LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
3.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE PANUZIO
LE TRE RINUNZIE
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei Capitoli
I - Forma di vita praticata
dall’abate Panuzio;
II - Discorso del vecchio abate e nostra risposta;
III -
Proposizioni dell’abate Panuzio sulle tre rinunzie;
IV - Le tre vocazioni;
V -
La vocazione più sublime non giova al pigro e la meno nobile non nuoce al
generoso;
VI - Le tre rinunzie;
VII - Bisogna portare al grado perfetto ognuna
delle tre rinunzie;
VIII - Ricchezze che conferiscono bellezza e bruttura
all’anima;
IX - Tre generi di ricchezze;
X - Nessuno può essere perfetto se si
ferma al primo grado di rinunzia;
XI - Domanda sulla grazia e il libero
arbitrio;
XII - Risposta: la grazia divina non toglie il libero arbitrio;
XIII -
La guida nostra è Dio;
XIV - Dio è il nostro maestro: con la sua luce noi
conosciamo la Legge;
XV - Ci vengono da Dio sia l’intelligenza per conoscere i
comandamenti di Dio, sia gl’impulsi della buona volontà per seguirli;
XVI - La
stessa fede è una grazia di Dio;
XVII - Dio misura le tentazioni e dà la grazia
per superarle;
XVIII - La perseveranza nel santo timore è dono di Dio;
XIX -
Inizio e termine della buona volontà vengono da Dio;
XX - In questo mondo niente
si fa senza Dio;
XXI - Obiezione derivante dal libero arbitrio;
XXII - Risposta:
il nostro libero arbitrio ha sempre bisogno dell’aiuto divino.
I -
Forma di vita
praticata dall'abate Panuzio
Nel coro di santi che - risplendenti a guisa di
astri - illuminavano la notte di questo mondo, noi vedemmo brillare il
venerabile Panuzio. Costui, quanto a scienza spirituale, appariva una specie di
sole. Egli era pure il sacerdote del nostro gruppo di monaci: voglio dire di
quel gruppo che abitava nel deserto di Scito.
Panuzio visse fino all’estrema età senza voler
mai lasciare la cella che aveva incominciato ad abitare da giovane e che distava
dalla Chiesa ben cinque miglia. Mai fu possibile fargli accettare una cella più
vicina, neppure quando, per lui che era rotto dalle fatiche e dagli anni, andare
alla Chiesa ogni sabato e ogni domenica costituiva un’impresa sovrumana. Ma c’è
di più: egli non sopportava di tornare dalla Chiesa con le mani vuote. Si
caricava sopra le spalle un vaso d’acqua e lo portava alla cella perché gli
somministrasse da bere durante la settimana: anche quand’ebbe passati i
novant’anni, non permise mai che un monaco dei più giovani gli alleviasse questa
fatica.
Panuzio si era messo alla scuola dei cenobiti
fino dalla prima adolescenza e aveva dimostrato tale e tanto ardore che in poco
tempo si era arricchito dello spirito di sottomissione e della scienza di ogni
virtù. Con la pratica dell’obbedienza e dell'umiltà mortificò tutti i moti della
sua volontà, cosicché giunse ad estirpare tutti i vizi e a rendersi perfetto in
tutte quelle virtù che son frutto delle istituzioni monastiche e della dottrina
dei Padri antichi. Acceso poi dal desiderio d’una vita più sublime, ebbe volontà
di ritirarsi solo in qualche angolo del deserto, per unirsi perfettamente e
senza alcuna distrazione al Signore, col quale sospirava di stabilire una unione
inseparabile fin dal tempo in cui viveva nella schiera degli altri monaci.
Là, nella perfetta solitudine, superò in fervore
e virtù gli stessi anacoreti. Tutto preso dal desiderio di una continua
contemplazione di Dio, fuggiva la vista degli uomini, addentrandosi nella
solitudine più segreta e inaccessibile. Stava lungo tempo nascosto a tutti gli
sguardi: gli stessi anacoreti non riuscivano a vederlo che raramente e con
fatica. Così nacque e si propagò la voce che egli godesse ogni giorno della
compagnia degli angeli. In conseguenza di un sì grande amore per la solitudine,
gli fu dato il soprannome di Bufalo.
II -
Discorso del vecchio abate e nostra risposta
Desiderosi di essere istruiti da sì grande
maestro, sollecitati anche dagli impulsi dei nostri pensieri, arrivammo alla
cella di Panuzio verso l’ora del tramonto.
Egli tacque qualche istante, al vederci. Poi
incominciò ad esaltare il nostro proposito: avete lasciato la vostra patria,
avete attraversato, per amore del Signore, tante regioni, con l’intenzione di
sopportare coraggiosamente la povertà, e la vastità del deserto, per imitare la
vita austera degli anacoreti, una vita che a malapena sopportano coloro che sono
nati e cresciuti in condizioni di estrema necessità e miseria.
Noi rispondemmo di esser venuti a lui per averlo
come maestro, per essere arricchiti della sua dottrina: per esser penetrati
dagli insegnamenti e dalla perfezione di un uomo la cui grandezza era attestata
da prove innumerevoli. Ci dispiaceva perciò di sentirci rivolgere lodi non
meritate e tali da farci cadere in tentazione di superbia: una tentazione dalla
quale eravamo stati altre volte assaliti mentre abitavamo nelle nostre celle. Lo
pregavamo dunque di volerci rivolgere parole tali da ispirare compunzione e
umiltà, anziché somministrare esca alla vanagloria e alla superbia.
III -
Proposizione dell’abate Panuzio sulle tre specie di vocazioni e sulle tre
rinunzie
Allora il venerabile Panuzio prese a dire: le
vocazioni sono di tre sorta, e tre sono ancora i generi della rinunzia: tutti e
tre necessari al monaco, qualunque sia il tipo della sua vocazione. Innanzi
tutto dobbiamo seriamente ricercare perché io dica che esistono tre sorta di
vocazioni.
Se ci accorgeremo di essere stati chiamati al
culto di Dio col primo e più alto grado di vocazione, dovremo anche commisurare
all’eccellenza della vocazione la qualità della nostra vita, perché niente
varrebbe aver avuto un alto principio, se a quello non rispondesse un fine
altrettanto alto. Se invece ci accorgeremo che Dio ci ha strappati al mondo con
la vocazione più umile, noi dovremo impegnarci col più grande fervore e procurar
di finire in modo molto degno di quell’umile inizio dal quale partimmo.
Ma anche il tema delle tre rinunzie dev’essere
da noi ben approfondito, perché non potremo assolutamente raggiungere la
perfezione se non conosceremo la sua natura, o se, pur conoscendola, non
cercheremo di realizzarla.
IV -
Le tre vocazioni
Parliamo dunque delle tre vocazioni e delle loro
note distintive. La prima vocazione viene da Dio, la seconda viene dall’uomo, la
terza dalla necessità.
La vocazione viene direttamente da Dio quando
egli manda al nostro cuore un’ispirazione che può sorprenderci anche nel sonno,
svegliarci all’improvviso con un grande desiderio della vita eterna e della
nostra salvezza, sollecitandoci a seguire Dio e ad essere fedeli ai suoi comandi
con salutare compunzione.
Tale fu la vocazione di Abramo. Leggiamo nella
sacra Scrittura che egli fu invitato dalla voce del Signore ad abbandonare la
terra natale, gli affetti familiari, la casa stessa di suo padre: ”Esci dalla
tua terra, dalla tua famiglia, dalla casa di tuo padre » (Gen. 12, 1).
Nello stesso modo sappiamo che fu chiamato il
beato Antonio: l’occasione della sua conversione venne unicamente da Dio. Entrò
un giorno in una chiesa e udì queste parole di Gesù: « Chi non odia suo padre e
sua madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle e perfino la sua vita,
non può essere mio discepolo »
(Lc 14, 26.. Udì pure le altre parole: « Se vuoi essere
perfetto, va’, vendi ciò che hai e donalo ai poveri e avrai un tesoro in cielo,
poi vieni e seguimi » (Mt. 19, 29). Antonio pensò che quel comando del Signore
fosse rivolto proprio a lui, lo ricevette con la più grande compunzione del
cuore e subito, senza che esortazione umana o insegnamento umano lo
sollecitasse, abbandonò tutto ciò che possedeva e si mise a seguire il Maestro
divino.
La seconda vocazione è quella che nasce - come
già è stato detto - con la mediazione degli uomini. Sono allora gli esempi dei
santi e le esortazioni delle persone pie che accendono nel cuore il desiderio
della salvezza. Anch’io, per la grazia del Signore, credo di essere stato
chiamato così. Commosso dagli insegnamenti e dagli esempi del beato Antonio, mi
consacrai alla solitudine e alla professione della vita monastica. In modo
simile, secondo quanto leggiamo nelle sacre Scritture, i figli d’Israele furono
liberati dalla schiavitù d’Egitto, con l’intervento di Mosè.
La terza vocazione nasce da necessità. Mentre
viviamo tutti attaccati alle ricchezze e ai piaceri del mondo, all’improvviso
cade su di noi una dura prova; è forse un pericolo di morte che ci minaccia, è
forse la perdita o la proscrizione dei nostri beni a percuoterci, è forse la
morte di persone care che ci riempie di dolore. In queste circostanze, noi, che
non avevamo voluto seguire Dio nella prosperità, siamo spinti verso di lui dal
dolore.
Di questa, che chiameremo « vocazione per forza
», troviamo molti esempi nella sacra Scrittura, là dove leggiamo che i figli
d’Israele a causa dei loro peccati, furono dati nelle mani dei nemici e sotto la
loro crudele tirannia si convertirono. Ecco qualche esempio del libro Sacro: « E
alzarono la voce verso il Signore, il quale suscitò loro un salvatore di nome
Aod, figlio di Gera, figlio di Jemini, che era ambidestro »
(Gdc 3, 15). E altrove si legge: « Gridarono allora al
Signore e questo suscitò, per salvarli e liberarli, Otoniele figlio di Cenez, il
fratello minore di Caleb »
(Gdc
3, 9).
Anche nei Salmi si trovano casi analoghi:
«Quando li uccideva lo cercavano, e tornavano, e di buon mattino correvano a
lui, e si ricordavano che Dio era il loro aiuto
»
(Sal 77, 34-35).
E altrove: « E gridarono al Signore nella loro
tribolazione e dalle angustie loro li strappò » (Sal 106, 6).
V -
La vocazione più sublime non giova al pigro e la
meno nobile non nuoce al generoso
Delle tre vocazioni fin qui descritte, le prime
due sembrano godere di più alta dignità; noi però abbiamo conosciuto alcuni
monaci che, pur essendo partiti dalla terza vocazione, cioè da quella più bassa
e meno fervorosa, furono tuttavia uomini perfetti e sommamente ferventi, simili
in tutto a coloro che entrarono nel servizio di Dio per la porta più nobile; e
continuarono poi nel fervore per tutto il rimanente della loro vita. Ne vedemmo
anche altri che, dopo aver ricevuto la vocazione del grado più eccellente, si
lasciarono vincere dalla tiepidezza e finirono miseramente.
Per coloro che sembrano essersi convertiti più
per ima estrema necessità che per un intimo movimento della volontà, il movente
poco nobile della conversione non fu di danno, perché la bontà del Signore
procurò ad essi l’occasione di pentirsi e nobilitarsi. Coloro invece che si
convertirono sotto la spinta di una vocazione sublime non ebbero da ciò grandi
vantaggi, se poi non si curarono d’intonare con l’inizio il resto della loro
vita.
All’abate Mosè, che abitò la parte di questo
deserto chiamato « Calamo », niente mancò per raggiungere la più alta
perfezione. Eppure, si era rifugiato nel monastero per scampare alla pena di
morte che si era meritata per aver commesso un omicidio. Egli abbracciò con tale
ardore la sua vocazione forzata da trasformarla, con generosa prontezza in una
libera scelta; così giunse alle più alte cime della perfezione. A moltissimi
altri, invece, che non è bene nominare particolarmente, niente giovò aver
iniziato il servizio di Dio nel modo più nobile, perché caddero nella tiepidezza
più fatale e quindi nel baratro di morte: costoro s’erano lasciati vincere dalla
fiacchezza e dalla durezza di cuore.
Di ciò abbiamo una riprova anche nella vocazione
degli Apostoli. Che cosa giovò a Giuda aver accettato volontariamente il
ministero sublime dell’apostolato - al quale era stato invitato con una chiamata
pari a quella di Pietro e degli altri Apostoli - dal momento che terminò con ima
fine esecranda? L’inizio era stato nobilissimo, ma poi, per amore del denaro,
tradì il suo Maestro e si macchiò del più mostruoso parricidio. Guardate invece
san Paolo. Colpito da improvvisa cecità, parve attirato alla via della salvezza
contro sua voglia, ma poi seguì il Signore con immenso fervore dell’anima,
riscattò la sua vocazione forzata con una donazione completa della volontà e
concluse con un finale incomparabile la sua vita gloriosa, tutta ornata di
elettissima perfezione.
Tutto dipende da come si finisce. Uno che ha
dato ottimo inizio alla sua conversione per sua negligenza può finire all’ultimo
posto; un altro che è stato portato quasi per forza alla professione monastica,
sorretto dal timore di Dio e dalla sua personale diligenza, può arrivare a somma
perfezione.
VI -
Le tre rinunzie
Ora dobbiamo parlare delle rinunzie. La
tradizione dei Padri e l’autorità della sacra Scrittura ci dicono che sono tre e
che ciascuno di noi deve compierle tutte.
La prima rinunzia è di natura materiale: per
mezzo di essa noi disprezziamo tutte le ricchezze e tutti i beni del mondo. La
seconda è quella per la quale rinneghiamo il nostro passato, i nostri vizi, le
passioni dello spirito e della carne. La terza consiste nel ritrarre la nostra
mente dalle cose presenti e visibili, per desiderare solo le cose eterne e i
beni che non si vedono.
Queste tre rinunzie bisogna compierle tutte,
nessuna esclusa, come è chiaro dal comandamento dato da Dio ad Abramo quando
disse: « Esci dalla tua terra, dalla tua parentela, e dalla casa di tuo padre »
(Gen 12, 1).
Prima disse: « Esci dalla tua terra », cioè:
rinuncia ai beni di questo mondo e alle ricchezze terrene. In secondo luogo
disse: « Esci dalla tua parentela », cioè rinuncia alla tua maniera di vivere,
alle abitudini e ai vizi contratti: tutte cose queste che sono a noi
strettamente unite, fin dal tempo della nascita, da avere ormai stabilito con
noi una specie di parentela o consanguineità. Infine disse: « Esci dalla casa di
tuo padre », cioè: allontana dal tuo sguardo ogni memoria di questo mondo.
Noi abbiamo due padri: uno da lasciare e uno da
cercare: David li ricorda entrambi nei salmi, quando fa parlare Dio in questi
termini: « Ascolta, o figlia, guarda e china il tuo orecchio, e dimentica il tuo
popolo e la casa del padre tuo » (Sal
44, 11). Colui che dice: « Ascolta, o figlia » è
certamente padre; egli stesso però afferma che anche un altro è padre di questa
« figlia »: di tale secondo padre invita a lasciare la casa e il popolo.
L’allontanamento dal secondo padre avviene
quando noi, morti con Cristo alle cose di questo mondo, contempliamo, secondo la
parola dell’Apostolo, « non le cose che si vedono ma quelle che non si vedono,
poiché le cose che si vedono sono temporanee, e quelle che non si vedono eterne
» (2 Cor. 4, 18).
E ciò noi facciamo quando, uscendo col cuore da questa casa temporale e
visibile, indirizziamo gli occhi e la mente a quella dimora in cui abiteremo
eternamente. Un tale programma sarà da noi attuato se, pur vivendo
nella carne, cesseremo di agire
secondo la carne e incominceremo a militare per il
Signore. Allora potremo ripetere, senza mancare alla verità, la parola
dell’Apostolo: « La nostra città è in cielo » (Fil 3,20).
Alle nostre tre rinunzie corrispondono
perfettamente i tre libri di Salomone.
Alla prima rinunzia corrispondono i
Proverbi, con i quali si troncano i desideri delle cose
carnali e i vizi terreni. Alla secondo rinunzia corrisponde l'Ecclesiaste, nel quale si proclama che quanto avviene sotto
il sole è tutto e soltanto vanità. Alla terza rinunzia corrisponde il
Cantico dei
Cantici.
L’anima, trasvolando tutte le cose visibili, si
unisce al Verbo di Dio, nella contemplazione delle cose celesti.
VII -
Bisogna portare al grado perfetto ognuna delle
tre rinunzie
Non ci gioverà molto avere compiuto la prima
rinuncia, sia pure con la più grande devozione e fede, se poi non compiremo
anche la seconda, con altrettanta cura e con uguale fervore. La seconda rinunzia
non va poi considerata come fine a se stessa: essa ha Io scopo di facilitare la
terza, quella per la quale rivolgeremo ogni sguardo dell’anima verso il cielo,
usciti che saremo dalla casa di nostro padre. E il padre da abbandonare è il «
vecchio uomo » esistente in noi, quello per colpa del quale noi eravamo « figli
dell’ira » al pari di tutti gli altri uomini
Ef.
2, 3.. Con parole che possiamo riferire a questo
padre indesiderabile, Dio parla così nel libro Sacro, rivolgendosi a
Gerusalemme: « Tuo padre è l’Amorreo e tua madre Cetea » (Ez
16, 3). Il Vangelo a sua volta dice: « Il padre dal
quale discendete è il diavolo, e voi volete compiere i desideri del padre vostro
» (Gv 8, 44).
Quando avremo abbandonato il diavolo, passando
dalle cose visibili a quelle invisibili, potremo dire con san Paolo: « Noi
sappiamo che se la nostra abitazione terrena - consistente in una tenda - si
dissolve, abbiamo un’abitazione non manufatta ed eterna, preparataci da Dio nei
cieli » (2 Cor. 5, 1).
E vale in tale occasione anche un’altra parola dell’Apostolo, da noi già
riferita: « La nostra cittadinanza è nei cieli, donde aspettiamo, come
Salvatore, il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della miseria
nostra, cosicché sia conforme al corpo della sua gloria » (Fil. 3, 20-21).
Sullo stesso argomento dice David nei Salmi: « Io sono un pellegrino sopra la
terra, come lo furono tutti i miei padri » (Sal
118, 19). In forza delle rinunzie noi saremo somiglianti
a coloro dei quali parla Gesù nel Vangelo, quando dice al Padre: « Essi non sono
del mondo, come neppure io sono del mondo » (Gv
17, 16), e poi il Signore aggiunge, rivolto agli
Apostoli: « Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; invece, siccome
non
siete del mondo e vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia » (Gv
15,19).
Ecco dunque il segno dal quale si può giudicare
che abbiamo compiuto perfettamente la terza rinunzia: l’anima non sente più
quell’appesantimento carnale da cui era prima gravata, ma, dopo profonda
purificazione da ogni affetto e disposizione terrena, attraverso la meditazione
continua delle cose celesti e l’esercizio della contemplazione spirituale, è
passata al mondo dell’invisibile. Tale passaggio è avvenuto in forma così
completa che l’anima stessa, ormai tutta intenta alle cose celesti e spirituali,
non ha più la nozione del suo corpo carnale e del luogo in cui vive. Rapita in
estasi continua, il suo orecchio è insensibile alle voci che giungono dal di
fuori; le creature passano senza che l’occhio le scorga. C’è di più: l’occhio
non percepisce neppure immense moli che gli stanno davanti.
Per capire la verità di queste parole, ci vuole
uno che sia stato ammaestrato dall’esperienza, uno al quale il Signore abbia
staccato così bene la vista del cuore da tutte le cose presenti, che egli non le
stimi più oggetti destinati a passare, ma addirittura come creature già passate
e scomparse nel nulla: dissolte a somiglianza di una voluta di fumo. Ci vuole
insomma uno che camminando con Dio, come faceva Enoc, sia stato tratto fuori
dalla vita e dai costumi degli uomini e non abiti più nella vanità del mondo
presente. Dato che abbiamo nominato Enoc notiamo ima differenza: per lui il
rapimento non fu soltanto spirituale ma anche corporale, come ci attesta il
libro del Genesi: « Enoc camminò con Dio e poi disparve, perché Iddio lo prese
con sé » (Gen 5,24). E l’Apostolo soggiunge: « Per la fede Enoc fu trasportato,
affinché non vedesse la morte » (Eb 11,5). Di questa morte dice il Signore nel
Vangelo: « Chi vive e crede in me non morrà in eterno » (Gv 11,26).
Affrettiamoci dunque - se ci preme raggiungere la vera perfezione - ad
abbandonare col cuore, come già li abbiamo abbandonati col corpo, genitori,
patria, ricchezze, piaceri, né torniamo mai, col desiderio, a rimpiangere ciò
che abbiamo abbandonato, come fecero gli Ebrei quando uscirono dall’Egitto.
Ricordate? Mosè li condusse fuori dall’Egitto, essi vi ritornarono: non certo
col corpo, ma col desiderio. Dopo aver abbandonato Dio, che li aveva liberati
con tanta dovizia di miracoli, tornarono ad adorare gl’idoli egiziani già da
loro disprezzati. Ciò è ricordato nelle sacre Scritture: « Ritornarono col cuore
in Egitto, o dissero ad Aronne: « Facci degli dei che ci guidino » (At 7,39).
Anche noi saremo condannati al pari degli Ebrei, che, pur essendo alimentati nel
deserto con la manna, desiderarono i vili e rivoltanti cibi del vizio. Sembra
infatti che anche noi mormoriamo con loro: « Stavamo bene in Egitto. Eravamo
seduti dinanzi a pentole piene di carne e mangiavamo cipolle e agli e cocomeri e
poponi » (Num 11,18; Es 16,3; Num 11,5).
Tutto questo avveniva nel popolo ebraico come
figura di quello che avviene ogni giorno nel nostro stato e nella nostra
professione. Chiunque, dopo aver rinunziato al mondo, torna agli antichi
desideri e alle vecchie passioni, esclama con i suoi atti e con i suoi pensieri:
« Come stavo bene quand’ero in Egitto! ». E io temo che i monaci di questa fatta
non siano meno numerosi degli Ebrei che prevaricarono al tempo di Mosè.
Ricordate la Scrittura? Di seicentomila che erano gli uomini atti a portare le
armi, quando il popolo ebraico uscì dall’Egitto, due soli entrarono nella terra
promessa. Perciò dobbiamo cercar di prendere esempio dai pochi e rari che
rimasero fedeli, perché, con quel che abbiamo riferito sopra, concorda anche il
Vangelo che dice: molti sono i chiamati, pochi gli eletti.
Niente ci gioverà una rinunzia soltanto carnale
e locale, somigliante alla partenza degli Ebrei dall’Egitto. Quella che conta è
la rinunzia del cuore: quella sola è sublime e utile. Dell’altra, che abbiamo
chiamato rinunzia esteriore e corporale, ecco come parla l’Apostolo: « Se
distribuissi ai poveri tutto quello che ho, e dessi il mio corpo per essere
arso, ma non avessi amore, non ne avrei alcun giovamento » (1 Cor 13,3).
San Paolo non avrebbe scritte queste parole se
non avesse previsto in spirito che molti, dopo aver distribuito ai poveri le
loro ricchezze, sarebbero rimasti impotenti a scalare le vette della perfezione
evangelica e della carità, per aver lasciato dominare nel proprio cuore superbia
e impazienza, antichi vizi e sregolate abitudini, di cui avevano il dovere di
purificarsi. Per questo non arrivarono a impossessarsi di quella divina carità
che, al dire dello stesso Apostolo, non viene mai meno.
Tutti costoro, falliti nel secondo grado di
rinunzia, molto meno poterono raggiungere il terzo, che è indubbiamente il più
sublime.
Notate attentamente che san Paolo non ha detto
soltanto: « Se distribuirò le mie ricchezze ai poveri ». Se così avesse parlato,
si sarebbe potuto pensare che egli intendesse presentare uno di quei tali che
non osservano pienamente E comando di Dio, in quanto si ritengono qualcosa di
ciò che possedevano. No. S. Paolo dice: « Se distribuirò
tutte le mie ricchezze in cibo ai poveri », il che
vuol sottintendere: anche se avrò rinunciato perfettamente a queste ricchezze
del mondo. Anzi, aggiunge qualcosa di più grande ancora: « Se abbandonerò il mio
corpo alle fiamme ma non avrò la carità, non sono nulla ». Insomma, è come se
dicesse: se io distribuirò ai poveri tutti i miei averi, secondo quel
comandamento del. Vangelo che dice: « Se vuoi esser perfetto, va’, vendi quello
che hai e donalo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli »: se spingessi la
rinunzia fino al punto di non riservarmi niente e aggiungessi alla rinunzia
completa anche il martirio di fuoco, e perdessi la mia vita per Cristo: se dopo
tutto questo io sono ancora impaziente, irascibile, invidioso, superbo, se
l’ingiuria patita mi accende d’ira, se cerco il mio tornaconto, se penso il
male, se non soffro pazientemente e di buon grado tutti i maltrattamenti, la
rinunzia e il martirio del mio corpo non mi recheranno alcun giovamento. E ciò
perché l’uomo interiore rimane ancora schiavo degli antichi vizi. Inutilmente,
nel fervore della mia conversione, avrò disprezzato la sostanza di questo mondo
(la quale in se stessa non è né buona né cattiva ma indifferente), se poi non mi
impegnerò a rigettare le nefaste ricchezze di un cuore vizioso e a praticare la
carità che è
paziente,
che è
benevola, che
non è invidiosa, non si gonfia, non si irrita,
non fa nulla invano, non cerca il suo interesse, non pensa male, ma soffre
tutto, sopporta tutto, e, per
dirla in breve, non permette che i suoi fedeli seguaci siano ingannati dal
demonio e tirati nel peccato.
VIII -
Ricchezze che conferiscono bellezza o bruttura all’anima
Dobbiamo impegnarci con tutte le forze affinché
l’uomo interiore che è in noi dilapidi e getti via quelle ricchezze del vizio
che acquistò nella sua prima vita. Queste dannate ricchezze sono proprio nostre,
stanno saldamente attaccate al corpo e all’anima. Se non sapremo staccarle e
gettarle via finché viviamo in questo mondo, non cesseranno di stare con noi
neppure dopo la morte. Come le virtù acquistate in terra - e soprattutto la
carità che delle virtù è la fonte - rivestono di luce, anche dopo la morte,
colui che le amò, così i vizi offuscano e macchiano l’anima di colori orribili e
la mandano, deturpata, all’inferno.
La bellezza dell’anima nasce dalla virtù, la sua
deformità nasce dal vizio. Virtù e vizio sono come colori che s’attaccano
all’anima e la rendono, o tanto bella che essa merita di sentirsi dire: « Il Re
si è invaghito della tua bellezza » (Sal 44,12), o tanto brutta, nauseante e
deforme che essa stessa si sente obbligata a confessare così la causa della sua
vergogna: « Sono imputridite e marcite le mie piaghe per la mia stoltezza » (Sal
37,6). E il Signore allora domanda: « Perché non si è rimarginata la ferita
della figlia del popolo mio? » (Ger 8,22).
Queste sono le nostre ricchezze, esse rimangono
sempre unite all’anima: nessun re o nessun nemico potrà mai donarcele o
rapircele. Queste sono le sole ricchezze che neppure la morte ci strapperà. Chi
saprà rinunciare alle ricchezze del vizio giungerà alla perfezione, chi si farà
schiavo di esse, sarà condannato alla morte eterna.
IX -
Tre generi di ricchezze
La parola « ricchezze », nella sacra Scrittura,
prende tre significati: uno cattivo, uno buono, uno indifferente.
Sono ricchezze cattive quelle di cui si dice: «
I ricchi hanno sofferto la sete e la fame
»
(Sal 33,11). E ancora: « Guai a voi o ricchi, perché avete
ricevuto la vostra consolazione » (Lc 6,24). Rinunciare a queste ricchezze è il
colmo della perfezione. Ed è ancora per condannare tali ricchezze che il
Signore, nel Vangelo, esalta i poveri: « Beati i poveri di spirito, perché di
essi è il regno dei cieli » (Mt 5,3). E il Salmo dice: « Questo povero ha levato
la sua voce e il Signore lo ha ascoltato » (Sal 37,7). E ancora: « Il povero e
l’indigente loderanno il tuo nome » (Sal 73,21).
Ci sono anche ricchezze buone: acquistarle è
segno di grande virtù e di grande merito. David loda l’uomo giusto che le
possiede: « La stirpe dei giusti sarà benedetta. Splendore e ricchezze in casa
di lui, e la sua ricchezza perdura nei secoli » (Sal 111,2-3). E ancora: «
L’uomo riscatta la vita con le sue ricchezze » (Pr 13,8). Di queste ricchezze
sante si parla
nell’Apocalisse, quando colui che non le possiede è rimproverato
dalla sua povertà e nudità: « Sto per vomitarti dalla mia bocca, perché dici:
sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla e invece non sai che tu
sei meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo. Ti consiglio a comprare da
me oro purgato col fuoco perché tu arricchisca, e vesti bianche perché tu le
indossi e non appaia la vergogna della tua nudità » (Ap 3,16-18).
Ci sono in ultimo anche le ricchezze
indifferenti, cioè che possono essere ora buone, ora cattive: queste si volgono
da una parte o dall’altra, secondo la qualità e la volontà di chi le usa. A
proposito di queste ricchezze dice l’Apostolo: « Ai ricchi dell’età presente dò
il consiglio di non essere alteri d’animo, e di non riporre la speranza
nell’incerto della ricchezza, ma di sperare in Dio che ci somministra
copiosamente ogni cosa per il nostro godimento. Facciano del bene, si
arricchiscano di opere buone, siano facili a dare agli altri, tesoreggiando così
un buon fondamento per l’avvenire, affinché possano raggiungere quella che è
veramente vita » (1 Tm 6,17-19).
Sono queste ricchezze, per sé indifferenti, che
il ricco del Vangelo si teneva strette, senza elargirle ai poveri e senza farne
parte al mendico Lazzaro, che stava disteso davanti alla sua porta e chiedeva di
potersi saziare con le briciole che cadevano dalla mensa. Ma il ricco era duro e
finì nell’inferno.
X -
Nessuno può essere perfetto se si ferma al primo
grado di rinunzia
Quando rinunziamo alle ricchezze di questo
mondo, lasciamo non già qualcosa di nostro, ma qualcosa che non ci appartiene,
anche se ci possiamo vantare di averlo acquistato col nostro lavoro, o d’averlo
ricevuto in eredità dai nostri antenati. L’ho già detto: niente è nostro tranne
ciò che portiamo nel nostro cuore ed è talmente unito con la nostra anima che
nessuno ce lo potrà mai strappare.
A coloro che si tengono gelosamente strette le
ricchezze del mondo, quasi fossero loro esclusiva proprietà, e si rifiutano di
fame parte ai poveri, il Signore dice: « Se non siete stati fedeli nell’altrui,
chi vi darà il vostro? » (Lc 16,12). Come è facile vedere, non è soltanto
l’esperienza quotidiana a dirci con evidenza che le ricchezze non ci
appartengono, c’è anche la parola del Signore che lo dichiara espressamente.
Delle ricchezze invisibili e cattive, parla s.
Pietro quando dice al Signore: « Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo
seguito. Quale sarà la nostra ricompensa? » (Mt 19,27).
Riflettiamo un istante e vedremo che gli
Apostoli avevan lasciato ben poco: qualche rete da pescatori, povera e mezza
rotta. Se, quando s. Pietro dice: « abbiamo lasciato
tutto
», non intendiamo la rinunzia ai vizi che son davvero qualcosa di grande, noi
dovremo convenire che gli Apostoli non lasciarono nulla di prezioso, perciò il
Signore non avrebbe avuto motivo di far loro una promessa di gloria e di
felicità così alta, come quella che pronunciò: « Nel giorno della rigenerazione,
quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sederete
anche voi, che mi avete seguito, su dodici troni, a giudicare le dodici tribù
d’Israele » (Mt 19,28).
Ma se anche coloro che hanno sinceramente e
compieta- mente abbandonato le ricchezze visibili della terra, non sono tante
volte capaci di procedere con passo spedito verso il terzo grado di rinunzia,
che cosa dovranno pensare di se stessi tutti coloro che, non avendo compiuto
neppure il primo facilissimo grado di rinunzia, ritengono ancora l’infedeltà
antica, l’attaccamento dannoso al denaro, e si gloriano di un nome vano: quello
di monaco?
La prima rinunzia riguarda dunque le cose che
non sono nostre, per questo non può bastare da sola a produrre la perfezione.
Bisogna salire al secondo grado di rinunzia, perché in quello si abbandona
qualcosa di nostro. Ma appena cancellato ogni vizio, col secondo grado di
rinunzia, noi dovremo salire alle vette del terzo grado. È in forza della terza
rinunzia che noi disprezziamo con tutte le forze dello spirito, non solo gli
avvenimenti di questo mondo e i beni posseduti dagli uomini, ma anche il
complesso degli elementi cosmici che appaiono tanto affascinanti. La terza
rinunzia ci scoprirà che tutto è sotto l’impero della vanità, tutto è destinato
a finire presto, mentre noi siamo destinati, come insegna s. Paolo, a
contemplare « non ciò che si vede, ma ciò che non si vede: perché le cose che si
vedono passano col tempo, quelle che non si vedono sono eterne » (2 Cor 4,18).
Chi arriverà a compiere la terza rinuncia
meriterà di sentirsi rivolgere l’invito che fu rivolto ad Abramo: « Vieni nella
terra che io ti mostrerò » (Gen 12,1).
Da tutto ciò appare evidente che senza aver
compiuto prima, col massimo ardore dello spirito, i tre gradi di rinunzia, non è
possibile ottenere quel che il Signore aggiunge in quarto luogo come premio a
chi ha operato il perfetto distacco, cioè l’ingresso nella terra promessa, dove
non esistono i triboli e le spine del vizio. Questa terra si può già possederla
fin dalla vita presente, per mezzo della liberazione dalle passioni e della
purezza del cuore. È ima terra che l’uomo non potrebbe scoprire per virtù
propria, né con l’industria o la fatica: il Signore solo la conosce e la mostra
all’anima, dice infatti: « Vieni nella terra che io ti mostrerò ».
Le parole rivolte da Dio ad Abramo dimostrano
pure che il principio della salvezza consiste in una chiamata del Signore: «
Esci dalla tua terra »; dipende però da Dio anche il compimento dell’opera della
nostra perfezione e purificazione, dice infatti Dio: « Vieni nella terra che io
ti mostrerò ». Si tratta di una terra - sembra dire il Signore - che tu, con
tutti gli sforzi di cui sei capace, non potresti scoprire; sono io che te la
mostro, anche quando tu non la cerchi, perché mi muovo a compassione della tua
ignoranza.
Questo dimostra che Dio, dopo averci chiamato
con le sue ispirazioni ad intraprendere la via della salute, si fa nostra guida
lungo il cammino e ci conduce, con la sua luce, fino al termine della felicità
celeste.
XI -
Domanda sulla grazia e il libero arbitrio
Germano - In che cosa consiste, allora, il nostro
libero arbitrio? E perché si rende lode al nostro impegno nella vita spirituale,
se è Dio che incomincia e porta a termine l’opera della nostra perfezione?
XII -
Risposta: la grazia divina non toglie il libero
arbitrio
Panuzio - La vostra obiezione sarebbe giusta se, in
ogni opera o disciplina, esistesse soltanto il principio e la fine, e non ci
fosse anche uno stadio intermedio che corre fra l’uno e l’altro dei termini
estremi.
Noi sappiamo che Dio mostra a tutti le vie della
salvezza, e le mostra in modo diverso da persona a persona: percorrere quelle
vie in modo più fervoroso o più pigro, dipende da noi
[i].
È vero che fu Dio a chiamare Abramo e a fargli la proposta: « Esci dalla tua
terra », ma è anche vero che l’atto di obbedienza, nell’uscire dalla propria
terra, fu di Abramo. Così pure, alle parole di Dio: « Vieni nella terra »,
dovette aggiungersi l’obbedienza di Abramo. Invece le altre parole
«... che io ti mostrerò », non chiedevano nulla da
parte di Abramo: esprimevano soltanto la grazia di Dio che presentava un comando
e prometteva un premio.
È certo tuttavia che, pur mettendo noi i più
nobili sforzi nel praticare la virtù, pur impegnando tutto il nostro zelo e la
nostra attività, dovremo accorgerci che tutto il lavoro dell’uomo è
insufficiente ad acquistargli il premio della felicità eterna. È necessaria
l’azione di Dio, è necessario che sia lui a guidare il nostro cuore al bene.
Perciò sulle nostre labbra deve risuonare ad ogni istante la preghiera di David:
« Rafferma i miei passi nei tuoi sentieri, perché non vacillino i miei piedi »
(Sal 16,5). Oppure: « Stabilì sopra una rupe i miei piedi e guidò i miei passi »
(Sal 39,3).
Il libero arbitrio, per la nostra ignoranza del
bene e per l’attrattiva delle passioni, è portato verso i vizi, perciò Colui che
governa invisibilmente l’anima dell’uomo si degna ricondurlo all’amore della
virtù.
Le verità di cui stiamo parlando sono dette nei
Salmi; ecco un versetto eloquente per noi: « Una spinta violenta mi fu data
perché cadessi » (e qui si sottolinea l’infermità del libero arbitrio), « il
Signore è venuto in mio aiuto » (qui si sottolinea la continua assistenza di
Dio). Affinché il libero arbitrio non ci spinga alla completa rovina, Dio ci
stende la mano ogni volta che ci vede vacillare, ci sostiene col suo aiuto e
fortifica i nostri passi.
Ecco ancora il Salmista a ripeterci questo
concetto: « Se dicevo: vacilla il mio piede », per la fragilità del libero
arbitrio, « la tua grazia, o Signore, mi aiutava » (Sal 117,13). Alla
confessione della sua debolezza il Salmista fa seguire quella dell’aiuto divino;
riconosce infatti che se la sua fede non ha vacillato, ciò non è dipeso da lui,
ma dalla misericordia del Signore. Nello stesso Salmo ora citato è detto pure: «
Se molti erano gli affanni entro il mio cuore » (tutti derivanti dal mio libero
arbitrio), « le tue consolazioni rallegravano l’anima mia » (Sal 93,19). Queste
consolazioni - intende dire il Salmista - sono come un soffio della tua bocca, o
Signore; penetrano nel mio cuore e gli aprono la vista dei beni futuri, di quei
beni che hai promesso a chi soffre per il tuo nome: così l’anima mia è liberata
da ogni ansietà ed è ricolma di somma letizia. E il nostro salmo aggiunge, a
modo di conclusione: « Se non fosse stato che il Signore mi ha aiutato,
abiterebbe già negli Inferi l’anima mia » (Sal 93,17). Il salmista riconosce
così che il suo arbitrio corrotto lo avrebbe condotto all’inferno se non lo
avesse salvato Dio, col suo aiuto e la sua protezione. « È Dio, infatti, non il
libero arbitrio, che guida i passi dell’uomo » (Sal 36,23); anzi, « quando il
giusto cade - per colpa del libero arbitrio - non stramazza » (Sal 36,24). E
perché? Chi sarà a salvarlo? « Perché il Signore gli pone sotto la sua mano »
(Sal 36,23).
Quanto siamo andati dicendo significa con
chiarezza solare che nessuno, anche se giusto, può bastare da solo ad ottenere
la salvezza; la bontà di Dio deve ad ogni istante sostenere i passi vacillanti
del giusto, affinché la debolezza del libero arbitrio non gli faccia perdere
l’equilibrio e, caduto, lo faccia perire per sempre.
XIII -
La guida nostra è Dio
Nessuno ha mai sentito dire, da quei santi
uomini dei nostri Padri, che la scelta della vita per la quale camminavano, come
pure il progresso o l’altissimo grado di perfezione raggiunto, erano una
conquista della loro industria. Dicevano invece di avere tutto ricevuto dal
Signore, al quale rivolgevano la loro preghiera in questi termini: « Guidami
nella tua verità
»
(Sal 24,5) e « dirigi al tuo cospetto la mia via
» (Sal 5,9).
Il profeta Isaia dice di conoscere la regola da
noi presentata, non solo per fede, ma per sua personale esperienza, e perché la
trova scritta nella natura stessa delle cose: « Io so, o Signore, che non è in
balia dell’uomo la sua strada, né è in suo arbitrio camminare e dirigere i suoi
passi » (Ger 10,23).
Dio stesso, nel profeta Osea, parla al suo
popolo così: « Lo rizzerò io come un verde abete: da me il tuo fratello è stato
ritrovato » (Os 5,9).
XIV -
Dio è il nostro maestro: con la sua luce noi
conosciamo la Legge
Gli uomini spirituali, anche quando si tratta
della scienza della Legge, non dicono di poterla acquistare con lo studio e la
lettura, ma l’aspettano dal magistero e dall’illuminazione di Dio, al quale
rivolgono ogni giorno questa preghiera: « Le tue vie, o Signore, fammi
conoscere, e i tuoi sentieri insegnami
»
(Sal 24,4). Ancora: « Togli il velo ai miei occhi e
considererò le meraviglie della tua Legge » (Sal 118,18). Oppure: « Insegnami a
fare la tua volontà perché il mio Dio tu sei » (Sal 142,20). E infine: « Sei tu
che insegni all’uomo la sapienza » (Sal 93,10).
XV -
Ci vengono da Dio sia l’intelligenza per
conoscere i comandamenti di Dio, sia gl’impulsi della buona volontà per seguirli
Il santo profeta David, pur sapendo che i
comandamenti di Dio sono scritti nei libri della legge, più che pensare a
leggerli, pensa a domandare al Signore intelligenza per comprenderli. Ecco
infatti come prega: « Io sono il tuo servo, o Signore, dammi intelligenza per
conoscere i tuoi comandamenti » (Sal 118,125). Eppure, egli possedeva già
l'intelligenza derivatagli dalla natura e, quanto ai comandamenti, sapeva che
erano scritti nei libri della Legge, libri che teneva di continuo a portata di
mano! Con tutto questo egli prega e chiede la grazia di conoscere i
comandamenti. Sa bene infatti che la natura sola non basta ad una tale opera; è
necessario ancora che la luce di Dio rischiari la ragione, le consenta di
penetrare nello spirito della Legge e le faccia scoprire, con la più grande
chiarezza, ciò che Dio comanda. Anche s. Paolo attesta la verità di quanto
diciamo; ecco le sue parole: « È Dio che produce in noi il volere e l’agire con
buona volontà » (Fil 2,13). Si poteva forse parlare con maggior chiarezza di
così? l’Apostolo afferma che è Dio a produrre in noi la buona volontà e
l’adempimento di ogni buona opera. E altrove soggiunge: « A voi fu data questa
grazia rispetto a Cristo, non solo di credere in lui, ma di patire per lui »
(Fil 1,29). Resta così confermato che non solo l’inizio della conversione e
della fede, ma anche la pazienza per sopportare ci viene da Dio.
Convinto della stessa verità, il profeta David
implorava così la misericordia del Signore: « Conferma, o Dio, ciò che hai fatto
in noi » (Sal 67,29). In tal modo David riconosceva che le primizie della
salvezza, concesse dalla grazia e dalla benevolenza di Dio, non bastano: quelle
primizie debbono esser condotte alla piena perfezione con un aiuto quotidiano
derivante anch’esso dalla divina misericordia.
Non è il libero arbitrio, ma è il Signore che
scioglie le catene agli schiavi (Sal 145,7); non è la nostra virtù, ma è il
Signore che solleva gli abbattuti (Sal 145,8); non è un’attenta lettura della
Bibbia, ma è la grazia del Signore che dona la vista ai ciechi. Anzi, a questo
punto il testo greco del libro sacro dice: « Chùrios sofòi tuflùs », che
significa: « Il Signore rende sapienti i ciechi ». Non è la nostra vigilanza ma
è il Signore che custodisce i forestieri (Sal 145,9); non è la nostra forza ma
il Signore che sostiene tutti quelli che cadono (Sal 144,14).
Quanto è stato detto non aveva lo scopo di
proclamare inutile il nostro zelo o vani i nostri sforzi, voleva però
persuaderci che senza l’aiuto di Dio siamo incapaci a compiere anche il minimo
sforzo, oppure che i nostri sforzi da soli sono incapaci a raggiungere il premio
ineffabile della purità. Per arrivare alla meta ci abbisognano assolutamente
l’aiuto e la misericordia del Signore: « Per il dì della battaglia si prepara il
cavallo, ma è il Signore che dà la salvezza » (Pr 21,31), perché « non per sua
forza l’uomo sarà potente » (1 Sam (1 Re; Vulg.) 2,9).
Dobbiamo perciò continuamente cantare col
profeta David: « La mia forza e il mio vanto non è il libero arbitrio, ma il
Signore: egli è stato a me di salvezza » (Sal 117,14). Anche il Dottore delle
genti è sicuro di essere diventato un idoneo operaio del Nuovo Testamento, non a
causa dei suoi meriti e delle sue fatiche, ma unicamente per la misericordia di
Dio. Dice infatti: « Non che da noi stessi siamo capaci di pensare alcunché come
fosse da noi, ma la sufficienza nostra viene da Dio » (2 Cor 3,5). Poi conclude:
« Dio ci ha pure fatti idonei ad essere ministri di un nuovo Patto » (2 Cor
3,6).
XVI -
La stessa fede è una grazia di Dio
Gli Apostoli compresero benissimo che tutto
quanto riguarda la salvezza è dono di Dio, perciò chiesero al Signore anche la
fede: « Signore - pregavano - aumenta in noi la fede » (Lc 17,5). Non
aspettavano dal loro libero arbitrio la pienezza di questa virtù, ma credevano
di poterla ricevere soltanto dalla liberalità di Dio. Di più: l’autore stesso
della nostra salvezza c’insegna a riconoscere l’incostanza, la debolezza,
l’insufficienza assoluta della nostra fede, quando non sia soccorsa dall’aiuto
divino: « Simone, Simone, ecco Satana va in cerca di voi per vagliarvi come si
vaglia il grano. Ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno »
(Lc 22,31-32).
Un altro personaggio evangelico, ammonito
dall’esperienza personale, sentiva la propria fede come sospinta dai flutti
dell’incredulità verso gli scogli del naufragio, per questo pregava così
rivolgendosi al Signore: « Io credo, Signore, aiuta la mia incredulità » (Mc
9,24). Gli Apostoli e gli altri personaggi che popolano il Vangelo avevano
capito perfettamente che nessun bene raggiunge in noi la sua perfezione senza
l’aiuto di Dio: erano così convinti di non poter neppure conservare la fede, con
le sole forze del libero arbitrio, die chiedevano al Signore di porre e
conservare in loro la fede.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto
di Dio per non venir meno, chi sarà tanto presuntuoso e cieco da credere di
poterla custodire senza quell’aiuto? Non è forse vero che il Signore stesso
dichiara la nostra insufficienza quando dice nel Vangelo: « Come il tralcio non
può produrre frutto se non rimane unito alla vite, così voi non potete portare
frutto se non rimarrete in me » (Gv 15,4). E ancora: « Senza di me non potete
far nulla » (Gv 15,5).
Quanto sia stolto e sacrilego attribuire a noi
stessi, anziché all’aiuto della divina grazia, anche una parte minima dei nostri
atti buoni, appare chiaro da una sentenza della divina Scrittura in cui è detto
che senza l’ispirazione e la cooperazione della grazia nessuno può produrre
frutti spirituali: « Ogni dono ottimo, ogni grazia perfetta, viene dal cielo e
scende dal Padre dei lumi » (Gc 1,17). E il profeta Zaccaria soggiunge: « Se c’è
qualcosa di buono è di Dio, se c’è qualcosa di ottimo viene da lui » (Zc 9,17).
S. Paolo, a sua volta, domanda: « Che cosa hai che tu non abbia ricevuto? E se
lo hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto? » (1 Cor
4,9).
XVII -
Dio misura le tentazioni e dà la grazia per
superarle
Anche la forza per sostenere le tentazioni da
cui siamo assaliti, più che dalla nostra virtù, dipende dalla misericordia e
dalla sapienza con cui Dio sa misurare la prova. Dice san Paolo: « Tentazione
non vi ha sorpreso se non umana; ora Iddio è fedele e non permetterà che siate
tentati oltre quel che potete, ma con la tentazione vi procurerà anche la via
d’uscita, affinché possiate sopportarla » (1 Cor 10,16). Lo stesso Apostolo
c’insegna che Dio dispone e fortifica le nostre anime per tutte le opere buone,
e compie in noi tutto ciò che gli piace: « Il Dio della pace, che in virtù del
Sangue dell’eterno patto ha risuscitato da morte il gran pastore delle pecore,
il Signore nostro Gesù, vi renda atti ad ogni opera buona, operando egli ciò che
è gradito ai suoi occhi » (Eb 13,20-21). E perché questo effetto si compia anche
in favore dei Tessalo- nicesi, così prega l’Apostolo: « Lo stesso Signore nostro
Gesù Cristo, e Iddio Padre nostro, che ci ha amato e dato eterna consolazione e
buona speranza nella grazia sua, consolino i vostri cuori e vi confermino in
ogni opera e discorso buono » (2 Ts 2,15-16).
XVIII -
La perseveranza nel santo timore è dono di Dio
Anche il timore di Dio ci è infuso dall’alto. Il
profeta Geremia lo afferma chiaramente quando, parlando a nome di Dio, dice: « E
darò a loro un cuor uno e un’unica via affinché mi temano in ogni tempo e
abbiano bene, essi e i loro figlioli dopo di loro. E stringerò con loro un patto
sempiterno, e non cesserò più dal beneficarli, e metterò nel loro cuore il
timore, affinché non si ritirino più da me » (Ger 32,39-40). Ezechiele parla
allo stesso modo: « E darò loro un cuore unanime, un nuovo spirito infonderò nel
loro interno, e strapperò dai loro precordi il cuore di sasso e vi sostituirò un
cuore di carne; affinché camminino sulla via dei miei precetti, osservino i miei
statuti e li mettano in pratica: ed essi siano il mio popolo e io sia il loro
Dio »(Ez 11,19-20).
XIX - Inizio
e termine della buona volontà vengono da Dio
Da tutto ciò discende una verità evidentissima:
il primo moto della buona volontà ci viene da una ispirazione di Dio, sia che
egli stesso ci attiri direttamente alla via della salute, sia che lo faccia
attraverso le esortazioni di qualche persona, o attraverso la forza delle cose e
degli eventi; ma anche la perfezione delle virtù ci viene da Dio. Quel che
possiamo mettere noi è la corrispondenza, fervorosa o tiepida, agli impulsi
della grazia; e meriteremo premio o castigo secondo che ci saremo studiati o no
di accordare con l’opera della benignissima provvidenza la nostra risposta
obbediente e devota. Tutto ciò si trova descritto nel Deuteronomio con chiarezza
lampante: « Quando il Signore Dio tuo ti avrà introdotto in quella terra della
quale tu devi diventare possessore, ed avrà fugato innanzi a te molte genti:
l’Eteo, il Gergeseo, l’Amorreo, il Cananeo, il Ferezeo, l'Eveo, il Gebuseo,
sette popoli molto più numerosi e più forti di te; quando il Signore Dio tuo li
avrà abbandonati in tuo potere, li sterminerà fino all’ultimo. Non verrai a
patto con loro, né avrai di loro compassione, né ti unirai con loro in
matrimonio » (Dt 7,1-3). La Scrittura dunque afferma che l’opera più importante
dipende da Dio: far entrare il popolo d’Israele nella terra promessa, annientare
davanti a lui molte nazioni, far cadere nelle sue mani popoli più numerosi e più
forti. È invece opera del popolo ebraico annientare o risparmiare quelle genti,
stabilire con loro alleanze e matrimoni, oppure non stabilirne.
Da questa testimonianza della sacra Scrittura
noi possiamo giudicare che cosa sia da ascrivere al nostro libero arbitrio e che
cosa sia da attribuire al dono del Signore e alla sua continua assistenza.
Presentarci le occasioni di salvezza e farci progredire felicemente fino alla
vittoria finale spetta alla grazia divina, rispondere con ardimento o con
pigrizia ai benefici di Dio è opera nostra
[ii].
Questo principio si trova chiaramente espresso
anche nella guarigione dei due ciechi. Gesù passa davanti a loro: ecco la grazia
della divina bontà e della Provvidenza. Essi gridano: Signore, figlio di David,
abbi pietà di noi: ecco l’opera della loro fede. Finalmente riacquistano la
vista: ecco il dono della divina misericordia. La storia dei dieci lebbrosi,
guariti tutti insieme, dimostra che quando il dono di Dio è stato largito,
grazia e libero arbitrio rimangono ancora nel soggetto. Infatti uno solo dei
lebbrosi guariti, in virtù del suo libero arbitrio, torna a rendere grazie. Il
Signore, poi, lodando colui che è tornato a ringraziare, e lamentandosi di nove
mancanti, fa comprendere che egli conserva la sua sollecitudine e la sua volontà
di soccorrere anche verso coloro che si mostrano immemori dei suoi benefici. È
poi dono della grazia di Dio, sia la benevola accoglienza a chi si dimostra
grato, sia il rimprovero a chi si mostra ingrato.
XX - In
questo mondo niente si fa senza Dio
Ci conviene credere, con certezza irremovibile,
che niente si fa in questo mondo senza Dio. Bisogna infatti riconoscere che
tutto avviene, o per sua volontà o per sua permissione. Il bene avviene per
volontà e concorso di Dio, il male avviene per sua permissione, in quanto che,
per punirci delle nostre colpe e per la durezza del nostro cuore, Dio ci
abbandona al potere del demonio e alla tirannia vergognosa delle passioni
carnali. Tutto questo ci insegna esplicitamente s. Paolo quando dice: « Per
questo li abbandonò Dio a passioni d’infamia » (Rm 1,26). E ancora: « Poiché non
si dettero cura di conoscere Dio, li abbandonò Iddio ai reprobi sentimenti, a
far ciò che non si deve » (Rm 1,28). Il Signore stesso dice per bocca del
Profeta: « Non ascoltò il mio popolo la mia voce, e Israele non badò a me. E li
abbandonai alla durezza del loro cuore, che si conducessero a loro capriccio »
(Sal 80,12-13).
XXI -
Obiezione derivante dal libero arbitrio
Germano - Ma ecco un testo che dimostra
irrefragabilmente (ovvero: in modo molto evidente. Ndr.) il libero arbitrio.
Dice Iddio: « Se il mio popolo mi avesse ascoltato... » (Sal 80,14). E altrove:
« Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce » (Sal 80,12).
Allorché la Sacra Scrittura dice:
se avesse
ascoltato, dimostra chiaramente che era in potere del
popolo dare o non dare ascolto. E allora, perché non dobbiamo far dipendere la
nostra salvezza da noi stessi, dal momento che Dio ci ha dato facoltà di
ascoltarlo e di non ascoltarlo?
XXII -
Risposta: il nostro libero arbitrio ha sempre bisogno dell’aiuto divino
Panuzio - Voi discutete con acutezza sulle parole:
se il mio
popolo avesse ascoltato, ma non fate
attenzione a chi parla, a chi ascolta, né tenete conto delle parole che seguono.
Proviamo a vedere quel discorso nella sua completezza: « Se il mio popolo mi
avesse ascoltato, come un nulla avrei forse umiliato i suoi nemici, e sopra i
suoi avversari avrei steso la mia mano » (Sal 80,15).
I testi da me riferiti, per dimostrare che
niente si fa senza l’intervento di Dio, non si possono sottoporre a una
interpretazione capziosa, così da farli servire alla difesa del libero arbitrio
e alla negazione della grazia di Dio e del suo soccorso quotidiano. Dire:
il mio popolo
non ha ascoltato la mia voce, oppure:
se il mio
popolo mi avesse ascoltato e Israele avesse camminato sulle mie vie, non è lo stesso che negare l’intervento di Dio.
Bisogna invece ammettere che, se la libertà del popolo si manifesta nella
disobbedienza, non si manifesta meno la continua provvidenza attraverso le
continue ammonizioni che Dio indirizza al suo popolo.
Quando il Signore lamenta: « Se il mio popolo mi
avesse ascoltato », dimostra evidentemente di avergli parlato per primo.
Si noti inoltre che Dio non parla al popolo
soltanto attraverso la legge scritta, ma anche con richiami quotidiani, secondo
quanto dice Isaia: « Ho steso le mie mani tutto il dì ad un popolo incredulo che
mi contraddice » (Is 65,2).
Il testo da voi citato: « Se il mio popolo mi
avesse ascoltato, se Israele avesse camminato per le mie vie, avrei annientato i
suoi nemici e avrei steso la mia mano su coloro che l’opprimono », mi sembra
tale da provare allo stesso tempo il libero arbitrio e la grazia.
Il libero arbitrio è provato dalla disobbedienza
del popolo; la grazia e il soccorso di Dio si mostrano nell’inizio e nella fine
del versetto, là dove Dio ricorda che egli ha parlato per primo e che avrebbe
umiliato i nemici d’Israele, se questo avesse dato ascolto alla sua voce. Noi,
poi, non abbiamo inteso distruggere il libero arbitrio, con i testi presi dalla
sacra Scrittura; abbiamo soltanto voluto provare che al nostro libero arbitrio è
necessario l’aiuto di Dio in ogni giorno e in ogni momento.
Dopo averci ammaestrati con questi ragionamenti, l’abate Panuzio ci congedò verso la mezzanotte. Lasciando la sua cella noi ci sentivamo molto infervorati ma anche molto tristi. Con la sua conferenza, infatti, ci aveva condotti ad una persuasione poco lusinghiera: noi avevamo creduto di poter raggiungere il culmine della perfezione con la prima rinuncia, che era quella in cui ci trovavamo impegnati con tutte le nostre forze; ora invece scoprivamo di non aver visto neppure in sogno le vette della vita monastica. Riguardo alla seconda rinunzia, qualcosa c’era stato detto nei monasteri dei cenobiti, ma della terza, cioè di quella che contiene tutta la perfezione e supera le prime due in modi innumerevoli, non avevamo sentito neppur parlare.
[i]
Queste parole di Cassiano sono da prendere con una certa cautela. Nella
introduzione all’opera abbiamo fatto cenno alle tendenze pelagiane del
nostro autore, ora aggiungiamo che la proposizione presente può essere
presa in senso pelagiano, o meglio ancora: semi-pelagiano.
La dottrina della Chiesa, oltre ad insegnare che
della grazia di Dio c’è bisogno all’inizio e alla fine della vita
spirituale, perché conversione e perseveranza finale son grazie che
nessuno può meritare, insegna anche che della grazia c’è bisogno in
quello stadio intermedio che a detta di Cassiano sembrerebbe campo
esclusivo del libero arbitrio.
Vero è che non manca chi interpreta benignamente
questo passo. Secondo alcuni commentatori Cassiano intenderebbe dire che
il progresso della vita spirituale non dipende solo dalla grazia, ma
anche dalla cooperazione del libero arbitrio. Comunque sia, noi abbiamo
voluto richiamare la genuina dottrina della Chiesa a scanso di ogni
equivoco.
[ii]
Rimandiamo alla nota del cap. XII, dove si parla della necessità della
grazia non solo per l’inizio e il termine della salvezza, ma anche per
lo stadio intermedio. Nel presente capitolo tutte le incertezze, già
notate nella dottrina di Cassiano circa la grazia, tornano in campo.
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4 dicembre 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net