo
grado, che è quello dei figli, i quali credono che appartenga a loro tutto ciò
che appartiene al padre. Sforziamoci di ricevere in noi l’immagine e la
somiglianza del Padre celeste per poi dire anche noi, a imitazione del Figlio
primogenito: «Tutto ciò che ha il Padre è mio » (Gv 16,15). Questo concetto lo
esprime anche l’Apostolo, dopo averlo applicato a noi. Egli dice: «Ogni cosa è
vostra, sia Paolo, sia Apollo, sia Cefa, sia il mondo, sia la vita, sia la
morte, sia le cose che sono ora, sia le future: tutto è vostro » (1 Cor 3,22).
Anche il comando del Salvatore ci invita a somigliare al Padre: « Siate perfetti
— dice — come il Padre vostro dei cieli è perfetto » (Mt 5,48).
Nei gradi inferiori della vita spirituale l’amore del bene qualche volta
s’interrompe: ciò avviene quando la tiepidezza, la gioia, il piacere attenuano
il vigore dell’anima e fanno perdere per qualche tempo il timore dell’inferno e
il desiderio dei beni eterni. Tuttavia anche nei gradi inferiori c’è
un’occasione e una scuola di progresso. Dopo aver evitato il vizio per timore
del castigo o per la speranza del premio, diventa più facile passare al grado
della carità. «Il timore infatti non sta nella carità; ma la carità perfetta
manda via il timore, perché il timore ha in sé tormento; e chi teme non è
perfetto nella carità. Noi dunque amiamo Dio, poiché egli per il primo ci ha
amati » (Gv 4, 18-19). Non c’è altra via per giungere alla vera perfezione: come
Dio ci ha amati per primo, senza guardare ad altro che alla nostra salvezza,
così noi dobbiamo amarlo unicamente perché è degno d’essere amato.
Sforziamoci dunque di salire dal timore alla speranza, dalla speranza all’amore
di Dio e delle virtù. Emigriamo nella regione in cui il bene si ama per sé
stesso e fissiamo qui la nostra stabile dimora, almeno per quanto è possibile
alla natura umana.
Vili -
Eccellenza di coloro che sfuggono ai vizi per mezzo della carità vissuta
Esiste una grande differenza tra uno che spegne in sé le fiamme del vizio per
timore dell’inferno o per il desiderio del premio futuro, e un altro che sta,
inorridito, lontano dal male e da ogni impurità soltanto perché animato
dall’amore verso Dio. Quest’ultimo possiede la virtù della purezza per solo
amore e desiderio della castità. Egli non guarda lontano, al premio che gli è
promesso, ma la coscienza che ha di un bene già presente gli reca sommo diletto.
Fa tutto, non già perché vede i castighi, ma perché si compiace della virtù.
Costui, anche se fosse senza alcun testimone, non prenderebbe occasione per
peccare, né lascerebbe che la sua anima fosse profanata dalla segreta
compiacenza dei pensieri cattivi. L’amore della virtù lo ha penetrato fino nelle
fibre più intime; non solo non accoglie nella mente i moti contrari alla virtù,
ma li detesta e li respinge con orrore.
Altro è odiare le brutture del vizio e della carne perché si gusta un bene
presente, altro è frenare le concupiscenze illecite in vista della ricompensa
futura. Altro è temere un danno presente, altro è paventare castighi futuri.
Finalmente è segno di perfezione più grande non volersi staccare dal bene per
amore di quel bene stesso, che negare il proprio assenso al male per paura di un
male maggiore. Nel primo caso il bene è volontario, nel secondo caso appare
imposto e come estorto violentemente, o dal timore del castigo o dalla brama del
premio.
Colui che rinuncia alle seduzioni del vizio per motivi di timore, svanito il
timore che lo tratteneva, tornerà all’oggetto che desiderava. Non ci sarà per
lui stabilità nel bene; anzi non avrà neppure tregua dalle tentazioni, perché
non possiede la pace solida e costante che deriva dalla castità. Dove regna il
tumulto della guerra, è impossibile non correre il pericolo di essere feriti. E
quando uno si trova nel combattimento, quantunque da forte e coraggioso
combattente infligga spesso ai suoi nemici ferite mortali, tuttavia è
inevitabile che sia qualche volta messo alle strette dalla spada del nemico.
Chi invece, dopo aver superata la guerra dei vizi, gode ormai una pace sicura ed
è passato ad amare la virtù per se stessa, cercherà di rendere duraturo il
possesso del bene che già gode e sarà convinto che nessun danno è per lui
maggiore di un semplice attentato alla sua castità. La purezza che possiede è il
suo tesoro più caro e prezioso: per lui il castigo più grande sarebbe la perdita
della sua virtù, o l’infiltrazione del vizio contrario.
La presenza di altre persone o la solitudine più assoluta niente toglie e niente
aggiunge alla modestia di un simile uomo. Egli porta con sé, sempre e
dappertutto, il giudice supremo di tutti i suoi atti, anzi dei suoi stessi
pensieri: quel giudice è la coscienza. Il suo più grande impegno sarà dunque di
piacere a lei, a questa coscienza che non si può raggirare, né ingannare, né
sfuggire.
IX -
La
carità non solo ci trasforma da servi in figli, ma imprime in noi l’immagine e
la somiglianza di Dio
Se uno si è stabilito in questa condizione (e ciò per opera dell’aiuto divino,
non per il proprio valore o impegno), costui incomincerà le sue ascensioni.
Dallo stato di servo, che ha come segno distintivo il timore; dallo stato di
mercenario, che si distingue per la speranza, la quale si attacca di più alla
ricompensa in sé che alla bontà di colui che la dona, passerà allo stato dei
figli adottivi, dove non c’è più né timore né desiderio, ma solo e per sempre
quell’amore che mai viene meno.
Timore e amore si ritrovano in un rimprovero che Dio rivolge al suo popolo. In
quell’occasione Dio insegna a chi convenga l’uno e a chi convenga l’altro. «Un
figlio onora il padre, un servo il suo padrone. Dunque, se sono io il padre,
dov’è l’onor mio? Se sono io il padrone, dov’è il rispetto a me dovuto? » (Mal
1,6).
Il servo deve necessariamente temere, perché se «ha conosciuto la volontà del
padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere tale volontà, sarà
aspramente battuto » (Lc 12,47).
Chi invece, attraverso l’amore, è giunto a possedere l’immagine e la somiglianza
di Dio, si compiace del bene per il bene, a motivo della gioia che prova nel
praticarlo. In più abbraccia con uno stesso amore la pazienza e la dolcezza. Le
colpe dei peccatori non lo muovono più all’ira, chiede invece che Dio li
perdoni, tanto son grandi la pietà e la comprensione che sente per la loro
debolezza. Ricorda bene d’avere provato gli stimoli delle medesime passioni fino
al giorno in cui la misericordia divina non si compiacque di liberarlo. Sa che
non furono i suoi sforzi a liberarlo dagli assalti della carne, ma la protezione
di Dio. Per questo si è convinto che con chi sbaglia non si deve usare ira, ma
solo compassione. Perciò egli canta a Dio questo versetto, con assoluta
tranquillità di cuore: «Tu hai spezzato le mie catene! A te immolerò una vittima
di lode e di ringraziamento» (Sal 115, 16-17). E ancora: «Se non fosse stato che
il Signore mi ha aiutato, abiterebbe già negli inferi l’anima mia » (Sal 93,17).
Quando uno sia bene stabilito nell’umiltà dello spirito, potrà adempiere il
precetto evangelico della perfetta carità: «Amate i vostri nemici, fate del bene
a quelli che vi odiano, pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano »
(Mt 5,44). Per questa via si giunge a quel premio di cui il Vangelo parla subito
dopo: di meritare cioè il titolo di figli di Dio, oltre a possedere la sua
immagine e la sua somiglianza. Dice infatti: «Affinché siate figli del Padre
vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e fa
piovere sui giusti e sugli ingiusti » (Mt 5,45).
San Giovanni era consapevole di essere giunto a questo stato quando diceva:
«Abbiamo fiducia per il dì del giudizio: perché quale egli è, tali pure siamo
noi in questo mondo» (Gv 4,17).
In qual modo la natura umana, così debole e fragile, può sperare di essere come
Gesù? Soltanto se estenderà a tutti, buoni e cattivi, giusti e ingiusti, la
carità tranquilla di un cuore che imita quello del Signore, e fa il bene per
l’amore del bene. Così l’uomo arriva alla vera adozione dei figli di Dio, della
quale il medesimo san Giovanni dice: «Chiunque è nato da Dio non fa peccato
perché tiene in sé il germe di Lui» (1 Gv 3,9). E ancora: «Sappiamo che chiunque
è nato da Dio, non pecca; ma la divina generazione lo conserva e il maligno non
lo tocca» (1 Gv 5,18).
Queste parole tuttavia non vanno riferite ad ogni peccato, ma solo ai vizi
capitali. A proposito di queste colpe capitali, lo stesso apostolo san Giovanni
dice che se uno non vuole liberarsene e purificarsene, non merita più neppure
che si preghi per lui: «Chi sa che il proprio fratello commette un peccato che
non conduce a morte, chieda e sarà data la vita a quello che pecca non a morte.
Vi è un peccato a morte: non dico che uno preghi per questo» (1 Gv 5,16).
Peraltro, dei peccati che non portano alla morte e dai quali non vanno esenti
neppure i fedeli servi di Cristo, per quanto siano attenti ad evitarli, così è
scritto: «Se diremo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità
non è in noi» (1 Gv 1,8). E ancora: «Se diremo di non aver peccato, facciamo
bugiardo Lui, e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1,10).
È impossibile anche per un santo non cadere in qualcuna di quelle imperfezioni
che si commettono con le parole, coi pensieri, per ignoranza o dimenticanza, per
inavvertenza, per volontà, per sorpresa. Tutte queste cose, anche se restano
lontane da quelli che sono detti peccati mortali, non possono però essere immuni
da colpa o da qualche castigo.
X -
La perfezione della carità consiste nel pregare per i nemici; da qual segno si
può riconoscere che un’anima non è ancora purificata
Quando uno sarà giunto a quell’amore del bene e a quella imitazione del Padre
celeste, di cui abbiamo parlato, rivestirà quei sentimenti di longanimità che
furono propri del Signore e, a somiglianza di lui, pregherà così per i suoi
persecutori: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34).
È invece un segno evidente di un’anima non ancora purificata dalla sozzura dei
vizi, il fatto che le colpe del prossimo non trovino in essa compassione e
misericordia, ma la rigida condanna d’un giudice. Come potrà ottenere la
perfezione del cuore colui che manca di quell’elemento nel quale, a detta
dell’Apostolo, sta la perfezione di tutta la legge? «Portate — dice san Paolo —
i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Chi
non possiede la virtù della carità che «non si irrita, non s’inorgoglisce, non
pensa male, soffre tutto, sopporta tutto» (1 Cor 13,4-7), come potrà essere
perfetto? È scritto infatti: «Il giusto ha cura anche della vita delle sue
bestie, ma le viscere degli empi sono crudeli» (Pr 12,10).
È
dunque certo che quando un monaco condanna i vizi degli altri con severità
inflessibile e disumana, è soggetto anche lui a quei medesimi vizi. Sta scritto:
«Il re severo cadrà nei guai
» (Pr 13,17 – LXX)
e «Chi chiude gli orecchi al grido del misero, se anch’egli griderà non sarà
udito» (Pr 21,13).
XI
-
Perché
i sentimenti di timore e di speranza son giudicati imperfetti?
Germano.
Tu hai
parlato in modo forte e dolce del perfetto amore di Dio; noi però abbiamo
qualcosa ancora che gravemente ci turba. Mentre innalzavi tanto la virtù della
carità, dichiaravi imperfetto il timor di Dio unitamente alla speranza, o
desiderio del premio eterno. Pare però che il profeta sia stato di avviso
diverso a questo proposito. Egli dice: «Temete il Signore, o voi tutti santi
suoi, perché nulla manca a coloro che lo temono » (Sal 33,10). Altrove lo stesso
profeta confessa di essersi esercitato nell’osservanza dei comandamenti in vista
della ricompensa: «Ho inclinato il mio cuore ad eseguire i tuoi statuti in
eterno, a motivo della ricompensa » (Sal 118,112). Inoltre l’Apostolo ci
attesta: «Per la fede Mosè, fatto grande, rifiutò di esser detto figlio di una
figlia di Faraone, preferendo di esser maltrattato insieme col popolo di Dio,
piuttosto che avere il godimento momentaneo della colpa, e stimando l’obbrobrio
di Cristo, come una ricchezza maggiore dei tesori egiziani, poiché aveva lo
sguardo rivolto alla ricompensa » (Eb 11, 24-26).
Come si potrà credere che la fede e la speranza siano imperfette, dal momento
che il beato David si gloria di aver osservato la legge del Signore in vista
della ricompensa, e Mosè — così si afferma — disprezzò l’adozione nella famiglia
reale, e antepose una crudele afflizione ai tesori egiziani, perché guardava
lontano alle ricompense future?
XII -
Risposta sui diversi gradi di perfezione
Cheremone.
La sacra Scrittura chiama il nostro libero arbitrio a gradi diversi di
perfezione, secondo lo stato e la misura di ciascuna persona. Non era possibile
proporre a tutti la stessa corona di santità, perché non tutti hanno la stessa
virtù, la stessa volontà, lo stesso fervore. Perciò la parola di Dio stabilisce,
anche nella perfezione, diversi gradi e diverse misure.
Una riprova di questo disegno del Signore si ha nelle beatitudini evangeliche,
che mostrano evidente una certa varietà. È detto in esse: beati coloro ai quali
appartiene il regno dei cieli; beati coloro che possederanno la terra; beati
coloro che saranno consolati; beati coloro che saranno saziati. Noi crediamo
però che ci sia una bella differenza tra abitare nei cieli e possedere la terra,
qualunque sia qui il significato della parola terra. Crediamo inoltre che ci sia
differenza fra ricevere una consolazione e possedere la pienezza e la sazietà
della giustizia. Ci sembrano cose tra loro distanti ricevere misericordia e
meritare di godere la visione di Dio. Ci pare qui a proposito la parola
dell’Apostolo: «Altro è lo splendore del sole, altro quello della luna, altro
quello degli astri, poiché un astro è differente dall’altro per splendore. Così
è anche la resurrezione dei morti » (1 Cor 15,41-42).
È vero che la Scrittura loda coloro che temono il Signore e promette ad essi la
beatitudine eterna, da conseguire per questo mezzo: «Beati tutti coloro che
temono il Signore » (Sal 127,1). Ma la stessa Scrittura dice anche: «Il timore
non sta nella carità; ma la carità perfetta manda via il timore, perché il
timore ha in sé tormento, e chi teme non è perfetto nella carità » (1 Gv 4,18).
Allo stesso modo: è una gloria servire il Signore, sta scritto infatti: «
Servite il Signore nel timore » ( Sal 2,11); « È gran cosa per te esser chiamato
mio servo » (Is 49,6 –LXX); « Beato quel servo che, al ritorno del suo padrone,
sarà trovato attivo » (Mt 24,46); tuttavia agli apostoli è detto: « Io non vi
chiamo più servi, perché il servo non sa quel che fa il suo padrone: vi ho
chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutto quello che ho udito dal padre
mio » (Gv 15,15). E ancora: « Voi sarete miei amici se farete tutto quello che
vi comando » (Gv 15,13).
Vedete dunque che esistono più gradi di perfezione. Da una vetta il Signore
c’invita a salire sopra un’altra vetta ancora più alta. Chi s’è fatto beato e
perfetto nel timore di Dio, passerà di virtù in virtù (Sal 83,8), come dice la
Scrittura, cioè di perfezione in perfezione. Ciò significa che egli progredirà
dal timore alla speranza; poi udrà l’invito di Dio che lo chiama ad uno stato
ancora più santo, cioè alla carità. Colui che sarà stato un « servo fedele e
prudente » (Mt 24,45), sarà ammesso all’intimità dell’amicizia con Dio e
riceverà l’adozione dei figli.
Ecco il senso in cui vanno prese le mie parole. Io non intendo dire che la
meditazione delle pene eterne o dell’eterna ricompensa promessa ai santi, è cosa
di nessun valore. È utile e preziosa, perché introduce coloro che la praticano
nella via della perfezione e della beatitudine. Ma la carità è più perfetta,
s’illumina di una fiducia più grande e si ammanta già dell’eterna gioia. Essa
prende l’uomo e lo eleva, dal timore del servo e dalla speranza del mercenario,
lo porta all’amore di Dio e alla condizione di suo figlio adottivo. E se è vero
che trova l’uomo già perfetto, si deve affermare che lo fa più perfetto.
Il Salvatore ha detto: « Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore » (Gv
14,2). Tutti gli astri del cielo brillano, ma tra lo splendore del sole, della
luna, della stella del mattino e delle altre stelle, c’è una notevole
differenza.
Per queste ragioni il beato Apostolo innalza la carità non soltanto al di sopra
del timore e della speranza, ma anche al di sopra di tutti i carismi, che sono
stimati tanto grandi ed eccellenti. La carità è fra tutte la via più perfetta.
Dopo aver concluso il catalogo dei carismi, san Paolo si accinge a cantare
partitamente (ovvero “nei singoli particolari”. Ndr) le lodi della carità e
introduce così il discorso: « Io vi indico una via di gran lunga migliore. Se io
parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, e non avessi amore, non sarei
che un bronzo risonante, o un cembalo squillante. E se avessi il dono della
profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza; e se avessi tutta la
fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi di amore, non sarei nulla. E
se anche sbocconcellassi a favore dei poveri tutto quello che ho, e dessi il mio
corpo per essere arso, e non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » (1
Cor 12,31; 13,1-3).
Vedete bene che niente esiste di più prezioso, di più perfetto, di più sublime,
di più eterno — se così posso dire — della carità. « Le profezie termineranno;
le lingue cesseranno; la scienza finirà in nulla. La carità non verrà mai meno »
(1 Cor 13,8). Senza carità, i più alti carismi, e lo stesso martirio, non
valgono a nulla.
XIII -
Il
timore che nasce dall’abbondanza della carità
Chi avrà posto solido fondamento nella perfezione della carità, salirà ad un
grado più eccellente e più sublime ancora, voglio dire il timore amoroso. Questa
specie di timore non nasce dalla paura dei castighi o dal desiderio del premio;
nasce soltanto dalla grandezza dell’amore. E l’affetto profondo e delicato che
un figlio ha per un padre pieno di bontà, il fratello per il fratello, l’amico
per l’amico, la sposa per lo sposo. Non teme percosse o rimproveri, teme solo di
ferire l’amore, anche con la ferita più leggera. In ogni atto, in ogni parola
sta all’erta e si controlla per non perdere neppure in misura impercettibile la
delicatezza del suo amore.
Uno dei profeti ha ben descritto la bellezza di questo timore amoroso: «
Sapienza e scienza saranno ricchezze di salute, ma il timore di Dio ne sarà il
tesoro » Is 33,6). Il profeta non poteva sottolinearne con più evidenza la
dignità e la preziosità. Le ricchezze della nostra salute, che consistono nella
sapienza e nella scienza di Dio, non possono essere conservate se non nel timore
di Dio. Per questo gli oracoli dei profeti invitano al timore amoroso, non già i
peccatori ma i santi; dice infatti il Salmista: « Temete il Signore, voi tutti
suoi santi, perché niente manca a coloro che lo temono » (Sal 33,10). Chi teme
il Signore di questo timore, può esser sicuro che niente gli manca per essere
perfetto. Non si confonda il timore amoroso con quello servile di cui parla san
Giovanni quando dice: « Chi teme non è perfetto nella carità, perché il timore
ha in sé tormento » (1 Gv 4,18).
C’è dunque una grande differenza tra quel timore a cui niente manca, che è il
tesoro in cui son custodite la sapienza e la scienza, e l’altro timore
imperfetto che è appena l’inizio della sapienza (Sal 110,10), che porta con sé
la minaccia del castigo e viene estromesso dal cuore dei perfetti al
sopraggiungere della perfetta carità. Sta scritto infatti: « Il timore non sta
nella carità; la perfetta carità caccia via il timore » (1 Gv 4,18).
E tutto
è logico. Se il principio della sapienza è nel timore, dove sarà la perfezione
della sapienza, se non nella carità di Cristo, la quale ingloba in sé il timore
amoroso e perfetto e merita perciò di essere chiamata non più
inizio
della
sapienza, ma
tesoro
della sapienza e della scienza?
Esistono dunque due gradi di timore. Uno è proprio dei principianti, cioè di
quelli che stanno ancora sotto il giogo dei servi. Di questo timore è scritto: «
Il servo temerà il suo padrone » (Gv 15,14). Il Vangelo aggiunge poi: « Non vi
chiamerò più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone » (Gv
8,35). Perciò sta scritto ancora: « Lo schiavo non resta per sempre nella casa;
il figlio invece vi resta per sempre » (Gv 8,35).
La sacra Scrittura ha voluto invitarci così a salire dal timore del castigo,
alla perfetta libertà dell’amore e alla confidenza che è propria degli amici e
dei figli di Dio.
Infine il beato Apostolo che, per la virtù della divina carità, aveva di gran
lunga superato lo stato del timore servile, rimirando dall’altezza della carità
questo dono inferiore, proclama di essere stato arricchito da Dio di doni assai
più preziosi. « Dio non ci ha dato uno spirito di timore, ma di forza e di amore
e di saggezza » (2 Tm 1,7).
Lo stesso Apostolo esorta così coloro che ardono in cuore d’amore perfetto per
il Padre celeste, e che l’adozione divina ha trasformati da schiavi in figli: «
Non avete mica ricevuto lo spirito di servitù da ricadere nel timore, ma spirito
di adozione a figlioli, in cui gridiamo: Abba, Padre! » (Rm 8,15).
Del
timore amoroso parla anche il profeta quando descrive lo spirito settiforme che
è sceso indubbiamente sull’Uomo-Dio, secondo il piano dell’incarnazione. « E si
poserà su lui lo spirito del Signore: spirito di sapienza e di intelletto,
spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo
spirito
del timore
del Signore lo riempirà » (Is 11,2).
Gioverà osservare che non è detto: «Riposerà su lui lo spirito di timore», come
è detto per tutti gli altri doni, ma qui è detto: « lo spirito del timore lo
riempirà ». Tanta è la ricchezza di questo spirito, che quando s’è impossessato
di un’anima, non la possiede parzialmente, ma la penetra completamente. Ed è
giusto che sia così. Il timore amoroso, per il fatto che è tutt’uno con la
carità che non vien mai meno, non soltanto riempie, ma possiede inseparabilmente
e per sempre colui del quale si è impossessato. Mai le compiacenze della gioia o
del piacere terreno potranno diminuirlo, cosa che invece avviene spesso al
timore servile.
Questo è dunque il timore dei perfetti, del quale è scritto che riempì
l’Uomo-Dio, il quale non era venuto soltanto per redimerci, ma anche per darci,
nella sua persona, il modello della perfezione e l’esemplare di ogni virtù.
Quanto al timore servile, Gesù non poté averlo. Egli era infatti vero figlio di
Dio, e la Scrittura afferma che « non fece mai peccato e mai sul suo labbro fu
trovato inganno » (1 Pt 2,22).
XIV -
Domanda
sulla castità perfetta
Germano.
Il discorso sulla carità perfetta è ormai terminato. Vorremmo ora interrogarti
sul grado più alto della castità. Il nesso tra la nostra richiesta e la tua
conferenza è questo. Siamo certi che la vetta della carità, sulla quale — come
ci è stato spiegato — si vive ad immagine e somiglianza di Dio, non si può
raggiungere senza la perfetta castità. Ora vorremmo sapere se la castità può
essere così duratura che l’integrità del nostro cuore non abbia mai da risentire
i moti della concupiscenza. È possibile che noi, pur vivendo nella carne,
rimaniamo così lontani dalle passioni carnali da non sentirci mai bruciare dal
loro ardore?
XV -
La
risposta è rinviata ad altro tempo
Cheremone.
Se potessimo intrattenerci continuamente in quei sentimenti che ci uniscono al
Signore, sia per imparare, sia per insegnare la scienza della perfezione, noi
daremmo prova di possedere la felicità perfetta e meriti straordinari. I giorni
e le notti, secondo la parola del Salmista trascorrerebbero nella meditazione:
le nostre anime, divorate da insaziabile fame e sete di giustizia, si
nutrirebbero incessantemente di questo cibo celeste.
Ma noi abbiamo anche un corpo che è una povera bestia da soma. Bisognerà
provvedere anche a quello (come c’insegna la benignissima provvidenza del
Signore), per evitare che venga meno lungo il cammino. Ricordiamo che sta
scritto: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41).
Diamo ora un po’ di ristoro — anche frugale — al nostro corpo: quando avremo
dato il necessario cibo al corpo, anche l’anima sarà più alacre nell’indagare il
tema che aveva proposto.
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9 agosto 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net