LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
6.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE TEODORO
LA
MORTE DEI SANTI
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei Capitoli
I - Descrizione del deserto e
domanda sulla morte dei Santi;
II - L’abate Teodoro risponde alla questione proposta;
III - Tre categorie in cui si dividono le cose esistenti in questo mondo:
le buone, le cattive, le indifferenti;
IV - Non si può far male a chi non vuole;
V - Obiezione: come mai si dice che Dio ha creato il male;
VI - Risposta all’obiezione proposta;
VII - Domanda: Siccome il giusto riceve il premio della sua morte, è
proprio colpevole colui che l’uccide?;
VIII - Risposta alla domanda precedente;
IX - Esempio di Giobbe tentato dal demonio, e del Signore tradito da
Giuda. Prosperità e avversità giovano al giusto per la sua salvezza;
X - Virtù dell’uomo perfetto, che è chiamato figuratamente ambidestro;
XI - Due specie di tentazioni che si presentano in tre modi diversi;
XII - Il giusto non deve somigliare alla cera, ma al sigillo di diamante;
XIII - Domanda: può l’anima rimanere continuamente nel medesimo stato?;
XIV - Risposta alla domanda;
XV - A quali danni va incontro chi si allontana dalla cella;
XVI - Anche le virtù vanno soggette a mutazione;
XVII - Nessuno cade all’improvviso.
I -
Descrizione del deserto e domanda sulla morte dei santi
In Palestina, vicino al villaggio di Tecue, che si vanta di aver dato i natali
al profeta Amos, si estende un deserto vastissimo. I suoi confini sono: da una
parte l’Arabia, dall’altra il Mar Morto, nel quale sfociano le acque del
Giordano, e negli abissi del quale giacciono sepolti i resti di Sodoma.
In quel deserto dimoravano da molti anni alcuni monaci di vita elettissima e di
santità ammirevole: non molto tempo fa essi furono trucidati da bande di
briganti saraceni.
I Vescovi della contrada, e gli stessi abitanti arabi, fecero a gara nel
ricercare i loro corpi, per deporli nei sepolcri in cui si conservano le
reliquie dei martiri. La venerazione verso quei corpi fu sì grande che due
schiere rivali, provenienti da paesi diversi, essendosi incontrate presso il
sepolcro dei monaci, vennero in conflitto e sguainarono le spade per decidere
chi di loro dovesse possedere il sacro tesoro. Ognuna delle due schiere
accampava diritti a possedere la tomba e le reliquie. Gli uni dicevano che i
santi monaci eran vissuti nelle vicinanze del loro paese, gli altri affermavano
che quei monaci erano nati nella loro terra.
Noi, tuttavia, rimanemmo profondamente colpiti da un fatto così strano; alcuni
nostri confratelli ne rimasero addirittura scandalizzati. Perché — ci chiedevamo
— uomini di così grande merito sono stati uccisi da briganti? Come ha fatto il
Signore a permettere che un tale scempio si compisse sopra i suoi servi? Perché
ha lasciato cadere nelle mani degli empi questi uomini che tutti ammiravano?
Attristati da questi pensieri, andammo in cerca dell’abate Teodoro, uomo di alto
valore nella vita ascetica. Costui abitava nel deserto delle Celle, che dista
cinque miglia dal monastero di Nitra e ottanta miglia dal deserto di Scito, nel
quale allora ci trovavamo.
All’abate Teodoro manifestammo i pensieri che ci tormentavano a proposito
dell’uccisione di quei monaci. Come ha fatto il Signore a sopportare che uomini
di così alto merito perissero di una simile morte? La loro santità avrebbe
dovuto liberare loro stessi dalle mani degli empi. Perché Dio aveva permesso che
si compisse un sì grande delitto contro i suoi servi?
Il santo abate rispose così.
II -
L’abate Teodoro risponde alla questione proposta
Questo problema commuove l’anima di coloro che hanno poca fede e poca sapienza
cristiana; per questo pensano che i santi dovrebbero trovare la loro ricompensa
entro i brevi confini della vita presente. Invece i santi non ricevono il premio
dei loro meriti qui sulla terra, Dio la tiene in serbo per l’eternità.
Noi poi ricordiamoci bene le parole di san Paolo: « Se solo per questa vita
abbiamo riposto in Cristo le nostre speranze, noi siamo i più miserabili di
tutti gli uomini » (1 Cor 15,19), perché non vedremo in questo mondo il
compimento delle sue promesse e perderemo il frutto eterno a causa della nostra
incredulità.
Non lasciamoci dunque irretire da opinioni erronee, perché, se non possederemo
la vera dottrina, la tentazione ci troverà incerti e paurosi, e c’è da temere
che ne saremo travolti. Finiremo così nel numero di coloro che rimproverano a
Dio di agire ingiustamente, o di non curarsi degli eventi umani, perché egli non
protegge nella prova i suoi santi o coloro che vivono rettamente, né rende, fin
da questa vita, il bene ai buoni e il male ai cattivi. Questa accusa a Dio è una
vera bestemmia e ci merita di esser condannati con quei tali che il Profeta
Sofonia redarguisce con queste parole: « Costoro dicono in cuor loro: il Signore
non fa né il bene né il male » (Sof 1,12). Oppure ci metteremo nella schiera di
coloro che mormorano così contro il Signore: « Chiunque fa il male è buono negli
occhi del Signore, e costoro gli piacciono. E se così stanno le cose, dov’è il
Dio della giustizia? » (Mal 2,17). E faremo nostra anche questa bestemmia che
segue poco dopo: « Chi serve il Signore serve invano: che guadagno abbiamo avuto
dall’aver osservati i suoi comandamenti e dall’aver camminato nel raccoglimento
davanti al Signore degli eserciti? Quindi, noi diremmo beati i miscredenti,
perché hanno prosperato commettendo l’empietà; hanno tentato Dio e sono rimasti
illesi » (Mal 3,14-15).
Per liberarci dall’ignoranza, che è la radice e la causa di un errore così
funesto, noi dobbiamo prima di tutto sapere che cosa è veramente buono e che
cosa è veramente cattivo. Se, invece di seguire su questo argomento la falsa
opinione del volgo, terremo la dottrina verace della sacra Scrittura, l’errore
degli uomini senza fede non arriverà ad ingannarci.
III -
Tre categorie in cui si dividono le cose esistenti in questo mondo: le buone, le
cattive, le indifferenti
Tutte le cose che sono al mondo si dividono in tre categorie, esse sono: o
buone, o cattive, o indifferenti. Tocca dunque a noi sapere ciò che è veramente
buono, cattivo, o indifferente, affinché la nostra fede, sostenuta da una
scienza sincera, rimanga salda dinanzi a tutte le prove.
Notiamo che nelle cose umane, niente merita di essere stimato pienamente buono,
all’infuori della virtù, la quale ci conduce a Dio nella sincerità della fede e
a Dio ci fa aderire continuamente, come a sommo bene. Così pure, non c’è nulla
di male in senso assoluto, all’infuori del peccato, il quale, dopo averci
separati da Dio che è buono, ci unisce al diavolo che è cattivo. È indifferente
tutto ciò che può essere indirizzato al bene o al male dalla volontà e dalla
libertà di colui che ne usa. Indifferenti sono: le ricchezze, la potenza,
l’onore, la forza fisica, la salute, la bellezza, la vita, la morte, la povertà,
la malattia, le ingiurie e altre cose simili, che, secondo i sentimenti di colui
che ne usa, possono servire sia al bene che al male.
Non si può negare che le ricchezze servono spesso al bene: lo attesta l’Apostolo
che dà questi consigli: « Ai ricchi dell’età presente do il consiglio di non
essere alteri d’animo, ma di esser pronti a donare ai poveri i loro beni,
tesoreggiando così per se stessi un buon fondamento per l’avvenire, affinché
possano raggiungere quella che è veramente vita » (1 Tm 6,17-19). Anche il
Vangelo afferma che son buone quelle ricche2ze
che si usano a fare il bene: « Fatevi amici col denaro dell’iniquità » (Lc
16,9). Sono invece cattive quelle ricchezze che si ammassano al solo scopo di
tesoreggiare, o per soddisfare la lussuria, non già per dispensarle ai poveri.
Che la potenza, l’onore, la gagliardia fisica e la salute son cose indifferenti
e suscettibili di servire al bene come al male, si prova facilmente dal fatto
che molti santi dell’Antico Testamento furono in possesso di fortune sterminate,
altissime dignità, forza e salute fisica e non furono per questo meno graditi a
Dio. Lo stesso libro sacro ci mostra anche che coloro i quali abusarono delle
ricchezze servendosene per soddisfare la loro cattiveria, furono giustamente
puniti e tolti dal mondo; così attestano molti esempi del libro dei
Re.
La nascita di san Giovanni Battista e quella di Giuda dimostrarono che anche la
vita e la morte sono cose indifferenti. Al Battista la vita giovò tanto che la
sua nascita donò gioia anche agli altri, secondo quanto è scritto: « Molti
godranno per la nascita di lui » (Lc 1,14). Di Giuda invece si legge: « Sarebbe
meglio, per quest’uomo, se non fosse mai nato » (Mt 26,24).
Di san Giovanni e di tutti i santi si dice: « Ha un prezzo assai alto al
cospetto del Signore la morte dei suoi santi » (Sal 115,15). Della morte di
Giuda, come di quella dei suoi consorti, si legge: « La morte dei peccatori è
orribile » (Sal 33,22).
Quali vantaggi possono ritrovarsi nella infermità del corpo, appare dalla gloria
in cui ci è mostrato Lazzaro, il mendicante ricoperto di piaghe. Siccome la
sacra Scrittura non nota in lui alcun’altra virtù, bisogna dire che egli meritò
la bella sorte di essere ricevuto nel seno di Abramo per la grande pazienza
esercitata nel sopportare la povertà e la malattia.
Il bisogno, le persecuzioni, le ingiurie, son ritenute mali dal volgo; eppure la
loro utilità è grandissima, come è provato dalla vita dei santi. Costoro, non
contenti di accettare senza ribellarsi quei cosiddetti mali, li cercarono
eroicamente e li sopportarono senza debolezza. In tal modo diventarono amici di
Dio e guadagnarono il premio della vita eterna. Ecco a tal proposito come canta
l’apostolo Paolo: « Io mi compiaccio nelle infermità, negli oltraggi, nelle
privazioni, nelle persecuzioni, nelle angustie incontrate per Cristo. Quando
sono infermo, proprio allora son forte, perché nella mia infermità risplende
intera la forza di Dio » (2 Cor 12,10 e 9).
Perciò non dobbiamo credere che coloro i quali si distinguono in questo mondo
per le ricchezze, onori e potenze, siano in possesso del bene vero e sommo, che
si ritrova soltanto nella virtù. Coloro che la fortuna ha ben provveduto sono in
possesso di cose indifferenti. Quei beni sono utili e vantaggiosi ai giusti, che
ne usano rettamente per soddisfare a reali bisogni — si tratta infatti di mezzi
che aiutano a ben fare e a produrre frutti di vita eterna — sono invece inutili
e dannosi a coloro che ne abusano, perché danno un’occasione di peccato e di
morte.
IV -
Non si può far male a chi non vuole
Teniamo fisse ed immobili le distinzioni stabilite e ricordiamoci che non esiste
nulla di buono al mondo all’infuori della virtù, la quale nasce dal timore e
dall’amore di Dio. Né c’è al mondo alcunché di male all’infuori del peccato, che
è separazione da Dio. Ora investighiamo attentamente se Dio ha mai permesso che
i suoi santi avessero a soffrire qualche male, o da lui o da altri. Vedremo che
esempi di questo genere non se ne possono trovare.
Ad un’anima che nega il consenso e fa resistenza, è impossibile far accettare il
peccato. Questo penetra soltanto là dove un cuore fiacco e una volontà corrotta
gli aprono la porta. Il demonio mise in azione, per far peccare il santo Giobbe,
tutte le sue macchine da guerra: spogliò il sant’uomo di tutti i suoi beni e,
quando lo vide sommamente addolorato per l’atroce e inattesa disgrazia, che fu
la morte dei suoi sette figlioli, lo colpì con una piaga maligna che lo ricoprì
da capo a piedi, poi lo sottopose a dolori insopportabili... Non poté tuttavia
farlo cadere in peccato. Giobbe, nonostante tutto, rimase irremovibile, né dette
alla bestemmia l’assenso più leggero.
V -
Obiezioni: come mai si dice che Dio ha creato il
male
Germano - Nella sacra Scrittura si legge più volte che
Dio ha creato o ha mandato il male. Eccone un esempio: « Io sono il Signore e
nessun altro vi è. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio la pace e creo il
male » (Is 45,6-7). E un altro esempio ancora: « Ci sarà sciagura nella città,
ove non sia il Signore che operi? » (Am 3,6).
VI -
Risposta all’obiezione proposta
Teodoro - La sacra Scrittura chiama talvolta « mali »
le afflizioni. Ma non è che le afflizioni siano per loro natura dei veri mali;
esse sembrano tali agli occhi di coloro che ne sono salutarmente colpiti. Quando
Dio s’indirizza agli uomini per istruirli deve necessariamente parlare il loro
linguaggio e adattarsi ai loro sentimenti. Il ferro e il fuoco che il bravo
medico usa per curare le piaghe infette son rimedi salutari, tuttavia, a chi
deve sopportar quei rimedi sembra di sostenere un male. Lo sperone non sembra
dolce al cavallo, la correzione non è piacevole a chi ha sbagliato. Tutte le
correzioni sembrano lì per lì amare a coloro che son corretti. Dice a proposito
di ciò l'Apostolo: « Ogni castigo non sembra, lì per lì, esser di gioia, bensì
di dolore; ma più tardi porta — a chi è da esso esercitato — pacifico frutto di
giustizia
»(Eb 12,11). E ancora: « Il Signore castiga chi
ama e sferza ogni figliolo che accoglie. Qual figlio c’è che il Padre non
corregga? » (Eb 12,6-7).
Così è spiegato come spesso il termine « male » equivalga a quello di «
afflizione », come si ha chiaramente nel seguente testo: « Dio ebbe di loro
compassione; e il male che aveva detto di far loro, più non lo fece » (Gn 3,10).
E altrove: « Tu, Signore, sei buono e propenso alla pietà, paziente e sommamente
misericordioso, pronto a pentirti del male che fai » (Gal 2,13), cioè delle
tribolazioni e dei castighi che i nostri peccati ti costringono ad infliggerci.
Ben sapendo che a molti le afflizioni sono utili, un altro profeta, che vuol
provvedere a non impedire la salvezza dei suoi fratelli, parla così: « Manda il
male, manda il male, Signore, ai superbi della terra » (Is 26,15). Il Signore
stesso parla in tal modo: « Ecco che io sto per far piovere su loro i mali »
(Ger 11,11), cioè dolori e devastazioni, affinché, colpiti da un castigo
salutare, siano costretti dal dolore e ricercare Colui che disprezzarono nel
tempo della prosperità. Non possiamo dunque vedere dei « mali » nelle
afflizioni, perché esse contribuiscono al bene di molti e forniscono un mezzo
atto a guadagnare le gioie eterne.
Per ritornare al nostro argomento, diremo che non si devono stimare veri mali
tutti quei dolori che ci fanno soffrire i nostri nemici o altre persone; anziché
di « mali
»
si dovrà parlare di cose indifferenti. Queste afflizioni non
saranno nella realtà come le aveva immaginate colui che ce le aveva inflitte in
un trasporto di collera, ma saranno come le farà diventare colui che le
sopporta. Quando a un santo viene inflitta la morte, non si deve credere che gli
è fatto un male: si tratta ancora di ima cosa indifferente. Quel che sarebbe un
male per un uomo peccatore, per il santo è l’ora del riposo e della liberazione
da tutti i mah. « La morte è un riposo per l’uomo la cui via è nascosta » (Gb
3,23 (LXX)). Il giusto non ha alcun danno dalla morte. In fin dei conti egli non
soffre nulla di eccezionale perché la legge di natura lo aveva condannato a
morire. La malizia del nemico, che lo uccide, non fa altro che donare al giusto
il premio della vita eterna. Costui paga il debito che una legge senza eccezione
lo obbligava a pagare: la morte, ma raccoglie dai suoi patimenti un frutto
bellissimo e il premio di una infinita ricompensa.
VII -
Domanda: Siccome il giusto riceve il premio
della sua morte, è proprio colpevole colui che l’uccide?
Germano - Se il giusto che muore non soffre un male, ma
riceve un premio della sua sofferenza, come si può accusare di colpa colui che,
uccidendolo, non gli ha fatto del male, ma gli ha fatto invece un ottimo
servizio?
VIII – Risposta alla domanda precedente
Teodoro - Noi stiamo parlando di ciò che è
in sé
o buono, o cattivo, o indifferente: non ci occupiamo delle intenzioni di coloro
che agiscono. Tuttavia, l’uomo empio o ingiusto non resterà impunito per il
fatto che la sua malizia non ha potuto nuocere al giusto. La pazienza e la virtù
del giusto non merita la ricompensa a colui che gli procura la morte e i
supplizi, ma a colui che morte e supplizi sopporta con pazienza. Il carnefice
sarà giustamente punito della sua crudeltà, perché ha voluto far del male; la
vittima, però, non ha sofferto alcun male perché la sua virtù, sopportando
pazientemente la dolorosa prova, ha trasformato in mezzi di gioia e di vita
eterna i maltrattamenti che gli s’infliggevano col proposito di fargli del male.
IX -
Esempio di Giobbe tentato dal demonio e del Signore tradito da Giuda. Prosperità
e avversità giovano al giusto per la sua salvezza
La pazienza di Giobbe, che uscì più santo dalla terribile prova, non potrà
meritare un premio al diavolo che lo provò. Il premio spetta soltanto a chi
sostiene fortemente gli assalti del tentatore. Così si dica per Giuda: egli non
sarà immune dal supplizio eterno per il fatto che il suo tradimento ha giovato
alla salvezza del genere umano. Non bisogna infatti considerare l’effetto di
un’azione, ma l’intenzione di colui che la compie. Noi dunque dobbiamo ritenere
fermissimamente questo principio: nessuno può far male ad un altro finché colui
a cui si vuol far male non si arrende per leggerezza di cuore e pusillanimità.
C’è un versetto dell’Apostolo che conferma questa sentenza: « Noi sappiamo che
per coloro i quali amano Dio, tutto concorre al bene » (Rm 8,28). E dicendo: «
tutto concorre al bene », l’Apostolo intende veramente
tutto,
non soltanto gli eventi favorevoli, ma anche quelli contrari. In altra occasione
lo stesso Apostolo dice di essere passato anche lui per queste prove: « In mezzo
alle armi della giustizia a destra e a sinistra ». Il che vuol dire « fra la
gloria e l’ignominia, fra la calunnia e la lode, come seduttori eppur veritieri,
come addolorati eppur sempre lieti, come miserabili ma capaci di arricchire
molti » (2 Cor 6,7-10).
Così, tutto ciò che va sotto il nome di prosperità e sta a destra, (l’Apostolo
dice « onore e buona fama »), come tutto ciò che va sotto il nome di avversità e
sta a sinistra, (l’Apostolo dice « ignominia e infamia »), tutto, diciamo,
diventa arma di giustizia per l’uomo perfetto, purché egli accolga con cuore
magnanimo ciò che gli capita. Tutto infatti gli serve per condurre la sua
battaglia. Le stesse ferite con le quali si sperava di abbatterlo diventano per
lui armi di difesa; egli se ne fa un arco, una spada, uno scudo validissimo
contro coloro che lo assalgono. Così egli cresce in pazienza e in virtù, e
riporta il trionfo gloriosissimo della costanza con quegli stessi strali che i
nemici avevano destinati a produrre la sua morte. Non lo estolle (oppure: non si
esalta per. Ndr.) la prosperità, non lo abbatte l’avversità: egli cammina per
una via sempre uguale, per la via regia. Conserva la sua inalterabile
tranquillità, senza che le gioie — quando le incontra — lo facciano deviare a
destra, senza che gli assalti dell’avversità lo facciano piegare verso sinistra,
sopraffatto dalla tristezza. « C’è una grande pace, o Signore, per coloro che
amano il tuo nome: niente per loro è occasione di caduta » (Sal 118,165).
Di coloro, invece, che cambiano ad ogni mutar di vento, si legge: « Lo stolto è
mutevole come la luna » (Sir 27,12). Come per i perfetti è scritto: « Tutto
concorre al bene per coloro che amano Dio » (Rm 8,28), così per i deboli e gli
stolti è scritto: « Tutto è contrario all’uomo stolto » (Pr 14,7 (LXX)), egli
non si avvantaggia nella prosperità e le avversità non lo correggono.
Sopportare coraggiosamente l’avversità e dominarsi nella prosperità sono due
effetti di una stessa virtù. Lasciarsi vincere in imo di questi scontri
significa incapacità a sostenere l’una e l’altra prova. Tuttavia è più facile
esser vinti dalla prosperità che dall’avversità. Quest’ultima frena e umilia, e,
attraverso la salutare compunzione che ispira, libera dai peccati che si
potrebbero commettere, o corregge da quelli commessi. La prosperità, invece,
innalza l’anima con le sue lusinghe sottili e dannose, finché la fa precipitare
in una rovina orrenda.
X -
Virtù dell’uomo perfetto, che è chiamato figuratamente ambidestro
Noi stiamo parlando di quegli uomini perfetti che nelle sacre Scritture sono
figuratamente chiamati « ambidestri ». Tale era, secondo il libro dei Giudici,
il celebre Aoth, il quale « si serviva delle due mani con uguale destrezza »
(Gdc 3,15). Anche noi potremo possedere questa virtù in senso spirituale, a
patto che, attraverso un uso buono e retto della prosperità (la quale
rappresenta la destra) e dell’avversità (la quale rappresenta la sinistra)
rendiamo tutto profittevole alla nostra vita spirituale. Così tutto quello che
ci capita sarà per noi — come dice l’Apostolo — un’arma di giustizia. Il nostro
uomo interiore, lo sappiamo bene ormai, si compone di due parti essenziali;
oppure — se è permesso esprimersi così — ha essenzialmente due mani. Nessun
giusto può sottrarsi a quegli avvenimenti che noi abbiamo figuratamente chiamati
« mano sinistra », ma la virtù perfetta si riconosce da questo segno: se
avvenimenti prosperi e avvenimenti sfavorevoli diventano per il giusto una «
mano destra » a causa del buon uso che costui sa farne.
Cerchiamo di farci comprendere più chiaramente.
L’uomo giusto ha la mano destra, vale a dire ha i suoi buoni successi nella vita
spirituale. Egli allora, nel fervore del suo spirito, domina su tutte le
passioni e le concupiscenze. Messo al sicuro da ogni assalto del demonio,
respinge nettamente, senza fatica o difficoltà, tutti i vizi della carne. Il suo
volo lo porta a tali altezze dalla terra che le cose presenti gli sembrano fumo
che si dissolve, ombra vana: il loro carattere instabile e transitorio gli
ispira disprezzo. Rapito in estasi, non solo desidera ardentemente le cose
future, ma le contempla con somma chiarezza. La contemplazione lo nutre più
efficacemente; i segreti celesti appaiono più chiari ai suoi occhi; le sue
preghiere salgono al cielo più pure e più vive. Una grande fiamma lo brucia
dentro; con l’anima fatta incandescente egli s’innalza alle cose invisibili ed
eterne, tantoché non sembra che abiti ancora in una carne mortale.
Ma l’uomo giusto ha pure la mano sinistra. La tempesta delle tentazioni lo
assale; il fuoco della concupiscenza accende i desideri della carne; le passioni
sobillano gli ardori della collera; la superbia e la vanagloria soffiano per
farlo innalzare; la tristezza, che produce la morte, lo abbatte; l’accidia lo
assale con tutte le sue macchine da guerra e lo scuote. Allora, essendogli
sottratto tutto il primitivo fervore, egli s’intorpidisce nella tiepidezza e in
una tristezza senza motivo: non ha più pensieri virtuosi e fervorosi. Che anzi:
la salmodia, la preghiera, la lettura, la solitudine della cella gli diventano
insopportabili: tutti gli strumenti di virtù gli ispirano un fastidio tetro e
noioso. Quando il monaco si sente esposto a questi attacchi, deve ammettere che
essi vengono da sinistra.
Facciamo ora l’ipotesi di un monaco il quale, trovandosi nella situazione che
noi abbiamo chiamato « di destra », non si è insuperbito al soffio sottile della
vanagloria; e nella situazione « di sinistra » ha combattuto con tale coraggio
da non soccombere alla disperazione, ma da trasformare pazientemente l’avversità
in un’arma per l’acquisto della virtù. Quando abbiamo immaginato un tal monaco,
abbiamo creato il tipo dell’ambidestro. Costui, trionfando nell’una e nell’altra
battaglia, ottiene la palma della vittoria a destra e a sinistra. Una tale
completa vittoria seppe ottenere il santo Giobbe, secondo quel che leggiamo
nella sacra Scrittura. Egli acquistò la corona a destra. Padre di sette figli,
viveva nell’abbondanza e nella ricchezza, tuttavia offriva ogni giorno per essi
sacrifici espiatori al Signore, perché desiderava più di legarli a Dio che a se
stesso. La sua porta era aperta a chiunque si presentasse: egli era piede per lo
zoppo, occhio per il cieco. Le pelli delle sue pecore scaldavano le spalle degli
ammalati; egli era il padre degli orfani, il difensore delle vedove. Se il suo
nemico cadeva non se ne rallegrava neppure nel segreto del cuore.
Ma Giobbe trionfò anche a sinistra opponendo alle avversità una virtù ancor più
sublime. In uno stesso istante perse tutti i sette figlioli, e in quella
circostanza non si vede in lui il padre sopraffatto da amaro dolore, bensì il
vero servo di Dio che ripone la sua grazia nel fare la volontà del Creatore.
Quando divenne da ricco, poverissimo; da ben provvisto, privo di tutto; da sano,
un corpo coperto di piaghe; da onorato e glorioso, abietto e disprezzato,
conservò intatta la sua forza d’animo. Spogliato di ogni sostanza e di ogni
potenza, ebbe per casa una concimaia; a somiglianza di severo carnefice raschiò
con un coccio il marcio che scaturiva dalle sue piaghe ed estrasse con le dita i
grovigli di vermi che gli si annidavano nelle piaghe, in ogni parte del corpo.
In mezzo a tanti mali mai disperò, mai ardì bestemmiare Dio o mormorare contro
il Creatore. Anzi, per nulla atterrito da questo flagello di mali, ricorda che
del suo antico splendore gli rimane ancora una bella veste, sfuggita alla rabbia
del demonio, di cui si copre il suo corpo. Giobbe la straccia e la getta lontana
da sé, e aggiunge questo spogliamento volontario a quelli che gli aveva
procurati il crudele avversario. Gli rimanevano intatti i capelli, ultimo resto
dell’antica gloria; egli li taglia e li getta al suo tormentatore; e mentre si
priva di ciò che l’ira del nemico gli aveva lasciato, gli grida queste parole
con tono di gioia e d’insulto: « Se abbiamo ricevuto dal Signore il bene, perché
non dovremmo accettare anche il male? Nudo sono uscito dal seno di mia madre e
nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha ritolto; tutto è avvenuto
come è piaciuto al Signore. Sia benedetto il nome del Signore » (Gb 2,10; 1,21).
Mi par giusto definire « ambidestro » anche Giuseppe ebreo. Egli fu, nella
prosperità, carissimo al padre, modello di pietà ai fratelli, particolarmente
gradito a Dio. Nell’avversità si dimostrò casto, fedele al suo padrone, dolce
verso i compagni di prigionia, pronto a dimenticare le ingiurie, benefico verso
i nemici, tenero e, più ancora, magnanimo verso i fratelli invidiosi e — almeno
intenzionalmente — assassini.
Uomini come questi, e tutti coloro che ad essi assomigliano, si possono
giustamente chiamare ambidestri, perché usano delle due mani con uguale
destrezza, e passando attraverso quegli estremi di cui parla l’Apostolo, possono
ripetere con lui: « Fra le armi della giustizia a destra e a sinistra. Per
l’onore e il disonore, per la buona e la cattiva fama... ».
Anche Salomone parla di « destra » e di « sinistra » e lo fa nel
Cantico dei
Cantici, per bocca della sposa. « La sua sinistra sotto il mio
capo, e la sua destra mi abbraccia » (Ct 2,6). Così la sposa afferma che tutte e
due le mani sono utili, ma fa pure una distinzione. Dicendo « la sua sinistra
sotto la mia testa », indica che le avversità debbono essere sottomesse alla
parte principale dell’anima, qui designata con la figura della « testa ».
Infatti le avversità giovano soltanto ad esercitarci e istruirci nella via della
salvezza, e a renderci perfetti nella pazienza. Ma per quanto riguarda la
destra, la sposa chiede di esser da quella circondata con un abbraccio
indissolubile, che la scaldi e la protegga nell’unione perfetta e soave con lo
sposo.
Saremo anche noi ambidestri, se l’abbondanza o la privazione delle cose presenti
ci lasceranno indifferenti: se l’abbondanza non ci porterà ai piaceri di un
rilassamento mortale, né la privazione ci farà disperare o mormorare. È
ambidestro chi ringrazia Dio nella buona e nella cattiva fortuna e cerca di
trovare vantaggio sia dall’una che dall’altra.
Così si presenta a noi quel perfetto ambidestro che fu l’Apostolo delle genti;
egli dice di se stesso: « Ho imparato a bastare a me stesso con le cose che mi
trovo ad avere. So esser povero e so esser ricco; in tutto e per tutto mi sono
abituato, e ad essere sazio e ad avere fame, a nuotar nell’abbondanza e a patir
nelle privazioni. Ogni cosa io posso in colui che mi dà forza » (Fil 4,11-13).
XI -
Due specie di tentazioni che si presentano in tre modi diversi
Abbiamo detto che la tentazione ha due forme: quella della prosperità e quella
dell’avversità, ma bisogna anche sapere che le tentazioni assalgono l’uomo per
tre ragioni diverse. Spesso hanno lo scopo di provarlo, altre volte di
purificarlo, in certi casi sono anche un castigo per i peccati commessi.
Innanzi tutto la tentazione è una prova. Così fu per Abramo, Giobbe e molti
santi che sostennero tribolazioni innumerevoli, come ci attesta la sacra
Scrittura. In questo senso Mosè parla al popolo nel
Deuteronomio, e dice: « Ricordati di tutto il
cammino nel quale il Signore Dio tuo ti condusse per quaranta anni nel deserto,
per castigarti e metterti a prova, perché divenisse manifesto quel che si
rivolgeva nell’animo tuo, se osservavi o no i suoi comandamenti » (Dt 8,2).
Analogo è il significato delle parole che si leggono nei
Salmi:
« Ti misi alla prova presso l’acqua della contraddizione » (Sal 80,8), e delle
altre parole indirizzate a Giobbe: « Credi tu che io ti abbia parlato per un
altro motivo che non sia quello di mettere alla prova la tua giustizia? » (Gb
40,3 (LXX)).
La tentazione è anche una purificazione. Quando vede nei giusti certe colpe
leggere, oppure scorge che si insuperbiscono della loro purezza, Dio per
umiliarli li abbandona a diverse tentazioni, sì da liberarli fin da questa vita
da tutte le impurità, o da tutte le « scorie », come dice il Profeta (Is 1,25),
che il suo occhio scorge nelle parti più intime della loro anima. Il Signore
agisce così perché vuole che i giusti si presentino un giorno come oro puro alla
prova che avranno da sostenere davanti al suo tribunale, senza che sussista in
loro neppur una pagliuzza da consumare — dopo il giudizio — col fuoco
vendicatore del Purgatorio.
Il disegno di Dio è così svelato dalla Scrittura: « Molte sono le tribolazioni
dei giusti » (Sal 33,20), oppure: « Figlio mio, non far poco caso della
disciplina del Signore, e non ti scoraggiare quando sei da lui ripreso; poiché
il Signore castiga chi ama e sferza ogni figliolo che accoglie. Qual figlio c’è
che il padre non corregga? Se siete fuori della disciplina, di cui tutti son
partecipi, siete bastardi, non figli legittimi » (Eb 12,5-8). L’Apocalisse
aggiunge: « Io, quanti amo, li riprendo e castigo » (Ap 3,19). I giusti son pure
raffigurati nella città di Gerusalemme alla quale Dio così parla per bocca del
profeta Isaia: « Annienterò tutte le genti tra le quali ti ho disperso, ma te
non annienterò: ti darò il castigo che ti meriti affinché non ti creda innocente
» (Ger 30,11). Per questa salutare purificazione, così pregava David: « Provami,
o Signore, e sperimentami, saggia al fuoco i miei reni e il mio cuore » (Sal
25,2). Anche Isaia, che aveva compreso il valore di questa purificazione,
pregava così: « Castigami, o Signore; ma con equanimità e non con tutto il tuo
furore » (Ger 10,24); oppure: « Io ti celebrerò, o Signore, perché essendo
sdegnato con me, ti sei rimesso dalla tua collera e mi hai consolato » (Is
12,1).
In ultimo, la tentazione può essere un castigo del peccato, come quei castighi
che il Signore minacciava di mandare al popolo d’Israele: « Manderò contro di
loro i denti delle bestie feroci e il furore dei serpenti che strisciano sopra
la terra » (Dt 32,24), oppure: « Inutilmente ho percosso Ì vostri figli; voi non
avete ricavato alcun insegnamento » (Ger 2,30). Il Salmo canta: « Molti castighi
cadono sui peccatori » (Sal 31,10) e il Vangelo aggiunge: « Non voler più
peccare, affinché non t’incorra qualcosa di peggio » Gb 5,14).
Si può anche dare una quarta ragione per spiegare le tentazioni, vediamo infatti
nella sacra Scrittura che alcuni subiscono un male per il solo scopo di
manifestare la gloria di Dio e le sue opere. Di questa ragione parla il Vangelo
quando dice: « Non ha peccato lui e non hanno peccato i suoi antenati: il suo
male ha lo scopo di manifestare le opere di Dio » (Gb 9,3); oppure: « Questa
infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio e perché il Figlio
dell’Uomo ne sia glorificato » (Gb 11,4).
Ci sono anche altre specie di castighi divini che cadono all’improvviso su
coloro che hanno oltrepassato il colmo della malizia umana. Così furono colpiti
Datan, Abiron e Core e quelli di cui parla l’Apostolo quando dice: « Per questo
Dio li ha abbandonati a passioni innominabili e al loro senso reprobo » (Rm 26 e
28). E questo è il più terribile di tutti i castighi; il salmista parla così di
coloro che lo hanno meritato: « Ai travagli degli uomini non hanno parte, né con
gli altri uomini sono flagellati » (Sal 72,5). Costoro non meritano di ricevere
dal Signore quelle visite che salvano, o di ricevere una medicina che possa
guarire i loro mali. Giunti ormai alla disperazione, « si son dati alla
dissolutezza così da operare ogni impurità » (Ef 4,19). Essi, per l’indurimento
del loro cuore, per l’abitudine al male, per il numero dei peccati, hanno
oltrepassato il limite entro il quale è possibile, nella vita presente, una
purificazione e una penitenza. A loro Dio rivolge questo rimprovero, per bocca
del Profeta: « Vi ho sconvolti come Iddio ha sconvolto Sodoma e Gomorra, e vi
siete ridotti come un tizzo sottratto all’incendio: e non siete tornati a me,
dice il Signore » (Am 4,11). E Geremia soggiunge: « Già ne ho uccisi e fatti
perire del popolo mio, e tuttavia dalle loro vie non si son ritirati » (Ger
15,7); e ancora: « Tu li hai percossi e si sono risentiti, li hai quasi rifiniti
e ricusarono di ricevere correzioni, indurirono la loro faccia più di una pietra
e non vollero ravvedersi » (Ger 5,3). Vedendo che tutte le medicine della vita
presente erano incapaci di guarirli, il profeta, disperando ormai della loro
salvezza, esclama: « Il mantice è stanco; il piombo si è consumato al fuoco;
invano il fonditore ha cercato di fondere, perché la loro malvagità non si è
sciolta. Chiamateli « argento di scarto » perché il Signore li ha scartati »
(Ger 6,29-30). Ascoltiamo ancora il Signore che si lamenta di aver applicato
inutilmente questa purificazione del fuoco ai peccatori incalliti nella colpa;
costoro sono raffigurati in Gerusalemme profondamente penetrata dalla ruggine
del peccato: « La poserai, vuota, sopra la brace, affinché si arroventi e si
liquefaccia il suo rame e si sciolga in mezzo ad essa la sua contaminazione e si
consumi la sua ruggine. Fatica sprecata! La sua grossa ruggine non si è disfatta
neppure col fuoco » (Ez 16,42). A somiglianza di valentissimo medico il Signore
ha sperimentato tutti i rimedi, ed ora non trova medicina che sia appropriata al
loro male. Vinto — se così si può dire — dal cumulo delle loro iniquità, è
costretto ad abbandonare i castighi che sono ispirati dalla clemenza e di ciò li
avverte con queste parole: « Il mio sdegno contro di te si placherà e la mia
gelosia verso di te sparirà » (Ez 16,42). Ben diverso è il linguaggio di David
con quei tali che non sono stati induriti dalla frequenza del peccato e quindi
non hanno bisogno di un trattamento rigoroso o di una medicina caustica, ma
possono esser guariti con un semplice rimprovero: « Io li correggerò — dice il
Signore — con parole che li affliggeranno » (Os 7,12 (LXX)).
Non ignoriamo che ci sono anche altri motivi capaci di muovere i divini
castighi. Talvolta Dio punisce i grandi peccatori, non per correggerli o
metterli in condizione di espiare i loro delitti, sebbene per correggere gli
altri uomini ispirando in loro il santo timore. Il castigo di Geroboamo, figlio
di Nabat, quello di Baasa, figlio d’Achia, quello di Acab e di Gezzabele, ebbero
indubbiamente un tale carattere, lo stesso libro sacro ce lo fa notare: « Ecco
io farò venire sopra di te la sventura, io mieterò la tua prosperità e
sterminerò dalla casa di Acab chiunque orina contro il muro, chi è rinchiuso e
chi è ultimo in Israele; e ridurrò la tua casa come la casa di Geroboamo figlio
di Nabat e come la casa di Baasa figlio di Achia, perché tu hai agito in modo da
provocarmi alla collera e hai fatto peccare Israele ». Anche contro Gezzabele
parlò il Signore dicendo : « I cani mangeranno Gezzabele nel campo di Israele.
Se Acab morirà nella città lo mangeranno i cani, se morirà in campagna, lo
divoreranno gli uccelli del cielo » (1 Re (3 Re; Vulg.) 21,21-24). C’è poi nelle
Scritture anche questa minaccia terribile: « Il tuo corpo non sarà calato nella
tomba dei tuoi padri » (1 Re (3 Re; Vulg.) 13,22).
Il senso di queste parole non è che i delitti di Geroboamo (il quale introdusse
per primo i vitelli d’oro tra gli ebrei, trascinando così il popolo lontano da
Dio in una prevaricazione che non doveva finire), e i sacrilegi abominevoli e
frequenti degli altri prevaricatori sopra ricordati, potessero essere espiati
con un castigo breve come l’istante che fugge. No! Dio voleva inculcare
sentimenti di terrore ad altri uomini distratti, o increduli a riguardo delle
pene eterne, ma molto sensibili al pensiero dei castighi presenti; per questo
mise sotto i loro occhi esempi di vendetta da spaventare. Questa severità doveva
anche convincerli sperimentalmente che la divina maestà non si disinteressa
delle cose umane, né abbandona al caso gli avvenimenti della vita quotidiana.
Doveva anche persuaderli, con la vista di castighi così terribili, che Dio
premia e castiga, secondo il merito, tutte le nostre opere.
Abbiamo anche l’esempio di molti che furono puniti con sentenza di morte
improvvisa per colpe leggere: la divina giustizia li mise alla pari con quei
sacrileghi di cui abbiamo parlato prima. Così avvenne per colui che aveva
raccolto la legna in giorno di sabato, per Anania e Saffira che, vinti
dall’errore della infedeltà, si erano ritenuti un poco del loro denaro. La loro
colpa non stava alla pari, in gravità, con quella degli altri peccatori da noi
conosciuti; era però d’una forma nuova. Essi dovevano essere un esempio di
penitenza come lo erano stati di peccato. Dovevano essere un esempio atto ad
ispirare terrore, affinché chiunque si fosse provato ad imitarli si sentisse
condannato allo stesso modo, se non in questa, almeno nell’altra vita, e
conoscesse il castigo che lo attendeva al giudizio finale.
Ma, per trattare delle varie specie di tentazioni e delle vendette divine che
puniscono le colpe, ci siamo un poco allontanati dal nostro tema, che era quello
di provare come i giusti conservano la stessa inalterabile calma nella
prosperità e nell’avversità. Ora è tempo di tornare al nostro argomento.
XII -
II giusto non deve somigliare alla cera, ma al
sigillo di diamante
L’anima del giusto non deve somigliare alla cera o a qualche altra cosa molle,
la quale cede sempre al sigillo che le si imprime, ne prende la forma e
l’impronta per conservarla fino a che l’applicazione di un nuovo sigillo non le
imprime un’altra figura. Se così fosse, l’anima non rimarrebbe mai in uno stato
durevole, ma assumerebbe di continuo le forme che le potrebbe imprimere il
flusso delle cose e degli eventi. Al contrario! L’anima deve essere come un
sigillo di diamante il quale, oltre a conservare inviolabile la sua figura,
segna con quella i diversi avvenimenti della vita e li fa simili a sé, senza mai
subire impressioni o impronte da parte di quelli.
XIII -
Domanda: può l’anima rimanere continuamente nel
medesimo stato?
Germano — È impossibile, per l’anima nostra, rimanere
sempre nel medesimo stato? Perseverare nella stessa disposizione?
XIV -
Risposta alla domanda
Teodoro — C’è una legge inviolabile, così presentata
dall’Apostolo: « O l’uomo — rinnovato nella sua parte spirituale — segnerà ogni
giorno qualche progresso, slanciandosi alle cose davanti » (Cfr. Ef 4,23 e Fil
3,13), oppure — se sarà negligente — tornerà indietro e andrà di male in peggio.
L’anima dunque non può in alcun modo rimanere nel medesimo stato. Pensiamo un
uomo che si trovi in una barca in mezzo alle acque di un fiume impetuoso. Che
cosa può fare? o impiega tutta la forza delle sue braccia e risale la corrente
impetuosa spostandosi a monte, oppure si abbandona, e allora la forza della
corrente se lo porta dove vuole.
Ecco il segno evidente delle nostre perdite: se ci accorgiamo di non aver
progredito, dobbiamo tener per certo di essere andati indietro. Il giorno in cui
non siamo andati avanti abbiamo abbandonato qualche posizione. È impossibile —
come abbiamo già detto — che l’anima dell’uomo possa rimanere stazionaria. Non
c’è un santo, finché vive in questa carne, che possa stabilirsi sulla vetta
della virtù e là rimanere immobile: o cresce continuamente in virtù, oppure
diminuisce. Non c’è creatura in cui la perfezione abbia raggiunto un grado tale
da non poter più crescere o diminuire. Ce lo afferma anche il libro di Giobbe: «
Che cosa è l’uomo perché sia senza macchia, e perché appaia giusto chi è nato da
donna? Ecco, fra i santi di Dio nessuno è immutabile, e i cieli non sono puri
agli occhi suoi » (Gb 15,14-15). Dio solo è immutabile; di lui dice il Profeta:
« Tu sei sempre il medesimo » (Sal 101,28), ed egli dice di sé: « Io sono il
Signore e non muto » (Mal 3,6). Dio solo è, per natura sua, sempre buono, sempre
nella pienezza della perfezione, a lui niente si può aggiungere e niente si può
togliere.
Noi dobbiamo perciò esser protesi alla conquista della virtù con una diligenza
che non si stanca mai; dobbiamo continuamente stare occupati negli esercizi
della virtù, per timore che, cessando di progredire, non abbiamo a tornare verso
il vizio. L’abbiamo già detto: l’anima non può fermarsi in uno stato
stazionario: o cresce in virtù, o diminuisce. Non acquistare è perdere: quando
si spegne il desiderio di progredire, non è lontano il pericolo
d’indietreggiare.
XV -
A quali danni va incontro chi si allontana dalla
cella
Tutto questo richiede che rimaniamo fedeli al ritiro nella nostra cella. Ogni
qualvolta l’avremo lasciata per attendere ad altre occupazioni, al nostro
ritorno ci troveremo come estranei e sperduti in essa: sarà come se
cominciassimo allora ad abitarvi, pieni d’incertezza e di turbamento. Il fervore
di spirito che il monaco aveva acquistato standosene ritirato nella sua cella,
perduto che sia, non sarà facile a riconquistarsi. Chi è decaduto dal primo
stato non può pensare al progresso che avrebbe potuto fare se non avesse
lasciato la cella, ma sarà contento se potrà riacquistare il grado da cui era
caduto. Come non si recupera il tempo perduto così non si ritrovano i meriti che
ci siamo lasciati sfuggire. Tutto ciò che di buono può produrre il nuovo fervore
dello spirito e progresso del giorno presente, è guadagno del momento che fugge,
non è affatto una riconquista delle ricchezze spirituali perdute.
XVI -
Anche le virtù vanno soggette a mutazione
Anche le potenze spirituali o angeliche, sono sottomesse al cambiamento, come
abbiamo già avuto occasione di dire e come ci prova la caduta degli angeli
dovuta alla corruzione della loro volontà. Neppure quegli spiriti che
perseverano in quella beatitudine in cui furono creati, possono esser giudicati
immutabili per il semplice fatto che non si son lasciati attirare dalla parte
contraria a Dio. Altra cosa è l’immutabilità per diritto di natura, altra cosa è
la capacità di non mutare, ottenuta con lo sforzo della virtù e della fedeltà al
bene: questa capacità è frutto della grazia di Dio, il quale è immutabile per
natura. Tutto ciò che si acquista e si conserva mediante la nostra diligenza, si
può perderlo per negligenza. Per questo è detto nella Scrittura: « Non
beatificare l’uomo prima che sia morto » (Sir 11,28); infatti, finché l’uomo è
nella mischia, finché rimane nel mezzo dell’arena, per quanto sia abituato a
vincere e per numerose che siano le sue vittorie, non può essere immune dal
timore di una caduta sempre possibile. Ecco perché si dice che solo Dio è
immutabile e solo Dio è buono: egli possiede la bontà non per studio o industria
ma per essenza, quindi non può essere altro che buono, non può non essere buono.
Nessuna virtù può essere possesso immutabile per l’uomo; chi — dopo averla
acquistata — vuol conservare una virtù, deve usare a conservarla la stessa
attenzione e diligenza che usò ad acquistarla.
XVII -
Nessuno cade all'improvviso
Quando uno cade non si tratta mai di una disgrazia improvvisa. I casi sono due:
o una formazione difettosa fin dalle origini lo ha messo per ima via sbagliata,
oppure una prolungata negligenza ha indebolito a poco a poco la sua virtù e
fatto crescere i vizi: quella dolorosa caduta è l’effetto di uno di questi
stati. « La superbia precede la caduta e prima della rovina s’inorgoglisce lo
spirito » (Pr 16,18). Una casa non crolla mai all’improvviso. Sarà un difetto
del fondamento, tanto antico quanto la costruzione, sarà la trascuratezza degli
abitanti che ha lasciato penetrare l’acqua a goccia a goccia finché questa ha
fatto marcire le travi del tetto e poi, col progredire del tempo, ha formato
aperture più grandi e incrinature più pericolose. Alla fine la pioggia è entrata
con impeto, a torrenti. « Per via della pigrizia precipiterà il soffitto e per
l’inerzia delle mani farà acqua la casa » (Qo 10,18).
Ecco detto metaforicamente quel che accade all’anima. Ce lo ripete con altre
parole lo stesso Salomone: « L’acqua che cade dal tetto caccia l’uomo di casa in
un giorno d’inverno » (Pr 27,15 (LXX)).
Molto elegantemente il libro paragona l’anima negligente al tetto non
sorvegliato: attraverso la trascuratezza infatti giungono nell’anima gl’impulsi
delle passioni, a somiglianza di gocce impercettibili. Se si trascurano come
cose da poco o di nessun conto, adagio adagio corrompono le travi, che son le
virtù, e poi lasciano passare il diluvio dei vizi. In un giorno d’inverno, cioè
nel tempo della tentazione, il demonio attacca e scaccia l’anima dalla dimora
della virtù nella quale una diligenza piena d’attenzione le aveva permesso fin
qui di abitare come in casa propria.
Quanto avevamo udito era per noi un alimento spirituale di cui non potevamo
assaporare tutta l’infinita dolcezza. La gioia di questa conferenza superava di
gran lunga la tristezza che aveva cagionato il pensiero della morte dei santi.
Non solo erano stati sciolti i nostri dubbi, ma c’erano state rivelate, in
questa occasione, molte altre cose che la nostra corta intelligenza non avrebbe
mai pensato d’indagare.
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4 dicembre 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net