LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
XVI
PRIMA CONFERENZA DELL'ABATE GIUSEPPE
L’AMICIZIA
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. La prima domanda che ci rivolse l’abate Giuseppe.
II. Discorso del vecchio abate sulle amicizie infedeli.
III. Da dove nasce un’amicizia indissolubile.
IV. Domanda: se sia bene compiere qualche azione utile, anche contro il
desiderio del fratello.
V. Risposta: l’amicizia duratura può esistere soltanto tra i perfetti.
VI. In qual modo un’amicizia si può conservare inviolabile.
VII. Niente va apprezzato più della carità, niente va disprezzato più dell’ira.
VIII. Per qual motivo nascono le divisioni fra gli uomini spirituali.
IX. Bisogna troncare le cause spirituali che generano discordia.
X. Il modo migliore per cercare la verità.
XI. Chi si fida del proprio giudizio cadrà infallibilmente nelle illusioni del
diavolo.
XII. Perché non si debbono disprezzare gli inferiori nelle Conferenze.
XIII. La carità non è soltanto una cosa divina, ma è Dio stesso.
XIV. I gradi della carità.
XV. Coloro che dissimulano aumentano così la commozione propria e quella dei
fratelli.
XVI. Dio rifiuta l’offerta delle nostre preghiere se abbiamo inimicizia con
qualche fratello.
XVII. Quelli che si tengono obbligati ad essere pazienti verso i secolari più
che verso i loro confratelli.
XVII. Coloro che si fingono pazienti e provocano all’ira i loro fratelli.
XIX. Quelli che digiunano per sdegno.
XX. Coloro che simulano pazienza e presentano a chi li percuote l’altra guancia.
XXI Come è possibile obbedire ai comandi del Signore e non acquistare la
perfezione evangelica?
XXII. Il Signore non guarda soltanto all’atto ma anche all’intenzione.
XXIII. È forte e sano chi sa piegarsi all’altrui volontà.
XXIV. I deboli son pronti all’ingiuria ma non sopportano di essere ingiuriati.
XXV. Come può essere forte chi non sa sopportare sempre un debole?
XXVI. Il debole non permette che lo si sopporti.
XXVII. Come reprimere l’ira.
XXVIII. Le amicizie nate da patti segreti non sono durature.
I
-
La prima domanda che ci rivolse l’abate Giuseppe
Il beato Giuseppe, del quale ora prendo a spiegare gli insegnamenti e i
precetti, era uno dei tre vecchi monaci dei quali ho parlato nella prima di
queste conferenze.
Veniva da famiglia illustre ed era uno dei notabili della sua città natale, cioè
di Tmuis, in Egitto. Aveva imparato a parlare molto bene non solo la lingua del
suo paese, ma anche il greco; così, non solo con noi, ma anche con altri che
ignoravano completamente la lingua egiziana, poteva esprimersi con molta
eleganza, senza ricorrere, a somiglianza degli altri, ad un interprete.
Avendo conosciuto il nostro desiderio di udire i suoi insegnamenti, prima di
tutto ci domandò se eravamo fratelli. Quando sentì che lo eravamo veramente, ma
non per nascita, sì bene secondo lo spirito, perché fin dagli inizi della vita
monastica una inseparabile unione ci aveva avvinti, sia nel viaggio — che
insieme avevamo intrapreso per formarci nella milizia spirituale — sia negli
esercizi del monastero, così prese a parlare.
II -
Discorso del vecchio abate sulle amicizie infedeli
Molte sono le forme d’amicizia e d’affetto che uniscono gli uomini nei legami
dell’amore.
Per molti è stata una raccomandazione a metterli in contatto, poi fra loro è
nata l’amicizia. Alcuni si son legati in amicizia nell’occasione di qualche
contratto o convenzione che importava un dare e un ricevere. Altri hanno fatto
amicizia per causa delle somiglianze e dei contatti che c’erano fra loro, o
negli affari, o nella vita militare, oppure nel lavoro e nella professione.
L’unione amichevole pone tanta dolcezza nel cuore anche delle persone meno
sensibili, che gli stessi banditi, i quali vivono nelle foreste, nelle montagne
e trovano la loro gioia nel versare sangue umano, si mostrano pieni
d’attaccamento e di premura per i complici dei loro misfatti.
C’è un’altra specie d’affetto che nasce dalla natura e dalla legge del sangue:
per essa sono preferiti a tutti gli altri i membri della stessa razza, lo sposo1
e la sposa, i genitori, i fratelli, i figli. Questa forma di unione non si
riscontra soltanto tra gli uomini, ma anche presso gli uccelli e gli altri
animali. Tutti gli animali, infatti, difendono i loro piccoli con tale slancio
di naturale affetto che spesso non temono di esporsi per quelli a gravi pericoli
e anche alla morte. Perfino le belve feroci, i serpenti velenosi, gli uccelli
rapaci, che per la loro ferocia o il loro mortale veleno sono tenuti lontani da
tutti gli altri esseri, — e valgano come esempi il basilisco, il rinoceronte, il
grifo — benché al solo vederli rappresentino per tutti un pericolo, tuttavia non
cessano di vivere in pace fra loro e senza nuocersi; e ciò in forza della loro
comune origine e dei vincoli che da quella derivano. Ma tutte queste forme
d’affetto, per il fatto stesso che sono comuni ai buoni e ai cattivi, alle
bestie feroci e ai serpenti, è certo che non possono durare per sempre. Sono
spesso rotte dalla distanza, dalla dimenticanza che nasce dal tempo, da un
accordo verbale, dalla stipulazione di un contratto, da una questione
d’interessi. Queste unioni, che erano nate da legami diversi, come ad esempio:
desiderio di guadagno, passione, sangue, relazioni varie, si spezzano anche con
facilità, alla prima occasione che si presenti.
III -
Da dove nasce una amicizia indissolubile
Fra le diverse specie di amicizia se ne trova una sola che sia indissolubile:
quella che non si fonda sul favore derivante da una raccomandazione, o sulla
grandezza dei servigi e dei favori ricevuti, né sui contratti, o in una
necessità della natura, ma nella somiglianza della virtù. Questa, io dico, è
l’amicizia che gli avvenimenti non sciolgono, che le lontananze nel tempo e
nello spazio non possono rompere, che neppure la morte riesce ad infrangere.
Questo è il vero e indissolubile affetto che cresce col crescere simultaneo
delle virtù che ornano i due amici; il nodo di questa amicizia, stretto che sia,
non si rompe, né per la diversità dei desideri, né per la lotta delle volontà
contrarie.
Nella mia lunga esperienza io ho conosciuto molti, i quali, dopo essersi legati
in amicizia per amore di Cristo, non hanno saputo conservare per sempre il
vincolo della loro unione. Il principio dell’amicizia era buono, ma non seppero
conservare lo stesso impegno a mantenere il proposito fatto. La loro unione fu
di quelle che durano una sola stagione perché non si alimentava ad una virtù
d’ugual natura e intensità nell’uno e nell’altro; resisteva invece per la
pazienza di uno solo dei due. Il destino di una tale amicizia, anche se un amico
si dimostra eroicamente deciso a mantenerla, è quello di rompersi per la
pusillanimità dell’altro. Quantunque i forti siano disposti a sopportare le
debolezze di coloro che cercano con molta tiepidezza la sanità della perfezione,
sono alla fine gli stessi deboli a non sopportare se stessi. Costoro infatti
hanno in sé la causa di un turbamento che mai li lascia tranquilli. Assomigliano
a certi ammalati che tutti conosciamo, i quali attribuiscono al cuoco o al
cameriere i disturbi del loro stomaco ammalato, e quantunque tutti cerchino di
servirli nel migliore dei modi, non cessano d’imputare a chi si prodiga per
loro, la causa dei loro disturbi, ben lontani dal supporre che la causa si trova
in loro stessi, nel loro cattivo stato di salute.
Per questo io ritengo che un legame d’amicizia indissolubile può formarsi
soltanto là dove regna un’uguaglianza di virtù: « Il Signore fa abitare nella
stessa casa coloro che hanno lo stesso spirito » (Sal 67,7). L’amore dunque può
durare ininterrotto soltanto tra coloro che hanno gli stessi propositi, la
stessa volontà: fra coloro che vogliono e non vogliono le stesse cose. Se volete
anche voi mantenere inviolata la vostra amicizia, sforzatevi di allontanare i
vizi, di mortificare la vostra volontà; poi, quando avrete lo stesso ideale, lo
stesso proposito, avvererete l’oracolo che riempiva di gioia l’anima del
profeta: « Oh! come è bello e giocondo che due fratelli abitino insieme! » (Sal
132,1). E queste parole del salmo — com’è evidente — sono da intendersi in senso
spirituale, non locale. Non vale nulla infatti abitare sotto lo stesso tetto, se
si è separati dal sistema di vita e dai propositi; mentre per coloro che sono
ugualmente fondati nella virtù, la distanza nello spazio non costituisce
separazione. Davanti a Dio è l’unità della condotta, non l’unità di luogo, che
fa abitare i fratelli nella stessa casa: la pace non può resistere inalterata là
dove le volontà sono divergenti.
IV -
Domanda: se sia bene compiere qualche azione utile, anche contro il desiderio
del fratello
Germano.
Vorrei fare una domanda. Se uno dei due amici vuol fare una cosa che conosce
utile e vantaggiosa dinanzi a Dio, ma l’altro non vuole, come dovrà comportarsi?
Dovrà compierà quell’atto nonostante la contrarietà dell’amico, o dovrà
rinunciare al suo proposito per non contristare l’amico?
V -
Risposta: l’amicizia duratura può esistere soltanto tra i perfetti
Giuseppe.
È proprio questa la ragione per cui ho detto che la grazia dell’amicizia non
potrà durare piena e perfetta se non tra coloro che hanno uguale virtù. Una
volontà unificata, un proposito identico, non permetteranno che esistano tra
loro (o potranno esistere soltanto raramente) delle aspirazioni diverse, o
qualche disaccordo su ciò che riguarda il progresso della vita spirituale. Se i
due amici si sorprendono con una certa frequenza a disputare calorosamente, è
chiaro che i loro cuori non furono mai uniti secondo quella regola che ho detto
sopra.
E vero però che anche nell’amicizia non si comincia dai gradi più perfetti;
bisogna anche qui metter prima i fondamenti. Voi non mi domandate qual è la
grandezza dell’amicizia, ma quali sono i mezzi per raggiungerla.
Ritengo perciò necessario farvene conoscere brevemente le leggi, affinché voi
possiate più facilmente ottenere il dono della pazienza e della pace.
VI -
In qual modo un’amicizia si può conservare immobile
Il primo fondamento della vera amicizia sta nel disprezzo dei beni mondani e nel
distacco da tutto ciò che possediamo. Sarebbe cosa sommamente ingiusta ed empia
se noi, dopo aver rinunciato alla vanità del mondo e di tutte le cose che in
esso si trovano, anteponessimo una cosa da nulla che ancora ci resta,
all’affetto prezioso di un fratello.
In secondo luogo conviene che ognuno comprima le sue volontà personali,
affinché, dopo essersi giudicato più bravo e più sapiente, non preferisca
seguire il suo giudizio piuttosto che quello dell’amico.
Il terzo elemento di amicizia sta nel persuadersi che tutto,
anche ciò che si stima utile e necessario, vai meno di quel bene che è la pace e
la carità.
Il quarto consiste nella certezza che per nessun motivo, giusto o ingiusto che
sia, è permesso andare in collera.
La quinta regola è questa: bisogna desiderare di guarire l’ira che il fratello
può aver concepito nei nostri riguardi, anche se ingiustamente. In quest’opera
occorre mettere tanto zelo quanto ne metteremmo ad estinguere l’ira nostra, ben
sapendo che dall’ira dell’altro noi traiamo lo stesso danno che trarremmo dalla
nostra, posto che non ci sforziamo a cacciare quel sentimento dall’animo del
fratello.
L’ultima regola, quella che costituisce indubbiamente la fine di tutti i vizi,
consiste nel pensare che ogni giorno si può morire. Questo pensiero, oltre a non
lasciar attecchire nel nostro cuore nessun germe d’ira, comprimerà anche tutti i
movimenti delle concupiscenze e dei vizi.
Se si aderisce fermamente a questi principi, non è possibile sentire, o far
sentire ad altri, l’amarezza dell’ira e della discordia. Se invece questi
principi non sono accettati, il nemico della carità verrà di nascosto nel cuore
degli amici e vi seminerà il veleno della tristezza. Da una disputa nascerà
un’altra disputa, e l’amore necessariamente si raffredderà a poco a poco, finché
la rottura si farà completa fra due cuori da lungo tempo esulcerati.
Colui che s’incammina per la via da me indicata, non avrà motivo per separarsi
affettivamente dal suo amico. Se non rivendica nulla come sua proprietà, taglia
la radice stessa di tutte le liti, che nascono di solito da piccole cose, da
oggetti di nessun valore. L’amico che segue le regole enumerate sopra, si
applica con tutte le forze ad osservare ciò che è scritto nel libro degli
Atti
a proposito dell’unità che regnava tra i primi cristiani: « La moltitudine dei
credenti era un cuor solo e un’anima sola, né alcuno c’era che considerasse come
suo quel che possedeva, ma avevano tutto in comune »(At 4,32).
E come potrebbe seminare discordia un amico di tal genere? Egli non è schiavo
della sua volontà, ma di quella del fratello; si è reso imitatore del suo
Signore e creatore, il quale diceva — parlando a nome dell’umanità che
rappresentava — « lo non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di
Colui che mi ha mandato » (Gv 6,38). Come potrebbe dare motivo di contesa? Egli
si è proposto — tutte le volte che si tratterà del suo modo di vedere e
giudicare le cose — di non regolarsi secondo i suoi gusti, ma secondo i desideri
del fratello, e secondo le decisioni di quell’arbitro, lo vedremo approvare e
disapprovare le sue stesse idee, mostrando nell’umiltà di un cuore pieno di
dolcezza l’avveramento perfetto di quel detto evangelico: « Tuttavia, non come
voglio io ma come vuoi tu » (Mt 26,39).
E come potrebbe permettersi qualcosa capace di far soffrire il fratello? Egli
giudica che non esista al mondo una cosa più preziosa della pace e non si toglie
mai dalla mente queste parole del Signore: « Da questo conosceranno tutti che
siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente » (Gv 13,35). Questo amore
scambievole ha voluto il Signore che fosse un sigillo col quale si
riconoscessero in questo mondo le pecore del suo gregge; l’ha voluto, se così
posso dire, come un’impronta che distinguesse i suoi dal resto degli uomini.
Come potrebbe un vero amico sopportare che in lui o nel fratello si annidasse il
rancore della tristezza? Egli tiene per verità indubitabile che l’ira, sempre
dannosa e illecita, non può mai avere una giusta causa. Per lui è impossibile
pregare, sia quando il fratello è adirato con lui, sia quando lui è irritato col
fratello. Continuamente conserva in cuore il ricordo di queste parole del
Maestro: « Se tu, nel fare la tua offerta sull’altare, ti rammenti che tuo
fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare e
va’ prima a riconciliarti col tuo fratello; poi ritorna a fare l’offerta » (Mt
5,23-24). Infatti non giova nulla affermare che non siete in collera con nessuno
e ripetere a voi stessi che osservate quel comandamento: « Il sole non tramonti
sul vostro sdegno » (Ef 4,26); o « Chi si adira con suo fratello merita di esser
giudicato » (Mt 5,22), se poi disprezzate con cuore duro e superbo la tristezza
del vostro fratello, quando la vostra mansuetudine potrebbe addolcirla.
In entrambi i casi si pecca contro il precetto del Signore, perché Colui che ha
detto: non ti adirare col tuo prossimo; ha detto pure: non disprezzare la
tristezza del tuo prossimo. Al Signore che vuole salvi tutti gli uomini non
importa che perda te stesso o un altro. Chiunque sia ad andar perduto, il danno
che ne viene a Dio è sempre lo stesso; e, per la ragion dei contrari, colui che
gode tanto a perdere tutti, trae la stessa gioia dalla vostra morte eterna e da
quella di un fratello.
Infine, come potrebbe conservare il più piccolo rancore verso il fratello, uno
che pensa di poter morire oggi stesso?
VII -
Niente va apprezzato più della carità, niente va disprezzato più dell’ira
Come non c’è cosa da stimarsi di più della carità, così non c’è cosa più
spregevole dell’ira. Bisogna sacrificare tutto — si trattasse anche di cose
utili o addirittura necessarie — pur di evitare i turbamenti di questa passione.
Bisogna tutto accettare, tutto sopportare — anche ciò che sembra una disgrazia —
pur di conservare inviolabile la tranquillità dell’amore e della pace; convinti
che nulla è più dannoso dell’ira e della tristezza, nulla è più utile della
carità.
VIII -
Per qual motivo nascono le divisioni fra gli uomini spirituali
Tra i fratelli ancora carnali e deboli, il demonio fa nascere l’ira che li
divide, da cause di vile materia; tra i fratelli spirituali, il demonio fa
nascere la discordia con la diversità dei pareri. Di qui, senza dubbio, nascono
quelle risse e divisioni che l’Apostolo condanna; dalle risse prende occasione
il nemico invidioso e crudele per giungere alla rottura tra fratelli che prima
facevano un cuor solo e un’anima sola. È verissima a tal proposito la sentenza
del sapiente Salomone: « Le dispute fanno nascere l’odio, ma coloro che non
s’abbandonano alle dispute sono protetti dall’amicizia » (Pr 10,12 - LXX).
IX -
Bisogna troncare le cause spirituali che generano discordia
Per conservare una carità continua e indivisibile, non basta togliere la prima
causa del dissenso, che sta di solito nelle cose caduche e terrestri; non basta
disprezzare tutto ciò che è carnale e permettere ai fratelli l’uso di tutti gli
oggetti che ci sono necessari. Bisogna togliere anche la seconda causa, che
nasce dalla diversità d’opinione nelle cose spirituali. Oltre a ciò è necessario
sforzarci d’acquistare in tutto, con l’umiltà dello spirito, una volontà
perfettamente intonata con quella degli altri.
X -
Il modo migliore per cercare la verità
Ho un ricordo che riguarda quel periodo della mia giovinezza in cui facevo vita
comune con un amico. Accadeva che ciascuno di noi, per proprio conto, facesse
delle scoperte nella morale o nella sacra Scrittura, che sembravano le cose più
giuste e ragionevoli di questo mondo. Poi ci riunivamo e incominciavamo a
comunicarci i nostri pensieri. Dopo aver sottomesso alla critica certe
affermazioni, accadeva che uno le trovasse false e pericolose; poi,
continuandone ancora l’esame, una sentenza unanime le dichiarava pericolose e
degne di condanna. Eppure, prima pareva che splendessero come la luce del sole,
quando il demonio ce le ispirava. Quelle sentenze avrebbero facilmente suscitato
la discordia, se il comando degli Anziani, osservato da noi come un oracolo di
Dio, non ci avesse preventivamente liberati da ogni disputa. Ora, il comando
degli Anziani prescriveva che né l’uno né l’altro doveva fidarsi di più del suo
giudizio che di quello dell’amico, se non voleva essere ingannato dall’astuzia
del demonio.
XI -
Chi si fida del proprio giudizio cadrà infallibilmente nelle illusioni del
diavolo
È stata spesso riscontrata la verità di ciò che dice l’Apostolo, cioè che il
demonio si trasforma in angelo di luce (2 Cor 11,14), per immettere nelle nostre
menti una caligine oscura e tetra in luogo della vera luce della scienza. Se gli
artifici di Satana non trovano un cuore umile e dolce, il quale li sottopone al
giudizio di un fratello molto esperto o di un anziano di virtù ben provata, per
poi accettare o rifiutare secondo il giudizio da loro dato dopo un esame
attento, non v’è alcun dubbio che noi accetteremo l’angelo delle tenebre come se
fosse un angelo della luce, e periremo della peggiore fra tutte le morti.
Chi si fida di se stesso, non potrà evitare un tale guaio. Bisognerà perciò che
il monaco ami la vera umiltà e la pratichi; egli dovrà adempiere, in piena
contrizione di cuore, quelle parole dell’Apostolo: « Se dunque è possibile
qualche consolazione in Cristo, se v’è qualche conforto dell’amore, se v’è
qualche comunanza di spirito, se avete viscere di compassione, rendete compiuto
il mio gaudio della concordia vostra, avendo uno stesso amore, una stessa anima,
uno stesso sentire. Nulla si faccia per spirito di rivalità o per vanagloria, ma
per umiltà, ritenendo ciascuno gli altri superiori a se stesso » (Fil 2,1-3). E
l’Apostolo dice ancora: « Quanto a rispetto, anteponga ognuno gli altri a se
stesso » (Rm 12,10). Ciascuno insomma attribuisca al fratello più scienza e
santità che a se stesso, creda che la vera e perfetta discrezione si trova più
nel giudizio dell’altro che nel proprio.
XII -
Perché non si debbono disprezzare gli inferiori nelle Conferenze
Accade spesso, o per illusione del diavolo o per errore umano (infatti non c’è
uomo fatto di carne che non sia soggetto a sbagliare), che colui il quale ha
maggiore ingegno e maggiore scienza, concepisca nella mente qualche idea falsa;
un altro, invece, che ha minore ingegno e minor merito può avere un’idea più
giusta e più vera.
Nessuno dunque, anche se molto sapiente, monti in superbia e pensi di poter fare
a meno del consiglio del fratello. Anche se il suo giudizio non sarà insidiato
dalle illusioni del diavolo, non potrà tuttavia sfuggire i tranelli terribili
che preparano la superbia e la fiducia in se stessi. Chi potrebbe, senza
pericolo, avere in sé una fiducia assoluta, dal momento che il Vaso d’elezione,
nel quale Cristo stesso parlava, afferma di essere salito a Gerusalemme per
comunicare agli Apostoli, in un esame privato, il Vangelo che predicava alle
nazioni, nonostante che avesse la rivelazione e l’assistenza del Signore? Con
questo resta dimostrato che l’osservanza delle regole da noi suggerite, non
conserva soltanto l’unanimità e la concordia, ma pone al riparo da tutte le
insidie del demonio, nostro nemico, e ci permette di non temere le sue illusioni
e i suoi lacci.
XIII -
La carità non è soltanto una cosa divina, ma è Dio stesso
La Scrittura divina pone così in alto la virtù della carità che il beato
Giovanni apostolo giunge a dire: la carità non è soltanto una cosa divina: è Dio
stesso: « Dio — egli dice — è carità e chi sta nella carità, sta in Dio e Dio in
lui » (1 Gv 4,16).
Non è vero che noi sentiamo un elemento divino nella carità? Non sentiamo forse
come una realtà viva quel che dice l’Apostolo: « La carità di Dio è stata
diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che abita in noi » (Rm 5,5). È come
se dicesse: Dio è stato diffuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che abita
in noi. E questo divino Spirito, quando non sappiamo che cosa dobbiamo domandare
nella preghiera, « prega per noi con gemiti inenarrabili; e Colui che scruta i
cuori sa bene qual sia l’aspirazione dello Spirito, perché intercede per i santi
secondo Dio » (Rm 8,26-27).
XIV -
I gradi della carità
È possibile usare con tutti quella carità che si chiama
agape.
Di questa carità parla l’Apostolo quando dice: « Come l’occasione si presenta,
facciamo del bene a tutti, specialmente ai compagni di fede » (Gal 6,10). È
tanto vero che la carità va usata con tutti, che il Signore ci ha comandato di
usarla verso i nemici, dice infatti: « Amate i vostri nemici » (Mt 5,44).
La
diàtesis,
o carità d’affezione, si rivolge invece a un piccolo numero di persone, cioè a
coloro che ci sono uniti o per somiglianza di costumi o per comunanza di virtù.
La
diàtesis,
peraltro, offre una notevole varietà di gradi. Altro è l’amore filiale e quello
coniugale, altro l’amore fraterno e quello paterno. E anche in questi rapporti
affettivi così diversi tra loro, si riscontrano altre diversità: neppure l’amore
dei genitori per i figli è sempre uguale. Il patriarca Giacobbe ce ne fornisce
una prova. Padre di dodici figli, li amava tutti d’un amore veramente paterno,
tuttavia sentiva una propensione particolarissima per Giuseppe, tanto che la
sacra Scrittura dice apertamente: « I fratelli, vedendo che era amato dal padre
più di tutti gli altri, lo odiavano e non potevano parlare con lui senza
adirarsi » (Gn 37,4). Non che quell’uomo giusto e ottimo padre, mancasse di
amare grandemente gli altri figli, ma aveva un affetto più tenero, una maggior
compiacenza verso Giuseppe, che portava in sé una figura del Signore.
Leggiamo nel Nuovo Testamento che anche Giovanni evangelista fu oggetto di un
particolare amore. Il Vangelo ce lo presenta chiaramente come il « discepolo
amato dal Signore » (Gv 13,23). Con questo non si vuol negare che il Signore
amasse gli altri undici; sta scritto anzi nello stesso Vangelo: « Come io amo
voi, così voi amatevi scambievolmente » (Gv 13,34). Dell’amore di Gesù per tutti
gli Apostoli si dice anche altrove: « Poiché aveva amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13,1). Così il particolare amore che Gesù
mostrò per san Giovanni, non significa che il suo affetto fu tiepido nei
confronti degli altri Apostoli, ma solo che la sovrabbondanza dell’amore si
riversò su colui che il privilegio della verginità, e una completa integrità
della carne, rendevano particolarmente caro al Signore. È proprio per questo che
il Vangelo nota l’amore più sublime ed eccezionale che Gesù ebbe per Giovanni:
il contrasto non è tra amore e odio, ma tra un amore grande e uno più grande
ancora, che nasce da una fonte di carità più alta.
Qualcosa di somigliante si trovava nel
Cantico dei Cantici,
sulle labbra della sposa: « Ordinate in me la carità» (Ct 2,4 – LXX). E carità
ordinata è quella che, senza avere odio per nessuno, ama alcuni con preferenza,
a causa dei loro meriti. Pur amando tutti, la carità sceglie alcuni che vuole
avvolgere d’una particolare tenerezza, e anche in questo numero di privilegiati
sceglie un piccolo stuolo al quale dona un affetto ancor più speciale.
XV -
Coloro che dissimulano aumentano così la commozione propria e quella dei
fratelli
Ma io so —-e volesse il cielo che mai l’avessi saputo — che in molti monaci non
c’è carità, bensì una ostinazione e una durezza singolare. Se si accorgono di
essere presi da passione verso un fratello, oppure si accorgono che il fratello
è adirato con loro, si mettono a dissimulare la tristezza del loro cuore, venga
essa da loro stessi o da un altro.
Si allontanano allora da coloro che avrebbero dovuto lenire con un’umile
soddisfazione, con buone parole, e incominciano a cantare qualche versetto dei
salmi. Credono di calmare così l’amarezza che hanno in cuore. Ma in tal modo
accrescono il fuoco che hanno dentro, quel fuoco che avrebbero potuto
immediatamente estinguere, se avessero saputo usare maggior gentilezza e umiltà,
in modo che una scusa opportuna avesse sanato insieme la ferita del loro cuore e
quella prodotta nel cuore del fratello.
Ma facendo come fanno, essi accarezzano e fanno crescere la loro pusillanimità,
anzi coltivano la loro superbia, invece di spegnerne il focolaio. Non pensano al
comando del Signore che dice: « Chi si adira con suo fratello meriterà d’essere
condannato in giudizio » (Mt 5,22). E ancora: « Se ti rammenti che il fratello
ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta dinanzi all’altare e corri a
riconciliarti con tuo fratello; poi torna e fa’ la tua offerta » (Mt 5,23-24).
XVI -
Dio rifiuta l'offerta delle nostre preghiere se abbiamo un’inimicizia con
qualche fratello
Osserviamo fino a qual punto il Signore condanna il disprezzo che noi possiamo
avere della tristezza altrui: Se il nostro fratello ha qualcosa contro di noi,
Dio non accetta più le nostre preghiere. In altre parole: Dio non accetta
l’offerta delle nostre preghiere finché noi non avremo allontanato, con una
pronta riparazione, la tristezza dal cuore del fratello, sia essa prodotta per
nostra colpa, sia che noi non ne abbiamo colpa. Il Signore non dice: se tuo
fratello ha un giusto motivo per lamentarsi di te, lascia la tua offerta dinanzi
all’altare e corri prima a riconciliarti con lui. No! dice: se ti ricordi che
tuo fratello ha qualcosa contro di te, vale a dire: anche se il dissapore che ha
provocato il malinteso tra te e il fratello è cosa da nulla, e il ricordo di ciò
colpisce all’improvviso la tua memoria, sappi che tu non devi offrire i doni
spirituali della preghiera, senza aver fatto prima scomparire i segni della
tristezza dal cuore del fratello — qualunque ne sia stata la causa — con una
soddisfazione piena d’affetto.
Così il Vangelo ci comanda di far le nostre scuse ai fratelli imbronciati, anche
per un contrasto passato e leggero, e nato da cause di poco peso. E noi, per
collere molto recenti e serie, per di più nate da nostra colpa, ostentiamo una
noncuranza sprezzante! Che cosa sarà di noi? Gonfi di superbia diabolica e
timorosi di umiliarci, non vogliamo riconoscere di essere responsabili della
tristezza del fratello: il nostro spirito ribelle sdegna di sottomettersi al
comando del Signore, e ci difendiamo col dire che quel comando non va preso alla
lettera ed è impossibile a praticarsi. Ma quando giudichiamo impossibili i
comandi del Signore, noi diventiamo, come dice l’Apostolo, « Non osservatori, ma
giudici della legge » (Gc 4,11).
XVII -
Quelli che si tengono obbligati ad essere pazienti verso i secolari più che
verso i loro confratelli
C’è anche uno scandalo degno di esser pianto a calde lacrime. Alcuni fratelli
sono stati offesi con una ingiuria e si presenta loro un amico che cerca di
calmarli con le sue esortazioni. Il consolatore dice che non si deve mai
concepire o serbare del risentimento verso un fratello, sta scritto infatti: «
Chiunque si adira contro il fratello, sarà condannato in giudizio », e ancora: «
Il sole non tramonti sul vostro sdegno ». A queste esortazioni essi rispondono:
« Se mi avesse offeso un pagano o un secolare avrei certo dovuto sopportarlo, ma
chi potrebbe sopportare che un fratello commetta un atto così grave, o dica
parole così insolenti? ». Quasi che la pazienza si dovesse usare soltanto con
gli infedeli e coi sacrileghi, e non con tutti indistintamente; come se la
collera, condannabile verso i pagani, diventasse lecita verso i fratelli! Ma è
vero, al contrario, che quando l’anima rimane ostinata nel suo rancore fa sempre
peccato, chiunque sia che forma l’oggetto di quel sentimento. Quale ostinazione,
anzi, quale stoltezza! Questa gente ha perduto persino il senso delle parole!
Infatti, non è scritto: chi va in collera contro un estraneo sarà condannato in
giudizio. Se fosse stato detto così dal Signore, ci poteva essere motivo per
fare una eccezione riguardo a quelli che ci sono uniti nella comunanza di fede e
di vita, come certi monaci pretendono di poter fare. Ma no; il Vangelo parla nel
modo più chiaro: « Chiunque si adira con suo fratello, merita di essere
condannato in giudizio ». Non c’è poi dubbio che il Signore ci insegna a stimare
fratello ogni uomo. Ma se non si vuole andare tanto a fondo nel ricercare il
valore di quel termine, non si potrà negare che in questo passo del Vangelo il
nome « fratelli » indica i fedeli, coloro che condividono la nostra vita, prima
e più che i pagani.
XVIII -
Coloro che si fingono pazienti e provocano all’ira i loro fratelli
Altro errore è quello di stimarci pazienti perché talvolta non rispondiamo
alcunché alle provocazioni che ci vengono rivolte. Invece di rispondere,
mettiamo in ridicolo i fratelli inquieti, con un silenzio amaro, con qualche
movimento o gesto canzonatorio; così, col nostro aspetto impassibile, li
provochiamo alla collera più ancora che se parlassimo in tono offensivo. Noi
crediamo di non essere colpevoli davanti a Dio perché non c’è uscita dalla bocca
neppure una di quelle parole che gli uomini notano o disapprovano, ma ci
sbagliamo. Agli occhi di Dio non hanno valore di colpa soltanto le parole, la
volontà vale di più della parola. Che forse la colpa sta tutta nell’opera? Non
sta piuttosto nell’intenzione e nel proposito malvagio? Non crederemo mica che
il Signore, quando dovrà giudicarci, terrà conto soltanto di ciò che abbiamo
fatto, e non di ciò che ci siamo proposti di fare? L’imputabilità non nasce
soltanto da un fatto che muove all’ira il fratello, nasce anche dall’intenzione
di muovere qualcuno all’ira. L’esame del nostro Giudice non andrà solo a cercare
il modo in cui l’inimicizia è nata, ma cercherà anche per colpa di chi il fuoco
si è acceso.
Bisogna soprattutto guardare al peccato in se stesso, allo sviluppo esterno che
può avere. Che differenza c’è tra ammazzare uno con le proprie mani o condurlo a
morte con qualche inganno? Quel che conta è che il fratello è morto! Non basta
mica essersi astenuti dal sospingere il cieco in un precipizio per essere
innocenti della sua morte. Se chi poteva farlo non lo ha trattenuto quando lo ha
visto sull’orlo del precipizio, egli è responsabile della sua morte. Che forse è
assassino soltanto colui che impicca con le proprie mani? Non Io è anche chi gli
prepara o gli presenta il capestro, o almeno non si sforza di strapparglielo?
Similmente, non vale nulla tacere, se ci imponiamo il silenzio per ottenere con
quello lo stesso effetto che s’otterrebbe con parole offensive; e se oltre a ciò
compiamo dei gesti ipocriti che aumenteranno l’ira di colui che avremmo dovuto
placare. Il colmo della colpa sarebbe se da questo contegno ipocrita ci
attendessimo le lodi degli uomini.
Il silenzio descritto nel nostro esempio è dannoso a tutte e due le parti: fa
crescere l’ira nel cuore del prossimo e non la estingue nel cuore nostro. A
coloro che agiscono così si rivolge la maledizione del profeta: « Guai a colui
che dà da bere al suo amico mescendogli il suo fiele e ubriacandolo, affine di
godere lo spettacolo della sua nudità! Si riempie di ignominia anziché di gloria
» (Ab 2,15-16). E un altro profeta così parla di uomini simili: « Ogni fratello
è pronto a imbrogliare il fratello e ogni amico procede fintamente. Gli uni
gabbano gli altri e non parlano con verità » (Ger 9,4-5), « Vibrano infatti la
loro lingua come arco di menzogna e non di verità » (Ger 9,3).
Spesso una finta pazienza eccita alla collera più assai delle parole offensive;
un silenzio sprezzante è più grave delle più gravi ingiurie: si sopportano
meglio le percosse di un nemico dichiarato che la falsa dolcezza d’un derisore.
Di questi tipi così parla il profeta: « Più blande dell’olio sono le sue parole
e sono invece pugnali » (Sal 54,22), e altrove: « Le parole dei mentitori sono
lievi, ma penetrano sino in fondo alle viscere » (Pr 26,22). Si può applicare al
caso anche un altro testo della Scrittura: « Nella bocca ha proteste di pace con
l’amico, e con l’interno gli pone le insidie » (Ger 9,8). Ma quello più
ingannato è sempre il mentitore, perché sta scritto che: « Chi tende la rete
davanti al suo amico, ci rimane preso » (Pr 29,5). e « Chi scava la fossa per il
suo prossimo, ci cade dentro » (Pr 26,27).
Venne una grande moltitudine con spade e bastoni a prendere il Signore; fra
tutta quella turba nessuno fu tanto crudele parricida contro l’Autore della
nostra vita, quanto colui che stava alla testa, allo scopo di offrire al Maestro
un saluto e un segno d’affetto: il bacio d’un amore perfido. E il Signore gli
disse: « Giuda, con un bacio, tradisci il Figlio dell’uomo? » (Lc 22,48). Cioè:
per coprire l’amaro della persecuzione e dell’odio tu prendi il segno che è
fatto per manifestare la dolcezza del vero amore? Ma lo stesso Signore nostro
manifesta più apertamente e amaramente la violenza del suo dolore per bocca del
profeta: « Se un nemico mi avesse insultato lo avrei sopportato, e se uno che mi
odia avesse insolentito contro di me, mi sarei forse guardato da lui. Ma sei
stato tu, un’anima stessa con me, mia guida e mio intimo, tu che insieme con me
prendevi il dolce cibo, e d’accordo procedevamo nella casa del Signore » (Sal
54,13-15).
XIX -
Quelli che digiunano per sdegno
C’è poi una nuova specie di tristezza sacrilega, che io non ricorderei se non
sapessi che molti fratelli ne sono presi. Quando sono tristi o adirati, si
tengono per molto tempo lontani dal cibo. Lo dico con vergogna: questi uomini,
finché sono calmi assicurano di non poter protrarre il loro pasto al di là
dell’ora di sesta o, tutt’al più, al di là dell’ora nona, quando invece la
tristezza o l’ira li riempie, non sentono più il digiuno per due giorni.
L’astensione del cibo dovrebbe annientarli, invece no: la sopportano perché si
nutrono di rabbia. E questo è senza dubbio un peccato' di sacrilegio: essi
sopportano... ad onore del diavolo, quei digiuni che si devono offrire a Dio
solo, per umiliare il cuore e purificarlo dai vizi. Questo equivale a presentare
i nostri sacrifici e le nostre preghiere non a Dio, ma ai demoni. Così si
diventa meritevoli del rimprovero di Mosè: « Sacrificarono ai demoni e non a
Dio, a dèi che prima non conoscevano » (Dt 32,17).
XX -
Coloro che dissimulano pazienza e presentano a chi li percuote l’altra guancia
Non sfugge un altro genere di stoltezza che si ritrova in alcuni monaci, i quali
affettano una falsa pazienza. Essi non si accontentano di provocare all’ira i
loro fratelli, li spingono fino al punto di venire alle mani. Poi, appena sono
stati leggermente toccati, si voltano e presentano l’altra parte del loro corpo,
come se realizzassero così la perfezione del comando divino: « Se uno ti
percuote sulla guancia destra, porgigli l’altra » (Mt 5,39). Ma essi non hanno
capito per nulla questo testo del Vangelo, perché credono di praticare la
pazienza evangelica abbandonandosi al vizio dell’ira.
Proprio per estirpare fin dalle radici il vizio dell’ira, il Signore non si
accontentò di abrogare la legge del taglione, e le provocazioni della rissa, ma
ci comandò pure di mitigare il furore di chi ci percuote con la nostra costanza
a sopportare doppia ingiuria.
XXI -
Come è possibile obbedire ai comandi del Signore e non acquistare la perfezione
evangelica
Germano.
Come si fa a condannare uno che obbedisce al comando del Vangelo e, oltre a non
praticare la legge del taglione, si mostra pronto a sopportare una seconda
ingiuria?
XXII -
Il Signore non guarda soltanto all’atto, ma anche all’intenzione
Giuseppe.
A questa obiezione ho già risposto quando ho detto che non si deve considerare
soltanto l’atto materiale, ma anche la disposizione d’animo e l’intenzione di
chi agisce. Considerate attentamente in cuor vostro i sentimenti che dirigono le
azioni umane, esaminate da quali moti esse derivano', e vi accorgerete che la
virtù della pazienza o della dolcezza, non si può esercitarla con lo spirito
opposto, cioè con lo spirito d’impazienza e d’ira.
Il Signore e Salvatore nostro ci ha voluto formare ad una virtù sincera, ad una
virtù che non stesse soltanto sulle nostre labbra, ma dimorasse nel santuario
più intimo dell’anima nostra. Dice dunque il Signore nella sua formula di
perfezione evangelica: « Se uno ti percuote sulla guancia destra, mostragli
l’altra », ma qui dobbiamo sottintendere
l’altra destra.
L’altra destra non si può poi intendere se non si riferisce alla faccia
dell’uomo interiore.
Il Signore desidera pertanto estirpare dal profondo dell’anima ogni fuoco d’ira.
Vuole che quando l’uomo esteriore si trova ad essere percosso sulla guancia
destra, dal colpo di un ingiusto aggressore, il nostro uomo interiore presenti
anch’egli la sua destra alla percossa, consentendo umilmente all’offesa. L’uomo
interiore deve partecipare al dolore dell’uomo esteriore sottomettendo,
abbandonando, in certo modo, il corpo all’ingiuria.
Insomma: bisogna che l’uomo interiore non si adiri, neppure leggermente, del
colpo ricevuto dall’uomo esteriore.
Da questo potete vedere come e quanto, quei monaci dei quali abbiamo parlato,
sono lontani dalla perfezione evangelica, la quale insegna a conservare la
pazienza non a parole, ma con la tranquillità intima del cuore. Ed ecco come ci
ordina di comportarci quando avviene qualcosa di contrario: non basta tenersi
lontani dai movimenti violenti dell’ira, dobbiamo anche — nell’accettare
l’ingiuria — cercare di calmare coloro che si adirano per loro propria colpa,
vincere l’ira con la nostra dolcezza, ottenere che ritrovino la calma mentre ci
percuotono.
Così osserveremo il comando dell’Apostolo che dice: « Non lasciarti vincere dal
male, ma vinci nel bene il male » (Rm 12,21). Ma di ciò non sono capaci coloro
che pronunciano parole di dolcezza e d’umiltà in spirito di iracondia e di
superbia. Invece di spegnere in se stessi il fuoco dell’ira, essi avvivano le
fiamme nel loro cuore e in quello del fratello. Anche ammettendo che riescano,
per quanto personalmente li riguarda, a conservare in qualche modo la dolcezza
della pace, non ne trarranno alcun frutto di giustizia, perché cercano di
ottenere la gloria della pazienza a danno del prossimo. In tal modo si rendono
totalmente estranei alla carità raccomandata dall’Apostolo, la quale « non cerca
il proprio interesse » (1 Cor 13,5), ma quello degli altri. Essa non desidera
arricchirsi a danno degli altri, non vuole acquistare alcunché spogliandone il
primo possessore.
XXIII -
È forte e sano chi sa piegarsi alla altrui volontà
Generalmente dimostra di essere più forte chi sottomette la sua volontà, a
quella del fratello, che non colui il quale si mostra ostinato a difendere e
conservare la sua volontà. Il primo, per il fatto che sa sopportare paziente-
mente il prossimo, merita un posto nella schiera degli uomini forti e valorosi;
il secondo è da annoverarsi fra i deboli e forse anche tra gli ammalati, perché
ha bisogno di essere accarezzato e coccolato. Talvolta sarà opportuno astenersi
anche dalle cose necessarie per farlo stare tranquillo e in pace. E quando per
compiacere a un debole il monaco tralascerà qualche pratica, non pensi di
nuocere alla sua personale perfezione. Anzi, la longanimità e la pazienza lo
faranno molto progredire. Dice infatti l’Apostolo: « Voi che siete forti,
sopportate le debolezze dei deboli
» (Rm 15,1)
e ancora: « Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di
Cristo » (Gal 6,2).
Mai un debole può dar forza a un debole, o un malato può curare e guarire un
malato. Solo chi non è debole può portare aiuto a chi è vinto dalla debolezza.
Altrimenti c’è ragione di dirgli: « Medico, cura te stesso » (Lc 4,23).
XXIV -
I deboli sono pronti all’ingiuria ma non sopportano di essere ingiuriati
C’è da notare anche un altro particolare che è proprio dei deboli. Sono pronti e
facili all’offesa, facili a far nascere litigi; essi però non vogliono' essere
sfiorati neppure dall’ombra dell’ingiuria. Pieni di insolenza, trattano tutti
dall’alto in basso, usano parole e atti superbi, ma dopo tanta libertà che si
sono presi, non possono sopportare un’offesa o una mancanza di riguardo
leggerissima.
Così siamo invitati a tornare alla sentenza degli Anziani, i quali dicevano che
l’amicizia non può durare stabile e continua fino in fondo, se non tra uomini di
eguale virtù e dello stesso sentimento. Altrimenti un giorno o l’altro dovrà
rompersi, anche se uno degli amici avrà fatto grandi sforzi per conservarla.
XXV -
Come può essere forte chi non sa sopportare sempre un debole?
Germano
— Come può essere degna di lode la pazienza dell’uomo perfetto, se quello non
riesce a sopportare il debole fino in fondo?
XXVI -
Il debole non permette che lo si sopporti
Giuseppe
— Io non ho detto che la pazienza dell’uomo forte e robusto deve lasciarsi
vincere, ma le cattive disposizioni del debole, anche se curate da parte del
forte, andranno crescendo di giorno in giorno, finché non potranno' più essere
sopportate. Oppure sarà il debole stesso, che, vedendo nella pazienza del
prossimo una condanna alla sua impazienza, preferirà allontanarsi, piuttosto che
sentirsi continuamente sopportato dalla pazienza dell’amico.
Ecco ora la legge che a mio avviso devono osservare tutti coloro che desiderano
conservare immutato il sentimento dell’amicizia. Innanzi tutto, quali che siano
le offese che lo colpiscono, il monaco conserverà la pace; non solo sulle
labbra, ma nel fondo del cuore. Se si sente anche minimamente turbato, rimanga
in silenzio e osservi diligentemente quanto dice il salmista: « Mi son turbato,
ma non ho parlato » (Sal 76,5). E ancora: « Dissi: custodirò le mie vie, per non
peccare con la mia lingua. Posi alla mia bocca un fermaglio, mentre stava
l’empio dinanzi a me. Ammutolii e mi umiliai, e tacqui più del conveniente »
(Sal 38, 2-3).
Egli non deve fermarsi a considerare il presente, non deve lasciarsi uscire
dalle labbra ciò che gli suggerisce la collera, ciò che gli detta il cuore
esasperato. Deve invece ripensare nel cuore la grazia della carità d’un tempo;
oppure deve rivolgere il suo sguardo all’avvenire, per vedere la
rappacificazione come già avvenuta, e state a contemplarla, ora, mentre sente i
moti dell’ira, sicuro che presto dovrà tornare.
Mentre si tiene pronto per la dolcezza della pace vicina, non sentirà l’amarezza
della discordia presente e darà una risposta tale da non doversene pentire lui e
da non poterne essere rimproverato dal fratello, quando l’amicizia sarà
ristabilita. In tal modo metterà in pratica il consiglio del profeta: « Nell’ira
ricordati della misericordia » (Ab 3,2 – LXX).
XXVII -
Come reprimere l’ira
Dobbiamo dunque reprimere tutti i moti d’ira e regolarli con la regola della
discrezione, affinché non siamo trasportati a quell’eccesso di cui parla
Salomone quando dice: « Lo stolto spande tutta la sua collera, il sapiente la
distribuisce in parti » (Pr 29,11 – LXX). Cioè: lo stolto si infiamma alla
vendetta sotto l’impulso dell’ira, il saggio si domina e fa sbollire la sua ira
a poco a poco, con la maturità del suo consiglio e con la sua moderazione.
La stessa cosa ci insegna l’Apostolo: « Non vi vendicate da voi stessi, ma date
luogo all’ira » (Rm 12,19). Cioè: non vi affrettate a vendicarvi, sotto
l’accecamento della passione, ma lasciate passare la collera. O più chiaramente
ancora: non permettete che il vostro cuore resti stretto- nelle angustie
dell’impazienza e della pusillanimità, altrimenti non potrà fronteggiare la
tempesta violenta dell’ira quando si sollevi. Allargatelo piuttosto e accogliete
i flutti avversi dell’ira negli spazi allargati della carità, che tutto sopporta
e tutto sostiene.
La vostra anima, così dilatata dalla larghezza della longanimità e della
pazienza, abbia in sé una specie di tempio del consiglio, nel quale il fumo
nerissimo dell’ira si spanda e si dissolva. Ma la parola dell’Apostolo si può
intendere anche in altro modo. Noi diamo spazio alla collera tutte le volte che
ci pieghiamo con anima umile e tranquilla davanti all’ira del fratello e
riconoscendoci in qualche modo meritevoli di tutte le ingiurie, cediamo
all’impazienza imperversante dell’altro.
Infine ci sono quelli che intendono le parole dell’Apostolo: « Date spazio alla
collera », come un consiglio di allontanarsi da colui che si è adirato. Ma in
questo modo i motivi di avversione si covano, non si estinguono: così almeno io
la penso. Bisogna vincere la collera del prossimo subito, per mezzo di un’umile
soddisfazione: la fuga serve più ad accrescere che ad estinguere l’ira.
Ecco un’altra parola di Salomone che ben s’intona con le precedenti: « Non ti
affrettare in cuor tuo all’ira, perché l’ira riposa nel seno degli stolti » (Qo
7,9). E ancora: « Non esser pronto alla rissa per non avere da pentirtene alla
fine » (Pr 25,8).
Se la sacra Scrittura condanna le collere immediate, non si dovrà per questo
dire che approvi quelle lente. No! A quanto detto sopra bisogna aggiungere
un’altra sentenza di Salomone che dice: « Lo stolto manifesta immediatamente la
sua collera, ma l’uomo sapiente nasconde la sua vergogna » (Pr 12,16). Da questo
passo consegue che Salomone condanna certamente la facilità d’inquietarsi, ma
non approva tuttavia il vizio che si dipana lentamente. Dice soltanto che l’ira
deve rimanere nascosta, se per una fatalità inerente alla debolezza umana, si
produce in noi. Va tenuta nascosta e compressa, affinché si dilegui
completamente. Questa infatti è la natura dell’ira: compressa, s’illanguidisce e
muore; liberata, cresce maggiormente.
Dobbiamo dunque allargare i nostri cuori, affinché, pressati dalle angustie
della pusillanimità, non abbiano a rimanere soverchiati dai turbolenti marosi
dell’ira. Non si può ricevere in un cuore stretto il comando di Dio che è
larghissimo; non si può, senza dilatare il cuore, cantare col profeta: « La via
dei tuoi precetti io corro, quando tu allargherai il mio cuore » (Sal 118,32).
Che la pazienza è saggezza, ci vien ripetuto una infinità di volte nella sacra
Scrittura: « L’uomo paziente è molto prudente, l’impaziente è stoltissimo » (Pr
14,29). Perciò, di colui che domandò a Dio la sapienza, la sacra Scrittura dice:
« Dio diede a Salomone grande sapienza e prudenza e una larghezza di cuore
incommensurabile, come la rena che sta sulla riva del mare » (1 Re 4,29).
XXVIII -
Le amicizie nate da patti segreti non sono durature
Ecco un’altra cosa che l’esperienza ha spesso dimostrato vera: coloro che hanno
costruito la loro amicizia sulla base di un giuramento o di un patto segreto,
non sono mai vissuti nella concordia. E questo dipende da due motivi: o perché
si sforzano di conservare quell’amicizia non col desiderio della perfezione e
per il comando della carità apostolica, ma per un amore terrestre e per la
necessità del patto giurato; oppure l’amicizia non durò perché l’astuto nemico
li fece correre precipitosamente verso la rottura, allo scopo di farli diventare
inadempienti al giuramento prestato.
È dunque certissima la sentenza tramandataci da uomini pieni di prudenza: la
vera concordia, l’amicizia indissolubile, può trovarsi soltanto in una vita
senza macchia e fra persone della stessa virtù e degli stessi ideali.
Questa fu la conferenza spirituale che il beato Giuseppe ci fece sul tema
dell’amicizia e c’infervorò con più vivo ardore a difendere sempre quella carità
che già ci univa.
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23 maggio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net