LE CONFERENZE SPIRITUALI

di GIOVANNI CASSIANO


 Cassianus Ioannes - Collationes

 

COLLATIO DECIMA SEXTA

Quae est prima abbatis Joseph

DE AMICITIA

 XVIa CONFERENZA

PRIMA CONFERENZA DELL'ABATE GIUSEPPE

L’AMICIZIA

 Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne

 Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline - 1965

- CAPUT PRIMUM.
- CAPUT II. Disputatio eiusdem senis de infido amicitiarum genere.
- CAPUT III. Unde indissolubilis amicitia sit.
- CAPUT IV. Interrogatio, utrum utile aliquid etiam contra votum fratris...
- CAPUT V. Responsio quod perpetua amicitia nisi inter perfectos stare...
- CAPUT VI. Quibus modis inviolabilis possit societas retentari.
- CAPUT VII. Quod nihil charitati praeponendum sit, nec iracundiae postponendum....
- CAPUT VIII. Quibus de causis inter spiritales nascatur dissensio?
- CAPUT IX. De amputandis etiam spiritalibus causis discordiarum.
- CAPUT X. De optimo examine veritatis.
- CAPUT XI. Quod impossibile sit quemquam qui proprio fidit iudicio,...
- CAPUT XII. Quam ob causam non debeant inferiores in collatione...
- CAPUT XIII. Quod charitas non solum res Dei, sed etiam...
- CAPUT XIV. De gradibus charitatis.
- CAPUT XV. De his qui vel suam vel fratrum commotionem...
- CAPUT XVI. Quod fratre adversum nos aliquid habente simultatis, munera...
- CAPUT XVII. De his qui patientiam saecularibus magis putant impendendam...
- CAPUT XVIII. De his qui patientiam mentientes ad iracundiam fratres...
- CAPUT XIX. De his qui ex indignatione ieiunant.
- CAPUT XX. De quarümdam simulata patientia qua maxillam verberandam alteram...
- CAPUT XXI. Interrogatio, quemadmodum Christi mandatis obtemperantes evangelica perfectione fraudentur....
- CAPUT XXII. Responsio, quod Christus non solum facti, sed etiam...
- CAPUT XXIII. Quod ille sit fortis et sanus qui succumbit...
- CAPUT XXIV. Quod infirmi iniuriosi sint, et iniurias ferre non...
- CAPUT XXV. Interrogatio, quomodo fortis sit qui non semper sustentat...
- CAPUT XXVI. Responsio, quod infirmus se non sinat sustentari.
- CAPUT XXVII. Quemadmodum sit iracundia comprimenda.
- CAPUT XXVIII. Amicitias coniuratione initas firmas esse non posse.

I. La prima domanda che ci rivolse l’abate Giuseppe.
II. Discorso del vecchio abate sulle amicizie infedeli.
III. Da dove nasce un’amicizia indissolubile.
IV. Domanda: se sia bene compiere qualche azione utile, anche contro il desiderio del fratello.
V. Risposta: l’amicizia duratura può esistere soltanto tra i perfetti.
VI. In qual modo un’amicizia si può conservare inviolabile.
VII. Niente va apprezzato più della carità, niente va disprezzato più dell’ira.
VIII. Per qual motivo nascono le divisioni fra gli uomini spirituali.
IX. Bisogna troncare le cause spirituali che generano discordia.
X. Il modo migliore per cercare la verità.
XI. Chi si fida del proprio giudizio cadrà infallibilmente nelle illusioni del diavolo.
XII. Perché non si debbono disprezzare gli inferiori nelle Conferenze.
XIII. La carità non è soltanto una cosa divina, ma è Dio stesso.
XIV. I gradi della carità.
XV. Coloro che dissimulano aumentano così la commozione propria e quella dei fratelli.
XVI. Dio rifiuta l’offerta delle nostre preghiere se abbiamo inimicizia con qualche fratello.
XVII. Quelli che si tengono obbligati ad essere pazienti verso i secolari più che verso i loro confratelli.
XVII. Coloro che si fingono pazienti e provocano all’ira i loro fratelli.
XIX. Quelli che digiunano per sdegno.
XX. Coloro che simulano pazienza e presentano a chi li percuote l’altra guancia.
XXI Come è possibile obbedire ai comandi del Signore e non acquistare la perfezione evangelica?
XXII. Il Signore non guarda soltanto all’atto ma anche all’intenzione.
XXIII. È forte e sano chi sa piegarsi all’altrui volontà.
XXIV. I deboli son pronti all’ingiuria ma non sopportano di essere ingiuriati.
XXV. Come può essere forte chi non sa sopportare sempre un debole?
XXVI. Il debole non permette che lo si sopporti.
XXVII. Come reprimere l’ira.
XXVIII. Le amicizie nate da patti segreti non sono durature.

 

CAPUT PRIMUM.

Beatus Joseph, cujus nunc instituta ac praecepta pandenda sunt, unus ex tribus quorum in prima collatione fecimus mentionem, clarae admodum familiae ac primarius civitatis suae intra Aegyptum fuit, quae appellatur Thmuis, et ita non solum Aegyptia, sed etiam Graeca facundia diligenter edoctus, ut vel nobis vel his qui eloquentiam Aegyptiam penitus ignorabant, non ut caeteri per interpretem, sed per semetipsum elegantissime disputaret. Qui cum institutionem suam nos desiderare sensisset, percunctatus primum utrumnam essemus germani fratres, audiensque a nobis quod non carnali, sed spirituali essemus fraternitate devincti, nosque ab exordio renuntiationis nostrae, tam in peregrinatione, quae ab utroque nostrum fuerat obtentu militiae spiritalis arrepta, quam in coenobii studio individua semper conjunctione sociatos, tali usus est sermonis exordio.

CAPUT II. Disputatio ejusdem senis de infido amicitiarum genere.

Amicitiarum ac sodalitatis multa sunt genera, quae diversis modis humanum genus dilectionis societate connectunt. Quosdam enim praecedens commendatio primum notitiae, post etiam amicitiae fecit inire commercia. In quibusdam vero contractus quidam seu dati acceptive depactio, charitatis foedera copulavit. Quosdam negotiationis seu militiae vel artis ac studii similitudo atque communio amicitiarum vinculis nexuerunt, per quam ita etiam effera sibi invicem corda mansuescunt, ut etiam hi qui in silvis ac montibus latrociniis gaudent, et effusione humani sanguinis delectantur, suorum scelerum participes amplectantur ac foveant. Est etiam dilectionis aliud genus, quod instinctu naturae ipsius et consanguinitatis lege connectitur, quo vel contribules, vel conjuges, vel parentes, seu fratres ac filii naturaliter caeteris praeferuntur, quod non solum humano generi, verum etiam omnibus alitibus atque animantibus inesse deprehenditur. Nam pullos vel catulos suos naturali affectu instigante sic protegunt ac defendunt, ut frequenter pro ipsis etiam objicere se periculis mortique non metuant. Denique etiam illa bestiarum vel serpentium vel alitum genera, quae intolerabilis feritas ac lethale virus ab omnibus separat et secernit, ut sunt basilisci, vel monocerotes, vel gryphes, cum etiam visu ipso cunctis perniciosa esse dicantur, inter se tamen pro originis ipsius affectionisque consortio pacata et innoxia perseverant. Sed haec omnia quae diximus genera charitatis, sicut malis ac bonis, feris etiam atque serpentibus videmus esse communia, ita etiam usque in finem certum est perseverare non posse. Etenim interrumpit ea frequenter ac dividit locorum discretio, et oblivio temporalis, et verbi vel causae negotiorumque contractus. Ut enim ex diversis, vel lucri, vel libidinis, vel consanguinitatis ac necessitudinum variarum societatibus acquiri solent, ita intercedente qualibet divortii occasione solvuntur.

 

I - La prima domanda che ci rivolse l’abate Giuseppe

Il beato Giuseppe, del quale ora prendo a spiegare gli insegnamenti e i precetti, era uno dei tre vecchi monaci dei quali ho parlato nella prima di queste conferenze.

Veniva da famiglia illustre ed era uno dei notabili della sua città natale, cioè di Tmuis, in Egitto. Aveva imparato a parlare molto bene non solo la lingua del suo paese, ma anche il greco; così, non solo con noi, ma anche con altri che ignoravano completamente la lingua egiziana, poteva esprimersi con molta eleganza, senza ricorrere, a somiglianza degli altri, ad un interprete.

Avendo conosciuto il nostro desiderio di udire i suoi insegnamenti, prima di tutto ci domandò se eravamo fratelli. Quando sentì che lo eravamo veramente, ma non per nascita, sì bene secondo lo spirito, perché fin dagli inizi della vita monastica una inseparabile unione ci aveva avvinti, sia nel viaggio — che insieme avevamo intrapreso per formarci nella milizia spirituale — sia negli esercizi del monastero, così prese a parlare.

II - Discorso del vecchio abate sulle amicizie infedeli

Molte sono le forme d’amicizia e d’affetto che uniscono gli uomini nei legami dell’amore.

Per molti è stata una raccomandazione a metterli in contatto, poi fra loro è nata l’amicizia. Alcuni si son legati in amicizia nell’occasione di qualche contratto o convenzione che importava un dare e un ricevere. Altri hanno fatto amicizia per causa delle somiglianze e dei contatti che c’erano fra loro, o negli affari, o nella vita militare, oppure nel lavoro e nella professione.

L’unione amichevole pone tanta dolcezza nel cuore anche delle persone meno sensibili, che gli stessi banditi, i quali vivono nelle foreste, nelle montagne e trovano la loro gioia nel versare sangue umano, si mostrano pieni d’attaccamento e di premura per i complici dei loro misfatti.

C’è un’altra specie d’affetto che nasce dalla natura e dalla legge del sangue: per essa sono preferiti a tutti gli altri i membri della stessa razza, lo sposo1 e la sposa, i genitori, i fratelli, i figli. Questa forma di unione non si riscontra soltanto tra gli uomini, ma anche presso gli uccelli e gli altri animali. Tutti gli animali, infatti, difendono i loro piccoli con tale slancio di naturale affetto che spesso non temono di esporsi per quelli a gravi pericoli e anche alla morte. Perfino le belve feroci, i serpenti velenosi, gli uccelli rapaci, che per la loro ferocia o il loro mortale veleno sono tenuti lontani da tutti gli altri esseri, — e valgano come esempi il basilisco, il rinoceronte, il grifo — benché al solo vederli rappresentino per tutti un pericolo, tuttavia non cessano di vivere in pace fra loro e senza nuocersi; e ciò in forza della loro comune origine e dei vincoli che da quella derivano. Ma tutte queste forme d’affetto, per il fatto stesso che sono comuni ai buoni e ai cattivi, alle bestie feroci e ai serpenti, è certo che non possono durare per sempre. Sono spesso rotte dalla distanza, dalla dimenticanza che nasce dal tempo, da un accordo verbale, dalla stipulazione di un contratto, da una questione d’interessi. Queste unioni, che erano nate da legami diversi, come ad esempio: desiderio di guadagno, passione, sangue, relazioni varie, si spezzano anche con facilità, alla prima occasione che si presenti.

 

CAPUT III. Unde indissolubilis amicitia sit.

In his igitur cunctis unum genus est insolubile charitatis, quod nec commendationis gratia, nec officii vel munerum magnitudo contractusque cujusquam ratio, vel naturae necessitas jungit, sed sola similitudo virtutum. Haec, inquam, est quae in nullis umquam casibus scinditur, quam non solum dissociare vel delere locorum vel temporum intervalla non praevalent, sed ne mors quidem ipsa divellit. Haec est vera et indirupta dilectio, quae gemina amicorum perfectione ac virtute concrescit. Cujus semel initum foedus, nec desideriorum varietas, nec contentiosa dirumpet contrarietas voluntatum. Caeterum multos novimus in hoc proposito constitutos, qui cum pro charitate Christi flagrantissima essent sodalitate devincti, non perpetuo eam nec indirupte servare potuerunt; quia licet bono societatis principio niterentur, non tamen uno nec pari studio arreptum propositum tenuerunt, fuitque inter eos quaedam temporalis affectio, quia non aequali utriusque virtute, sed unius patientia servabatur. Quae quamvis ab uno magnanimiter atque infatigabiliter retentetur, necesse est tamen eam alterius pusillanimitate dirumpi. Infirmitates namque eorum qui tepidius perfectionis expetunt sanitatem, quantalibet fortium tolerantia sustententur, ab ipsis tamen qui infirmi sunt non feruntur. Habent enim insitas sibi commotionum causas, quae eos quietos esse non sinant; ut solent hi qui carnali aegritudine detinentur, stomachi sui infirmitatisque fastidia, coquorum vel ministrantium negligentiis imputare, et quantalibet eis obsequentium sollicitudo deserviat, nihilominus tamen sanis causas suae commotionis ascribere, quas sibi utique vitio valetudinis suae inesse non sentiunt. Quamobrem haec est amicitiae, ut diximus, fida indissolubilisque conjunctio, quae sola virtutum parilitate foederatur. Dominus enim inhabitare facit unius moris in domo (Psal. LXVII). Et idcirco in his tantum indirupta potest dilectio permanere, in quibus unum propositum ac voluntas, unum velle ac nolle consistit. Quam si vos quoque cupitis inviolabilem retentare, festinandum est vobis ut, expulsis primitus vitiis, mortificetis proprias voluntates, et ut, unito studio atque proposito, illud quo Propheta admodum delectatur, gnaviter impleatis: Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum (Psal. CXXXII). Quod non localiter, sed spiritaliter oportet intelligi. Nihil enim prodest si moribus ac proposito dissidentes una habitatione jungantur, nec obest parili virtute fundatis, per locorum intervalla disjungi. Apud Deum namque morum cohabitatio, non locorum, unita fratres habitatione conjungit; nec potest umquam pacis integritas custodiri, ubi voluntatum diversitas invenitur.

CAPUT IV. Interrogatio, utrum utile aliquid etiam contra votum fratris effici debeat.

Germanus: Quid ergo, si uno volente perficere aliquid quod secundum Deum commodum et salubre perspexerit, alius non praestet assensum, exsequendumne etiam contra votum fratris est, an pro ejus arbitrio negligendum?

CAPUT V. Responsio quod perpetua amicitia nisi inter perfectos stare non possit.

Joseph: Idcirco diximus plenam atque perfectam amiticiae gratiam nisi inter perfectos viros ejusdemque virtutis perseverare non posse, quos eadem voluntas unumque propositum aut numquam aut certe raro diversa sentire, aut in his quae ad profectum spiritalis pertinent vitae patitur dissidere. Quod si animosis coeperint contentionibus aestuare, liquet utique eos numquam secundum regulam quam praediximus fuisse concordes. Sed quia nemo potest a perfectione habere principium, nisi qui ab ejus coeperit fundamento, et vos non quanta ejus sit magnitudo, sed quemadmodum ad eam perveniri possit, inquiritis, necessarium reor ut paucis regulam vobis ejus ac tramitem quemdam, per quem gressus vestri dirigantur, aperiam, ut patientiae ac pacis bonum facilius obtinere possitis.

 

III - Da dove nasce una amicizia indissolubile

Fra le diverse specie di amicizia se ne trova una sola che sia indissolubile: quella che non si fonda sul favore derivante da una raccomandazione, o sulla grandezza dei servigi e dei favori ricevuti, né sui contratti, o in una necessità della natura, ma nella somiglianza della virtù. Questa, io dico, è l’amicizia che gli avvenimenti non sciolgono, che le lontananze nel tempo e nello spazio non possono rompere, che neppure la morte riesce ad infrangere. Questo è il vero e indissolubile affetto che cresce col crescere simultaneo delle virtù che ornano i due amici; il nodo di questa amicizia, stretto che sia, non si rompe, né per la diversità dei desideri, né per la lotta delle volontà contrarie.

Nella mia lunga esperienza io ho conosciuto molti, i quali, dopo essersi legati in amicizia per amore di Cristo, non hanno saputo conservare per sempre il vincolo della loro unione. Il principio dell’amicizia era buono, ma non seppero conservare lo stesso impegno a mantenere il proposito fatto. La loro unione fu di quelle che durano una sola stagione perché non si alimentava ad una virtù d’ugual natura e intensità nell’uno e nell’altro; resisteva invece per la pazienza di uno solo dei due. Il destino di una tale amicizia, anche se un amico si dimostra eroicamente deciso a mantenerla, è quello di rompersi per la pusillanimità dell’altro. Quantunque i forti siano disposti a sopportare le debolezze di coloro che cercano con molta tiepidezza la sanità della perfezione, sono alla fine gli stessi deboli a non sopportare se stessi. Costoro infatti hanno in sé la causa di un turbamento che mai li lascia tranquilli. Assomigliano a certi ammalati che tutti conosciamo, i quali attribuiscono al cuoco o al cameriere i disturbi del loro stomaco ammalato, e quantunque tutti cerchino di servirli nel migliore dei modi, non cessano d’imputare a chi si prodiga per loro, la causa dei loro disturbi, ben lontani dal supporre che la causa si trova in loro stessi, nel loro cattivo stato di salute.

Per questo io ritengo che un legame d’amicizia indissolubile può formarsi soltanto là dove regna un’uguaglianza di virtù: « Il Signore fa abitare nella stessa casa coloro che hanno lo stesso spirito » (Sal 67,7). L’amore dunque può durare ininterrotto soltanto tra coloro che hanno gli stessi propositi, la stessa volontà: fra coloro che vogliono e non vogliono le stesse cose. Se volete anche voi mantenere inviolata la vostra amicizia, sforzatevi di allontanare i vizi, di mortificare la vostra volontà; poi, quando avrete lo stesso ideale, lo stesso proposito, avvererete l’oracolo che riempiva di gioia l’anima del profeta: « Oh! come è bello e giocondo che due fratelli abitino insieme! » (Sal 132,1). E queste parole del salmo — com’è evidente — sono da intendersi in senso spirituale, non locale. Non vale nulla infatti abitare sotto lo stesso tetto, se si è separati dal sistema di vita e dai propositi; mentre per coloro che sono ugualmente fondati nella virtù, la distanza nello spazio non costituisce separazione. Davanti a Dio è l’unità della condotta, non l’unità di luogo, che fa abitare i fratelli nella stessa casa: la pace non può resistere inalterata là dove le volontà sono divergenti.

IV - Domanda: se sia bene compiere qualche azione utile, anche contro il desiderio del fratello

Germano. Vorrei fare una domanda. Se uno dei due amici vuol fare una cosa che conosce utile e vantaggiosa dinanzi a Dio, ma l’altro non vuole, come dovrà comportarsi? Dovrà compierà quell’atto nonostante la contrarietà dell’amico, o dovrà rinunciare al suo proposito per non contristare l’amico?

V - Risposta: l’amicizia duratura può esistere soltanto tra i perfetti

Giuseppe. È proprio questa la ragione per cui ho detto che la grazia dell’amicizia non potrà durare piena e perfetta se non tra coloro che hanno uguale virtù. Una volontà unificata, un proposito identico, non permetteranno che esistano tra loro (o potranno esistere soltanto raramente) delle aspirazioni diverse, o qualche disaccordo su ciò che riguarda il progresso della vita spirituale. Se i due amici si sorprendono con una certa frequenza a disputare calorosamente, è chiaro che i loro cuori non furono mai uniti secondo quella regola che ho detto sopra.

E vero però che anche nell’amicizia non si comincia dai gradi più perfetti; bisogna anche qui metter prima i fondamenti. Voi non mi domandate qual è la grandezza dell’amicizia, ma quali sono i mezzi per raggiungerla.

Ritengo perciò necessario farvene conoscere brevemente le leggi, affinché voi possiate più facilmente ottenere il dono della pazienza e della pace.

 

CAPUT VI. Quibus modis inviolabilis possit societas retentari.

Prima igitur sunt verae amicitiae in contemptu substantiae mundialis et omnium quas habemus rerum despectione fundamina. Perquam enim injustum atque impium est, si post abrenuntiatam mundi et omnium quae in eo sunt vanitatem, pretiosissimae fratris dilectioni supellex vilissima quae superfuit [ Lips. in marg. superfluit], praeferatur: secundum est ut ita suas unusquisque resecet voluntates, ne se sapientem atque consultum esse judicans, suis malit quam proximi definitionibus obedire. Tertium est ut sciat omnia, etiam quae utilia ac necessaria aestimat, postponenda bono charitatis ac pacis; quartum ut credat nec justis nec injustis de causis penitus irascendum; quintum ut adversus se iracundiam fratris, etiam sine ratione conceptam, eodem modo quo suam curare desideret, sciens aequaliter sibi perniciosam alterius esse tristitiam, ac si adversus alium ipse moveatur, nisi eam, quantum in se est, etiam de fratris mente depulerit. Postremum illud est, quod generale vitiorum omnium peremptorium esse non dubium est, ut se de hoc mundo credat quotidie migraturum. Quae persuasio non solum nullam in corde tristitiam residere permittit, verum etiam universos concupiscentiarum ac peccatorum omnium comprimet motus. Haec igitur quicumque tenuerit, amaritudinem irae atque discordiae nec pati poterit nec inferre. His autem cessantibus, cum primum ille aemulus charitatis in cordibus amicorum tristitiae sensim venena suffuderit, necesse est ut frequentibus jurgiis paulatim dilectione tepefacta, amantium corda diu exulcerata quandoque dissociet. Nam qui per callem praedictae directionis ingreditur, in quo ab amico umquam suo poterit dissidere, qui primam litium causam quae ex parvulis rebus vilissimisque materiis generari solet, nihil suum vindicans, radicitus amputaverit, illud quod in Actibus Apostolorum legimus de unitate credentium omni virtute custodiens? Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una, nec quisquam eorum quae possidebat, aliquid suum esse dicebat, sed erant illis omnia communia (Actor. IV). Deind quemadmodum ab eo seminarium dissensionis exsurget, qui non suae, sed fratris serviens voluntati, Domini atque auctoris sui fuerit imitator effectus, qui loquens ex persona hominis quem gerebat, Non veni, inquit, ut facerem voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui me misit (Joan. V)? Quo autem modo ullum contentionis fomitem suscitabit, qui de intelligentia ac sensu suo, non tam proprio judicio quam fratris cedere [ Lips. in marg. credere] decrevit examini, pro ejus scilicet arbitrio, vel probans sua inventa, vel improbans, et Evangelicum illud pii cordis humilitate consummans, Verum tamen non sicut ego volo, sed sicut tu vis (Matth. XXVI)? Aut qua ratione aliquid quo frater moestificetur, admittet, qui bono pacis nihil judicat esse pretiosius, Dominicae illius sententiae memoriam non amittens, In hoc cognoscent omnes quod mei estis discipuli, si dilectionem habueritis adinvicem (Joan. XIII), per quam velut spiritali signaculo gregem ovium suarum in hoc mundo voluit Christus agnosci, atque hoc a caeteris, ut ita dixerim, charactere discerni? Qua vero ex causa vel in se recipere vel in alio residere rancorem tristitiae sustinebit, cui summa definitio est, iracundiae, quae perniciosa et illicita est, justas causas esse non posse, eodemque se modo, succensente sibi fratre, orare non posse, cum quasi fratri suo ipse succenseat, irrogatam illam Domini Salvatoris humili semper retinens corde sententiam, Si offers munus tuum ad altare, et ibi recordatus fueris quod frater tuus habet aliquid adversum te, relinque ibi munus tuum ante altare, et vade prius reconciliari fratri tuo, et sic veniens offer munus tuum (Matth. V). Nihil enim proderit si te quidem asseras non irasci, et credas te implere illud mandatum quo dicitur, Sol non occidat super iracundiam vestram, et, Qui irascitur fratri suo, reus erit judicio; alterius vero tristitiam quam delinire tua mansuetudine potuisti, contumaci corde despicias. Eodem namque modo praecepti Dominici praevaricatione plecteris. Qui enim te irasci adversus alterum non debere dixit, nec alterius contemni tristitiam debere dixit; quia non interest apud Deum, qui omnes homines vult salvos fieri, utrum te an alium quempiam perdas. Unum siquidem cujuslibet interitu ei nascitur detrimentum; itidemque illi cui grata omnium perditio est, unum lucrum, vel tua vel fratris morte conquiritur. Quemadmodum postremo poterit vel tenuem contra fratrem retinere tristitiam, qui se credit quotidie, immo continuo ab hoc saeculo migraturum?

 

VI - In qual modo un’amicizia si può conservare immobile

Il primo fondamento della vera amicizia sta nel disprezzo dei beni mondani e nel distacco da tutto ciò che possediamo. Sarebbe cosa sommamente ingiusta ed empia se noi, dopo aver rinunciato alla vanità del mondo e di tutte le cose che in esso si trovano, anteponessimo una cosa da nulla che ancora ci resta, all’affetto prezioso di un fratello.

In secondo luogo conviene che ognuno comprima le sue volontà personali, affinché, dopo essersi giudicato più bravo e più sapiente, non preferisca seguire il suo giudizio piuttosto che quello dell’amico.

Il terzo elemento di amicizia sta nel persuadersi che tutto, anche ciò che si stima utile e necessario, vai meno di quel bene che è la pace e la carità.

Il quarto consiste nella certezza che per nessun motivo, giusto o ingiusto che sia, è permesso andare in collera.

La quinta regola è questa: bisogna desiderare di guarire l’ira che il fratello può aver concepito nei nostri riguardi, anche se ingiustamente. In quest’opera occorre mettere tanto zelo quanto ne metteremmo ad estinguere l’ira nostra, ben sapendo che dall’ira dell’altro noi traiamo lo stesso danno che trarremmo dalla nostra, posto che non ci sforziamo a cacciare quel sentimento dall’animo del fratello.

L’ultima regola, quella che costituisce indubbiamente la fine di tutti i vizi, consiste nel pensare che ogni giorno si può morire. Questo pensiero, oltre a non lasciar attecchire nel nostro cuore nessun germe d’ira, comprimerà anche tutti i movimenti delle concupiscenze e dei vizi.

Se si aderisce fermamente a questi principi, non è possibile sentire, o far sentire ad altri, l’amarezza dell’ira e della discordia. Se invece questi principi non sono accettati, il nemico della carità verrà di nascosto nel cuore degli amici e vi seminerà il veleno della tristezza. Da una disputa nascerà un’altra disputa, e l’amore necessariamente si raffredderà a poco a poco, finché la rottura si farà completa fra due cuori da lungo tempo esulcerati.

Colui che s’incammina per la via da me indicata, non avrà motivo per separarsi affettivamente dal suo amico. Se non rivendica nulla come sua proprietà, taglia la radice stessa di tutte le liti, che nascono di solito da piccole cose, da oggetti di nessun valore. L’amico che segue le regole enumerate sopra, si applica con tutte le forze ad osservare ciò che è scritto nel libro degli Atti a proposito dell’unità che regnava tra i primi cristiani: « La moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola, né alcuno c’era che considerasse come suo quel che possedeva, ma avevano tutto in comune »(At 4,32).

E come potrebbe seminare discordia un amico di tal genere? Egli non è schiavo della sua volontà, ma di quella del fratello; si è reso imitatore del suo Signore e creatore, il quale diceva — parlando a nome dell’umanità che rappresentava — « lo non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato » (Gv 6,38). Come potrebbe dare motivo di contesa? Egli si è proposto — tutte le volte che si tratterà del suo modo di vedere e giudicare le cose — di non regolarsi secondo i suoi gusti, ma secondo i desideri del fratello, e secondo le decisioni di quell’arbitro, lo vedremo approvare e disapprovare le sue stesse idee, mostrando nell’umiltà di un cuore pieno di dolcezza l’avveramento perfetto di quel detto evangelico: « Tuttavia, non come voglio io ma come vuoi tu » (Mt 26,39).

E come potrebbe permettersi qualcosa capace di far soffrire il fratello? Egli giudica che non esista al mondo una cosa più preziosa della pace e non si toglie mai dalla mente queste parole del Signore: « Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente » (Gv 13,35). Questo amore scambievole ha voluto il Signore che fosse un sigillo col quale si riconoscessero in questo mondo le pecore del suo gregge; l’ha voluto, se così posso dire, come un’impronta che distinguesse i suoi dal resto degli uomini. Come potrebbe un vero amico sopportare che in lui o nel fratello si annidasse il rancore della tristezza? Egli tiene per verità indubitabile che l’ira, sempre dannosa e illecita, non può mai avere una giusta causa. Per lui è impossibile pregare, sia quando il fratello è adirato con lui, sia quando lui è irritato col fratello. Continuamente conserva in cuore il ricordo di queste parole del Maestro: « Se tu, nel fare la tua offerta sull’altare, ti rammenti che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello; poi ritorna a fare l’offerta » (Mt 5,23-24). Infatti non giova nulla affermare che non siete in collera con nessuno e ripetere a voi stessi che osservate quel comandamento: « Il sole non tramonti sul vostro sdegno » (Ef 4,26); o « Chi si adira con suo fratello merita di esser giudicato » (Mt 5,22), se poi disprezzate con cuore duro e superbo la tristezza del vostro fratello, quando la vostra mansuetudine potrebbe addolcirla.

In entrambi i casi si pecca contro il precetto del Signore, perché Colui che ha detto: non ti adirare col tuo prossimo; ha detto pure: non disprezzare la tristezza del tuo prossimo. Al Signore che vuole salvi tutti gli uomini non importa che perda te stesso o un altro. Chiunque sia ad andar perduto, il danno che ne viene a Dio è sempre lo stesso; e, per la ragion dei contrari, colui che gode tanto a perdere tutti, trae la stessa gioia dalla vostra morte eterna e da quella di un fratello.

Infine, come potrebbe conservare il più piccolo rancore verso il fratello, uno che pensa di poter morire oggi stesso?

 

CAPUT VII. Quod nihil charitati praeponendum sit, nec iracundiae postponendum.

Sicut ergo nihil praeponendum est charitati, ita furori vel iracundiae nihil est econtrario postponendum. Omnia namque quamvis utilia ac necessaria videantur, spernenda tamen sunt, ut irae perturbatio devitetur; et omnia etiam quae putantur adversa, suscipienda atque toleranda sunt, ut dilectionis pacisque tranquillitas illibata servetur; quia nec ira atque tristitia perniciosius quidquam, nec charitate utilius credendum est.

CAPUT VIII. Quibus de causis inter spiritales nascatur dissensio?

Nam quemadmodum carnales adhuc et imbecilles fratres ob vilem terrenamque substantiam cito inimicus ille disjungit, ita etiam inter spiritales gignit pro intellectuum diversitate discordiam. Ex qua sine dubio contentiones rixaeque verborum, quas Apostolus damnat (Galat. V), plerumque consurgunt; unde consequenter divortia inter unanimes fratres hostis invidus ac malignus interserit. Vera est namque sapientissimi Salomonis illa sententia, Odium suscitat contentio; universos vero qui non contendunt, protegit amicitia (Prov. X).

CAPUT IX. De amputandis etiam spiritalibus causis discordiarum.

Quapropter ad conservandam perpetuam et individuam charitatem, nihil prodest primam causam amputasse dissidii, quae nasci solet de rebus caducis atque terrenis, et universa despexisse carnalia, atque omnium quibus noster usus indiget rerum indiscretam communionem fratribus permisisse, nisi etiam secundam quae sub specie spiritalium sensuum nasci solet similiter abscindentes, acquisierimus in omnibus humilem sensum et consonas voluntates

CAPUT X. De optimo examine veritatis.

Memini namque cum me adhuc adhaerere consortio fratrum aetas junior hertaretur, hujusmodi nobis intelligentiam vel in moralibus disciplinis vel in Scripturis sacris frequenter insertam, ut nihil ea verius nihilque rationabilius crederemus. Sed cum in unum convenientes sententias nostras promere coepissemus, quaedam communi examinatione discussa primum ab altero falsa ac noxia notabantur, mox deinde ut perniciosa communi pronuntiata judicio damnabantur, quae in tantum prius infusa a diabolo velut luce fulgebant, ut facile potuissent generare discordiam, nisi praeceptum seniorum velut divinum quoddam oraculum custoditum ab omni nos contentione revocasset, quo ab illis legali quadam sanctione praescriptum est, ut neuter nostrum plus judicio suo quam fratris crederet, si numquam vellet diaboli calliditate deludi.

CAPUT XI. Quod impossibile sit quemquam qui proprio fidit judicio, diaboli illusione non decipi.

Etenim saepe illud quod Apostolus dicit probatum est evenire: Ipse enim Satanas transfigurat se in angelum lucis (II Cor. XI), ut obscuram ac tetram caliginem sensuum pro vero lumine scientiae fraudulenter effundat [ Lips. in marg. offundat]. Qui nisi humili et mansueto corde suscepti, maturissimi fratris vel probatissimi senioris reserventur examini, et eorum judicio diligenter excussi, aut abjiciantur, aut recipiantur a nobis, sine dubio venerantes in cogitationibus nostris pro angelo lucis angelum tenebrarum, gravissimo feriemur interitu. Quam perniciem impossibile est evadere quempiam judicio proprio confidentem, nisi, humilitatis verae amator et exsecutor effectus, illud quod Apostolus magnopere deprecatur, omni contritione cordis implerit. Si qua ergo, inquit, consolatio in Christo, si quod solatium charitatis, si qua viscera miserationis, implete gaudium meum ut idem sapiatis, eamdem charitatem habentes, unanimes idipsum sentientes; nihil per contentionem, neque per inanem gloriam, sed in humilitate superiores vobismetipsis alterutrum arbitrantes (Philip. II); et illud, Honore alterutrum praevenientes (Rom. XII), ut plus unusquisque consorti suo scientiae et sanctitatis ascribens, summam discretionis verae in alterius magis quam in suo credat stare judicio.

 

VII - Niente va apprezzato più della carità, niente va disprezzato più dell’ira

Come non c’è cosa da stimarsi di più della carità, così non c’è cosa più spregevole dell’ira. Bisogna sacrificare tutto — si trattasse anche di cose utili o addirittura necessarie — pur di evitare i turbamenti di questa passione. Bisogna tutto accettare, tutto sopportare — anche ciò che sembra una disgrazia — pur di conservare inviolabile la tranquillità dell’amore e della pace; convinti che nulla è più dannoso dell’ira e della tristezza, nulla è più utile della carità.

VIII - Per qual motivo nascono le divisioni fra gli uomini spirituali

Tra i fratelli ancora carnali e deboli, il demonio fa nascere l’ira che li divide, da cause di vile materia; tra i fratelli spirituali, il demonio fa nascere la discordia con la diversità dei pareri. Di qui, senza dubbio, nascono quelle risse e divisioni che l’Apostolo condanna; dalle risse prende occasione il nemico invidioso e crudele per giungere alla rottura tra fratelli che prima facevano un cuor solo e un’anima sola. È verissima a tal proposito la sentenza del sapiente Salomone: « Le dispute fanno nascere l’odio, ma coloro che non s’abbandonano alle dispute sono protetti dall’amicizia » (Pr 10,12 - LXX).

IX - Bisogna troncare le cause spirituali che generano discordia

Per conservare una carità continua e indivisibile, non basta togliere la prima causa del dissenso, che sta di solito nelle cose caduche e terrestri; non basta disprezzare tutto ciò che è carnale e permettere ai fratelli l’uso di tutti gli oggetti che ci sono necessari. Bisogna togliere anche la seconda causa, che nasce dalla diversità d’opinione nelle cose spirituali. Oltre a ciò è necessario sforzarci d’acquistare in tutto, con l’umiltà dello spirito, una volontà perfettamente intonata con quella degli altri.

X - Il modo migliore per cercare la verità

Ho un ricordo che riguarda quel periodo della mia giovinezza in cui facevo vita comune con un amico. Accadeva che ciascuno di noi, per proprio conto, facesse delle scoperte nella morale o nella sacra Scrittura, che sembravano le cose più giuste e ragionevoli di questo mondo. Poi ci riunivamo e incominciavamo a comunicarci i nostri pensieri. Dopo aver sottomesso alla critica certe affermazioni, accadeva che uno le trovasse false e pericolose; poi, continuandone ancora l’esame, una sentenza unanime le dichiarava pericolose e degne di condanna. Eppure, prima pareva che splendessero come la luce del sole, quando il demonio ce le ispirava. Quelle sentenze avrebbero facilmente suscitato la discordia, se il comando degli Anziani, osservato da noi come un oracolo di Dio, non ci avesse preventivamente liberati da ogni disputa. Ora, il comando degli Anziani prescriveva che né l’uno né l’altro doveva fidarsi di più del suo giudizio che di quello dell’amico, se non voleva essere ingannato dall’astuzia del demonio.

XI - Chi si fida del proprio giudizio cadrà infallibilmente nelle illusioni del diavolo

È stata spesso riscontrata la verità di ciò che dice l’Apostolo, cioè che il demonio si trasforma in angelo di luce (2 Cor 11,14), per immettere nelle nostre menti una caligine oscura e tetra in luogo della vera luce della scienza. Se gli artifici di Satana non trovano un cuore umile e dolce, il quale li sottopone al giudizio di un fratello molto esperto o di un anziano di virtù ben provata, per poi accettare o rifiutare secondo il giudizio da loro dato dopo un esame attento, non v’è alcun dubbio che noi accetteremo l’angelo delle tenebre come se fosse un angelo della luce, e periremo della peggiore fra tutte le morti.

Chi si fida di se stesso, non potrà evitare un tale guaio. Bisognerà perciò che il monaco ami la vera umiltà e la pratichi; egli dovrà adempiere, in piena contrizione di cuore, quelle parole dell’Apostolo: « Se dunque è possibile qualche consolazione in Cristo, se v’è qualche conforto dell’amore, se v’è qualche comunanza di spirito, se avete viscere di compassione, rendete compiuto il mio gaudio della concordia vostra, avendo uno stesso amore, una stessa anima, uno stesso sentire. Nulla si faccia per spirito di rivalità o per vanagloria, ma per umiltà, ritenendo ciascuno gli altri superiori a se stesso » (Fil 2,1-3). E l’Apostolo dice ancora: « Quanto a rispetto, anteponga ognuno gli altri a se stesso » (Rm 12,10). Ciascuno insomma attribuisca al fratello più scienza e santità che a se stesso, creda che la vera e perfetta discrezione si trova più nel giudizio dell’altro che nel proprio.

 

CAPUT XII. Quam ob causam non debeant inferiores in collatione contemni.

Saepe autem accidit, sive illusione diaboli, sive intercessu erroris humani, quo nullus est in hac carne qui falli velut homo non possit, ut et ille interdum qui acrioris ingenii scientiaeque majoris est, aliquid falsum mente concipiat; et ille qui tardioris ingenii ac minoris est meriti, rectius aliquid veriusque persentiat. Et idcirco nullus sibi, quamvis [ Al. quavis] scientia praeditus, inani tumore persuadeat quod possit collatione alterius non egere. Nam etiamsi judicium ejus diabolica non fallat illusio, elationis tamen et superbiae graviores laqueos non evadet. Quis enim hoc sibi absque ingenti poterit usurpare pernicie, cum Vas electionis in quo Christus, ut ipse professus est (II Cor. XIII), loquebatur, ob hoc solummodo se asserat Jerosolymam conscendisse, ut cum suis coapostolis Evangelium, quod gentibus, revelante et cooperante Domino, praedicabat, secreta examinatione conferret (Galat. II)? Per quod ostenditur non solum unanimitatem atque concordiam per haec praecepta servari, verum etiam cunctas diaboli adversantis insidias et illusionum ejus laqueos non timeri.

CAPUT XIII. Quod charitas non solum res Dei, sed etiam Deus sit.

Denique in tantum virtus charitatis extollitur, ut eam beatus Joannes Apostolus non solum rem Dei, sed etiam Deum esse pronuntiet, dicens: Deus charitas est; et qui manet in charitate, in Deo manet et Deus in eo (I Joan. IV). Nam usque adeo illam divinam esse perspicimus, ut illud Apostoli manifestissime vigere sentiamus in nobis, quoniam charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per spiritum sanctum qui habitat in nobis (Rom. V). Quod tale est, ac si dicat: Quoniam Deus diffusus est in cordibus nostris, per Spiritum sanctum qui habitat in nobis. Qui etiam, cum ignoremus quid debeamus orare, interpellat pro nobis gemitibus inenarrabilibus. Qui autem scrutatur corda, scit quid desideret spiritus, quia secundum Deum postulat pro sanctis (Rom. VIII).

CAPUT XIV. De gradibus charitatis.

Illam igitur charitatem quae dicitur γάπη possibile est omnibus exhibere, de qua beatus Apostolus: Ergo dum tempus habemus, inquit, operemur bonum ad omnes, maxime autem ad domesticos fidei (Galat. VI). Quae in tantum omnibus est generaliter exhibenda, ut eam etiam inimicis nostris a Domino jubeamur impendere. Nam Diligite, inquit, inimicos vestros (Matth. V). Διάθεσις autem, id est, affectio, paucis admodum, et his qui vel parilitate morum vel virtutum societate connexi sunt, exhibetur, licet etiam ipsa diathesis multam in se differentiam habere videatur. Aliter enim parentes, aliter conjuges, aliter fratres, aliter filii diliguntur, et in ipsa quoque horum affectuum necessitudine magna distantia est, nec uniformis parentum dilectio erga filios invenitur. Quod etiam Jacob patriarchae probatur exemplo, qui cum esset duodecim filiorum pater, omnesque paterna charitate diligeret, tamen propensiore Joseph dilexit affectu, ut de eo aperte Scriptura commemoret: Invidebant autem ei fratres sui, eo quod diligeret eum pater suus (Genes. XXXVII), scilicet, non quod vir justus et pater non valde diligeret etiam caeteram prolem, sed quod hujus, quia typum Domini praeferebat, affectui dulcius quodammodo atque indulgentius inhaereret. Hoc etiam de Joanne evangelista legimus evidentissime designari, cum de ipso dicitur: Discipulus ille quem diligebat Jesus (Joan. XIII), cum utique etiam reliquos undecim similiter electos ita praecipua dilectione complexus sit, ut hoc etiam evangelica attestatione designet, dicens: Sicut dilexi vos, et vos diligite invicem (Joan. XIII). De quibus et alibi dicitur: Diligens suos qui erant in mundo, usque in finem dilexit eos (Ibid.). Sed haec unius dilectio non erga reliquos discipulos teporem charitatis, sed largiorem erga hunc superabundantiam amoris expressit, quam ei virginitatis privilegium et carnis incorruptio conferebat. Quae idcirco velut sublimior cum quadam exceptione signatur, quia non eam odii comparatio, sed affluentior gratia exuberantissimi amoris extollit. Tale quid etiam ex persona sponsae legimus in Cantico canticorum, dicentis: Ordinate in me charitatem (Cantic. II). Haec enim est vere charitas ordinata, quae odio habens neminem, quosdam meritorum jure plus diligit; quaeque eum generaliter diligat cunctos, excipit tamen sibi ex his quos debeat peculiari affectione complecti; et rursum inter ipsos qui in dilectione summi atque praecipui sunt, aliquos sibi qui caeterorum affectui superextollantur excerpit.

 

XII - Perché non si debbono disprezzare gli inferiori nelle Conferenze

Accade spesso, o per illusione del diavolo o per errore umano (infatti non c’è uomo fatto di carne che non sia soggetto a sbagliare), che colui il quale ha maggiore ingegno e maggiore scienza, concepisca nella mente qualche idea falsa; un altro, invece, che ha minore ingegno e minor merito può avere un’idea più giusta e più vera.

Nessuno dunque, anche se molto sapiente, monti in superbia e pensi di poter fare a meno del consiglio del fratello. Anche se il suo giudizio non sarà insidiato dalle illusioni del diavolo, non potrà tuttavia sfuggire i tranelli terribili che preparano la superbia e la fiducia in se stessi. Chi potrebbe, senza pericolo, avere in sé una fiducia assoluta, dal momento che il Vaso d’elezione, nel quale Cristo stesso parlava, afferma di essere salito a Gerusalemme per comunicare agli Apostoli, in un esame privato, il Vangelo che predicava alle nazioni, nonostante che avesse la rivelazione e l’assistenza del Signore? Con questo resta dimostrato che l’osservanza delle regole da noi suggerite, non conserva soltanto l’unanimità e la concordia, ma pone al riparo da tutte le insidie del demonio, nostro nemico, e ci permette di non temere le sue illusioni e i suoi lacci.

XIII - La carità non è soltanto una cosa divina, ma è Dio stesso

La Scrittura divina pone così in alto la virtù della carità che il beato Giovanni apostolo giunge a dire: la carità non è soltanto una cosa divina: è Dio stesso: « Dio — egli dice — è carità e chi sta nella carità, sta in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16).

Non è vero che noi sentiamo un elemento divino nella carità? Non sentiamo forse come una realtà viva quel che dice l’Apostolo: « La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che abita in noi » (Rm 5,5). È come se dicesse: Dio è stato diffuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che abita in noi. E questo divino Spirito, quando non sappiamo che cosa dobbiamo domandare nella preghiera, « prega per noi con gemiti inenarrabili; e Colui che scruta i cuori sa bene qual sia l’aspirazione dello Spirito, perché intercede per i santi secondo Dio » (Rm 8,26-27).

XIV - I gradi della carità

È possibile usare con tutti quella carità che si chiama agape. Di questa carità parla l’Apostolo quando dice: « Come l’occasione si presenta, facciamo del bene a tutti, specialmente ai compagni di fede » (Gal 6,10). È tanto vero che la carità va usata con tutti, che il Signore ci ha comandato di usarla verso i nemici, dice infatti: « Amate i vostri nemici » (Mt 5,44).

La diàtesis, o carità d’affezione, si rivolge invece a un piccolo numero di persone, cioè a coloro che ci sono uniti o per somiglianza di costumi o per comunanza di virtù.

La diàtesis, peraltro, offre una notevole varietà di gradi. Altro è l’amore filiale e quello coniugale, altro l’amore fraterno e quello paterno. E anche in questi rapporti affettivi così diversi tra loro, si riscontrano altre diversità: neppure l’amore dei genitori per i figli è sempre uguale. Il patriarca Giacobbe ce ne fornisce una prova. Padre di dodici figli, li amava tutti d’un amore veramente paterno, tuttavia sentiva una propensione particolarissima per Giuseppe, tanto che la sacra Scrittura dice apertamente: « I fratelli, vedendo che era amato dal padre più di tutti gli altri, lo odiavano e non potevano parlare con lui senza adirarsi » (Gn 37,4). Non che quell’uomo giusto e ottimo padre, mancasse di amare grandemente gli altri figli, ma aveva un affetto più tenero, una maggior compiacenza verso Giuseppe, che portava in sé una figura del Signore.

Leggiamo nel Nuovo Testamento che anche Giovanni evangelista fu oggetto di un particolare amore. Il Vangelo ce lo presenta chiaramente come il « discepolo amato dal Signore » (Gv 13,23). Con questo non si vuol negare che il Signore amasse gli altri undici; sta scritto anzi nello stesso Vangelo: « Come io amo voi, così voi amatevi scambievolmente » (Gv 13,34). Dell’amore di Gesù per tutti gli Apostoli si dice anche altrove: « Poiché aveva amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13,1). Così il particolare amore che Gesù mostrò per san Giovanni, non significa che il suo affetto fu tiepido nei confronti degli altri Apostoli, ma solo che la sovrabbondanza dell’amore si riversò su colui che il privilegio della verginità, e una completa integrità della carne, rendevano particolarmente caro al Signore. È proprio per questo che il Vangelo nota l’amore più sublime ed eccezionale che Gesù ebbe per Giovanni: il contrasto non è tra amore e odio, ma tra un amore grande e uno più grande ancora, che nasce da una fonte di carità più alta.

Qualcosa di somigliante si trovava nel Cantico dei Cantici, sulle labbra della sposa: « Ordinate in me la carità» (Ct 2,4 – LXX). E carità ordinata è quella che, senza avere odio per nessuno, ama alcuni con preferenza, a causa dei loro meriti. Pur amando tutti, la carità sceglie alcuni che vuole avvolgere d’una particolare tenerezza, e anche in questo numero di privilegiati sceglie un piccolo stuolo al quale dona un affetto ancor più speciale.

 

CAPUT XV. De his qui vel suam vel fratrum commotionem dissimulatione corroborant.

Econtra novimus, quod utinam nesciremus! nonnullos fratrum tantae esse obstinationis atque duritiae, ut cum vel suos adversus fratrem vel fratris adversum se senserint animos excitatos, ad dissimulandam mentis suae tristitiam, quae ex indignatione alterutrae commotionis exorta est, secedentes ab eis quos humili satisfactione atque colloquio lenire debuerant, aliquos psalmorum incipiunt decantare versiculos. Qui dum conceptam cordis amaritudinem delinire se putant, insultando augent, quod statim exstinguere potuerunt si magis anxii atque humiles esse voluissent, ut opportuna compunctio et ipsorum cordibus mederetur, et fratrum animos deliniret. Nam illo utique modo pusillanimitatis, immo superbiae suae vitium palpant, et nutriunt potius quam exstirpant fomitem jurgiorum, Dominicae illius praeceptionis immemores, qua ait: Qui irascitur fratri suo, reus erit judicio (Matth. V): Et, Si recordatus fueris quod frater tuus habet aliquid adversum te, relinque ibi munus tuum ad altare, et vade prius reconciliari fratri tuo, et tunc veniens offeres munus tuum (Ibid.)

CAPUT XVI. Quod fratre adversum nos aliquid habente simultatis, munera orationum nostrarum a Domino respuantur.

In tantum igitur non vult nos Deus noster alterius despectui habere tristitiam, ut si aliquid adversum nos frater habuerit, nec munera nostra suscipiat, id est, nec orationes sibi a nobis permittat offerri, donec de animo ejus tristitiam juste injusteve conceptam, celeri satisfactione tollamus. Neque enim ait, Si habet veram querelam adversum te frater tuus, relinque ibi munus tuum ad altare, et vade prius reconciliari fratri tuo; sed, Si recordatus fueris, inquit, quia frater tuus habet aliquid adversum te (Matth. V), id est, etiam si leve aliquid ac vile sit quo fratris in te fuerit excitata commotio, et hoc memoriam tuam subita recordatione pulsaverit, scias te offerre precum tuarum spiritalia munera non debere, nisi prius qualibet ex causa ortam tristitiam de corde fratris benigna satisfactione depuleris. Si igitur evangelicus sermo etiam pro praeterita et minima simultate, ac de exiguis oborta causis, satisfacere nos irascentibus jubet, quid de nobis miseris fiet, qui recentes et maximas causas nostroque errore commissas, pertinaci dissimulatione contemnimus, et inflati tumore diabolico, dum humiliari erubescimus, auctores nos fraternae tristitiae denegamus, ac rebelli spiritu subjici praeceptis Domini dedignantes, nequaquam ea vel observari debere, vel impleri posse contendimus? Eoque fit ut judicantes eum impossibilia vel incongrua praecepisse, efficiamur, secundum Apostolum, non factores, sed judices legis (Jac. IV).

CAPUT XVII. De his qui patientiam saecularibus magis putant impendendam esse quam fratribus.

Illud quoque quibus lacrymis est deflendum, quod nonnulli fratrum cum fuerint contumelia cujuslibet sermonis accensi, si alterius cujuspiam, qui eam lenire desiderat, precibus fatigentur, cum audierint nequaquam debere adversus fratrem concipi retinerive tristitiam, secundum illud quod scriptum est: Qui irascitur fratri suo, reus erit judicio (Matth. V); et, Sol non occidat super iracundiam vestram (Ephes. IV), proclamant illico: Si paganus aliquis, si saecularis hoc fecisset, aut ista dixisset, recte debuit sustineri. Quis autem ferat fratrem tam gravis conscium culpae aut tam insolens de ore convicium proferentem! Quasi vero patientia infidelibus tantum atque sacrilegis et non omnibus sit generaliter exhibenda, aut iracundia contra gentilem noxia contra fratrem utilis aestimanda, cum utique perturbatae mentis obstinata commotio non dissimile, contra quemvis fuerit excitata, sibi inferat detrimentum. Quantae autem obstinationis, immo vecordiae est, ut nec ipsam verborum proprietatem brutae mentis stupore discernat. Quia non dicitur, Omnis qui irascitur alienigenae, reus erit judicio, quod fortasse poterat secundum illorum sensum contra consortes nostrae fidei et conversionis excipere, sed significanter expressit evangelicus sermo dicens: Omnis qui irascitur fratri suo, reus erit judicio (Matth. V). Licet itaque secundum regulam veritatis omnem hominem fratrem debeamus accipere, tamen hoc in loco magis fidelis ac nostrae conversationis particeps quam ethnicus fratris vocabulo designatur.

 

XV - Coloro che dissimulano aumentano così la commozione propria e quella dei fratelli

Ma io so —-e volesse il cielo che mai l’avessi saputo — che in molti monaci non c’è carità, bensì una ostinazione e una durezza singolare. Se si accorgono di essere presi da passione verso un fratello, oppure si accorgono che il fratello è adirato con loro, si mettono a dissimulare la tristezza del loro cuore, venga essa da loro stessi o da un altro.

Si allontanano allora da coloro che avrebbero dovuto lenire con un’umile soddisfazione, con buone parole, e incominciano a cantare qualche versetto dei salmi. Credono di calmare così l’amarezza che hanno in cuore. Ma in tal modo accrescono il fuoco che hanno dentro, quel fuoco che avrebbero potuto immediatamente estinguere, se avessero saputo usare maggior gentilezza e umiltà, in modo che una scusa opportuna avesse sanato insieme la ferita del loro cuore e quella prodotta nel cuore del fratello.

Ma facendo come fanno, essi accarezzano e fanno crescere la loro pusillanimità, anzi coltivano la loro superbia, invece di spegnerne il focolaio. Non pensano al comando del Signore che dice: « Chi si adira con suo fratello meriterà d’essere condannato in giudizio » (Mt 5,22). E ancora: « Se ti rammenti che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta dinanzi all’altare e corri a riconciliarti con tuo fratello; poi torna e fa’ la tua offerta » (Mt 5,23-24).

XVI - Dio rifiuta l'offerta delle nostre preghiere se abbiamo un’inimicizia con qualche fratello

Osserviamo fino a qual punto il Signore condanna il disprezzo che noi possiamo avere della tristezza altrui: Se il nostro fratello ha qualcosa contro di noi, Dio non accetta più le nostre preghiere. In altre parole: Dio non accetta l’offerta delle nostre preghiere finché noi non avremo allontanato, con una pronta riparazione, la tristezza dal cuore del fratello, sia essa prodotta per nostra colpa, sia che noi non ne abbiamo colpa. Il Signore non dice: se tuo fratello ha un giusto motivo per lamentarsi di te, lascia la tua offerta dinanzi all’altare e corri prima a riconciliarti con lui. No! dice: se ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, vale a dire: anche se il dissapore che ha provocato il malinteso tra te e il fratello è cosa da nulla, e il ricordo di ciò colpisce all’improvviso la tua memoria, sappi che tu non devi offrire i doni spirituali della preghiera, senza aver fatto prima scomparire i segni della tristezza dal cuore del fratello — qualunque ne sia stata la causa — con una soddisfazione piena d’affetto.

Così il Vangelo ci comanda di far le nostre scuse ai fratelli imbronciati, anche per un contrasto passato e leggero, e nato da cause di poco peso. E noi, per collere molto recenti e serie, per di più nate da nostra colpa, ostentiamo una noncuranza sprezzante! Che cosa sarà di noi? Gonfi di superbia diabolica e timorosi di umiliarci, non vogliamo riconoscere di essere responsabili della tristezza del fratello: il nostro spirito ribelle sdegna di sottomettersi al comando del Signore, e ci difendiamo col dire che quel comando non va preso alla lettera ed è impossibile a praticarsi. Ma quando giudichiamo impossibili i comandi del Signore, noi diventiamo, come dice l’Apostolo, « Non osservatori, ma giudici della legge » (Gc 4,11).

XVII - Quelli che si tengono obbligati ad essere pazienti verso i secolari più che verso i loro confratelli

C’è anche uno scandalo degno di esser pianto a calde lacrime. Alcuni fratelli sono stati offesi con una ingiuria e si presenta loro un amico che cerca di calmarli con le sue esortazioni. Il consolatore dice che non si deve mai concepire o serbare del risentimento verso un fratello, sta scritto infatti: « Chiunque si adira contro il fratello, sarà condannato in giudizio », e ancora: « Il sole non tramonti sul vostro sdegno ». A queste esortazioni essi rispondono: « Se mi avesse offeso un pagano o un secolare avrei certo dovuto sopportarlo, ma chi potrebbe sopportare che un fratello commetta un atto così grave, o dica parole così insolenti? ». Quasi che la pazienza si dovesse usare soltanto con gli infedeli e coi sacrileghi, e non con tutti indistintamente; come se la collera, condannabile verso i pagani, diventasse lecita verso i fratelli! Ma è vero, al contrario, che quando l’anima rimane ostinata nel suo rancore fa sempre peccato, chiunque sia che forma l’oggetto di quel sentimento. Quale ostinazione, anzi, quale stoltezza! Questa gente ha perduto persino il senso delle parole! Infatti, non è scritto: chi va in collera contro un estraneo sarà condannato in giudizio. Se fosse stato detto così dal Signore, ci poteva essere motivo per fare una eccezione riguardo a quelli che ci sono uniti nella comunanza di fede e di vita, come certi monaci pretendono di poter fare. Ma no; il Vangelo parla nel modo più chiaro: « Chiunque si adira con suo fratello, merita di essere condannato in giudizio ». Non c’è poi dubbio che il Signore ci insegna a stimare fratello ogni uomo. Ma se non si vuole andare tanto a fondo nel ricercare il valore di quel termine, non si potrà negare che in questo passo del Vangelo il nome « fratelli » indica i fedeli, coloro che condividono la nostra vita, prima e più che i pagani.

 

CAPUT XVIII. De his qui patientiam mentientes ad iracundiam fratres silentio accendunt.

Illud vero quale est, quod interdum patientes esse nos credimus, quia respondere contemnimus lacessiti; sed ita commotos fratres amara taciturnitate vel motu gestuque irrisorio subsannamus, ut eos magis ad iracundiam vultu tacito provocemus, quam tumida potuissent incitare convicia, in eo nos aestimantes minime apud Deum reos, quia nihil ore protulimus, quod nos notare hominum judicio aut condemnare potuisset? quasi vero apud Deum verba tantummodo, et non praecipue voluntas vocetur in culpam, et opus solum peccati, et non etiam votum ac propositum habeatur in crimine, aut hoc tantum quod unusquisque fecerit per loquelam, et non quod etiam per taciturnitatem facere studuerit, in judicio sit quaerendum. Non enim sola commotionis illatae qualitas, sed etiam propositum irritantis in noxa est. Et idcirco non quemadmodum jurgium fuerit excitatum, sed cujus conflagraverit vitio, verum judicis nostri perquiret examen. Affectus enim peccati, non ordo considerandus est admissi. Quid enim differt utrum quis gladio ipse peremerit fratrem, an aliqua ad mortem fraude compulerit, cum ipsius eum dolo vel crimine constet exstinctum? quasi vero caecum in praeceps manu propria non impegisse sufficiat, cum similiter reus sit qui pronum et imminentem jam foveae, cum potuerit revocare, contempserit; aut ille solus in crimine sit qui manu sua quempiam laqueaverit, et non etiam is qui vel paraverit vel ingesserit laqueum, vel certe cum potuerit, auferre noluerit. Ita igitur tacere nihil prodest, si idcirco nobis indicamus silentium, ut quod agendum convicio fuerat, hoc taciturnitate faciamus, assimilantes quosdam gestus, quibus et ille quem curare nos oportuit, vehementiori inardescat iracundia, et nos super haec omnia damno illius ac perditione laudemur; quasi vero non etiam ex hoc ipso quis criminosior sit, quod gloriam sibi de fratris voluerit perditione conquirere. Utrique enim tale silentium erit aequaliter noxium: quia sicut exaggerat in alterius corde tristitiam, ita in suo non permittit exstingui. Contra quos illa prophetae satis proprie est directa maledictio: Vae qui potat amicum suum, mittens fel suum, et inebrians ut aspiciat nuditatem ejus, repletus est ignominia pro gloria (Abacuc. II). Illud quoque quod per alium de talibus dicitur: Quia omnis frater supplantans supplantabit, et omnis amicus fraudulenter incedet, et vir fratrem suum irridebit, et veritatem non loquetur; extenderunt enim linguam suam quasi arcum mendacii et non veritatis (Jerem. IX). Saepe autem ficta patientia etiam acrius ad iracundiam quam sermo succendit, et atrocissimas verborum transcendit injurias maligna taciturnitas; leviusque tolerantur inimicorum vulnera, quam irridentium subdola blandimenta. De quibus proprie dicitur per prophetam: Molliti sunt sermones ejus super oleum, et ipsi sunt jacula (Psal. LIV). Et alibi: Verba callidorum mollia, haec autem feriunt in penetralia ventris (Prov. XXVI). Quibus etiam illud potest eleganter aptari: In ore pacem cum amico suo loquitur, et occulte ponit ei insidias (Jerem. IX), quibus tamen magis decipitur ipse qui decipit. Nam Qui praeparat ante faciem amici sui rete, circumdat illud pedibus suis; et qui fodit foveam proximo suo, incidit in eam ipse (Prov. XXVI). Denique cum magna ad comprehendendum Dominum cum gladiis et fustibus multitudo venisset, nemo in auctorem vitae nostrae illo cruentior exstitit parricida quam qui, cunctos ficto salutationis honore praeveniens, osculum subdolae charitatis ingessit. Cui Dominus, Juda, inquit, osculo Filium hominis tradis (Lucae XXII)? id est, amaritudo persecutionis atque odii tui hoc tegmen assumpsit quo dulcedo veri amoris exprimitur? Apertius quoque ac vehementius per prophetam vim hujus doloris exaggerat: Quoniam si inimicus meus, inquit, maledixisset mihi, sustinuissem utique; et si is qui oderat me, super me magna locutus fuisset, abscondissem me utique ab eo. Tu vero homo unanimis, dux meus et notus meus, qui simul mecum dulces capiebas cibos, in domo Dei ambulavimus cum consensu (Psal. LIV).

CAPUT XIX. De his qui ex indignatione jejunant.

Aliud quoque profanum tristitiae genus est, quod dignum commemoratione non fuerat, nisi id a nonnullis fratribus scissemus admitti, qui cum tristificati fuerint vel irati, ab ipso etiam pertinaciter abstinent cibo, ita ut, quod etiam dicere absque pudore non possumus, illi qui dum placidi sunt, refectionem cibi usque ad horam sextam vel, ut multum, nonam negant se posse differre, cum fuerint tristitia vel furore suppleti, jejunia etiam biduana non sentiant, tantamque inediae defectionem iracundiae satietate sustentent. In quo plane sacrilegii crimen evidenter incurrunt, jejunia scilicet, quae soli Deo pro humiliatione cordis et purgatione vitiorum sunt specialiter offerenda, pro diabolico tumore tolerantes. Quod tale est ac si orationes atque sacrificia non Deo, sed daemoniis deferant, illamque Mosaicam increpationem mereantur audire, Sacrificaverunt daemoniis, et non Deo, diis quos ignorabant (Deut. XXXII).

 

XVIII - Coloro che si fingono pazienti e provocano all’ira i loro fratelli

Altro errore è quello di stimarci pazienti perché talvolta non rispondiamo alcunché alle provocazioni che ci vengono rivolte. Invece di rispondere, mettiamo in ridicolo i fratelli inquieti, con un silenzio amaro, con qualche movimento o gesto canzonatorio; così, col nostro aspetto impassibile, li provochiamo alla collera più ancora che se parlassimo in tono offensivo. Noi crediamo di non essere colpevoli davanti a Dio perché non c’è uscita dalla bocca neppure una di quelle parole che gli uomini notano o disapprovano, ma ci sbagliamo. Agli occhi di Dio non hanno valore di colpa soltanto le parole, la volontà vale di più della parola. Che forse la colpa sta tutta nell’opera? Non sta piuttosto nell’intenzione e nel proposito malvagio? Non crederemo mica che il Signore, quando dovrà giudicarci, terrà conto soltanto di ciò che abbiamo fatto, e non di ciò che ci siamo proposti di fare? L’imputabilità non nasce soltanto da un fatto che muove all’ira il fratello, nasce anche dall’intenzione di muovere qualcuno all’ira. L’esame del nostro Giudice non andrà solo a cercare il modo in cui l’inimicizia è nata, ma cercherà anche per colpa di chi il fuoco si è acceso.

Bisogna soprattutto guardare al peccato in se stesso, allo sviluppo esterno che può avere. Che differenza c’è tra ammazzare uno con le proprie mani o condurlo a morte con qualche inganno? Quel che conta è che il fratello è morto! Non basta mica essersi astenuti dal sospingere il cieco in un precipizio per essere innocenti della sua morte. Se chi poteva farlo non lo ha trattenuto quando lo ha visto sull’orlo del precipizio, egli è responsabile della sua morte. Che forse è assassino soltanto colui che impicca con le proprie mani? Non Io è anche chi gli prepara o gli presenta il capestro, o almeno non si sforza di strapparglielo?

Similmente, non vale nulla tacere, se ci imponiamo il silenzio per ottenere con quello lo stesso effetto che s’otterrebbe con parole offensive; e se oltre a ciò compiamo dei gesti ipocriti che aumenteranno l’ira di colui che avremmo dovuto placare. Il colmo della colpa sarebbe se da questo contegno ipocrita ci attendessimo le lodi degli uomini.

Il silenzio descritto nel nostro esempio è dannoso a tutte e due le parti: fa crescere l’ira nel cuore del prossimo e non la estingue nel cuore nostro. A coloro che agiscono così si rivolge la maledizione del profeta: « Guai a colui che dà da bere al suo amico mescendogli il suo fiele e ubriacandolo, affine di godere lo spettacolo della sua nudità! Si riempie di ignominia anziché di gloria » (Ab 2,15-16). E un altro profeta così parla di uomini simili: « Ogni fratello è pronto a imbrogliare il fratello e ogni amico procede fintamente. Gli uni gabbano gli altri e non parlano con verità » (Ger 9,4-5), « Vibrano infatti la loro lingua come arco di menzogna e non di verità » (Ger 9,3).

Spesso una finta pazienza eccita alla collera più assai delle parole offensive; un silenzio sprezzante è più grave delle più gravi ingiurie: si sopportano meglio le percosse di un nemico dichiarato che la falsa dolcezza d’un derisore. Di questi tipi così parla il profeta: « Più blande dell’olio sono le sue parole e sono invece pugnali » (Sal 54,22), e altrove: « Le parole dei mentitori sono lievi, ma penetrano sino in fondo alle viscere » (Pr 26,22). Si può applicare al caso anche un altro testo della Scrittura: « Nella bocca ha proteste di pace con l’amico, e con l’interno gli pone le insidie » (Ger 9,8). Ma quello più ingannato è sempre il mentitore, perché sta scritto che: « Chi tende la rete davanti al suo amico, ci rimane preso » (Pr 29,5). e « Chi scava la fossa per il suo prossimo, ci cade dentro » (Pr 26,27).

Venne una grande moltitudine con spade e bastoni a prendere il Signore; fra tutta quella turba nessuno fu tanto crudele parricida contro l’Autore della nostra vita, quanto colui che stava alla testa, allo scopo di offrire al Maestro un saluto e un segno d’affetto: il bacio d’un amore perfido. E il Signore gli disse: « Giuda, con un bacio, tradisci il Figlio dell’uomo? » (Lc 22,48). Cioè: per coprire l’amaro della persecuzione e dell’odio tu prendi il segno che è fatto per manifestare la dolcezza del vero amore? Ma lo stesso Signore nostro manifesta più apertamente e amaramente la violenza del suo dolore per bocca del profeta: « Se un nemico mi avesse insultato lo avrei sopportato, e se uno che mi odia avesse insolentito contro di me, mi sarei forse guardato da lui. Ma sei stato tu, un’anima stessa con me, mia guida e mio intimo, tu che insieme con me prendevi il dolce cibo, e d’accordo procedevamo nella casa del Signore » (Sal 54,13-15).

XIX - Quelli che digiunano per sdegno

C’è poi una nuova specie di tristezza sacrilega, che io non ricorderei se non sapessi che molti fratelli ne sono presi. Quando sono tristi o adirati, si tengono per molto tempo lontani dal cibo. Lo dico con vergogna: questi uomini, finché sono calmi assicurano di non poter protrarre il loro pasto al di là dell’ora di sesta o, tutt’al più, al di là dell’ora nona, quando invece la tristezza o l’ira li riempie, non sentono più il digiuno per due giorni. L’astensione del cibo dovrebbe annientarli, invece no: la sopportano perché si nutrono di rabbia. E questo è senza dubbio un peccato' di sacrilegio: essi sopportano... ad onore del diavolo, quei digiuni che si devono offrire a Dio solo, per umiliare il cuore e purificarlo dai vizi. Questo equivale a presentare i nostri sacrifici e le nostre preghiere non a Dio, ma ai demoni. Così si diventa meritevoli del rimprovero di Mosè: « Sacrificarono ai demoni e non a Dio, a dèi che prima non conoscevano » (Dt 32,17).

 

CAPUT XX. De quarümdam simulata patientia qua maxillam verberandam alteram ingerunt.

Non ignoramus etiam aliud dementiae genus, quod sub colore fucatae patientiae in nonnullis fratribus invenitur, quibus parum est jurgia commovisse, nisi etiam instigatoriis verbis ut feriantur irritent; cum utique [ Lips. in marg. itaque] vel levi fuerint impulsione contacti, aliam quoque partem corporis ingerunt verberandam, quasi per hoc perfectionem mandati illius impleturi quo dicitur: Si quis te percusserit in dexteram maxillam tuam, praebe illi et alteram (Matth. V), Scripturae vim ac propositum penitus ignorantes; evangelicam namque patientiam per iracundiae vitium exercere se putant. Ob quod radicitus excidendum, non solum vicissitudo talionis et concertandi irritatio prohibetur, sed etiam furorem verberantis geminatae jubemur injuriae tolerantia mitigare.

CAPUT XXI. Interrogatio, quemadmodum Christi mandatis obtemperantes evangelica perfectione fraudentur.

Germanus: Quomodo reprehendendus est is qui praecepto satisfaciens evangelico, non solum non intulit talionem, sed etiam paratus est ut sibi geminetur injuria?

CAPUT XXII. Responsio, quod Christus non solum facti, sed etiam voluntatis inspector sit.

Joseph: Sicut paulo ante dictum est (Cap. 18), non solum res ipsa quae geritur, sed etiam qualitas mentis et propositum facientis est intuendum. Et idcirco si id quod ab unoquoque perficitur, quo animo fiat, vel quo procedat affectu, intimo perpendatis cordis examine, videbitis patientiae lenitatisque virtutem nequaquam posse contrario spiritu, id est, impatientiae ac furoris impleri. Siquidem Dominus noster atque Salvator ad profundam nos instruens patientiae lenitatisque virtutem, id est, non ut labiis eam tantummodo praeferamus, sed ut intimis animae nostrae abditis recondamus, istam nobis perfectionis evangelicae formulam dedit, dicens: Si quis te percusserit in dexteram maxillam tuam, praebe illi et alteram (Matt. V), subauditur sine dubio, dexteram. Quae alia dextera, nisi interioris hominis, ut ita dixerim, facies potest accipi. Per hoc omnem penitus iracundiae fomitem de profundis cupiens animae penetralibus exstirpare, id est, ut si exterior dextera tua impetum ferientis exceperit, interior quoque homo per humilitatis assensum dexteram suam praebeat verberandam, compatiens exterioris hominis passioni, et quodammodo succumbens atque subjiciens suum corpus ferientis injuriae, ne exterioris hominis caede vel tacitus intra moveatur interior. Videtis ergo longe eos ab evangelica perfectione distare, quae patientiam docet, non verbis, sed interiore cordis tranquillitate servandam; eamque a nobis, cum quid adversi evenerit, ita praecipit custodiri, ut non solum nosmetipsos alienos ab iracundiae perturbatione servemus, sed etiam illos qui suo commoti sunt vitio, succumbentes injuriis eorum, ad placiditatem expleta caedis satietate cogamus, furorem eorum nostra lenitate vincentes. Et ita etiam illud Apostolicum implebimus: Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII). Quod ab illis impleri non posse certissimum est, qui illo spiritu ac tumore verba lenitatis atque humilitatis emittunt, ut non solum non mitigent conceptum furoris incendium, sed magis illud tam in suo quam in fratris commoti sensu faciant conflagrare, qui tamen etiam si possent aliquo modo ipsi mites ac placidi permanere, nec sic quidem aliquos justitiae fructus caperent, cum damno proximi patientiae sibi gloriam vindicantes, et per hoc ab illa Apostolica charitate omnimodis alieni, quae non quaerit quae sua sunt (I Cor. XIII), sed ea quae aliorum, non etiam ita divitias concupiscit, ut lucrum sibi de proximi faciat detrimento, nec acquirere quidquam cum alterius desiderat nuditate.

 

XX - Coloro che dissimulano pazienza e presentano a chi li percuote l’altra guancia

Non sfugge un altro genere di stoltezza che si ritrova in alcuni monaci, i quali affettano una falsa pazienza. Essi non si accontentano di provocare all’ira i loro fratelli, li spingono fino al punto di venire alle mani. Poi, appena sono stati leggermente toccati, si voltano e presentano l’altra parte del loro corpo, come se realizzassero così la perfezione del comando divino: « Se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli l’altra » (Mt 5,39). Ma essi non hanno capito per nulla questo testo del Vangelo, perché credono di praticare la pazienza evangelica abbandonandosi al vizio dell’ira.

Proprio per estirpare fin dalle radici il vizio dell’ira, il Signore non si accontentò di abrogare la legge del taglione, e le provocazioni della rissa, ma ci comandò pure di mitigare il furore di chi ci percuote con la nostra costanza a sopportare doppia ingiuria.

XXI - Come è possibile obbedire ai comandi del Signore e non acquistare la perfezione evangelica

Germano. Come si fa a condannare uno che obbedisce al comando del Vangelo e, oltre a non praticare la legge del taglione, si mostra pronto a sopportare una seconda ingiuria?

XXII - Il Signore non guarda soltanto all’atto, ma anche all’intenzione

Giuseppe. A questa obiezione ho già risposto quando ho detto che non si deve considerare soltanto l’atto materiale, ma anche la disposizione d’animo e l’intenzione di chi agisce. Considerate attentamente in cuor vostro i sentimenti che dirigono le azioni umane, esaminate da quali moti esse derivano', e vi accorgerete che la virtù della pazienza o della dolcezza, non si può esercitarla con lo spirito opposto, cioè con lo spirito d’impazienza e d’ira.

Il Signore e Salvatore nostro ci ha voluto formare ad una virtù sincera, ad una virtù che non stesse soltanto sulle nostre labbra, ma dimorasse nel santuario più intimo dell’anima nostra. Dice dunque il Signore nella sua formula di perfezione evangelica: « Se uno ti percuote sulla guancia destra, mostragli l’altra », ma qui dobbiamo sottintendere l’altra destra. L’altra destra non si può poi intendere se non si riferisce alla faccia dell’uomo interiore.

Il Signore desidera pertanto estirpare dal profondo dell’anima ogni fuoco d’ira. Vuole che quando l’uomo esteriore si trova ad essere percosso sulla guancia destra, dal colpo di un ingiusto aggressore, il nostro uomo interiore presenti anch’egli la sua destra alla percossa, consentendo umilmente all’offesa. L’uomo interiore deve partecipare al dolore dell’uomo esteriore sottomettendo, abbandonando, in certo modo, il corpo all’ingiuria.

Insomma: bisogna che l’uomo interiore non si adiri, neppure leggermente, del colpo ricevuto dall’uomo esteriore.

Da questo potete vedere come e quanto, quei monaci dei quali abbiamo parlato, sono lontani dalla perfezione evangelica, la quale insegna a conservare la pazienza non a parole, ma con la tranquillità intima del cuore. Ed ecco come ci ordina di comportarci quando avviene qualcosa di contrario: non basta tenersi lontani dai movimenti violenti dell’ira, dobbiamo anche — nell’accettare l’ingiuria — cercare di calmare coloro che si adirano per loro propria colpa, vincere l’ira con la nostra dolcezza, ottenere che ritrovino la calma mentre ci percuotono.

Così osserveremo il comando dell’Apostolo che dice: « Non lasciarti vincere dal male, ma vinci nel bene il male » (Rm 12,21). Ma di ciò non sono capaci coloro che pronunciano parole di dolcezza e d’umiltà in spirito di iracondia e di superbia. Invece di spegnere in se stessi il fuoco dell’ira, essi avvivano le fiamme nel loro cuore e in quello del fratello. Anche ammettendo che riescano, per quanto personalmente li riguarda, a conservare in qualche modo la dolcezza della pace, non ne trarranno alcun frutto di giustizia, perché cercano di ottenere la gloria della pazienza a danno del prossimo. In tal modo si rendono totalmente estranei alla carità raccomandata dall’Apostolo, la quale « non cerca il proprio interesse » (1 Cor 13,5), ma quello degli altri. Essa non desidera arricchirsi a danno degli altri, non vuole acquistare alcunché spogliandone il primo possessore.

 

CAPUT XXIII. Quod ille sit fortis et sanus qui succumbit alterius voluntati.

Sciendum sane generaliter illum partes agere fortiores qui voluntati fratris suam subjicit voluntatem, quam eum qui in defendendis suis definitionibus ac tenendis pertinacior invenitur. Ille enim sustentans ac tolerans proximum, sani ac validi, hic autem infirmi et quodammodo aegrotantis obtinet locum, quem ita palpari necesse est ac foveri interdum, ut etiam a rebus necessariis pro ejus quiete ac pace salubre sit aliquid relaxari. In quo quidem non se credat quis aliquid de sua perfectione minuisse, tametsi quiddam de proposita districtione condescendendo summiserit, sed econtrario multo amplius se pro longanimitatis et patientiae bono noverit acquisisse. Apostolicum namque praeceptum est: Vos qui fortes estis, imbecillitates infirmorum sustinete (Rom. XV); et: Alterutrum onera vestra portate, et sic adimplebitis legem Christi (Galat. VI). Numquam enim infirmus sustentat infirmum, nec tolerare poterit aut curare languentem is qui similiter aegrotat; sed ille medelam tribuit imbecillo, qui imbecillitati ipse non subjacet. Merito enim ei dicitur: Medice, cura teipsum (Lucae IV).

CAPUT XXIV. Quod infirmi injuriosi sint, et injurias ferre non possint.

Notandum etiam illud est, infirmorum naturam esse semper ejusmodi, ut prompti quidem ac faciles sint ad contumelias ingerendas et jurgia conserenda, ipsi vero ne minima quidem injuriae velint suspicione contingi: cumque inferentes proterva convicia, inconsiderata superequitent libertate, ne parva quidem atque levissima sustinere contenti sunt. Ideoque, secundum praedictam seniorum sententiam, charitas stabilis atque indirupta non poterit perdurare, nisi inter viros ejusdem virtutis atque propositi. Scindi etenim necesse est eam quocumque tempore, quantalibet fuerit cautione ab altero custodita.

CAPUT XXV. Interrogatio, quomodo fortis sit qui non semper sustentat infirmum.

Germanus: In quo ergo laudabilis perfecti viri potest esse patientia, si tolerare non praevalet semper infirmum?

CAPUT XXVI. Responsio, quod infirmus se non sinat sustentari.

Joseph: Nec ego dixi quod illius qui fortis est ac robustus virtus tolerantiaque vincenda sit; sed quod infirmi pessima valetudo, illius qui sanus est sustentatione nutrita, atque in deterius quotidie prolabens, generatura sit causas ob quas vel ipse ultra non debeat sustineri; vel certe patientiam proximi notam ac deformationem impatientiae suae esse conjiciens, abire quandoque mavult quam semper magnanimitate alterius sustineri. Haec ergo ab his qui sodalitatis affectum cupiunt inviolabilem custodire, prae omnibus observanda censemus, ut primum quibuslibet injuriis lacessitus, non solum labia, sed etiam profunda pectoris sui monachus tranquilla custodiat; quae tamen si senserit vel tenuiter fuisse turbata, omni semetipsum taciturnitate contineat, et illud quod Psalmista commemorat diligenter observet: Turbatus sum et non sum locutus (Psalm. LXXVI). Et: Dixi, custodiam vias meas, ut non delinquam in lingua mea, posui ori meo custodiam, dum consisteret peccator adversum me; obmutui, et humiliatus sum, et silui a bonis (Psal. XXXIII); nec praesentem considerans statum, ea proferat quae ad horam turbulentus suggerit furor, dictatque animus exasperatus, sed vel recolat gratiam praeteritae charitatis, vel reformandae pacis redintegrationem mente prospiciat, eamque, velut continuo reversuram, etiam in ipso commotionis tempore contempletur. Dumque se ad dulcedinem servat concordiae mox futurae, amaritudinem praesentium non sentiet jurgiorum, et ita ea potissimum respondebit, e quibus vel a semetipso reus fieri vel ab alio reprehendi, restituta charitate, non possit; sicque adimplebit propheticum illud eloquium: In ira, misericordiae memor eris (Abacuc. III).

 

XXIII - È forte e sano chi sa piegarsi alla altrui volontà

Generalmente dimostra di essere più forte chi sottomette la sua volontà, a quella del fratello, che non colui il quale si mostra ostinato a difendere e conservare la sua volontà. Il primo, per il fatto che sa sopportare paziente- mente il prossimo, merita un posto nella schiera degli uomini forti e valorosi; il secondo è da annoverarsi fra i deboli e forse anche tra gli ammalati, perché ha bisogno di essere accarezzato e coccolato. Talvolta sarà opportuno astenersi anche dalle cose necessarie per farlo stare tranquillo e in pace. E quando per compiacere a un debole il monaco tralascerà qualche pratica, non pensi di nuocere alla sua personale perfezione. Anzi, la longanimità e la pazienza lo faranno molto progredire. Dice infatti l’Apostolo: « Voi che siete forti, sopportate le debolezze dei deboli » (Rm 15,1) e ancora: « Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo » (Gal 6,2).

Mai un debole può dar forza a un debole, o un malato può curare e guarire un malato. Solo chi non è debole può portare aiuto a chi è vinto dalla debolezza. Altrimenti c’è ragione di dirgli: « Medico, cura te stesso » (Lc 4,23).

XXIV - I deboli sono pronti all’ingiuria ma non sopportano di essere ingiuriati

C’è da notare anche un altro particolare che è proprio dei deboli. Sono pronti e facili all’offesa, facili a far nascere litigi; essi però non vogliono' essere sfiorati neppure dall’ombra dell’ingiuria. Pieni di insolenza, trattano tutti dall’alto in basso, usano parole e atti superbi, ma dopo tanta libertà che si sono presi, non possono sopportare un’offesa o una mancanza di riguardo leggerissima.

Così siamo invitati a tornare alla sentenza degli Anziani, i quali dicevano che l’amicizia non può durare stabile e continua fino in fondo, se non tra uomini di eguale virtù e dello stesso sentimento. Altrimenti un giorno o l’altro dovrà rompersi, anche se uno degli amici avrà fatto grandi sforzi per conservarla.

XXV - Come può essere forte chi non sa sopportare sempre un debole?

Germano — Come può essere degna di lode la pazienza dell’uomo perfetto, se quello non riesce a sopportare il debole fino in fondo?

XXVI - Il debole non permette che lo si sopporti

Giuseppe — Io non ho detto che la pazienza dell’uomo forte e robusto deve lasciarsi vincere, ma le cattive disposizioni del debole, anche se curate da parte del forte, andranno crescendo di giorno in giorno, finché non potranno' più essere sopportate. Oppure sarà il debole stesso, che, vedendo nella pazienza del prossimo una condanna alla sua impazienza, preferirà allontanarsi, piuttosto che sentirsi continuamente sopportato dalla pazienza dell’amico.

Ecco ora la legge che a mio avviso devono osservare tutti coloro che desiderano conservare immutato il sentimento dell’amicizia. Innanzi tutto, quali che siano le offese che lo colpiscono, il monaco conserverà la pace; non solo sulle labbra, ma nel fondo del cuore. Se si sente anche minimamente turbato, rimanga in silenzio e osservi diligentemente quanto dice il salmista: « Mi son turbato, ma non ho parlato » (Sal 76,5). E ancora: « Dissi: custodirò le mie vie, per non peccare con la mia lingua. Posi alla mia bocca un fermaglio, mentre stava l’empio dinanzi a me. Ammutolii e mi umiliai, e tacqui più del conveniente » (Sal 38, 2-3).

Egli non deve fermarsi a considerare il presente, non deve lasciarsi uscire dalle labbra ciò che gli suggerisce la collera, ciò che gli detta il cuore esasperato. Deve invece ripensare nel cuore la grazia della carità d’un tempo; oppure deve rivolgere il suo sguardo all’avvenire, per vedere la rappacificazione come già avvenuta, e state a contemplarla, ora, mentre sente i moti dell’ira, sicuro che presto dovrà tornare.

Mentre si tiene pronto per la dolcezza della pace vicina, non sentirà l’amarezza della discordia presente e darà una risposta tale da non doversene pentire lui e da non poterne essere rimproverato dal fratello, quando l’amicizia sarà ristabilita. In tal modo metterà in pratica il consiglio del profeta: « Nell’ira ricordati della misericordia » (Ab 3,2 – LXX).

 

CAPUT XXVII. Quemadmodum sit iracundia comprimenda.

Cohibere ergo nos oportet omnes iracundiae motus, et gubernatrice discretione moderari, ne in illud quod a Salomone damnatur, praecipiti furore raptemur: Totam iram suam profert stultus, sapiens autem dispensat per partes (Prov. XXIX): id est, stultus quidem ad ultionem sui, irae perturbatione succenditur, sapiens autem paulatim eam maturitate consilii ac moderationis extenuat et expellit. Tale est et illud quod ab Apostolo dicitur, Non vosmetipsos vindicantes, charissimi, sed date locum irae (Rom. XII): id est, nequaquam ad vindictam iracundia cogente tendatis, sed date locum irae: hoc est, non sint corda vestra sic impatientiae ac pusillanimitatis angustiis coarctata, ut violentam commotionis procellam, cum irruerit, sustinere non possint; sed dilatamini in cordibus vestris, suscipientes adversos iracundiae fluctus in illis extentis sinibus charitatis, quae omnia suffert, omnia sustinet (I Cor. XIII): et ita mens vestra amplitudine longanimitatis ac patientiae dilatata, habeat in se consiliorum salutares recessus, in quibus receptus quodammodo atque diffusus teterrimus iracundiae fumus protinus evanescat. Vel certe ita intelligendum est: Damus locum irae, quotiens commotioni alterius humili atque tranquilla mente succumbimus, et quodammodo dignos nos qualibet injuria profitentes, impatientiae saevienti obsequimur. Caeterum hi qui ita sensum apostolicae perfectionis inclinant, ut locum irae illos dare existiment, qui ab irascente discedunt, videntur mihi dissensionum fomitem non abscindere, sed nutrire. Nisi enim iracundia proximi humili statim satisfactione vincatur, provocat eam fugiens potius quam declinat. Illud quoque huic simile est quod Salomon ait: Noli festinare in spiritu tuo irasci, quia ira in sinu insipientum requiescit (Eccle. VII); et: Noli procurrere in rixam cito, ne poenitat te in novissimo (Prov. XXV). Neque enim ita festinationem rixae vel iracundiae culpat, ut earumdem approbet tarditatem. Similiter et illud suscipiendum est: Stultus eadem ipsa hora pronuntiat iram suam, occultat autem ignominiam suam astutus (Prov. XII). Non enim ignominiosam iracundiae passionem ita a sapientibus occultari debere decernit, ut iracundiae velocitatem culpans, non prohibeat tarditatem: quam utique, si per necessitatem humanae infirmitatis irruerit, ideo censuit occultandam, ut dum ad praesens sapienter obtegitur, in perpetuum deleatur. Haec enim natura est irae, ut dilata languescat et pereat, prolata vero magis magisque conflagret. Dilatanda ergo atque amplianda sunt pectora, ne angustiis pusillanimitatis arctata, iracundiae turbulentis aestibus oppleantur, et recipere secundum prophetam illud nimis latum mandatum Dei angusto corde nequeamus, nec dicere cum propheta: Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatares cor meum (Psal. CXVIII). Nam quia longanimitas sapientia sit, evidentissimis Scripturae testimoniis edocemur: Longanimis enim vir nimius in prudentia, pusillanimis autem valde insipiens est (Prov. XXIV). Et idcirco de illo qui sapientiae donum laudabiliter a Domino postulavit Scriptura commemorat: Et dedit Dominus Salomoni sapientiam prudentiamque multam nimis, et latitudinem cordis, quasi arenam maris innumerabilem (III Reg. IV).

CAPUT XXVIII. Amicitias conjuratione initas firmas esse non posse.

Illud quoque multis est experimentis saepissimo comprobatum, nullo modo eos qui amicitiarum foedus conjurationis iniere principio, indiruptam potuisse servare concordiam, sive quod eam non pro desiderio perfectionis, nec pro apostolicae charitatis imperio, sed pro amore terreno, et per necessitatem ac vinculum pacti retinere conati sunt; sive quod ille callidissimus inimicus, ut eos praevaricatores sui faciat sacramenti, celerius ad irrumpenda amicitiarum vincula praecipitat. Certissima ergo est prudentissimorum virorum illa sententia, veram concordiam et individuam societatem, nisi inter emendatos mores, ejusdemque virtutis ac propositi viros stare non posse. Haec de amicitia beatus Joseph spiritali narratione disseruit, nosque ad custodiendam sodalitatis perpetuam charitatem ardentius incitavit.

 

XXVII - Come reprimere l’ira

Dobbiamo dunque reprimere tutti i moti d’ira e regolarli con la regola della discrezione, affinché non siamo trasportati a quell’eccesso di cui parla Salomone quando dice: « Lo stolto spande tutta la sua collera, il sapiente la distribuisce in parti » (Pr 29,11 – LXX). Cioè: lo stolto si infiamma alla vendetta sotto l’impulso dell’ira, il saggio si domina e fa sbollire la sua ira a poco a poco, con la maturità del suo consiglio e con la sua moderazione.

La stessa cosa ci insegna l’Apostolo: « Non vi vendicate da voi stessi, ma date luogo all’ira » (Rm 12,19). Cioè: non vi affrettate a vendicarvi, sotto l’accecamento della passione, ma lasciate passare la collera. O più chiaramente ancora: non permettete che il vostro cuore resti stretto- nelle angustie dell’impazienza e della pusillanimità, altrimenti non potrà fronteggiare la tempesta violenta dell’ira quando si sollevi. Allargatelo piuttosto e accogliete i flutti avversi dell’ira negli spazi allargati della carità, che tutto sopporta e tutto sostiene.

La vostra anima, così dilatata dalla larghezza della longanimità e della pazienza, abbia in sé una specie di tempio del consiglio, nel quale il fumo nerissimo dell’ira si spanda e si dissolva. Ma la parola dell’Apostolo si può intendere anche in altro modo. Noi diamo spazio alla collera tutte le volte che ci pieghiamo con anima umile e tranquilla davanti all’ira del fratello e riconoscendoci in qualche modo meritevoli di tutte le ingiurie, cediamo all’impazienza imperversante dell’altro.

Infine ci sono quelli che intendono le parole dell’Apostolo: « Date spazio alla collera », come un consiglio di allontanarsi da colui che si è adirato. Ma in questo modo i motivi di avversione si covano, non si estinguono: così almeno io la penso. Bisogna vincere la collera del prossimo subito, per mezzo di un’umile soddisfazione: la fuga serve più ad accrescere che ad estinguere l’ira.

Ecco un’altra parola di Salomone che ben s’intona con le precedenti: « Non ti affrettare in cuor tuo all’ira, perché l’ira riposa nel seno degli stolti » (Qo 7,9). E ancora: « Non esser pronto alla rissa per non avere da pentirtene alla fine » (Pr 25,8).

Se la sacra Scrittura condanna le collere immediate, non si dovrà per questo dire che approvi quelle lente. No! A quanto detto sopra bisogna aggiungere un’altra sentenza di Salomone che dice: « Lo stolto manifesta immediatamente la sua collera, ma l’uomo sapiente nasconde la sua vergogna » (Pr 12,16). Da questo passo consegue che Salomone condanna certamente la facilità d’inquietarsi, ma non approva tuttavia il vizio che si dipana lentamente. Dice soltanto che l’ira deve rimanere nascosta, se per una fatalità inerente alla debolezza umana, si produce in noi. Va tenuta nascosta e compressa, affinché si dilegui completamente. Questa infatti è la natura dell’ira: compressa, s’illanguidisce e muore; liberata, cresce maggiormente.

Dobbiamo dunque allargare i nostri cuori, affinché, pressati dalle angustie della pusillanimità, non abbiano a rimanere soverchiati dai turbolenti marosi dell’ira. Non si può ricevere in un cuore stretto il comando di Dio che è larghissimo; non si può, senza dilatare il cuore, cantare col profeta: « La via dei tuoi precetti io corro, quando tu allargherai il mio cuore » (Sal 118,32).

Che la pazienza è saggezza, ci vien ripetuto una infinità di volte nella sacra Scrittura: « L’uomo paziente è molto prudente, l’impaziente è stoltissimo » (Pr 14,29). Perciò, di colui che domandò a Dio la sapienza, la sacra Scrittura dice: « Dio diede a Salomone grande sapienza e prudenza e una larghezza di cuore incommensurabile, come la rena che sta sulla riva del mare » (1 Re 4,29).

XXVIII - Le amicizie nate da patti segreti non sono durature

Ecco un’altra cosa che l’esperienza ha spesso dimostrato vera: coloro che hanno costruito la loro amicizia sulla base di un giuramento o di un patto segreto, non sono mai vissuti nella concordia. E questo dipende da due motivi: o perché si sforzano di conservare quell’amicizia non col desiderio della perfezione e per il comando della carità apostolica, ma per un amore terrestre e per la necessità del patto giurato; oppure l’amicizia non durò perché l’astuto nemico li fece correre precipitosamente verso la rottura, allo scopo di farli diventare inadempienti al giuramento prestato.

È dunque certissima la sentenza tramandataci da uomini pieni di prudenza: la vera concordia, l’amicizia indissolubile, può trovarsi soltanto in una vita senza macchia e fra persone della stessa virtù e degli stessi ideali.

Questa fu la conferenza spirituale che il beato Giuseppe ci fece sul tema dell’amicizia e c’infervorò con più vivo ardore a difendere sempre quella carità che già ci univa.

 


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24 maggio                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net