LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
Cassianus Ioannes - Collationes
COLLATIO SEXTA QUAE EST THEODORI ABBATIS
DE NECE SANCTORUM.
Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne
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SESTA CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE TEODORO LA MORTE DEI SANTI
Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline |
CAPUT PRIMUM. |
Indice dei Capitoli
I - Descrizione del deserto e domanda sulla morte dei Santi; |
CAPUT PRIMUM. |
I - Descrizione
del deserto e domanda sulla morte dei santi
In Palestina, vicino al villaggio di Tecue, che si vanta di aver dato i
natali al profeta Amos, si estende un deserto vastissimo. I suoi confini
sono: da una parte l’Arabia, dall’altra il Mar Morto, nel quale sfociano
le acque del Giordano, e negli abissi del quale giacciono sepolti i
resti di Sodoma.
In quel deserto dimoravano da molti anni alcuni monaci di vita
elettissima e di santità ammirevole: non molto tempo fa essi furono
trucidati da bande di briganti saraceni.
I Vescovi della contrada, e gli stessi abitanti arabi, fecero a gara nel
ricercare i loro corpi, per deporli nei sepolcri in cui si conservano le
reliquie dei martiri. La venerazione verso quei corpi fu sì grande che
due schiere rivali, provenienti da paesi diversi, essendosi incontrate
presso il sepolcro dei monaci, vennero in conflitto e sguainarono le
spade per decidere chi di loro dovesse possedere il sacro tesoro. Ognuna
delle due schiere accampava diritti a possedere la tomba e le reliquie.
Gli uni dicevano che i santi monaci eran vissuti nelle vicinanze del
loro paese, gli altri affermavano che quei monaci erano nati nella loro
terra.
Noi, tuttavia, rimanemmo profondamente colpiti da un fatto così strano;
alcuni nostri confratelli ne rimasero addirittura scandalizzati. Perché
— ci chiedevamo — uomini di così grande merito sono stati uccisi da
briganti? Come ha fatto il Signore a permettere che un tale scempio si
compisse sopra i suoi servi? Perché ha lasciato cadere nelle mani degli
empi questi uomini che tutti ammiravano?
Attristati da questi pensieri, andammo in cerca dell’abate Teodoro, uomo
di alto valore nella vita ascetica. Costui abitava nel deserto delle
Celle, che dista cinque miglia dal monastero di Nitra e ottanta miglia
dal deserto di Scito, nel quale allora ci trovavamo.
All’abate Teodoro manifestammo i pensieri che ci tormentavano a
proposito dell’uccisione di quei monaci. Come ha fatto il Signore a
sopportare che uomini di così alto merito perissero di una simile morte?
La loro santità avrebbe dovuto liberare loro stessi dalle mani degli
empi. Perché Dio aveva permesso che si compisse un sì grande delitto
contro i suoi servi?
Il santo abate rispose così.
II - L’abate
Teodoro risponde alla questione proposta
Questo problema commuove l’anima di coloro che hanno poca fede e poca
sapienza cristiana; per questo pensano che i santi dovrebbero trovare la
loro ricompensa entro i brevi confini della vita presente. Invece i
santi non ricevono il premio dei loro meriti qui sulla terra, Dio la
tiene in serbo per l’eternità.
Noi poi ricordiamoci bene le parole di san Paolo: « Se solo per questa
vita abbiamo riposto in Cristo le nostre speranze, noi siamo i più
miserabili di tutti gli uomini » (1 Cor 15,19), perché non vedremo in
questo mondo il compimento delle sue promesse e perderemo il frutto
eterno a causa della nostra incredulità.
Non lasciamoci dunque irretire da opinioni erronee, perché, se non
possederemo la vera dottrina, la tentazione ci troverà incerti e
paurosi, e c’è da temere che ne saremo travolti. Finiremo così nel
numero di coloro che rimproverano a Dio di agire ingiustamente, o di non
curarsi degli eventi umani, perché egli non protegge nella prova i suoi
santi o coloro che vivono rettamente, né rende, fin da questa vita, il
bene ai buoni e il male ai cattivi. Questa accusa a Dio è una vera
bestemmia e ci merita di esser condannati con quei tali che il Profeta
Sofonia redarguisce con queste parole: « Costoro dicono in cuor loro: il
Signore non fa né il bene né il male » (Sof 1,12). Oppure ci metteremo
nella schiera di coloro che mormorano così contro il Signore: « Chiunque
fa il male è buono negli occhi del Signore, e costoro gli piacciono. E
se così stanno le cose, dov’è il Dio della giustizia? » (Mal 2,17). E
faremo nostra anche questa bestemmia che segue poco dopo: « Chi serve il
Signore serve invano: che guadagno abbiamo avuto dall’aver osservati i
suoi comandamenti e dall’aver camminato nel raccoglimento davanti al
Signore degli eserciti? Quindi, noi diremmo beati i miscredenti, perché
hanno prosperato commettendo l’empietà; hanno tentato Dio e sono rimasti
illesi » (Mal 3,14-15). Per liberarci dall’ignoranza, che è la radice e la causa di un errore così funesto, noi dobbiamo prima di tutto sapere che cosa è veramente buono e che cosa è veramente cattivo. Se, invece di seguire su questo argomento la falsa opinione del volgo, terremo la dottrina verace della sacra Scrittura, l’errore degli uomini senza fede non arriverà ad ingannarci. |
CAPUT III. De tribus quae in hoc mundo sunt, id
est, bonis, et malis, et mediis. |
III - Tre
categorie in cui si dividono le cose esistenti in questo mondo: le
buone, le cattive, le indifferenti
Tutte le cose che sono al mondo si dividono in tre categorie, esse sono:
o buone, o cattive, o indifferenti. Tocca dunque a noi sapere ciò che è
veramente buono, cattivo, o indifferente, affinché la nostra fede,
sostenuta da una scienza sincera, rimanga salda dinanzi a tutte le
prove.
Notiamo che nelle cose umane, niente merita di essere stimato pienamente
buono, all’infuori della virtù, la quale ci conduce a Dio nella
sincerità della fede e a Dio ci fa aderire continuamente, come a sommo
bene. Così pure, non c’è nulla di male in senso assoluto, all’infuori
del peccato, il quale, dopo averci separati da Dio che è buono, ci
unisce al diavolo che è cattivo. È indifferente tutto ciò che può essere
indirizzato al bene o al male dalla volontà e dalla libertà di colui che
ne usa. Indifferenti sono: le ricchezze, la potenza, l’onore, la forza
fisica, la salute, la bellezza, la vita, la morte, la povertà, la
malattia, le ingiurie e altre cose simili, che, secondo i sentimenti di
colui che ne usa, possono servire sia al bene che al male.
Non si può negare che le ricchezze servono spesso al bene: lo attesta
l’Apostolo che dà questi consigli: « Ai ricchi dell’età presente do il
consiglio di non essere alteri d’animo, ma di esser pronti a donare ai
poveri i loro beni, tesoreggiando così per se stessi un buon fondamento
per l’avvenire, affinché possano raggiungere quella che è veramente vita
» (1 Tm 6,17-19). Anche il Vangelo afferma che son buone quelle ricche2ze
che si usano a fare il bene: « Fatevi amici col denaro dell’iniquità »
(Lc 16,9). Sono invece cattive quelle ricchezze che si ammassano al solo
scopo di tesoreggiare, o per soddisfare la lussuria, non già per
dispensarle ai poveri.
Che la potenza, l’onore, la gagliardia fisica e la salute son cose
indifferenti e suscettibili di servire al bene come al male, si prova
facilmente dal fatto che molti santi dell’Antico Testamento furono in
possesso di fortune sterminate, altissime dignità, forza e salute fisica
e non furono per questo meno graditi a Dio. Lo stesso libro sacro ci
mostra anche che coloro i quali abusarono delle ricchezze servendosene
per soddisfare la loro cattiveria, furono giustamente puniti e tolti dal
mondo; così attestano molti esempi del libro dei Re.
La nascita di san Giovanni Battista e quella di Giuda dimostrarono che
anche la vita e la morte sono cose indifferenti. Al Battista la vita
giovò tanto che la sua nascita donò gioia anche agli altri, secondo
quanto è scritto: « Molti godranno per la nascita di lui » (Lc 1,14). Di
Giuda invece si legge: « Sarebbe meglio, per quest’uomo, se non fosse
mai nato » (Mt 26,24).
Di san Giovanni e di tutti i santi si dice: « Ha un prezzo assai alto al
cospetto del Signore la morte dei suoi santi » (Sal 115,15). Della morte
di Giuda, come di quella dei suoi consorti, si legge: « La morte dei
peccatori è orribile » (Sal 33,22).
Quali vantaggi possono ritrovarsi nella infermità del corpo, appare
dalla gloria in cui ci è mostrato Lazzaro, il mendicante ricoperto di
piaghe. Siccome la sacra Scrittura non nota in lui alcun’altra virtù,
bisogna dire che egli meritò la bella sorte di essere ricevuto nel seno
di Abramo per la grande pazienza esercitata nel sopportare la povertà e
la malattia.
Il bisogno, le persecuzioni, le ingiurie, son ritenute mali dal volgo;
eppure la loro utilità è grandissima, come è provato dalla vita dei
santi. Costoro, non contenti di accettare senza ribellarsi quei
cosiddetti mali, li cercarono eroicamente e li sopportarono senza
debolezza. In tal modo diventarono amici di Dio e guadagnarono il premio
della vita eterna. Ecco a tal proposito come canta l’apostolo Paolo: «
Io mi compiaccio nelle infermità, negli oltraggi, nelle privazioni,
nelle persecuzioni, nelle angustie incontrate per Cristo. Quando sono
infermo, proprio allora son forte, perché nella mia infermità risplende
intera la forza di Dio » (2 Cor 12,10 e 9).
Perciò non dobbiamo credere che coloro i quali si distinguono in questo
mondo per le ricchezze, onori e potenze, siano in possesso del bene vero
e sommo, che si ritrova soltanto nella virtù. Coloro che la fortuna ha
ben provveduto sono in possesso di cose indifferenti. Quei beni sono
utili e vantaggiosi ai giusti, che ne usano rettamente per soddisfare a
reali bisogni — si tratta infatti di mezzi che aiutano a ben fare e a
produrre frutti di vita eterna — sono invece inutili e dannosi a coloro
che ne abusano, perché danno un’occasione di peccato e di morte.
IV - Non
si può far male a chi non vuole
Teniamo fisse ed immobili le distinzioni stabilite e ricordiamoci che
non esiste nulla di buono al mondo all’infuori della virtù, la quale
nasce dal timore e dall’amore di Dio. Né c’è al mondo alcunché di male
all’infuori del peccato, che è separazione da Dio. Ora investighiamo
attentamente se Dio ha mai permesso che i suoi santi avessero a soffrire
qualche male, o da lui o da altri. Vedremo che esempi di questo genere
non se ne possono trovare. Ad un’anima che nega il consenso e fa resistenza, è impossibile far accettare il peccato. Questo penetra soltanto là dove un cuore fiacco e una volontà corrotta gli aprono la porta. Il demonio mise in azione, per far peccare il santo Giobbe, tutte le sue macchine da guerra: spogliò il sant’uomo di tutti i suoi beni e, quando lo vide sommamente addolorato per l’atroce e inattesa disgrazia, che fu la morte dei suoi sette figlioli, lo colpì con una piaga maligna che lo ricoprì da capo a piedi, poi lo sottopose a dolori insopportabili... Non poté tuttavia farlo cadere in peccato. Giobbe, nonostante tutto, rimase irremovibile, né dette alla bestemmia l’assenso più leggero. |
CAPUT V. Objectio quemadmodum ipse Deus dicatur
creare mala. |
V - Obiezioni:
come mai si dice che Dio ha creato il male
Germano -
Nella sacra Scrittura si legge più volte che Dio ha creato o ha mandato
il male. Eccone un esempio: « Io sono il Signore e nessun altro vi è. Io
formo la luce e creo le tenebre, faccio la pace e creo il male » (Is
45,6-7). E un altro esempio ancora: « Ci sarà sciagura nella città, ove
non sia il Signore che operi? » (Am 3,6).
VI - Risposta
all’obiezione proposta
Teodoro -
La sacra Scrittura chiama talvolta « mali » le afflizioni. Ma non è che
le afflizioni siano per loro natura dei veri mali; esse sembrano tali
agli occhi di coloro che ne sono salutarmente colpiti. Quando Dio
s’indirizza agli uomini per istruirli deve necessariamente parlare il
loro linguaggio e adattarsi ai loro sentimenti. Il ferro e il fuoco che
il bravo medico usa per curare le piaghe infette son rimedi salutari,
tuttavia, a chi deve sopportar quei rimedi sembra di sostenere un male.
Lo sperone non sembra dolce al cavallo, la correzione non è piacevole a
chi ha sbagliato. Tutte le correzioni sembrano lì per lì amare a coloro
che son corretti. Dice a proposito di ciò l'Apostolo: « Ogni castigo non
sembra, lì per lì, esser di gioia, bensì di dolore; ma più tardi porta —
a chi è da esso esercitato — pacifico frutto di giustizia »(Eb
12,11). E ancora: « Il Signore castiga chi
ama e sferza ogni figliolo che accoglie. Qual figlio c’è che il Padre
non corregga? » (Eb 12,6-7).
Così è spiegato come spesso il termine « male » equivalga a quello di «
afflizione », come si ha chiaramente nel seguente testo: « Dio ebbe di
loro compassione; e il male che aveva detto di far loro, più non lo fece
» (Gn 3,10). E altrove: « Tu, Signore, sei buono e propenso alla pietà,
paziente e sommamente misericordioso, pronto a pentirti del male che fai
» (Gal 2,13), cioè delle tribolazioni e dei castighi che i nostri
peccati ti costringono ad infliggerci. Ben sapendo che a molti le
afflizioni sono utili, un altro profeta, che vuol provvedere a non
impedire la salvezza dei suoi fratelli, parla così: « Manda il male,
manda il male, Signore, ai superbi della terra » (Is 26,15). Il Signore
stesso parla in tal modo: « Ecco che io sto per far piovere su loro i
mali » (Ger 11,11), cioè dolori e devastazioni, affinché, colpiti da un
castigo salutare, siano costretti dal dolore e ricercare Colui che
disprezzarono nel tempo della prosperità. Non possiamo dunque vedere dei
« mali » nelle afflizioni, perché esse contribuiscono al bene di molti e
forniscono un mezzo atto a guadagnare le gioie eterne. Per ritornare al nostro argomento, diremo che non si devono stimare veri mali tutti quei dolori che ci fanno soffrire i nostri nemici o altre persone; anziché di « mali » si dovrà parlare di cose indifferenti. Queste afflizioni non saranno nella realtà come le aveva immaginate colui che ce le aveva inflitte in un trasporto di collera, ma saranno come le farà diventare colui che le sopporta. Quando a un santo viene inflitta la morte, non si deve credere che gli è fatto un male: si tratta ancora di ima cosa indifferente. Quel che sarebbe un male per un uomo peccatore, per il santo è l’ora del riposo e della liberazione da tutti i mah. « La morte è un riposo per l’uomo la cui via è nascosta » (Gb 3,23 (LXX)). Il giusto non ha alcun danno dalla morte. In fin dei conti egli non soffre nulla di eccezionale perché la legge di natura lo aveva condannato a morire. La malizia del nemico, che lo uccide, non fa altro che donare al giusto il premio della vita eterna. Costui paga il debito che una legge senza eccezione lo obbligava a pagare: la morte, ma raccoglie dai suoi patimenti un frutto bellissimo e il premio di una infinita ricompensa. |
CAPUT VII. Interrogatio an reus sit, qui justo
intulit mortem, cum justus habeat de morte mercedem? |
VII - Domanda:
Siccome il giusto riceve il premio della sua morte, è proprio colpevole
colui che l’uccide?
Germano -
Se il giusto che muore non soffre un male, ma riceve un premio della sua
sofferenza, come si può accusare di colpa colui che, uccidendolo, non
gli ha fatto del male, ma gli ha fatto invece un ottimo servizio?
VIII – Risposta alla domanda precedente
Teodoro -
Noi stiamo parlando di ciò che è in
sé o buono, o cattivo, o indifferente: non ci
occupiamo delle intenzioni di coloro che agiscono. Tuttavia, l’uomo
empio o ingiusto non resterà impunito per il fatto che la sua malizia
non ha potuto nuocere al giusto. La pazienza e la virtù del giusto non
merita la ricompensa a colui che gli procura la morte e i supplizi, ma a
colui che morte e supplizi sopporta con pazienza. Il carnefice sarà
giustamente punito della sua crudeltà, perché ha voluto far del male; la
vittima, però, non ha sofferto alcun male perché la sua virtù,
sopportando pazientemente la dolorosa prova, ha trasformato in mezzi di
gioia e di vita eterna i maltrattamenti che gli s’infliggevano col
proposito di fargli del male.
IX - Esempio
di Giobbe tentato dal demonio e del Signore tradito da Giuda. Prosperità
e avversità giovano al giusto per la sua salvezza
La pazienza di Giobbe, che uscì più santo dalla terribile prova, non
potrà meritare un premio al diavolo che lo provò. Il premio spetta
soltanto a chi sostiene fortemente gli assalti del tentatore. Così si
dica per Giuda: egli non sarà immune dal supplizio eterno per il fatto
che il suo tradimento ha giovato alla salvezza del genere umano. Non
bisogna infatti considerare l’effetto di un’azione, ma l’intenzione di
colui che la compie. Noi dunque dobbiamo ritenere fermissimamente questo
principio: nessuno può far male ad un altro finché colui a cui si vuol
far male non si arrende per leggerezza di cuore e pusillanimità. C’è un
versetto dell’Apostolo che conferma questa sentenza: « Noi sappiamo che
per coloro i quali amano Dio, tutto concorre al bene » (Rm 8,28). E
dicendo: « tutto concorre al bene », l’Apostolo intende veramente tutto, non
soltanto gli eventi favorevoli, ma anche quelli contrari. In altra
occasione lo stesso Apostolo dice di essere passato anche lui per queste
prove: « In mezzo alle armi della giustizia a destra e a sinistra ». Il
che vuol dire « fra la gloria e l’ignominia, fra la calunnia e la lode,
come seduttori eppur veritieri, come addolorati eppur sempre lieti, come
miserabili ma capaci di arricchire molti » (2 Cor 6,7-10).
Così, tutto ciò che va sotto il nome di prosperità e sta a destra,
(l’Apostolo dice « onore e buona fama »), come tutto ciò che va sotto il
nome di avversità e sta a sinistra, (l’Apostolo dice « ignominia e
infamia »), tutto, diciamo, diventa arma di giustizia per l’uomo
perfetto, purché egli accolga con cuore magnanimo ciò che gli capita.
Tutto infatti gli serve per condurre la sua battaglia. Le stesse ferite
con le quali si sperava di abbatterlo diventano per lui armi di difesa;
egli se ne fa un arco, una spada, uno scudo validissimo contro coloro
che lo assalgono. Così egli cresce in pazienza e in virtù, e riporta il
trionfo gloriosissimo della costanza con quegli stessi strali che i
nemici avevano destinati a produrre la sua morte. Non lo estolle
(oppure: non si esalta per. Ndr.) la prosperità, non lo abbatte
l’avversità: egli cammina per una via sempre uguale, per la via regia.
Conserva la sua inalterabile tranquillità, senza che le gioie — quando
le incontra — lo facciano deviare a destra, senza che gli assalti
dell’avversità lo facciano piegare verso sinistra, sopraffatto dalla
tristezza. « C’è una grande pace, o Signore, per coloro che amano il tuo
nome: niente per loro è occasione di caduta » (Sal 118,165).
Di coloro, invece, che cambiano ad ogni mutar di vento, si legge: « Lo
stolto è mutevole come la luna » (Sir 27,12). Come per i perfetti è
scritto: « Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio » (Rm 8,28),
così per i deboli e gli stolti è scritto: « Tutto è contrario all’uomo
stolto » (Pr 14,7 (LXX)), egli non si avvantaggia nella prosperità e le
avversità non lo correggono. Sopportare coraggiosamente l’avversità e dominarsi nella prosperità sono due effetti di una stessa virtù. Lasciarsi vincere in imo di questi scontri significa incapacità a sostenere l’una e l’altra prova. Tuttavia è più facile esser vinti dalla prosperità che dall’avversità. Quest’ultima frena e umilia, e, attraverso la salutare compunzione che ispira, libera dai peccati che si potrebbero commettere, o corregge da quelli commessi. La prosperità, invece, innalza l’anima con le sue lusinghe sottili e dannose, finché la fa precipitare in una rovina orrenda. |
CAPUT X. De virtute viri perfecti, qui
ambidexter figuraliter nuncupatur. |
X - Virtù
dell’uomo perfetto, che è chiamato figuratamente ambidestro
Noi stiamo parlando di quegli uomini perfetti che nelle sacre Scritture
sono figuratamente chiamati « ambidestri ». Tale era, secondo il libro
dei Giudici, il celebre Aoth, il quale « si serviva delle due mani con
uguale destrezza » (Gdc 3,15). Anche noi potremo possedere questa virtù
in senso spirituale, a patto che, attraverso un uso buono e retto della
prosperità (la quale rappresenta la destra) e dell’avversità (la quale
rappresenta la sinistra) rendiamo tutto profittevole alla nostra vita
spirituale. Così tutto quello che ci capita sarà per noi — come dice
l’Apostolo — un’arma di giustizia. Il nostro uomo interiore, lo sappiamo
bene ormai, si compone di due parti essenziali; oppure — se è permesso
esprimersi così — ha essenzialmente due mani. Nessun giusto può
sottrarsi a quegli avvenimenti che noi abbiamo figuratamente chiamati «
mano sinistra », ma la virtù perfetta si riconosce da questo segno: se
avvenimenti prosperi e avvenimenti sfavorevoli diventano per il giusto
una « mano destra » a causa del buon uso che costui sa farne.
Cerchiamo di farci comprendere più chiaramente.
L’uomo giusto ha la mano destra, vale a dire ha i suoi buoni successi
nella vita spirituale. Egli allora, nel fervore del suo spirito, domina
su tutte le passioni e le concupiscenze. Messo al sicuro da ogni assalto
del demonio, respinge nettamente, senza fatica o difficoltà, tutti i
vizi della carne. Il suo volo lo porta a tali altezze dalla terra che le
cose presenti gli sembrano fumo che si dissolve, ombra vana: il loro
carattere instabile e transitorio gli ispira disprezzo. Rapito in
estasi, non solo desidera ardentemente le cose future, ma le contempla
con somma chiarezza. La contemplazione lo nutre più efficacemente; i
segreti celesti appaiono più chiari ai suoi occhi; le sue preghiere
salgono al cielo più pure e più vive. Una grande fiamma lo brucia
dentro; con l’anima fatta incandescente egli s’innalza alle cose
invisibili ed eterne, tantoché non sembra che abiti ancora in una carne
mortale.
Ma l’uomo giusto ha pure la mano sinistra. La tempesta delle tentazioni
lo assale; il fuoco della concupiscenza accende i desideri della carne;
le passioni sobillano gli ardori della collera; la superbia e la
vanagloria soffiano per farlo innalzare; la tristezza, che produce la
morte, lo abbatte; l’accidia lo assale con tutte le sue macchine da
guerra e lo scuote. Allora, essendogli sottratto tutto il primitivo
fervore, egli s’intorpidisce nella tiepidezza e in una tristezza senza
motivo: non ha più pensieri virtuosi e fervorosi. Che anzi: la salmodia,
la preghiera, la lettura, la solitudine della cella gli diventano
insopportabili: tutti gli strumenti di virtù gli ispirano un fastidio
tetro e noioso. Quando il monaco si sente esposto a questi attacchi,
deve ammettere che essi vengono da sinistra.
Facciamo ora l’ipotesi di un monaco il quale, trovandosi nella
situazione che noi abbiamo chiamato « di destra », non si è insuperbito
al soffio sottile della vanagloria; e nella situazione « di sinistra »
ha combattuto con tale coraggio da non soccombere alla disperazione, ma
da trasformare pazientemente l’avversità in un’arma per l’acquisto della
virtù. Quando abbiamo immaginato un tal monaco, abbiamo creato il tipo
dell’ambidestro. Costui, trionfando nell’una e nell’altra battaglia,
ottiene la palma della vittoria a destra e a sinistra. Una tale completa
vittoria seppe ottenere il santo Giobbe, secondo quel che leggiamo nella
sacra Scrittura. Egli acquistò la corona a destra. Padre di sette figli,
viveva nell’abbondanza e nella ricchezza, tuttavia offriva ogni giorno
per essi sacrifici espiatori al Signore, perché desiderava più di
legarli a Dio che a se stesso. La sua porta era aperta a chiunque si
presentasse: egli era piede per lo zoppo, occhio per il cieco. Le pelli
delle sue pecore scaldavano le spalle degli ammalati; egli era il padre
degli orfani, il difensore delle vedove. Se il suo nemico cadeva non se
ne rallegrava neppure nel segreto del cuore.
Ma Giobbe trionfò anche a sinistra opponendo alle avversità una virtù
ancor più sublime. In uno stesso istante perse tutti i sette figlioli, e
in quella circostanza non si vede in lui il padre sopraffatto da amaro
dolore, bensì il vero servo di Dio che ripone la sua grazia nel fare la
volontà del Creatore. Quando divenne da ricco, poverissimo; da ben
provvisto, privo di tutto; da sano, un corpo coperto di piaghe; da
onorato e glorioso, abietto e disprezzato, conservò intatta la sua forza
d’animo. Spogliato di ogni sostanza e di ogni potenza, ebbe per casa una
concimaia; a somiglianza di severo carnefice raschiò con un coccio il
marcio che scaturiva dalle sue piaghe ed estrasse con le dita i grovigli
di vermi che gli si annidavano nelle piaghe, in ogni parte del corpo. In
mezzo a tanti mali mai disperò, mai ardì bestemmiare Dio o mormorare
contro il Creatore. Anzi, per nulla atterrito da questo flagello di
mali, ricorda che del suo antico splendore gli rimane ancora una bella
veste, sfuggita alla rabbia del demonio, di cui si copre il suo corpo.
Giobbe la straccia e la getta lontana da sé, e aggiunge questo
spogliamento volontario a quelli che gli aveva procurati il crudele
avversario. Gli rimanevano intatti i capelli, ultimo resto dell’antica
gloria; egli li taglia e li getta al suo tormentatore; e mentre si priva
di ciò che l’ira del nemico gli aveva lasciato, gli grida queste parole
con tono di gioia e d’insulto: « Se abbiamo ricevuto dal Signore il
bene, perché non dovremmo accettare anche il male? Nudo sono uscito dal
seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha
ritolto; tutto è avvenuto come è piaciuto al Signore. Sia benedetto il
nome del Signore » (Gb 2,10; 1,21).
Mi par giusto definire « ambidestro » anche Giuseppe ebreo. Egli fu,
nella prosperità, carissimo al padre, modello di pietà ai fratelli,
particolarmente gradito a Dio. Nell’avversità si dimostrò casto, fedele
al suo padrone, dolce verso i compagni di prigionia, pronto a
dimenticare le ingiurie, benefico verso i nemici, tenero e, più ancora,
magnanimo verso i fratelli invidiosi e — almeno intenzionalmente —
assassini.
Uomini come questi, e tutti coloro che ad essi assomigliano, si possono
giustamente chiamare ambidestri, perché usano delle due mani con uguale
destrezza, e passando attraverso quegli estremi di cui parla l’Apostolo,
possono ripetere con lui: « Fra le armi della giustizia a destra e a
sinistra. Per l’onore e il disonore, per la buona e la cattiva fama...
».
Anche Salomone parla di « destra » e di « sinistra » e lo fa nel Cantico
dei Cantici, per bocca della sposa. « La sua
sinistra sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccia » (Ct 2,6).
Così la sposa afferma che tutte e due le mani sono utili, ma fa pure una
distinzione. Dicendo « la sua sinistra sotto la mia testa », indica che
le avversità debbono essere sottomesse alla parte principale dell’anima,
qui designata con la figura della « testa ». Infatti le avversità
giovano soltanto ad esercitarci e istruirci nella via della salvezza, e
a renderci perfetti nella pazienza. Ma per quanto riguarda la destra, la
sposa chiede di esser da quella circondata con un abbraccio
indissolubile, che la scaldi e la protegga nell’unione perfetta e soave
con lo sposo.
Saremo anche noi ambidestri, se l’abbondanza o la privazione delle cose
presenti ci lasceranno indifferenti: se l’abbondanza non ci porterà ai
piaceri di un rilassamento mortale, né la privazione ci farà disperare o
mormorare. È ambidestro chi ringrazia Dio nella buona e nella cattiva
fortuna e cerca di trovare vantaggio sia dall’una che dall’altra. Così si presenta a noi quel perfetto ambidestro che fu l’Apostolo delle genti; egli dice di se stesso: « Ho imparato a bastare a me stesso con le cose che mi trovo ad avere. So esser povero e so esser ricco; in tutto e per tutto mi sono abituato, e ad essere sazio e ad avere fame, a nuotar nell’abbondanza e a patir nelle privazioni. Ogni cosa io posso in colui che mi dà forza » (Fil 4,11-13). |
CAPUT XI. De duplici genere tentationum, quae
triplici modo inferuntur. |
XI - Due
specie di tentazioni che si presentano in tre modi diversi
Abbiamo detto che la tentazione ha due forme: quella della prosperità e
quella dell’avversità, ma bisogna anche sapere che le tentazioni
assalgono l’uomo per tre ragioni diverse. Spesso hanno lo scopo di
provarlo, altre volte di purificarlo, in certi casi sono anche un
castigo per i peccati commessi.
Innanzi tutto la tentazione è una prova. Così fu per Abramo, Giobbe e
molti santi che sostennero tribolazioni innumerevoli, come ci attesta la
sacra Scrittura. In questo senso Mosè parla al popolo nel Deuteronomio, e
dice: « Ricordati di tutto il cammino nel quale il Signore Dio tuo ti
condusse per quaranta anni nel deserto, per castigarti e metterti a
prova, perché divenisse manifesto quel che si rivolgeva nell’animo tuo,
se osservavi o no i suoi comandamenti » (Dt 8,2). Analogo è il
significato delle parole che si leggono nei Salmi: «
Ti misi alla prova presso l’acqua della contraddizione » (Sal 80,8), e
delle altre parole indirizzate a Giobbe: « Credi tu che io ti abbia
parlato per un altro motivo che non sia quello di mettere alla prova la
tua giustizia? » (Gb 40,3 (LXX)).
La tentazione è anche una purificazione. Quando vede nei giusti certe
colpe leggere, oppure scorge che si insuperbiscono della loro purezza,
Dio per umiliarli li abbandona a diverse tentazioni, sì da liberarli fin
da questa vita da tutte le impurità, o da tutte le « scorie », come dice
il Profeta (Is 1,25), che il suo occhio scorge nelle parti più intime
della loro anima. Il Signore agisce così perché vuole che i giusti si
presentino un giorno come oro puro alla prova che avranno da sostenere
davanti al suo tribunale, senza che sussista in loro neppur una
pagliuzza da consumare — dopo il giudizio — col fuoco vendicatore del
Purgatorio.
Il disegno di Dio è così svelato dalla Scrittura: « Molte sono le
tribolazioni dei giusti » (Sal 33,20), oppure: « Figlio mio, non far
poco caso della disciplina del Signore, e non ti scoraggiare quando sei
da lui ripreso; poiché il Signore castiga chi ama e sferza ogni figliolo
che accoglie. Qual figlio c’è che il padre non corregga? Se siete fuori
della disciplina, di cui tutti son partecipi, siete bastardi, non figli
legittimi » (Eb 12,5-8). L’Apocalisse aggiunge: « Io, quanti amo, li
riprendo e castigo » (Ap 3,19). I giusti son pure raffigurati nella
città di Gerusalemme alla quale Dio così parla per bocca del profeta
Isaia: « Annienterò tutte le genti tra le quali ti ho disperso, ma te
non annienterò: ti darò il castigo che ti meriti affinché non ti creda
innocente » (Ger 30,11). Per questa salutare purificazione, così pregava
David: « Provami, o Signore, e sperimentami, saggia al fuoco i miei reni
e il mio cuore » (Sal 25,2). Anche Isaia, che aveva compreso il valore
di questa purificazione, pregava così: « Castigami, o Signore; ma con
equanimità e non con tutto il tuo furore » (Ger 10,24); oppure: « Io ti
celebrerò, o Signore, perché essendo sdegnato con me, ti sei rimesso
dalla tua collera e mi hai consolato » (Is 12,1).
In ultimo, la tentazione può essere un castigo del peccato, come quei
castighi che il Signore minacciava di mandare al popolo d’Israele: «
Manderò contro di loro i denti delle bestie feroci e il furore dei
serpenti che strisciano sopra la terra » (Dt 32,24), oppure: «
Inutilmente ho percosso Ì vostri figli; voi non avete ricavato alcun
insegnamento » (Ger 2,30). Il Salmo canta: « Molti castighi cadono sui
peccatori » (Sal 31,10) e il Vangelo aggiunge: « Non voler più peccare,
affinché non t’incorra qualcosa di peggio » Gb 5,14).
Si può anche dare una quarta ragione per spiegare le tentazioni, vediamo
infatti nella sacra Scrittura che alcuni subiscono un male per il solo
scopo di manifestare la gloria di Dio e le sue opere. Di questa ragione
parla il Vangelo quando dice: « Non ha peccato lui e non hanno peccato i
suoi antenati: il suo male ha lo scopo di manifestare le opere di Dio »
(Gb 9,3); oppure: « Questa infermità non è per la morte, ma per la
gloria di Dio e perché il Figlio dell’Uomo ne sia glorificato » (Gb
11,4).
Ci sono anche altre specie di castighi divini che cadono all’improvviso
su coloro che hanno oltrepassato il colmo della malizia umana. Così
furono colpiti Datan, Abiron e Core e quelli di cui parla l’Apostolo
quando dice: « Per questo Dio li ha abbandonati a passioni innominabili
e al loro senso reprobo » (Rm 26 e 28). E questo è il più terribile di
tutti i castighi; il salmista parla così di coloro che lo hanno
meritato: « Ai travagli degli uomini non hanno parte, né con gli altri
uomini sono flagellati » (Sal 72,5). Costoro non meritano di ricevere
dal Signore quelle visite che salvano, o di ricevere una medicina che
possa guarire i loro mali. Giunti ormai alla disperazione, « si son dati
alla dissolutezza così da operare ogni impurità » (Ef 4,19). Essi, per
l’indurimento del loro cuore, per l’abitudine al male, per il numero dei
peccati, hanno oltrepassato il limite entro il quale è possibile, nella
vita presente, una purificazione e una penitenza. A loro Dio rivolge
questo rimprovero, per bocca del Profeta: « Vi ho sconvolti come Iddio
ha sconvolto Sodoma e Gomorra, e vi siete ridotti come un tizzo
sottratto all’incendio: e non siete tornati a me, dice il Signore » (Am
4,11). E Geremia soggiunge: « Già ne ho uccisi e fatti perire del popolo
mio, e tuttavia dalle loro vie non si son ritirati » (Ger 15,7); e
ancora: « Tu li hai percossi e si sono risentiti, li hai quasi rifiniti
e ricusarono di ricevere correzioni, indurirono la loro faccia più di
una pietra e non vollero ravvedersi » (Ger 5,3). Vedendo che tutte le
medicine della vita presente erano incapaci di guarirli, il profeta,
disperando ormai della loro salvezza, esclama: « Il mantice è stanco; il
piombo si è consumato al fuoco; invano il fonditore ha cercato di
fondere, perché la loro malvagità non si è sciolta. Chiamateli « argento
di scarto » perché il Signore li ha scartati » (Ger 6,29-30). Ascoltiamo
ancora il Signore che si lamenta di aver applicato inutilmente questa
purificazione del fuoco ai peccatori incalliti nella colpa; costoro sono
raffigurati in Gerusalemme profondamente penetrata dalla ruggine del
peccato: « La poserai, vuota, sopra la brace, affinché si arroventi e si
liquefaccia il suo rame e si sciolga in mezzo ad essa la sua
contaminazione e si consumi la sua ruggine. Fatica sprecata! La sua
grossa ruggine non si è disfatta neppure col fuoco » (Ez 16,42). A
somiglianza di valentissimo medico il Signore ha sperimentato tutti i
rimedi, ed ora non trova medicina che sia appropriata al loro male.
Vinto — se così si può dire — dal cumulo delle loro iniquità, è
costretto ad abbandonare i castighi che sono ispirati dalla clemenza e
di ciò li avverte con queste parole: « Il mio sdegno contro di te si
placherà e la mia gelosia verso di te sparirà » (Ez 16,42). Ben diverso
è il linguaggio di David con quei tali che non sono stati induriti dalla
frequenza del peccato e quindi non hanno bisogno di un trattamento
rigoroso o di una medicina caustica, ma possono esser guariti con un
semplice rimprovero: « Io li correggerò — dice il Signore — con parole
che li affliggeranno » (Os 7,12 (LXX)).
Non ignoriamo che ci sono anche altri motivi capaci di muovere i divini
castighi. Talvolta Dio punisce i grandi peccatori, non per correggerli o
metterli in condizione di espiare i loro delitti, sebbene per correggere
gli altri uomini ispirando in loro il santo timore. Il castigo di
Geroboamo, figlio di Nabat, quello di Baasa, figlio d’Achia, quello di
Acab e di Gezzabele, ebbero indubbiamente un tale carattere, lo stesso
libro sacro ce lo fa notare: « Ecco io farò venire sopra di te la
sventura, io mieterò la tua prosperità e sterminerò dalla casa di Acab
chiunque orina contro il muro, chi è rinchiuso e chi è ultimo in
Israele; e ridurrò la tua casa come la casa di Geroboamo figlio di Nabat
e come la casa di Baasa figlio di Achia, perché tu hai agito in modo da
provocarmi alla collera e hai fatto peccare Israele ». Anche contro
Gezzabele parlò il Signore dicendo : « I cani mangeranno Gezzabele nel
campo di Israele. Se Acab morirà nella città lo mangeranno i cani, se
morirà in campagna, lo divoreranno gli uccelli del cielo » (1 Re (3 Re;
Vulg.) 21,21-24). C’è poi nelle Scritture anche questa minaccia
terribile: « Il tuo corpo non sarà calato nella tomba dei tuoi padri »
(1 Re (3 Re; Vulg.) 13,22).
Il senso di queste parole non è che i delitti di Geroboamo (il quale
introdusse per primo i vitelli d’oro tra gli ebrei, trascinando così il
popolo lontano da Dio in una prevaricazione che non doveva finire), e i
sacrilegi abominevoli e frequenti degli altri prevaricatori sopra
ricordati, potessero essere espiati con un castigo breve come l’istante
che fugge. No! Dio voleva inculcare sentimenti di terrore ad altri
uomini distratti, o increduli a riguardo delle pene eterne, ma molto
sensibili al pensiero dei castighi presenti; per questo mise sotto i
loro occhi esempi di vendetta da spaventare. Questa severità doveva
anche convincerli sperimentalmente che la divina maestà non si
disinteressa delle cose umane, né abbandona al caso gli avvenimenti
della vita quotidiana. Doveva anche persuaderli, con la vista di
castighi così terribili, che Dio premia e castiga, secondo il merito,
tutte le nostre opere.
Abbiamo anche l’esempio di molti che furono puniti con sentenza di morte
improvvisa per colpe leggere: la divina giustizia li mise alla pari con
quei sacrileghi di cui abbiamo parlato prima. Così avvenne per colui che
aveva raccolto la legna in giorno di sabato, per Anania e Saffira che,
vinti dall’errore della infedeltà, si erano ritenuti un poco del loro
denaro. La loro colpa non stava alla pari, in gravità, con quella degli
altri peccatori da noi conosciuti; era però d’una forma nuova. Essi
dovevano essere un esempio di penitenza come lo erano stati di peccato.
Dovevano essere un esempio atto ad ispirare terrore, affinché chiunque
si fosse provato ad imitarli si sentisse condannato allo stesso modo, se
non in questa, almeno nell’altra vita, e conoscesse il castigo che lo
attendeva al giudizio finale. Ma, per trattare delle varie specie di tentazioni e delle vendette divine che puniscono le colpe, ci siamo un poco allontanati dal nostro tema, che era quello di provare come i giusti conservano la stessa inalterabile calma nella prosperità e nell’avversità. Ora è tempo di tornare al nostro argomento. |
CAPUT XII. Quomodo vir justus non cerae, sed
adamantino signatorio debeat esse consimilis. |
XII - II
giusto non deve somigliare alla cera, ma al sigillo di diamante
L’anima del giusto non deve somigliare alla cera o a qualche altra cosa
molle, la quale cede sempre al sigillo che le si imprime, ne prende la
forma e l’impronta per conservarla fino a che l’applicazione di un nuovo
sigillo non le imprime un’altra figura. Se così fosse, l’anima non
rimarrebbe mai in uno stato durevole, ma assumerebbe di continuo le
forme che le potrebbe imprimere il flusso delle cose e degli eventi. Al
contrario! L’anima deve essere come un sigillo di diamante il quale,
oltre a conservare inviolabile la sua figura, segna con quella i diversi
avvenimenti della vita e li fa simili a sé, senza mai subire impressioni
o impronte da parte di quelli.
XIII - Domanda:
può l’anima rimanere continuamente nel medesimo stato?
Germano —
È impossibile, per l’anima nostra, rimanere sempre nel medesimo stato?
Perseverare nella stessa disposizione?
XIV - Risposta
alla domanda
Teodoro —
C’è una legge inviolabile, così presentata dall’Apostolo: « O l’uomo —
rinnovato nella sua parte spirituale — segnerà ogni giorno qualche
progresso, slanciandosi alle cose davanti » (Cfr. Ef 4,23 e Fil 3,13),
oppure — se sarà negligente — tornerà indietro e andrà di male in
peggio. L’anima dunque non può in alcun modo rimanere nel medesimo
stato. Pensiamo un uomo che si trovi in una barca in mezzo alle acque di
un fiume impetuoso. Che cosa può fare? o impiega tutta la forza delle
sue braccia e risale la corrente impetuosa spostandosi a monte, oppure
si abbandona, e allora la forza della corrente se lo porta dove vuole.
Ecco il segno evidente delle nostre perdite: se ci accorgiamo di non
aver progredito, dobbiamo tener per certo di essere andati indietro. Il
giorno in cui non siamo andati avanti abbiamo abbandonato qualche
posizione. È impossibile — come abbiamo già detto — che l’anima
dell’uomo possa rimanere stazionaria. Non c’è un santo, finché vive in
questa carne, che possa stabilirsi sulla vetta della virtù e là rimanere
immobile: o cresce continuamente in virtù, oppure diminuisce. Non c’è
creatura in cui la perfezione abbia raggiunto un grado tale da non poter
più crescere o diminuire. Ce lo afferma anche il libro di Giobbe: « Che
cosa è l’uomo perché sia senza macchia, e perché appaia giusto chi è
nato da donna? Ecco, fra i santi di Dio nessuno è immutabile, e i cieli
non sono puri agli occhi suoi » (Gb 15,14-15). Dio solo è immutabile; di
lui dice il Profeta: « Tu sei sempre il medesimo » (Sal 101,28), ed egli
dice di sé: « Io sono il Signore e non muto » (Mal 3,6). Dio solo è, per
natura sua, sempre buono, sempre nella pienezza della perfezione, a lui
niente si può aggiungere e niente si può togliere. Noi dobbiamo perciò esser protesi alla conquista della virtù con una diligenza che non si stanca mai; dobbiamo continuamente stare occupati negli esercizi della virtù, per timore che, cessando di progredire, non abbiamo a tornare verso il vizio. L’abbiamo già detto: l’anima non può fermarsi in uno stato stazionario: o cresce in virtù, o diminuisce. Non acquistare è perdere: quando si spegne il desiderio di progredire, non è lontano il pericolo d’indietreggiare. |
CAPUT XV. Quod detrimentum sit discedere e
cella. |
XV - A
quali danni va incontro chi si allontana dalla cella
Tutto questo richiede che rimaniamo fedeli al ritiro nella nostra cella.
Ogni qualvolta l’avremo lasciata per attendere ad altre occupazioni, al
nostro ritorno ci troveremo come estranei e sperduti in essa: sarà come
se cominciassimo allora ad abitarvi, pieni d’incertezza e di turbamento.
Il fervore di spirito che il monaco aveva acquistato standosene ritirato
nella sua cella, perduto che sia, non sarà facile a riconquistarsi. Chi
è decaduto dal primo stato non può pensare al progresso che avrebbe
potuto fare se non avesse lasciato la cella, ma sarà contento se potrà
riacquistare il grado da cui era caduto. Come non si recupera il tempo
perduto così non si ritrovano i meriti che ci siamo lasciati sfuggire.
Tutto ciò che di buono può produrre il nuovo fervore dello spirito e
progresso del giorno presente, è guadagno del momento che fugge, non è
affatto una riconquista delle ricchezze spirituali perdute.
XVI - Anche
le virtù vanno soggette a mutazione
Anche le potenze spirituali o angeliche, sono sottomesse al cambiamento,
come abbiamo già avuto occasione di dire e come ci prova la caduta degli
angeli dovuta alla corruzione della loro volontà. Neppure quegli spiriti
che perseverano in quella beatitudine in cui furono creati, possono
esser giudicati immutabili per il semplice fatto che non si son lasciati
attirare dalla parte contraria a Dio. Altra cosa è l’immutabilità per
diritto di natura, altra cosa è la capacità di non mutare, ottenuta con
lo sforzo della virtù e della fedeltà al bene: questa capacità è frutto
della grazia di Dio, il quale è immutabile per natura. Tutto ciò che si
acquista e si conserva mediante la nostra diligenza, si può perderlo per
negligenza. Per questo è detto nella Scrittura: « Non beatificare l’uomo
prima che sia morto » (Sir 11,28); infatti, finché l’uomo è nella
mischia, finché rimane nel mezzo dell’arena, per quanto sia abituato a
vincere e per numerose che siano le sue vittorie, non può essere immune
dal timore di una caduta sempre possibile. Ecco perché si dice che solo
Dio è immutabile e solo Dio è buono: egli possiede la bontà non per
studio o industria ma per essenza, quindi non può essere altro che
buono, non può non essere buono. Nessuna virtù può essere possesso
immutabile per l’uomo; chi — dopo averla acquistata — vuol conservare
una virtù, deve usare a conservarla la stessa attenzione e diligenza che
usò ad acquistarla.
XVII - Nessuno
cade all'improvviso
Quando uno cade non si tratta mai di una disgrazia improvvisa. I casi
sono due: o una formazione difettosa fin dalle origini lo ha messo per
ima via sbagliata, oppure una prolungata negligenza ha indebolito a poco
a poco la sua virtù e fatto crescere i vizi: quella dolorosa caduta è
l’effetto di uno di questi stati. « La superbia precede la caduta e
prima della rovina s’inorgoglisce lo spirito » (Pr 16,18). Una casa non
crolla mai all’improvviso. Sarà un difetto del fondamento, tanto antico
quanto la costruzione, sarà la trascuratezza degli abitanti che ha
lasciato penetrare l’acqua a goccia a goccia finché questa ha fatto
marcire le travi del tetto e poi, col progredire del tempo, ha formato
aperture più grandi e incrinature più pericolose. Alla fine la pioggia è
entrata con impeto, a torrenti. « Per via della pigrizia precipiterà il
soffitto e per l’inerzia delle mani farà acqua la casa » (Qo 10,18).
Ecco detto metaforicamente quel che accade all’anima. Ce lo ripete con
altre parole lo stesso Salomone: « L’acqua che cade dal tetto caccia
l’uomo di casa in un giorno d’inverno » (Pr 27,15 (LXX)).
Molto elegantemente il libro paragona l’anima negligente al tetto non
sorvegliato: attraverso la trascuratezza infatti giungono nell’anima
gl’impulsi delle passioni, a somiglianza di gocce impercettibili. Se si
trascurano come cose da poco o di nessun conto, adagio adagio corrompono
le travi, che son le virtù, e poi lasciano passare il diluvio dei vizi.
In un giorno d’inverno, cioè nel tempo della tentazione, il demonio
attacca e scaccia l’anima dalla dimora della virtù nella quale una
diligenza piena d’attenzione le aveva permesso fin qui di abitare come
in casa propria. Quanto avevamo udito era per noi un alimento spirituale di cui non potevamo assaporare tutta l’infinita dolcezza. La gioia di questa conferenza superava di gran lunga la tristezza che aveva cagionato il pensiero della morte dei santi. Non solo erano stati sciolti i nostri dubbi, ma c’erano state rivelate, in questa occasione, molte altre cose che la nostra corta intelligenza non avrebbe mai pensato d’indagare. |
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24 maggio 2016 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net