LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
Cassianus Ioannes - Collationes
CONLATIO TERTIA
QUAE EST ABBATIS PAPHNUTII DE TRIBUS ABRENUNTIATIONIBUS
Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne |
3.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE PANUZIO LE TRE RINUNZIE
Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline |
CAPUT I.
(De conversatione ac vita abbatis Pafnutii CAPUT II. De sermone eiusdem senis ac reponsione nostra CAPUT III.
Propositio abbatis Pafnutii de tribus vocationum generibus et de tribus
renuntiationibus CAPUT IV.
Expositio trium vocationum
CAPUT V.
Quid et desidioso vocatio prima non prosit et strenuo postrema non obsit CAPUT VI.
Expositio trium renuntiationum
CAPUT VII.
Quemadmodum singularum renuntiationum sit adprehenda perfectio
CAPUT VIII. De propriis divitiis, in quibus consistit animae pulchritudo vel
foeditas
CAPUT IX. De tripertito genere divitiarum
CAPUT X. Non posse quemquam primo tantum
renuntiationis gradu esse perfectum CAPUT XI.
Interrogatio de libero arbitrio
hominis et gratia dei
CAPUT XII. Responsio de dispensatione diuinae
gratiae manente arbitrii libertate CAPUT XIII.
Quod directio uiae nostrae ex deo
sit CAPUT XIV. Quod scientia legis magisterio et
inluminatione domini conferatur
CAPUT XV. Quod intellectus, quo mandata dei
possimus agnoscere, et bonae uoluntatis effectus a domino condonetur CAPUT XVI.
Quod ipsa fides a domino concedatur
CAPUT XVII. Quod moderatio et tolerantia
temptationum nobis a domino tribuatur CAPUT XVIII.
Quod perpetuitas timoris dei nobis a
domino conferatur
CAPUT IX.
Quod initium uoluntatis bonae et
consummatio eius a domino sit CAPUT XX.
Quod nihil in hoc mundo sine deo
geratur CAPUT XXI.
Obiectio super liberi arbitrii
potestate CAPUT XXII.
Responsio, quod liberum arbitrium
nostrum adiutorio domini semper indigeat |
Indice dei Capitoli I - Forma di vita praticata dall’abate Panuzio; II - Discorso del vecchio abate e nostra risposta; III - Proposizioni dell’abate Panuzio sulle tre rinunzie; IV - Le tre vocazioni; V - La vocazione più sublime non giova al pigro e la meno nobile non nuoce al generoso; VI - Le tre rinunzie; VII - Bisogna portare al grado perfetto ognuna delle tre rinunzie; VIII - Ricchezze che conferiscono bellezza e bruttura all’anima; IX - Tre generi di ricchezze; X - Nessuno può essere perfetto se si ferma al primo grado di rinunzia; XI - Domanda sulla grazia e il libero arbitrio; XII - Risposta: la grazia divina non toglie il libero arbitrio; XIII - La guida nostra è Dio; XIV - Dio è il nostro maestro: con la sua luce noi conosciamo la Legge; XV - Ci vengono da Dio sia l’intelligenza per conoscere i comandamenti di Dio, sia gl’impulsi della buona volontà per seguirli; XVI - La stessa fede è una grazia di Dio; XVII - Dio misura le tentazioni e dà la grazia per superarle; XVIII - La perseveranza nel santo timore è dono di Dio; XIX - Inizio e termine della buona volontà vengono da Dio; XX - In questo mondo niente si fa senza Dio; XXI - Obiezione derivante dal libero arbitrio; XXII - Risposta: il nostro libero arbitrio ha sempre bisogno dell’aiuto divino. |
CAPUT PRIMUM. In illo choro sanctorum, qui velut astra purissima, in nocte mundi istius refulgebant, vidimus sanctum Paphnutium vice luminaris magni claritate scientiae coruscantem. Hic namque presbyter congregationis nostrae, id
|
I - Forma
di vita praticata dall'abate Panuzio Nel coro di santi che - risplendenti a guisa di astri - illuminavano la notte di questo mondo, noi vedemmo brillare il venerabile Panuzio. Costui, quanto a scienza spirituale, appariva una specie di sole.
Egli
era pure il sacerdote del nostro gruppo di monaci: voglio dire di quel
gruppo che abitava nel deserto di Scito.
Panuzio visse fino all’estrema età senza voler mai lasciare la cella che
aveva incominciato ad abitare da giovane e che distava dalla Chiesa ben
cinque miglia. Mai fu possibile fargli accettare una cella più vicina,
neppure quando, per lui che era rotto dalle fatiche e dagli anni, andare
alla Chiesa ogni sabato e ogni domenica costituiva un’impresa sovrumana.
Ma c’è di più: egli non sopportava di tornare dalla Chiesa con le mani
vuote. Si caricava sopra le spalle un vaso d’acqua e lo portava alla
cella perché gli somministrasse da bere durante la settimana: anche
quand’ebbe passati i novant’anni, non permise mai che un monaco dei più
giovani gli alleviasse questa fatica.
Panuzio si era messo alla scuola dei cenobiti fino dalla prima
adolescenza e aveva dimostrato tale e tanto ardore che in poco tempo si
era arricchito dello spirito di sottomissione e della scienza di ogni
virtù. Con la pratica dell’obbedienza e dell'umiltà mortificò tutti i
moti della sua volontà, cosicché giunse ad estirpare tutti i vizi e a
rendersi perfetto in tutte quelle virtù che son frutto delle istituzioni
monastiche e della dottrina dei Padri antichi. Acceso poi dal desiderio
d’una vita più sublime, ebbe volontà di ritirarsi solo in qualche angolo
del deserto, per unirsi perfettamente e senza alcuna distrazione al
Signore, col quale sospirava di stabilire una unione inseparabile fin
dal tempo in cui viveva nella schiera degli altri monaci. Là, nella perfetta solitudine, superò in fervore e virtù gli stessi anacoreti. Tutto preso dal desiderio di una continua contemplazione di Dio, fuggiva la vista degli uomini, addentrandosi nella solitudine più segreta e inaccessibile. Stava lungo tempo nascosto a tutti gli sguardi: gli stessi anacoreti non riuscivano a vederlo che raramente e con fatica. Così nacque e si propagò la voce che egli godesse ogni giorno della compagnia degli angeli. In conseguenza di un sì grande amore per la solitudine, gli fu dato il soprannome di Bufalo. |
CAPUT II. De sermone ejusdem senis, et
responsione nostra. Hujus igitur magisterio institui cupientes, cogitationum etiam stimulis agitati, ad cellam ejus jam die advesperascente pervenimus. Qui, habito aliquantisper silentio, cum propositum nostrum praedicare coepisset, quod scilicet patriam relinquentes, tot provinciis pro amore Domini perlustratis, egestatem ac vastitatem eremi tolerare, et imitari rigorem conversationis illorum tantopere niteremur, quem vix ipsi qui in eadem necessitate atque inopia nati educatique sunt, sustinerent; respondimus nos ob id ad ejus
doctrinam ac magisterium tetendisse, ut imbui aliquatenus
institutionibus ac perfectione tanti viri possemus, quam innumeris
documentis inesse |
II - Discorso
del vecchio abate e nostra risposta
Desiderosi di essere istruiti da sì grande maestro, sollecitati anche
dagli impulsi dei nostri pensieri, arrivammo alla cella di Panuzio verso
l’ora del tramonto.
Egli tacque qualche istante, al vederci. Poi incominciò ad esaltare il
nostro proposito: avete lasciato la vostra patria, avete attraversato,
per amore del Signore, tante regioni, con l’intenzione di sopportare
coraggiosamente la povertà, e la vastità del deserto, per imitare la
vita austera degli anacoreti, una vita che a malapena sopportano coloro
che sono nati e cresciuti in condizioni di estrema necessità e miseria. Noi rispondemmo di esser venuti a lui per averlo come maestro, per essere arricchiti della sua dottrina: per esser penetrati dagli insegnamenti e dalla perfezione di un uomo la cui grandezza era attestata da prove innumerevoli. Ci dispiaceva perciò di sentirci rivolgere lodi non meritate e tali da farci cadere in tentazione di superbia: una tentazione dalla quale eravamo stati altre volte assaliti mentre abitavamo nelle nostre celle. Lo pregavamo dunque di volerci rivolgere parole tali da ispirare compunzione e umiltà, anziché somministrare esca alla vanagloria e alla superbia. |
CAPUT III. Propositio abbatis Paphnutii de tribus vocationum generibus, et de tribus abrenuntiationibus. Tum beatus Paphnutius: Tres, inquit, vocationum
sunt ordines, tres quoque renuntiationes |
III - Proposizione
dell’abate Panuzio sulle tre specie di vocazioni e sulle tre rinunzie
Allora il venerabile Panuzio prese a dire: le vocazioni sono di tre
sorta, e tre sono ancora i generi della rinunzia: tutti e tre necessari
al monaco, qualunque sia il tipo della sua vocazione. Innanzi tutto
dobbiamo seriamente ricercare perché io dica che esistono tre sorta di
vocazioni.
Se ci accorgeremo di essere stati chiamati al culto di Dio col primo e
più alto grado di vocazione, dovremo anche commisurare all’eccellenza
della vocazione la qualità della nostra vita, perché niente varrebbe
aver avuto un alto principio, se a quello non rispondesse un fine
altrettanto alto. Se invece ci accorgeremo che Dio ci ha strappati al
mondo con la vocazione più umile, noi dovremo impegnarci col più grande
fervore e procurar di finire in modo molto degno di quell’umile inizio
dal quale partimmo. Ma anche il tema delle tre rinunzie dev’essere da noi ben approfondito, perché non potremo assolutamente raggiungere la perfezione se non conosceremo la sua natura, o se, pur conoscendola, non cercheremo di realizzarla. |
CAPUT IV. Expositio trium vocationum. Ut igitur tres hi vocationum modi speciali
distinctione pandantur, primus ex Deo est, secundus per hominem, tertius
ex necessitate. Ex Deo quidem est, quoties inspiratio quaedam immissa in
cor nostrum nonnumquam etiam dormientes nos ad desiderium aeternae vitae
ac salutis exsuscitat, Deumque sequi et ejus inhaerere praeceptis
compunctione saluberrima |
IV - Le
tre vocazioni
Parliamo dunque delle tre vocazioni e delle loro note distintive. La
prima vocazione viene da Dio, la seconda viene dall’uomo, la terza dalla
necessità.
La vocazione viene direttamente da Dio quando egli manda al nostro cuore
un’ispirazione che può sorprenderci anche nel sonno, svegliarci
all’improvviso con un grande desiderio della vita eterna e della nostra
salvezza, sollecitandoci a seguire Dio e ad essere fedeli ai suoi
comandi con salutare compunzione.
Tale fu la vocazione di Abramo. Leggiamo nella sacra Scrittura che egli
fu invitato dalla voce del Signore ad abbandonare la terra natale, gli
affetti familiari, la casa stessa di suo padre: ”Esci dalla tua terra,
dalla tua famiglia, dalla casa di tuo padre » (Gen.
12, 1).
Nello stesso modo sappiamo che fu chiamato il beato Antonio: l’occasione
della sua conversione venne unicamente da Dio. Entrò un giorno in una
chiesa e udì queste parole di Gesù: « Chi non odia suo padre e sua madre
e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle e perfino la sua vita,
non può essere mio discepolo » (Lc
14, 26..
Udì pure le altre parole: « Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che
hai e donalo ai poveri e avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi »
(Mt.
19, 29).
Antonio pensò che quel comando del Signore fosse rivolto proprio a lui,
lo ricevette con la più grande compunzione del cuore e subito, senza che
esortazione umana o insegnamento umano lo sollecitasse, abbandonò tutto
ciò che possedeva e si mise a seguire il Maestro divino.
La seconda vocazione è quella che nasce - come già è stato detto - con
la mediazione degli uomini. Sono allora gli esempi dei santi e le
esortazioni delle persone pie che accendono nel cuore il desiderio della
salvezza. Anch’io, per la grazia del Signore, credo di essere stato
chiamato così. Commosso dagli insegnamenti e dagli esempi del beato
Antonio, mi consacrai alla solitudine e alla professione della vita
monastica. In modo simile, secondo quanto leggiamo nelle sacre
Scritture, i figli d’Israele furono liberati dalla schiavitù d’Egitto,
con l’intervento di Mosè.
La terza vocazione nasce da necessità. Mentre viviamo tutti attaccati
alle ricchezze e ai piaceri del mondo, all’improvviso cade su di noi una
dura prova; è forse un pericolo di morte che ci minaccia, è forse la
perdita o la proscrizione dei nostri beni a percuoterci, è forse la
morte di persone care che ci riempie di dolore. In queste circostanze,
noi, che non avevamo voluto seguire Dio nella prosperità, siamo spinti
verso di lui dal dolore. Di questa, che chiameremo « vocazione per forza », troviamo molti esempi nella sacra Scrittura, là dove leggiamo che i figli d’Israele a causa dei loro peccati, furono dati nelle mani dei nemici e sotto la loro crudele tirannia si convertirono. Ecco qualche esempio del libro Sacro: « E alzarono la voce verso il Signore, il quale suscitò loro un salvatore di nome Aod, figlio di Gera, figlio di Jemini, che era ambidestro » (Gdc 3, 15). E altrove si legge: « Gridarono allora al Signore e questo suscitò, per salvarli e liberarli, Otoniele figlio di Cenez, il fratello minore di Caleb » (Gdc 3, 9). Anche nei Salmi si trovano casi analoghi: «Quando li uccideva lo cercavano, e tornavano, e di buon mattino correvano a lui, e si ricordavano che Dio era il loro aiuto » (Sal 77, 34-35). E altrove: « E gridarono al Signore nella loro tribolazione e dalle angustie loro li strappò » (Sal 106, 6). |
CAPUT V. Quod et desidioso vocatio prima non prosit, et strenuo postrema non obsit. Ex his itaque tribus modis licet priores duo
melioribus inniti principiis videantur, nonnumquam |
V - La
vocazione più sublime non giova al pigro e la meno nobile non nuoce al
generoso
Delle tre vocazioni fin qui descritte, le prime due sembrano godere di
più alta dignità; noi però abbiamo conosciuto alcuni monaci che, pur
essendo partiti dalla terza vocazione, cioè da quella più bassa e meno
fervorosa, furono tuttavia uomini perfetti e sommamente ferventi, simili
in tutto a coloro che entrarono nel servizio di Dio per la porta più
nobile; e continuarono poi nel fervore per tutto il rimanente della loro
vita. Ne vedemmo anche altri che, dopo aver ricevuto la vocazione del
grado più eccellente, si lasciarono vincere dalla tiepidezza e finirono
miseramente.
Per coloro che sembrano essersi convertiti più per ima estrema necessità
che per un intimo movimento della volontà, il movente poco nobile della
conversione non fu di danno, perché la bontà del Signore procurò ad essi
l’occasione di pentirsi e nobilitarsi. Coloro invece che si convertirono
sotto la spinta di una vocazione sublime non ebbero da ciò grandi
vantaggi, se poi non si curarono d’intonare con l’inizio il resto della
loro vita.
All’abate Mosè, che abitò la parte di questo deserto chiamato « Calamo
», niente mancò per raggiungere la più alta perfezione. Eppure, si era
rifugiato nel monastero per scampare alla pena di morte che si era
meritata per aver commesso un omicidio. Egli abbracciò con tale ardore
la sua vocazione forzata da trasformarla, con generosa prontezza in una
libera scelta; così giunse alle più alte cime della perfezione. A
moltissimi altri, invece, che non è bene nominare particolarmente,
niente giovò aver iniziato il servizio di Dio nel modo più nobile,
perché caddero nella tiepidezza più fatale e quindi nel baratro di
morte: costoro s’erano lasciati vincere dalla fiacchezza e dalla durezza
di cuore.
Di ciò abbiamo una riprova anche nella vocazione degli Apostoli. Che
cosa giovò a Giuda aver accettato volontariamente il ministero sublime
dell’apostolato - al quale era stato invitato con una chiamata pari a
quella di Pietro e degli altri Apostoli - dal momento che terminò con
ima fine esecranda? L’inizio era stato nobilissimo, ma poi, per amore
del denaro, tradì il suo Maestro e si macchiò del più mostruoso
parricidio. Guardate invece san Paolo. Colpito da improvvisa cecità,
parve attirato alla via della salvezza contro sua voglia, ma poi seguì
il Signore con immenso fervore dell’anima, riscattò la sua vocazione
forzata con una donazione completa della volontà e concluse con un
finale incomparabile la sua vita gloriosa, tutta ornata di elettissima
perfezione. Tutto dipende da come si finisce. Uno che ha dato ottimo inizio alla sua conversione per sua negligenza può finire all’ultimo posto; un altro che è stato portato quasi per forza alla professione monastica, sorretto dal timore di Dio e dalla sua personale diligenza, può arrivare a somma perfezione. |
CAPUT VI. Expositio trium abrenuntiationum. Nunc de abrenuntiationibus disserendum est,
quas tres esse et Patrum traditio, et Scripturarum sanctarum demonstrat
auctoritas, quasque unumquemque nostrum omni studio oportet implere.
Prima est qua corporaliter universas divitias mundi facultatesque
contemnimus; secunda qua mores, ac vitia, affectusque pristinos animi
carnisque respuimus; tertia qua mentem nostram de praesentibus universis
ac visibilibus evocantes, futura tantummodo contemplamur, et ea quae
sunt invisibilia concupiscimus. Quae tria, ut simul perficiantur, etiam
Abrahae legimus |
VI - Le
tre rinunzie
Ora dobbiamo parlare delle rinunzie. La tradizione dei Padri e
l’autorità della sacra Scrittura ci dicono che sono tre e che ciascuno
di noi deve compierle tutte.
La prima rinunzia è di natura materiale: per mezzo di essa noi
disprezziamo tutte le ricchezze e tutti i beni del mondo. La seconda è
quella per la quale rinneghiamo il nostro passato, i nostri vizi, le
passioni dello spirito e della carne. La terza consiste nel ritrarre la
nostra mente dalle cose presenti e visibili, per desiderare solo le cose
eterne e i beni che non si vedono.
Queste tre rinunzie bisogna compierle tutte, nessuna esclusa, come è
chiaro dal comandamento dato da Dio ad Abramo quando disse: « Esci dalla
tua terra, dalla tua parentela, e dalla casa di tuo padre » (Gen
12, 1).
Prima disse: « Esci dalla tua terra », cioè: rinuncia ai beni di questo
mondo e alle ricchezze terrene. In secondo luogo disse: « Esci dalla tua
parentela », cioè rinuncia alla tua maniera di vivere, alle abitudini e
ai vizi contratti: tutte cose queste che sono a noi strettamente unite,
fin dal tempo della nascita, da avere ormai stabilito con noi una specie
di parentela o consanguineità. Infine disse: « Esci dalla casa di tuo
padre », cioè: allontana dal tuo sguardo ogni memoria di questo mondo.
Noi abbiamo due padri: uno da lasciare e uno da cercare: David li
ricorda entrambi nei salmi, quando fa parlare Dio in questi termini: «
Ascolta, o figlia, guarda e china il tuo orecchio, e dimentica il tuo
popolo e la casa del padre tuo » (Sal
44, 11).
Colui che dice: « Ascolta, o figlia » è certamente padre; egli stesso
però afferma che anche un altro è padre di questa « figlia »: di tale
secondo padre invita a lasciare la casa e il popolo.
L’allontanamento dal secondo padre avviene quando noi, morti con Cristo
alle cose di questo mondo, contempliamo, secondo la parola
dell’Apostolo, « non le cose che si vedono ma quelle che non si vedono,
poiché le cose che si vedono sono temporanee, e quelle che non si vedono
eterne » (2 Cor.
4, 18).
E ciò noi facciamo quando, uscendo col cuore da questa casa temporale e
visibile, indirizziamo gli occhi e la mente a quella dimora in cui
abiteremo eternamente. Un tale programma sarà da noi attuato se, pur
vivendo nella carne,
cesseremo di agire secondo la
carne e incominceremo a militare per il Signore. Allora potremo
ripetere, senza mancare alla verità, la parola dell’Apostolo: « La
nostra città è in cielo » (Fil 3,20).
Alle nostre tre rinunzie corrispondono perfettamente i tre libri di
Salomone. Alla prima rinunzia corrispondono i Proverbi, con i quali si troncano i desideri delle cose carnali e i vizi terreni. Alla secondo rinunzia corrisponde l'Ecclesiaste, nel quale si proclama che quanto avviene sotto il sole è tutto e soltanto vanità. Alla terza rinunzia corrisponde il Cantico dei Cantici.L’anima, trasvolando tutte le cose visibili, si unisce al Verbo di Dio, nella contemplazione delle cose celesti. |
CAPUT VII. Quemadmodum singularum
renuntiationum sit appetenda perfectio.
Quapropter non multum proderit primam nos
abrenuntiationem cum summa devotione fidei suscepisse, |
VII - Bisogna
portare al grado perfetto ognuna delle tre rinunzie
Non ci gioverà molto avere compiuto la prima rinuncia, sia pure con la
più grande devozione e fede, se poi non compiremo anche la seconda, con
altrettanta cura e con uguale fervore. La seconda rinunzia non va poi
considerata come fine a se stessa: essa ha Io scopo di facilitare la
terza, quella per la quale rivolgeremo ogni sguardo dell’anima verso il
cielo, usciti che saremo dalla casa di nostro padre. E il padre da
abbandonare è il « vecchio uomo » esistente in noi, quello per colpa del
quale noi eravamo « figli dell’ira » al pari di tutti gli altri uomini Ef.
2, 3..
Con parole che possiamo riferire a questo padre indesiderabile, Dio
parla così nel libro Sacro, rivolgendosi a Gerusalemme: « Tuo padre è
l’Amorreo e tua madre Cetea » (Ez
16, 3).
Il Vangelo a sua volta dice: « Il padre dal quale discendete è il
diavolo, e voi volete compiere i desideri del padre vostro » (Gv
8, 44).
Quando avremo abbandonato il diavolo, passando dalle cose visibili a
quelle invisibili, potremo dire con san Paolo: « Noi sappiamo che se la
nostra abitazione terrena - consistente in una tenda - si dissolve,
abbiamo un’abitazione non manufatta ed eterna, preparataci da Dio nei
cieli » (2 Cor.
5, 1).
E vale in tale occasione anche un’altra parola dell’Apostolo, da noi già
riferita: « La nostra cittadinanza è nei cieli, donde aspettiamo, come
Salvatore, il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della
miseria nostra, cosicché sia conforme al corpo della sua gloria » (Fil.
3, 20-21).
Sullo stesso argomento dice David nei Salmi: « Io sono un pellegrino
sopra la terra, come lo furono tutti i miei padri » (Sal
118, 19).
In forza delle rinunzie noi saremo somiglianti a coloro dei quali parla
Gesù nel Vangelo, quando dice al Padre: « Essi non sono del mondo, come
neppure io sono del mondo » (Gv
17, 16),
e poi il Signore aggiunge, rivolto agli Apostoli: « Se foste del mondo,
il mondo amerebbe ciò che è suo; invece, siccome nonsiete
del mondo e vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia » (Gv
15,19).
Ecco dunque il segno dal quale si può giudicare che abbiamo compiuto
perfettamente la terza rinunzia: l’anima non sente più
quell’appesantimento carnale da cui era prima gravata, ma, dopo profonda
purificazione da ogni affetto e disposizione terrena, attraverso la
meditazione continua delle cose celesti e l’esercizio della
contemplazione spirituale, è passata al mondo dell’invisibile. Tale
passaggio è avvenuto in forma così completa che l’anima stessa, ormai
tutta intenta alle cose celesti e spirituali, non ha più la nozione del
suo corpo carnale e del luogo in cui vive. Rapita in estasi continua, il
suo orecchio è insensibile alle voci che giungono dal di fuori; le
creature passano senza che l’occhio le scorga. C’è di più: l’occhio non
percepisce neppure immense moli che gli stanno davanti.
Per capire la verità di queste parole, ci vuole uno che sia stato
ammaestrato dall’esperienza, uno al quale il Signore abbia staccato così
bene la vista del cuore da tutte le cose presenti, che egli non le stimi
più oggetti destinati a passare, ma addirittura come creature già
passate e scomparse nel nulla: dissolte a somiglianza di una voluta di
fumo. Ci vuole insomma uno che camminando con Dio, come faceva Enoc, sia
stato tratto fuori dalla vita e dai costumi degli uomini e non abiti più
nella vanità del mondo presente. Dato che abbiamo nominato Enoc notiamo
ima differenza: per lui il rapimento non fu soltanto spirituale ma anche
corporale, come ci attesta il libro del Genesi: « Enoc camminò con Dio e
poi disparve, perché Iddio lo prese con sé » (Gen 5,24). E l’Apostolo
soggiunge: « Per la fede Enoc fu trasportato, affinché non vedesse la
morte » (Eb 11,5). Di questa morte dice il Signore nel Vangelo: « Chi
vive e crede in me non morrà in eterno » (Gv 11,26). Affrettiamoci
dunque - se ci preme raggiungere la vera perfezione - ad abbandonare col
cuore, come già li abbiamo abbandonati col corpo, genitori, patria,
ricchezze, piaceri, né torniamo mai, col desiderio, a rimpiangere ciò
che abbiamo abbandonato, come fecero gli Ebrei quando uscirono
dall’Egitto. Ricordate? Mosè li condusse fuori dall’Egitto, essi vi
ritornarono: non certo col corpo, ma col desiderio. Dopo aver
abbandonato Dio, che li aveva liberati con tanta dovizia di miracoli,
tornarono ad adorare gl’idoli egiziani già da loro disprezzati. Ciò è
ricordato nelle sacre Scritture: « Ritornarono col cuore in Egitto, o
dissero ad Aronne: « Facci degli dei che ci guidino » (At 7,39). Anche
noi saremo condannati al pari degli Ebrei, che, pur essendo alimentati
nel deserto con la manna, desiderarono i vili e rivoltanti cibi del
vizio. Sembra infatti che anche noi mormoriamo con loro: « Stavamo bene
in Egitto. Eravamo seduti dinanzi a pentole piene di carne e mangiavamo
cipolle e agli e cocomeri e poponi » (Num 11,18; Es 16,3; Num 11,5).
Tutto questo avveniva nel popolo ebraico come figura di quello che
avviene ogni giorno nel nostro stato e nella nostra professione.
Chiunque, dopo aver rinunziato al mondo, torna agli antichi desideri e
alle vecchie passioni, esclama con i suoi atti e con i suoi pensieri: «
Come stavo bene quand’ero in Egitto! ». E io temo che i monaci di questa
fatta non siano meno numerosi degli Ebrei che prevaricarono al tempo di
Mosè. Ricordate la Scrittura? Di seicentomila che erano gli uomini atti
a portare le armi, quando il popolo ebraico uscì dall’Egitto, due soli
entrarono nella terra promessa. Perciò dobbiamo cercar di prendere
esempio dai pochi e rari che rimasero fedeli, perché, con quel che
abbiamo riferito sopra, concorda anche il Vangelo che dice: molti sono i
chiamati, pochi gli eletti.
Niente ci gioverà una rinunzia soltanto carnale e locale, somigliante
alla partenza degli Ebrei dall’Egitto. Quella che conta è la rinunzia
del cuore: quella sola è sublime e utile. Dell’altra, che abbiamo
chiamato rinunzia esteriore e corporale, ecco come parla l’Apostolo: «
Se distribuissi ai poveri tutto quello che ho, e dessi il mio corpo per
essere arso, ma non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » (1 Cor
13,3).
San Paolo non avrebbe scritte queste parole se non avesse previsto in
spirito che molti, dopo aver distribuito ai poveri le loro ricchezze,
sarebbero rimasti impotenti a scalare le vette della perfezione
evangelica e della carità, per aver lasciato dominare nel proprio cuore
superbia e impazienza, antichi vizi e sregolate abitudini, di cui
avevano il dovere di purificarsi. Per questo non arrivarono a
impossessarsi di quella divina carità che, al dire dello stesso
Apostolo, non viene mai meno.
Tutti costoro, falliti nel secondo grado di rinunzia, molto meno
poterono raggiungere il terzo, che è indubbiamente il più sublime. Notate attentamente che san Paolo non ha detto soltanto: « Se distribuirò le mie ricchezze ai poveri ». Se così avesse parlato, si sarebbe potuto pensare che egli intendesse presentare uno di quei tali che non osservano pienamente E comando di Dio, in quanto si ritengono qualcosa di ciò che possedevano. No. S. Paolo dice: « Se distribuirò tutte le mie ricchezze in cibo ai poveri », il che vuol sottintendere: anche se avrò rinunciato perfettamente a queste ricchezze del mondo. Anzi, aggiunge qualcosa di più grande ancora: « Se abbandonerò il mio corpo alle fiamme ma non avrò la carità, non sono nulla ». Insomma, è come se dicesse: se io distribuirò ai poveri tutti i miei averi, secondo quel comandamento del. Vangelo che dice: « Se vuoi esser perfetto, va’, vendi quello che hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli »: se spingessi la rinunzia fino al punto di non riservarmi niente e aggiungessi alla rinunzia completa anche il martirio di fuoco, e perdessi la mia vita per Cristo: se dopo tutto questo io sono ancora impaziente, irascibile, invidioso, superbo, se l’ingiuria patita mi accende d’ira, se cerco il mio tornaconto, se penso il male, se non soffro pazientemente e di buon grado tutti i maltrattamenti, la rinunzia e il martirio del mio corpo non mi recheranno alcun giovamento. E ciò perché l’uomo interiore rimane ancora schiavo degli antichi vizi. Inutilmente, nel fervore della mia conversione, avrò disprezzato la sostanza di questo mondo (la quale in se stessa non è né buona né cattiva ma indifferente), se poi non mi impegnerò a rigettare le nefaste ricchezze di un cuore vizioso e a praticare la carità che è paziente, che è benevola, che non è invidiosa, non si gonfia, non si irrita, non fa nulla invano, non cerca il suo interesse, non pensa male, ma soffre tutto, sopporta tutto, e, per dirla in breve, non permette che i suoi fedeli seguaci siano ingannati dal demonio e tirati nel peccato. |
CAPUT VIII. De propriis divitiis, in quibus
constat animae pulchritudo vel foeditas. Festinare igitur debemus omni instantia, ut
interior quoque noster homo vitiorum suorum divitias quas |
VIII - Ricchezze
che conferiscono bellezza o bruttura all’anima
Dobbiamo impegnarci con tutte le forze affinché l’uomo interiore che è
in noi dilapidi e getti via quelle ricchezze del vizio che acquistò
nella sua prima vita. Queste dannate ricchezze sono proprio nostre,
stanno saldamente attaccate al corpo e all’anima. Se non sapremo
staccarle e gettarle via finché viviamo in questo mondo, non cesseranno
di stare con noi neppure dopo la morte. Come le virtù acquistate in
terra - e soprattutto la carità che delle virtù è la fonte - rivestono
di luce, anche dopo la morte, colui che le amò, così i vizi offuscano e
macchiano l’anima di colori orribili e la mandano, deturpata,
all’inferno.
La bellezza dell’anima nasce dalla virtù, la sua deformità nasce dal
vizio. Virtù e vizio sono come colori che s’attaccano all’anima e la
rendono, o tanto bella che essa merita di sentirsi dire: « Il Re si è
invaghito della tua bellezza » (Sal 44,12), o tanto brutta, nauseante e
deforme che essa stessa si sente obbligata a confessare così la causa
della sua vergogna: « Sono imputridite e marcite le mie piaghe per la
mia stoltezza » (Sal 37,6). E il Signore allora domanda: « Perché non si
è rimarginata la ferita della figlia del popolo mio? » (Ger 8,22). Queste sono le nostre ricchezze, esse rimangono sempre unite all’anima: nessun re o nessun nemico potrà mai donarcele o rapircele. Queste sono le sole ricchezze che neppure la morte ci strapperà. Chi saprà rinunciare alle ricchezze del vizio giungerà alla perfezione, chi si farà schiavo di esse, sarà condannato alla morte eterna. |
CAPUT IX. De tripartito genere divitiarum. Tripartito enim modo in Scripturis sanctis
intelliguntur divitiae, id est, malae, bonae, mediae. Malae quidem sunt
de quibus dicitur, Divites eguerunt et esurierunt (Psal. XXXIII).
Et, Vae vobis, divites, quia recepistis consolationem vestram (Lucae
VI). Quas etiam divitias abjecisse summa perfectio est. Ad quarum
distinctionem sunt pauperes illi qui in Evangelio Domini voce laudantur:
Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelorum (Matth.
V). Et in Psalmo: Iste pauper clamavit, et Dominus exaudivit |
IX - Tre
generi di ricchezze
La parola « ricchezze », nella sacra Scrittura, prende tre significati:
uno cattivo, uno buono, uno indifferente.
Sono ricchezze cattive quelle di cui si dice: « I ricchi hanno sofferto
la sete e la fame »
(Sal 33,11). E
ancora: « Guai a voi o ricchi, perché avete ricevuto la vostra
consolazione » (Lc 6,24). Rinunciare a queste ricchezze è il colmo della
perfezione. Ed è ancora per condannare tali ricchezze che il Signore,
nel Vangelo, esalta i poveri: « Beati i poveri di spirito, perché di
essi è il regno dei cieli » (Mt 5,3). E il Salmo dice: « Questo povero
ha levato la sua voce e il Signore lo ha ascoltato » (Sal 37,7). E
ancora: « Il povero e l’indigente loderanno il tuo nome » (Sal 73,21).
Ci sono anche ricchezze buone: acquistarle è segno di grande virtù e di
grande merito. David loda l’uomo giusto che le possiede: « La stirpe dei
giusti sarà benedetta. Splendore e ricchezze in casa di lui, e la sua
ricchezza perdura nei secoli » (Sal 111,2-3). E ancora: « L’uomo
riscatta la vita con le sue ricchezze » (Pr 13,8). Di queste ricchezze
sante si parla nell’Apocalisse, quando
colui che non le possiede è rimproverato dalla sua povertà e nudità: «
Sto per vomitarti dalla mia bocca, perché dici: sono ricco, mi sono
arricchito e non ho bisogno di nulla e invece non sai che tu sei
meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo. Ti consiglio a comprare
da me oro purgato col fuoco perché tu arricchisca, e vesti bianche
perché tu le indossi e non appaia la vergogna della tua nudità » (Ap
3,16-18).
Ci sono in ultimo anche le ricchezze indifferenti, cioè che possono
essere ora buone, ora cattive: queste si volgono da una parte o
dall’altra, secondo la qualità e la volontà di chi le usa. A proposito
di queste ricchezze dice l’Apostolo: « Ai ricchi dell’età presente dò il
consiglio di non essere alteri d’animo, e di non riporre la speranza
nell’incerto della ricchezza, ma di sperare in Dio che ci somministra
copiosamente ogni cosa per il nostro godimento. Facciano del bene, si
arricchiscano di opere buone, siano facili a dare agli altri,
tesoreggiando così un buon fondamento per l’avvenire, affinché possano
raggiungere quella che è veramente vita » (1 Tm 6,17-19). Sono queste ricchezze, per sé indifferenti, che il ricco del Vangelo si teneva strette, senza elargirle ai poveri e senza farne parte al mendico Lazzaro, che stava disteso davanti alla sua porta e chiedeva di potersi saziare con le briciole che cadevano dalla mensa. Ma il ricco era duro e finì nell’inferno. |
CAPUT X. Non posse quemquam primo tantum
renuntiationis gradu esse perfectum. Has igitur visibiles mundi divitias
relinquentes, non nostras, sed alienas abjicimus facultates, quamvis eas
gloriemur vel nostro labore quaesitas, vel parentum ad nos haereditate
transmissas. Nihil enim, ut dixi, nostrum est, nisi hoc tantum quod
corde possessum, atque animae nostrae cohaerens, a nemine potest prorsus
auferri. De illis autem visibilibus divitiis ad eos qui illas tamquam
proprias retentantes, communicare indigentibus nolunt, increpans
loquitur |
X - Nessuno
può essere perfetto se si ferma al primo grado di rinunzia
Quando rinunziamo alle ricchezze di questo mondo, lasciamo non già
qualcosa di nostro, ma qualcosa che non ci appartiene, anche se ci
possiamo vantare di averlo acquistato col nostro lavoro, o d’averlo
ricevuto in eredità dai nostri antenati. L’ho già detto: niente è nostro
tranne ciò che portiamo nel nostro cuore ed è talmente unito con la
nostra anima che nessuno ce lo potrà mai strappare.
A coloro che si tengono gelosamente strette le ricchezze del mondo,
quasi fossero loro esclusiva proprietà, e si rifiutano di fame parte ai
poveri, il Signore dice: « Se non siete stati fedeli nell’altrui, chi vi
darà il vostro? » (Lc 16,12). Come è facile vedere, non è soltanto
l’esperienza quotidiana a dirci con evidenza che le ricchezze non ci
appartengono, c’è anche la parola del Signore che lo dichiara
espressamente.
Delle ricchezze invisibili e cattive, parla s. Pietro quando dice al
Signore: « Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Quale
sarà la nostra ricompensa? » (Mt 19,27).
Riflettiamo un istante e vedremo che gli Apostoli avevan lasciato ben
poco: qualche rete da pescatori, povera e mezza rotta. Se, quando s.
Pietro dice: « abbiamo lasciato tutto »,
non intendiamo la rinunzia ai vizi che son davvero qualcosa di grande,
noi dovremo convenire che gli Apostoli non lasciarono nulla di prezioso,
perciò il Signore non avrebbe avuto motivo di far loro una promessa di
gloria e di felicità così alta, come quella che pronunciò: « Nel giorno
della rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono
della sua gloria, sederete anche voi, che mi avete seguito, su dodici
troni, a giudicare le dodici tribù d’Israele » (Mt 19,28).
Ma se anche coloro che hanno sinceramente e compieta- mente abbandonato
le ricchezze visibili della terra, non sono tante volte capaci di
procedere con passo spedito verso il terzo grado di rinunzia, che cosa
dovranno pensare di se stessi tutti coloro che, non avendo compiuto
neppure il primo facilissimo grado di rinunzia, ritengono ancora
l’infedeltà antica, l’attaccamento dannoso al denaro, e si gloriano di
un nome vano: quello di monaco?
La prima rinunzia riguarda dunque le cose che non sono nostre, per
questo non può bastare da sola a produrre la perfezione. Bisogna salire
al secondo grado di rinunzia, perché in quello si abbandona qualcosa di
nostro. Ma appena cancellato ogni vizio, col secondo grado di rinunzia,
noi dovremo salire alle vette del terzo grado. È in forza della terza
rinunzia che noi disprezziamo con tutte le forze dello spirito, non solo
gli avvenimenti di questo mondo e i beni posseduti dagli uomini, ma
anche il complesso degli elementi cosmici che appaiono tanto
affascinanti. La terza rinunzia ci scoprirà che tutto è sotto l’impero
della vanità, tutto è destinato a finire presto, mentre noi siamo
destinati, come insegna s. Paolo, a contemplare « non ciò che si vede,
ma ciò che non si vede: perché le cose che si vedono passano col tempo,
quelle che non si vedono sono eterne » (2 Cor 4,18).
Chi arriverà a compiere la terza rinuncia meriterà di sentirsi rivolgere
l’invito che fu rivolto ad Abramo: « Vieni nella terra che io ti
mostrerò » (Gen 12,1).
Da tutto ciò appare evidente che senza aver compiuto prima, col massimo
ardore dello spirito, i tre gradi di rinunzia, non è possibile ottenere
quel che il Signore aggiunge in quarto luogo come premio a chi ha
operato il perfetto distacco, cioè l’ingresso nella terra promessa, dove
non esistono i triboli e le spine del vizio. Questa terra si può già
possederla fin dalla vita presente, per mezzo della liberazione dalle
passioni e della purezza del cuore. È ima terra che l’uomo non potrebbe
scoprire per virtù propria, né con l’industria o la fatica: il Signore
solo la conosce e la mostra all’anima, dice infatti: « Vieni nella terra
che io ti mostrerò ».
Le parole rivolte da Dio ad Abramo dimostrano pure che il principio
della salvezza consiste in una chiamata del Signore: « Esci dalla tua
terra »; dipende però da Dio anche il compimento dell’opera della nostra
perfezione e purificazione, dice infatti Dio: « Vieni nella terra che io
ti mostrerò ». Si tratta di una terra - sembra dire il Signore - che tu,
con tutti gli sforzi di cui sei capace, non potresti scoprire; sono io
che te la mostro, anche quando tu non la cerchi, perché mi muovo a
compassione della tua ignoranza. Questo dimostra che Dio, dopo averci chiamato con le sue ispirazioni ad intraprendere la via della salute, si fa nostra guida lungo il cammino e ci conduce, con la sua luce, fino al termine della felicità celeste. |
CAPUT XI. Interrogatio de libero arbitrio
hominis, et gratia Dei. Germanus: In quo ergo liberum consistit arbitrium; nostrae quoque, quod laudabiles sumus, reputatur industriae, si Deus in nobis omnia quae ad nostram perfectionem pertinent, et incipit, et consummat? |
XI - Domanda
sulla grazia e il libero arbitrio Germano - In che cosa consiste, allora, il nostro libero arbitrio? E perché si rende lode al nostro impegno nella vita spirituale, se è Dio che incomincia e porta a termine l’opera della nostra perfezione? |
CAPUT XII. Responsio de dispensatione
divinae gratiae, manente arbitrii libertate. Paphnutius: Hoc vos recte movisset, si in omni
opere vel disciplina principium tantum esset ac finis, et non etiam
quaedam medietas interesset. Itaque sicut occasionem salutis diversis
modis Deum cognoscimus operari, ita nostrum est occasionibus a
Divinitate concessis, vel enixius vel remissius famulari ( Vide
annotationem quintam Cuychii in fine operis ). Nam sicut Dei fuit
vocantis oblatio, Exi de terra tua, ita Abrahae fuit exeuntis
obedientia: et quemadmodum illud quod dicitur, Et veni in terram,
obtemperantis fuit opus; ita illud quod additur, Quam tibi
monstravero (Genes. XII), jubentis Dei, vel promittentis |
XII - Risposta:
la grazia divina non toglie il libero arbitrio
Panuzio -
La vostra obiezione sarebbe giusta se, in ogni opera o disciplina,
esistesse soltanto il principio e la fine, e non ci fosse anche uno
stadio intermedio che corre fra l’uno e l’altro dei termini estremi.
Noi sappiamo che Dio mostra a tutti le vie della salvezza, e le mostra
in modo diverso da persona a persona: percorrere quelle vie in modo più
fervoroso o più pigro, dipende da noi [i].
È vero che fu Dio a chiamare Abramo e a fargli la proposta: « Esci dalla
tua terra », ma è anche vero che l’atto di obbedienza, nell’uscire dalla
propria terra, fu di Abramo. Così pure, alle parole di Dio: « Vieni
nella terra », dovette aggiungersi l’obbedienza di Abramo. Invece le
altre parole «... che
io ti mostrerò », non chiedevano nulla da parte di Abramo: esprimevano
soltanto la grazia di Dio che presentava un comando e prometteva un
premio.
È certo tuttavia che, pur mettendo noi i più nobili sforzi nel praticare
la virtù, pur impegnando tutto il nostro zelo e la nostra attività,
dovremo accorgerci che tutto il lavoro dell’uomo è insufficiente ad
acquistargli il premio della felicità eterna. È necessaria l’azione di
Dio, è necessario che sia lui a guidare il nostro cuore al bene. Perciò
sulle nostre labbra deve risuonare ad ogni istante la preghiera di
David: « Rafferma i miei passi nei tuoi sentieri, perché non vacillino i
miei piedi » (Sal 16,5). Oppure: « Stabilì sopra una rupe i miei piedi e
guidò i miei passi » (Sal 39,3).
Il libero arbitrio, per la nostra ignoranza del bene e per l’attrattiva
delle passioni, è portato verso i vizi, perciò Colui che governa
invisibilmente l’anima dell’uomo si degna ricondurlo all’amore della
virtù.
Le verità di cui stiamo parlando sono dette nei Salmi; ecco un versetto
eloquente per noi: « Una spinta violenta mi fu data perché cadessi » (e
qui si sottolinea l’infermità del libero arbitrio), « il Signore è
venuto in mio aiuto » (qui si sottolinea la continua assistenza di Dio).
Affinché il libero arbitrio non ci spinga alla completa rovina, Dio ci
stende la mano ogni volta che ci vede vacillare, ci sostiene col suo
aiuto e fortifica i nostri passi.
Ecco ancora il Salmista a ripeterci questo concetto: « Se dicevo:
vacilla il mio piede », per la fragilità del libero arbitrio, « la tua
grazia, o Signore, mi aiutava » (Sal 117,13). Alla confessione della sua
debolezza il Salmista fa seguire quella dell’aiuto divino; riconosce
infatti che se la sua fede non ha vacillato, ciò non è dipeso da lui, ma
dalla misericordia del Signore. Nello stesso Salmo ora citato è detto
pure: « Se molti erano gli affanni entro il mio cuore » (tutti derivanti
dal mio libero arbitrio), « le tue consolazioni rallegravano l’anima mia
» (Sal 93,19). Queste consolazioni - intende dire il Salmista - sono
come un soffio della tua bocca, o Signore; penetrano nel mio cuore e gli
aprono la vista dei beni futuri, di quei beni che hai promesso a chi
soffre per il tuo nome: così l’anima mia è liberata da ogni ansietà ed è
ricolma di somma letizia. E il nostro salmo aggiunge, a modo di
conclusione: « Se non fosse stato che il Signore mi ha aiutato,
abiterebbe già negli Inferi l’anima mia » (Sal 93,17). Il salmista
riconosce così che il suo arbitrio corrotto lo avrebbe condotto
all’inferno se non lo avesse salvato Dio, col suo aiuto e la sua
protezione. « È Dio, infatti, non il libero arbitrio, che guida i passi
dell’uomo » (Sal 36,23); anzi, « quando il giusto cade - per colpa del
libero arbitrio - non stramazza » (Sal 36,24). E perché? Chi sarà a
salvarlo? « Perché il Signore gli pone sotto la sua mano » (Sal 36,23). Quanto siamo andati dicendo significa con chiarezza solare che nessuno, anche se giusto, può bastare da solo ad ottenere la salvezza; la bontà di Dio deve ad ogni istante sostenere i passi vacillanti del giusto, affinché la debolezza del libero arbitrio non gli faccia perdere l’equilibrio e, caduto, lo faccia perire per sempre. |
CAPUT XIII. Quod directio vitae nostrae ex
Deo sit. Nec sane umquam viri sancti directionem viae,
qua gradiebantur, ad profectum virtutum consummationemque tendentes,
industria se propria obtinuisse testati sunt, sed eam potius a Domino
precabantur dicentes: Dirige me in veritate tua (Psal. XXIV), et,
dirige in conspectu tuo viam meam (Psal. V). Et, Notam fac
mihi viam in qua ambulem (Psal. CXLII). Alius autem non solum fide,
sed etiam experimento, et quodammodo ipsa rerum natura, hoc ipsum se
deprehendisse proclamat: Cognovi, Domine, quia non est in homine via
ejus, nec viri est ut ambulet et dirigat gressus suos (Jerem. X). Et
ipse Dominus ad Israelem: Et dirigam eum ego, inquit, ut
abietem virentem; |
XIII - La
guida nostra è Dio
Nessuno ha mai sentito dire, da quei santi uomini dei nostri Padri, che
la scelta della vita per la quale camminavano, come pure il progresso o
l’altissimo grado di perfezione raggiunto, erano una conquista della
loro industria. Dicevano invece di avere tutto ricevuto dal Signore, al
quale rivolgevano la loro preghiera in questi termini: « Guidami nella
tua verità » (Sal
24,5) e « dirigi al tuo cospetto la mia via » (Sal 5,9).
Il profeta Isaia dice di conoscere la regola da noi presentata, non solo
per fede, ma per sua personale esperienza, e perché la trova scritta
nella natura stessa delle cose: « Io so, o Signore, che non è in balia
dell’uomo la sua strada, né è in suo arbitrio camminare e dirigere i
suoi passi » (Ger 10,23). Dio stesso, nel profeta Osea, parla al suo popolo così: « Lo rizzerò io come un verde abete: da me il tuo fratello è stato ritrovato » (Os 5,9). |
CAPUT XIV. Quod scientia legis magisterio et illuminatione Domini conferatur. Legis quoque ipsius scientiam non lectionis industria, sed magisterio et illuminatione Dei quotidie desiderant adipisci, dicentes ad eum: Vias tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me (Psal. XXIV). Et, Revela oculos meos, et considerabo mirabilia de lege tua (Psal. XVIII). Et, Doce me facere voluntatem tuam, quia Deus meus es tu (Psal. CXLVI). Et iterum: Qui doces hominem scientiam (Psal. XCIII). |
XIV - Dio
è il nostro maestro: con la sua luce noi conosciamo la Legge Gli uomini spirituali, anche quando si tratta della scienza della Legge, non dicono di poterla acquistare con lo studio e la lettura, ma l’aspettano dal magistero e dall’illuminazione di Dio, al quale rivolgono ogni giorno questa preghiera: « Le tue vie, o Signore, fammi conoscere, e i tuoi sentieri insegnami » (Sal 24,4). Ancora: « Togli il velo ai miei occhi e considererò le meraviglie della tua Legge » (Sal 118,18). Oppure: « Insegnami a fare la tua volontà perché il mio Dio tu sei » (Sal 142,20). E infine: « Sei tu che insegni all’uomo la sapienza » (Sal 93,10). |
CAPUT XV. Quod intellectus, quo mandata Dei
possimus agnoscere, et bonae voluntatis affectus a Domino donetur. Ipsum etiam intellectum beatus David, quo
mandata Dei possit agnoscere, quae utique in libro legis noverat esse
perscripta, a Domino postulat promereri, dicens: Servus tuus ego sum,
da mihi intellectum, ut discam mandata tua (Psal. CXVIII). Qui
utique |
XV - Ci
vengono da Dio sia l’intelligenza per conoscere i comandamenti di Dio,
sia gl’impulsi della buona volontà per seguirli
Il santo profeta David, pur sapendo che i comandamenti di Dio sono
scritti nei libri della legge, più che pensare a leggerli, pensa a
domandare al Signore intelligenza per comprenderli. Ecco infatti come
prega: « Io sono il tuo servo, o Signore, dammi intelligenza per
conoscere i tuoi comandamenti » (Sal 118,125). Eppure, egli possedeva
già l'intelligenza derivatagli dalla natura e, quanto ai comandamenti,
sapeva che erano scritti nei libri della Legge, libri che teneva di
continuo a portata di mano! Con tutto questo egli prega e chiede la
grazia di conoscere i comandamenti. Sa bene infatti che la natura sola
non basta ad una tale opera; è necessario ancora che la luce di Dio
rischiari la ragione, le consenta di penetrare nello spirito della Legge
e le faccia scoprire, con la più grande chiarezza, ciò che Dio comanda.
Anche s. Paolo attesta la verità di quanto diciamo; ecco le sue parole:
« È Dio che produce in noi il volere e l’agire con buona volontà » (Fil
2,13). Si poteva forse parlare con maggior chiarezza di così? l’Apostolo
afferma che è Dio a produrre in noi la buona volontà e l’adempimento di
ogni buona opera. E altrove soggiunge: « A voi fu data questa grazia
rispetto a Cristo, non solo di credere in lui, ma di patire per lui »
(Fil 1,29). Resta così confermato che non solo l’inizio della
conversione e della fede, ma anche la pazienza per sopportare ci viene
da Dio.
Convinto della stessa verità, il profeta David implorava così la
misericordia del Signore: « Conferma, o Dio, ciò che hai fatto in noi »
(Sal 67,29). In tal modo David riconosceva che le primizie della
salvezza, concesse dalla grazia e dalla benevolenza di Dio, non bastano:
quelle primizie debbono esser condotte alla piena perfezione con un
aiuto quotidiano derivante anch’esso dalla divina misericordia.
Non è il libero arbitrio, ma è il Signore che scioglie le catene agli
schiavi (Sal 145,7); non è la nostra virtù, ma è il Signore che solleva
gli abbattuti (Sal 145,8); non è un’attenta lettura della Bibbia, ma è
la grazia del Signore che dona la vista ai ciechi. Anzi, a questo punto
il testo greco del libro sacro dice: « Chùrios sofòi tuflùs », che
significa: « Il Signore rende sapienti i ciechi ». Non è la nostra
vigilanza ma è il Signore che custodisce i forestieri (Sal 145,9); non è
la nostra forza ma il Signore che sostiene tutti quelli che cadono (Sal
144,14).
Quanto è stato detto non aveva lo scopo di proclamare inutile il nostro
zelo o vani i nostri sforzi, voleva però persuaderci che senza l’aiuto
di Dio siamo incapaci a compiere anche il minimo sforzo, oppure che i
nostri sforzi da soli sono incapaci a raggiungere il premio ineffabile
della purità. Per arrivare alla meta ci abbisognano assolutamente
l’aiuto e la misericordia del Signore: « Per il dì della battaglia si
prepara il cavallo, ma è il Signore che dà la salvezza » (Pr 21,31),
perché « non per sua forza l’uomo sarà potente » (1 Sam (1 Re; Vulg.)
2,9). Dobbiamo perciò continuamente cantare col profeta David: « La mia forza e il mio vanto non è il libero arbitrio, ma il Signore: egli è stato a me di salvezza » (Sal 117,14). Anche il Dottore delle genti è sicuro di essere diventato un idoneo operaio del Nuovo Testamento, non a causa dei suoi meriti e delle sue fatiche, ma unicamente per la misericordia di Dio. Dice infatti: « Non che da noi stessi siamo capaci di pensare alcunché come fosse da noi, ma la sufficienza nostra viene da Dio » (2 Cor 3,5). Poi conclude: « Dio ci ha pure fatti idonei ad essere ministri di un nuovo Patto » (2 Cor 3,6). |
CAPUT XVI. Quod ipsa fides a Domino concedatur. In tantum autem universa quae ad salutem
pertinent apostoli sibimet a Domino largita senserunt, |
XVI - La
stessa fede è una grazia di Dio
Gli Apostoli compresero benissimo che tutto quanto riguarda la salvezza
è dono di Dio, perciò chiesero al Signore anche la fede: « Signore -
pregavano - aumenta in noi la fede » (Lc 17,5). Non aspettavano dal loro
libero arbitrio la pienezza di questa virtù, ma credevano di poterla
ricevere soltanto dalla liberalità di Dio. Di più: l’autore stesso della
nostra salvezza c’insegna a riconoscere l’incostanza, la debolezza,
l’insufficienza assoluta della nostra fede, quando non sia soccorsa
dall’aiuto divino: « Simone, Simone, ecco Satana va in cerca di voi per
vagliarvi come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te, affinché la
tua fede non venga meno » (Lc 22,31-32).
Un altro personaggio evangelico, ammonito dall’esperienza personale,
sentiva la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso
gli scogli del naufragio, per questo pregava così rivolgendosi al
Signore: « Io credo, Signore, aiuta la mia incredulità » (Mc 9,24). Gli
Apostoli e gli altri personaggi che popolano il Vangelo avevano capito
perfettamente che nessun bene raggiunge in noi la sua perfezione senza
l’aiuto di Dio: erano così convinti di non poter neppure conservare la
fede, con le sole forze del libero arbitrio, die chiedevano al Signore
di porre e conservare in loro la fede.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto di Dio per non venir
meno, chi sarà tanto presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire
senza quell’aiuto? Non è forse vero che il Signore stesso dichiara la
nostra insufficienza quando dice nel Vangelo: « Come il tralcio non può
produrre frutto se non rimane unito alla vite, così voi non potete
portare frutto se non rimarrete in me » (Gv 15,4). E ancora: « Senza di
me non potete far nulla » (Gv 15,5). Quanto sia stolto e sacrilego attribuire a noi stessi, anziché all’aiuto della divina grazia, anche una parte minima dei nostri atti buoni, appare chiaro da una sentenza della divina Scrittura in cui è detto che senza l’ispirazione e la cooperazione della grazia nessuno può produrre frutti spirituali: « Ogni dono ottimo, ogni grazia perfetta, viene dal cielo e scende dal Padre dei lumi » (Gc 1,17). E il profeta Zaccaria soggiunge: « Se c’è qualcosa di buono è di Dio, se c’è qualcosa di ottimo viene da lui » (Zc 9,17). S. Paolo, a sua volta, domanda: « Che cosa hai che tu non abbia ricevuto? E se lo hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto? » (1 Cor 4,9). |
CAPUT XVII. Quod moderatio et tolerantia
tentationum nobis a Domino tribuatur. Summam quoque tolerantiae, qua tentationes
illatas sustinere possimus, non tam in nostra virtute quam in Dei
misericordia et moderatione consistere beatus Apostolus ita pronuntiat:
Tentatio vos non apprehendat nisi humana: fidelis autem Deus, qui non
permittet vos tentari super id quod potestis, sed faciet cum tentatione
etiam exitum, ut sustinere possitis (I Cor. X). Deum quoque aptare
sive confirmare animos nostros ad omne opus bonum, et operari in nobis
ea quae sibi sunt placita, idem Apostolus docet: Deus autem pacis qui
eduxit de tenebris pastorem magnum ovium in sanguine testamenti aeterni
Jesum |
XVII - Dio
misura le tentazioni e dà la grazia per superarle Anche la forza per sostenere le tentazioni da cui siamo assaliti, più che dalla nostra virtù, dipende dalla misericordia e dalla sapienza con cui Dio sa misurare la prova. Dice san Paolo: « Tentazione non vi ha sorpreso se non umana; ora Iddio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre quel che potete, ma con la tentazione vi procurerà anche la via d’uscita, affinché possiate sopportarla » (1 Cor 10,16). Lo stesso Apostolo c’insegna che Dio dispone e fortifica le nostre anime per tutte le opere buone, e compie in noi tutto ciò che gli piace: « Il Dio della pace, che in virtù del Sangue dell’eterno patto ha risuscitato da morte il gran pastore delle pecore, il Signore nostro Gesù, vi renda atti ad ogni opera buona, operando egli ciò che è gradito ai suoi occhi » (Eb 13,20-21). E perché questo effetto si compia anche in favore dei Tessalo- nicesi, così prega l’Apostolo: « Lo stesso Signore nostro Gesù Cristo, e Iddio Padre nostro, che ci ha amato e dato eterna consolazione e buona speranza nella grazia sua, consolino i vostri cuori e vi confermino in ogni opera e discorso buono » (2 Ts 2,15-16). |
CAPUT XVIII. Quod perpetuitas timoris Domini nobis a Domino conferatur. Ipsum denique timorem Dei, quo firmiter eum
tenere possimus, a Domino nobis infundi, Jeremias propheta ex persona
Dei manifeste testatur, ita dicens: Et dabo eis cor unum, et animam
unam, ut timeant me universis diebus, et bene sit eis, et filiis eorum |
XVIII - La
perseveranza nel santo timore è dono di Dio Anche il timore di Dio ci è infuso dall’alto. Il profeta Geremia lo afferma chiaramente quando, parlando a nome di Dio, dice: « E darò a loro un cuor uno e un’unica via affinché mi temano in ogni tempo e abbiano bene, essi e i loro figlioli dopo di loro. E stringerò con loro un patto sempiterno, e non cesserò più dal beneficarli, e metterò nel loro cuore il timore, affinché non si ritirino più da me » (Ger 32,39-40). Ezechiele parla allo stesso modo: « E darò loro un cuore unanime, un nuovo spirito infonderò nel loro interno, e strapperò dai loro precordi il cuore di sasso e vi sostituirò un cuore di carne; affinché camminino sulla via dei miei precetti, osservino i miei statuti e li mettano in pratica: ed essi siano il mio popolo e io sia il loro Dio »(Ez 11,19-20).
|
CAPUT XIX. Quod initium voluntatis bonae et
consummatio ejus a Domino sit. Quibus manifestissime perdocemur, et initium
voluntatis bonae nobis Domino inspirante concedi, cum aut per se, aut
per exhortationem cujuslibet hominis, aut per necessitatem nos ad
salutis attrahit viam, et perfectionem virtutum ab eodem similiter
condonari; nostrum vero hoc esse, ut exhortationem auxiliumque Dei vel
remissius vel enixius exsequamur, et pro [ Lips. in marg. per]
hoc nos vel remunerationem vel supplicia dignissima promereri, quod ejus
dispensationi ac providentiae, erga nos benignissima dignatione
collatae, vel negleximus vel studuimus nostrae obedientiae devotione
congruere. Quod |
XIX - Inizio e termine della buona volontà vengono da Dio
Da tutto ciò discende una verità evidentissima: il primo moto della
buona volontà ci viene da una ispirazione di Dio, sia che egli stesso ci
attiri direttamente alla via della salute, sia che lo faccia attraverso
le esortazioni di qualche persona, o attraverso la forza delle cose e
degli eventi; ma anche la perfezione delle virtù ci viene da Dio. Quel
che possiamo mettere noi è la corrispondenza, fervorosa o tiepida, agli
impulsi della grazia; e meriteremo premio o castigo secondo che ci
saremo studiati o no di accordare con l’opera della benignissima
provvidenza la nostra risposta obbediente e devota. Tutto ciò si trova
descritto nel Deuteronomio con chiarezza lampante: « Quando il Signore
Dio tuo ti avrà introdotto in quella terra della quale tu devi diventare
possessore, ed avrà fugato innanzi a te molte genti: l’Eteo, il
Gergeseo, l’Amorreo, il Cananeo, il Ferezeo, l'Eveo, il Gebuseo, sette
popoli molto più numerosi e più forti di te; quando il Signore Dio tuo
li avrà abbandonati in tuo potere, li sterminerà fino all’ultimo. Non
verrai a patto con loro, né avrai di loro compassione, né ti unirai con
loro in matrimonio » (Dt 7,1-3). La Scrittura dunque afferma che l’opera
più importante dipende da Dio: far entrare il popolo d’Israele nella
terra promessa, annientare davanti a lui molte nazioni, far cadere nelle
sue mani popoli più numerosi e più forti. È invece opera del popolo
ebraico annientare o risparmiare quelle genti, stabilire con loro
alleanze e matrimoni, oppure non stabilirne.
Da questa testimonianza della sacra Scrittura noi possiamo giudicare che
cosa sia da ascrivere al nostro libero arbitrio e che cosa sia da
attribuire al dono del Signore e alla sua continua assistenza.
Presentarci le occasioni di salvezza e farci progredire felicemente fino
alla vittoria finale spetta alla grazia divina, rispondere con ardimento
o con pigrizia ai benefici di Dio è opera nostra [ii]. Questo principio si trova chiaramente espresso anche nella guarigione dei due ciechi. Gesù passa davanti a loro: ecco la grazia della divina bontà e della Provvidenza. Essi gridano: Signore, figlio di David, abbi pietà di noi: ecco l’opera della loro fede. Finalmente riacquistano la vista: ecco il dono della divina misericordia. La storia dei dieci lebbrosi, guariti tutti insieme, dimostra che quando il dono di Dio è stato largito, grazia e libero arbitrio rimangono ancora nel soggetto. Infatti uno solo dei lebbrosi guariti, in virtù del suo libero arbitrio, torna a rendere grazie. Il Signore, poi, lodando colui che è tornato a ringraziare, e lamentandosi di nove mancanti, fa comprendere che egli conserva la sua sollecitudine e la sua volontà di soccorrere anche verso coloro che si mostrano immemori dei suoi benefici. È poi dono della grazia di Dio, sia la benevola accoglienza a chi si dimostra grato, sia il rimprovero a chi si mostra ingrato. |
CAPUT XX. Quod nihil in hoc mundo sine Deo geratur. Credere tamen inconcussa fide nos convenit,
nihil sine Deo prorsus in hoc mundo geri. Aut enim voluntate ejus aut
permissu agi universa fatendum est, ut scilicet haec quae bona sunt,
voluntate Dei perfici auxilioque credantur; quae autem contraria sunt,
permissu; cum pro nequitiis ac duritia cordis nostri deserens nos divina
protectio, diabolum nobis vel ignominiosas corporis passiones patitur
dominari. |
XX - In questo mondo niente si fa senza Dio Ci conviene credere, con certezza irremovibile, che niente si fa in questo mondo senza Dio. Bisogna infatti riconoscere che tutto avviene, o per sua volontà o per sua permissione. Il bene avviene per volontà e concorso di Dio, il male avviene per sua permissione, in quanto che, per punirci delle nostre colpe e per la durezza del nostro cuore, Dio ci abbandona al potere del demonio e alla tirannia vergognosa delle passioni carnali. Tutto questo ci insegna esplicitamente s. Paolo quando dice: « Per questo li abbandonò Dio a passioni d’infamia » (Rm 1,26). E ancora: « Poiché non si dettero cura di conoscere Dio, li abbandonò Iddio ai reprobi sentimenti, a far ciò che non si deve » (Rm 1,28). Il Signore stesso dice per bocca del Profeta: « Non ascoltò il mio popolo la mia voce, e Israele non badò a me. E li abbandonai alla durezza del loro cuore, che si conducessero a loro capriccio » (Sal 80,12-13). |
CAPUT XXI. Objectio super liberi arbitrii potestate. Germanus: Hoc testimonium apertissime liberum demonstrat arbitrium, quo dicitur: Si populus meus audisset me; et, non audivit populus meus vocem meam. Cum enim dicit si audisset, ostendit in potestate illius fuisse vel acquiescendi vel non acquiescendi judicium. Quomodo igitur non in nobis nostra salus est collocanda, cum vel audiendi vel non audiendi ipse nobis concesserit facultatem? |
XXI - Obiezione
derivante dal libero arbitrio
Germano -
Ma ecco un testo che dimostra irrefragabilmente (ovvero: in modo molto
evidente. Ndr.) il libero arbitrio. Dice Iddio: « Se il mio popolo mi
avesse ascoltato... » (Sal 80,14). E altrove: « Il mio popolo non ha
ascoltato la mia voce » (Sal 80,12). Allorché la Sacra Scrittura dice: se avesse ascoltato, dimostra chiaramente che era in potere del popolo dare o non dare ascolto. E allora, perché non dobbiamo far dipendere la nostra salvezza da noi stessi, dal momento che Dio ci ha dato facoltà di ascoltarlo e di non ascoltarlo? |
CAPUT XXII. Responsio, quod liberum
arbitrium nostrum adjutorio Domini semper indigeat. Paphnutius: Acute quidem considerastis hoc quod
dicitur, Si audisset me; sed nequaquam quis sit qui ad audientem
vel non audientem loquatur, attenditis; nec illud quod sequitur, pro
nihilo utique inimicos ejus humiliassem, et super tribulantes eos
misissem manum meam. Nemo igitur haec, quae protulimus ut nihil geri
sine Domino probaremus, prava interpretatione detorquens, ad defensionem
liberi arbitrii ita conetur assumere, ut ab homine gratiam Dei
provisionemque quotidianam tentet auferre, per hoc quod dicitur, Et
non audivit populus meus vocem meam; et iterum, Si populus meus
audisset me, Israel si in viis meis ambulasset, etc.; sed respiciat
quod, sicut liberi |
XXII - Risposta:
il nostro libero arbitrio ha sempre bisogno dell’aiuto divino
Panuzio -
Voi discutete con acutezza sulle parole: se
il mio popolo avesse ascoltato, ma
non fate attenzione a chi parla, a chi ascolta, né tenete conto delle
parole che seguono. Proviamo a vedere quel discorso nella sua
completezza: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato, come un nulla avrei
forse umiliato i suoi nemici, e sopra i suoi avversari avrei steso la
mia mano » (Sal 80,15).
I testi da me riferiti, per dimostrare che niente si fa senza
l’intervento di Dio, non si possono sottoporre a una interpretazione
capziosa, così da farli servire alla difesa del libero arbitrio e alla
negazione della grazia di Dio e del suo soccorso quotidiano. Dire: il
mio popolo non ha ascoltato la mia voce, oppure: se
il mio popolo mi avesse ascoltato e Israele avesse camminato sulle mie
vie, non
è lo stesso che negare l’intervento di Dio. Bisogna invece ammettere
che, se la libertà del popolo si manifesta nella disobbedienza, non si
manifesta meno la continua provvidenza attraverso le continue
ammonizioni che Dio indirizza al suo popolo.
Quando il Signore lamenta: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato »,
dimostra evidentemente di avergli parlato per primo.
Si noti inoltre che Dio non parla al popolo soltanto attraverso la legge
scritta, ma anche con richiami quotidiani, secondo quanto dice Isaia: «
Ho steso le mie mani tutto il dì ad un popolo incredulo che mi
contraddice » (Is 65,2).
Il testo da voi citato: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato, se
Israele avesse camminato per le mie vie, avrei annientato i suoi nemici
e avrei steso la mia mano su coloro che l’opprimono », mi sembra tale da
provare allo stesso tempo il libero arbitrio e la grazia.
Il libero arbitrio è provato dalla disobbedienza del popolo; la grazia e
il soccorso di Dio si mostrano nell’inizio e nella fine del versetto, là
dove Dio ricorda che egli ha parlato per primo e che avrebbe umiliato i
nemici d’Israele, se questo avesse dato ascolto alla sua voce. Noi, poi,
non abbiamo inteso distruggere il libero arbitrio, con i testi presi
dalla sacra Scrittura; abbiamo soltanto voluto provare che al nostro
libero arbitrio è necessario l’aiuto di Dio in ogni giorno e in ogni
momento. Dopo averci ammaestrati con questi ragionamenti, l'abate Panuzio ci congedò verso la mezzanotte. Lasciando la sua cella noi ci sentivamo molto infervorati ma anche molto tristi. Con la sua conferenza, infatti, ci aveva condotti ad una persuasione poco lusinghiera: noi avevamo creduto di poter raggiungere il culmine della perfezione con la prima rinuncia, che era quella in cui ci trovavamo impegnati con tutte le nostre forze; ora invece scoprivamo di non aver visto neppure in sogno le vette della vita monastica. Riguardo alla seconda rinunzia, qualcosa c’era stato detto nei monasteri dei cenobiti, ma della terza, cioè di quella che contiene tutta la perfezione e supera le prime due in modi innumerevoli, non avevamo sentito neppur parlare. |
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24 maggio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net