LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
Cassianus Ioannes - Collationes
COLLATIO QUARTA, QUAE EST ABBATIS DANIELIS. DE CONCUPISCENTIA CARNIS ET SPIRITUS.
Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne
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4.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE DANIELE LA CONCUPISCENZA CARNALE E SPIRITUALE
Estratto da “Giovanni Cassiano – Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline |
CAPUT PRIMUM |
Indice dei Capitoli
I - Vita dell’abate
Daniele; - |
CAPUT PRIMUM. Inter caeteros Christianae philosophiae viros, abbatem
quoque vidimus Danielem, aequalem quidem in omni virtutum genere his qui in
eremo Scythi |
I - Vita
dell’abate Daniele
Tra gli eroi della filosofia cristiana, da noi visitati nel deserto, ci fu anche
l’abate Daniele. In nessuna virtù egli era inferiore agli altri santi uomini che
abitavano l’eremo di Scito, però si distingueva fra tutti per la grazia
dell’umiltà.
Una particolare nota di purezza e di mansuetudine gli aveva meritato che l’abate
Panuzio, unico prete di quella solitudine, lo eleggesse all’ufficio di diacono,
preferendolo in ciò a molti altri più anziani di lui. Il vecchio Panuzio si rallegrava tanto della virtù di Daniele che, vedendolo pari a sé nei meriti e nel metodo di vita, desiderava farlo pari a sé anche nella dignità del sacerdozio. Perciò, mal sopportando di vederlo rimanere troppo a lungo in un grado inferiore, e desideroso com’era di provvedersi in lui un successore degnissimo, lo promosse al grado sacerdotale. Daniele però, senza nulla perdere della sua abituale umiltà, finché visse Panuzio mai esercitò l’ordine sacerdotale al quale era stato elevato: continuò a fare il suo ufficio di diacono, mentre il suo maestro offriva le ostie spirituali. L’abate Panuzio, quantunque fosse un uomo tanto santo da meritare talvolta la grazia di conoscere il futuro, in questo caso vide riuscir vana la sua elezione e la sua speranza. Non molto tempo più tardi, infatti, colui che s’era scelto come successore morì e se ne andò a Dio prima del vecchio maestro. |
CAPUT II. Quaerit unde oriatur repentina commutatio mentium ab ineffabili laetitia in moestissimam animi dejectionem. Hic igitur beatus Daniel, inquirentibus nobis, cur
interdum residentes in cellula tanta alacritate cordis, cum ineffabili quodam
gaudio et exuberantia secretissimorum sensuum repleremur, ut eam non dicam sermo
subsequi, sed ne ipse quidem sensus occurreret; oratio quoque pura ac prompta,
et mens plena spiritalibus fructibus preces suas efficaces ac leves etiam per
soporem supplicans ad Deum pervenire |
II - Domanda:
come avviene l’improvviso passaggio da una gioia ineffabile a una nera
tristezza?
Al beato Daniele noi domandammo come mai qualche volta, mentre ce ne stiamo
ritirati nella nostra celletta, sentiamo il nostro cuore riempirsi di un piacere
ineffabile e di sentimenti elevati che traboccano da ogni parte, tanto che non
si trovano parole per dire un tale stato, e la mente stessa è incapace a
capirlo. La preghiera in quei momenti è pura e facile, l’anima abbonda di frutti
spirituali, sente che le sue preghiere (continuate anche nello stato di
dormiveglia) giungono lievi ed accette fino a Dio.
Poi, all’improvviso e senza motivo alcuno, accade che ci sentiamo pieni
d’angoscia e di una tristezza della quale non si sa dare spiegazione. La
sorgente delle esperienze spirituali s’inaridisce, la cella ci diventa
insopportabile, la lettura divina produce nausea, la preghiera si fa instabile e
vacillante come se fosse ubriaca.
Piombati in questa condizione, noi gemiamo e ci sforziamo di condurre l’anima
nostra alla sua prima direzione, ma tutti gli sforzi son vani. Quanto più ci
studiamo di ritornare alla contemplazione divina, tanto più la mente si
smarrisce nei suoi vagabondaggi. Siamo caduti nella sterilità: né il desiderio
del cielo, né il timore dell’inferno possono svegliarci da questo sonno di
morte. Il venerabile Daniele ci rispose. |
CAPUT III. Responsio super proposita quaestione. Tripartita nobis a majoribus super hac, quam dicitis,
sterilitate mentis tradita ratio est. Aut enim de negligentia nostra, aut de
impugnatione diaboli, aut de dispensatione Domini ac probatione descendit. Et de
negligentia quidem, cum nostro vitio tepore praecedente incircumspecte
nosmetipsos et remissius exhibentes, et per ignaviam et desidiam noxiis
cogitationibus pasti, terram cordis nostri spinas et tribulos facimus germinare,
quibus in ea pullulantibus consequenter efficimur steriles, atque ab omni
reddimur spiritali fructu et contemplatione jejuni. De impugnatione vero
diaboli, cum etiam |
III - Risposta
dia domanda precedente
I nostri Padri hanno indicato tre ragioni per spiegare la sterilità della quale
voi state trattando: essa può derivare dalla nostra negligenza, da una
tentazione del demonio, da una prova mandataci da Dio.
L’aridità può venire dalla negligenza. Per nostra colpa noi, in passato, abbiamo
agito senza vigilanza e senza impegno, per una malaugurata pigrizia ci siamo
nutriti di cattivi pensieri, facendo così germogliare nel campo del nostro cuore
triboli e spine. In conseguenza di ciò siamo diventati sterili, completamente
privi di frutti spirituali e di contemplazione. La sterilità può venire anche da tentazione del demonio. Talvolta, mentre siamo tutti occupati in santi desideri, il nostro scaltro nemico s’insinua nell’anima e, senza che noi lo sappiamo e lo vogliamo, ci distrae dai pensieri più nobili e alti. |
CAPUT IV. Quod dispensationis ac probationis Dei duplex causa sit. Dispensationis autem, vel probationis Domini duplex
causa est: prima, ut paulisper ab ipso derelicti, et mentis nostrae humiliter
intuentes infirmitatem, et nequaquam super praecedente puritate cordis, quae
nobis illius est visitatione donata, nullatenus extollamur, probantesque nos ab
eodem derelictos, gemitibus nostris et industria illum laetitiae ac puritatis
statum recuperare non posse intelligamus, |
IV - Doppia
spiegazione della condotta di Dio in questa prova
La prova ci viene talvolta da Dio, il quale agisce così per due ragioni. Ecco la
prima. Trovandoci abbandonati dal Signore per un certo tempo e considerando
umilmente la nostra fragilità, non ci insuperbiremo della purezza di cuore con
la quale Dio ci aveva ornati durante la sua visita precedente. Accorgendoci
inoltre, mentre stiamo in questo abbandono, che i gemiti e gli sforzi non
bastano a farci riconquistare il nostro primo stato di gioia e di purezza,
comprenderemo che la nostra contentezza passata non era frutto del nostro zelo,
ma dono della divina misericordia. Ci convinceremo infine che quel dono dobbiamo
chiederlo a Dio, fonte di grazia e di luce. L’altro motivo per cui Dio manda l’aridità di spirito è che egli vuol mettere alla prova la perseveranza, la costanza, il desiderio dell’anima nostra: vuol farci capire con quale ardore e con quale perseveranza nella preghiera dobbiamo chiedergli il ritorno dello Spirito Santo, dopo che si è partito da noi. Vuole insomma - col farci sperimentare quanto costa riacquistare la gioia spirituale e 1’allegrezza della purità - insegnarci a difendere quei tesori con cura più attenta, prima di farceli strappare; vuole anche insegnarci a conservarli con maggior studio, dopo che li avremo ritrovati. Noi infatti siamo portati a custodire con minor diligenza ciò che pensiamo di poter riavere con maggior facilità. |
CAPUT V. Quod studium et industria nostra nihil sine adjutorio Dei praevaleat. Per quae evidenter probatur, gratiam Dei ac
misericordiam semper operari in nobis ea quae bona sunt. Qua deserente,
nihil valere studium laborantis, |
V - Il
nostro impegno e la nostra industria non possono nulla senza l’aiuto di Dio
Tutto quel che abbiamo detto prova con evidenza che sono la grazia e la
misericordia di Dio ad operare in noi ogni bene. Se Dio ci abbandona, a nulla
valgono le nostre fatiche e i nostri sforzi. Per quanti sforzi facciamo, non
potremo riprodurre lo stato antecedente finché Dio non ci doni di nuovo il suo
aiuto. Così vediamo avverarsi in noi le parole di s. Paolo che dice: « Non è di
chi vuole, né di chi corre, ma di Dio misericordioso » (Rm 9,16). Ma talvolta avviene che la grazia ci visiti con le sue sante ispirazioni e susciti in noi abbondanza di pensieri spirituali, proprio mentre viviamo sprofondati nella negligenza e nel rilassamento. Allora la grazia ci ispira, anche se siamo indegni, ci sveglia dal sonno, ci illumina nell’accecamento della nostra ignoranza, ci rimprovera e ci castiga con clemenza, si effonde nei nostri cuori, affinché, penetrati dalla compunzione, siamo sollecitati a svegliarci dal torpore della nostra inerzia. Spesso anche accade che in occasione di queste visite della grazia, ci sentiamo improvvisamente inondati da certi profumi che superano in soavità ogni arte umana, cosicché l’anima nostra, come sopraffatta dal piacere, è rapita e trasportata fuori di sé e dimentica di essere ancora unita alla carne. |
CAPUT VI. Quod utile nobis sit interdum a Domino
derelinqui. In tantum vero illum, quem diximus, abscessum, et, ut
ita loquar, desertionem Dei, beatus David utilem esse cognovit, ut nequaquam
maluerit orare ne a Deo penitus in nullo relinqueretur. Hoc enim sciebat
incongruum esse vel sibi, vel humanae naturae ad quamlibet pervenienti
perfectionem; sed temperari eam potius deprecatus sit, dicens: Non me
derelinquas usquequaque (Psal. CXVIII). Ac si diceret aliis verbis: Scio
quod derelinquere soleas utiliter tuos sanctos, ut eos probes. Aliter enim ab
adversario tentari non possunt, nisi a te paulisper fuerint derelicti; et ideo
non rogo ut numquam me derelinquas, quia non expedit mihi, ut non vel meam
infirmitatem |
VI - È
utile per noi essere qualche volta abbandonati da Dio
Il santo profeta David conobbe così bene l’utilità di questo allontanamento o
abbandono da parte di Dio, che nelle sue preghiere non volle mai domandare di
esserne completamente liberato: egli sapeva che tale liberazione non sarebbe
stata conveniente alla nostra natura, qualunque grado di perfezione essa possa
avere raggiunto. Perciò David si limitava a chiedere che Dio mitigasse la sua
assenza, e diceva: « Non mi abbandonare interamente »
(Sal 118,8). Era
come se dicesse: « So che per il bene dei tuoi servi sei solito abbandonarli
qualche volta e metterli, così, alla prova; altrimenti, se non fossero da te per
un poco abbandonati, il nemico non potrebbe tentarli. Perciò io non ti chiedo di
non essere mai abbandonato, che non sarebbe bene per me non poter mai dire,
convinto della mia debolezza: buon per me che mi hai umiliato (Sal 118,71), e
neppure sarebbe bene che io rimanessi privo di occasioni per esercitarmi nel
combattimento. Ed è certo che quella occasione mi mancherebbe se la tua
protezione, o Signore, non mi abbandonasse neppure un istante.
« Finché mi vede protetto dalla tua difesa, il demonio non ardirà di tentarmi e
ripeterà come un rimprovero, a te e a me, le parole provocatorie che è solito
dire contro i tuoi atleti: « Giobbe teme forse Dio senza guadagno? Non hai tu
forse recinto tutto intorno con un riparo lui e la sua famiglia e le sue
possessioni? » (Gb 1,9-10). Io ti domando, o Signore, di non abbandonarmi
completamente, o come dice il testo greco eos
sfòdra, che
significa: fino all’eccesso. Come infatti è utile che ti allontani per qualche
tempo, affinché io possa sperimentare la costanza dei miei desideri, così,
sarebbe sommamente dannoso che il tuo abbandono fosse eccessivo e sproporzionato
alla gravità dei miei peccati. Nessuna virtù umana, se nella prova resta priva
del tuo aiuto, potrà mantenersi costante; dovrà necessariamente soccombere alla
forza e all’astuzia del demonio se tu, o Signore, che conosci la debolezza
dell’uomo e moderi il combattimento, non impedisci che l’uomo sia tentato al di
là delle sue forze e non dai, con la tentazione, anche la via d’uscita, affinché
possa sopportarla » (1 Cor 10,13).
Qualche cosa di simile è detto misticamente anche nel libro dei Giudici, a
proposito dello sterminio dei popoli che si opponevano ad Israele: quei popoli -
ricordiamolo - erano figura dei nostri spirituali nemici: « Sono queste le
nazioni che Dio lasciò sopravvivere per mettere alla prova Israele e tutti
coloro che non avevan conosciuto le guerre dei Cananei, affinché i figli loro
imparassero poi a combattere coi nemici e si abituassero alla guerra » (Gdc
3,1-2). Poco dopo, lo stesso libro aggiunge : « Il Signore li lasciò
sopravvivere per mettere alla prova, per loro mezzo, Israele, e per vedere se
ascoltasse o no i comandamenti che il Signore aveva dato ai Padri per mezzo di
Mosè » (Gdc 3,4). Dio procurò queste lotte al suo popolo, non già perché avesse invidia della sua pace, o perché gli volesse arrecare dei mali, ma perché sapeva che gli sarebbero tornate utili. Umiliato dai continui attacchi di quei popoli, Israele avrebbe capito di non poter fare a meno dell’aiuto di Dio; anzi, proprio per causa di quegli attacchi sarebbe rimasto costantemente occupato nel pensiero e nell’invocazione di Dio, senza lasciarsi infiacchire dall’ozio, senza dimenticare l’arte della guerra e l’esercizio delle virtù. Spesso infatti quelli che non furono vinti dalle avversità, furono vinti dalla pace e dalla prosperità. |
CAPUT VII. De utilitate ejus pugnae quam Apostolus ponit in colluctatione carnis et spiritus. Hanc pugnam utiliter nostris quoque membris |
VII - Utilità
di quel combattimento che l’Apostolo chiama: « lotta
tra carne e spirito ».
S. Paolo ci avverte che la battaglia di cui parliamo si combatte - per nostra
utilità - nelle stesse membra del nostro corpo: « La carne ha desideri contrari
allo spirito e lo spirito li ha contrari alla carne; sono cose opposte fra loro,
sicché voi non dovete fare tutto quel che vorreste »
(Gal 5,17).
Ecco una guerra penetrata nelle membra del nostro corpo e voluta dalla
provvidenza divina. Quando una cosa si ritrova in tutti gli uomini, senza
eccezione alcuna, come fare a non giudicarla un attributo divenuto comune a
tutta l’umanità dopo la caduta? E come spiegare ciò che si trova innato in
tutti, se non ammettendo che lo ha messo in noi il Signore, il quale era mosso
nel far ciò dalla volontà di giovarci e non di nuocerci? La causa di questa guerra fra la carne e lo spirito è spiegata da s. Paolo con queste parole: « affinché non facciate tutto quel che vorreste ». A questo punto io domando: se si avverasse nei fatti quel che Dio ha cercato d’impedire: il fare cioè quel che ci talenta, non è vero che ciò sarebbe un male? E allora in qualche modo è utile questa guerra che per disposizione di Dio sta accesa nel nostro corpo: essa ci sospinge e ci sforza a diventare migliori: se per caso si spegnesse ne seguirebbe certamente una pace dannosa. |
CAPUT VIII. Interrogatio quid sit quod in capitulo Apostoli post adversantes sibi concupiscentias carnis et spiritus, tertia adjiciatur voluntas. Germanus: Licet nobis quidam intellectus in ea
praelucere videatur, tamen quia necdum possumus Apostoli sententiam ad liquidum
pervidere, volumus |
VIII - Domanda:
perché l’Apostolo, nel testo citato, dopo aver presentato la carne e lo spirito
in lotta tra loro, parla in terzo luogo della libertà?
Germano -
Da quanto è stato detto ci appare già qualche potente sprazzo del pensiero di
san Paolo, ma quel pensiero non si mostra ancora in tutta la sua luce: vorremmo
perciò che ci fosse dilucidato più a fondo.
Nel passo riferito pare si affermino tre cose: al primo posto la lotta della
carne contro lo spirito, al secondo posto la concupiscenza dello spirito contro
la carne, al terzo posto è la nostra volontà, che tiene per così dire una
posizione intermedia; dì essa si dice: « affinché non facciate tutto quel che
vorreste ». Su questo punto, nonostante ciò che è stato detto, noi conserviamo ancora qualche incertezza, perciò vorremmo - dato che questa conferenza ce ne offre l’occasione - essere illuminati maggiormente. |
CAPUT IX. Responsio de intellectu recte interrogantis. Daniel: Discernere divisiones et lineas quaestionum |
IX - Risposta:
saper interrogare è segno d’intelligenza
Daniele - È
compito dell’intelligenza conoscere gli aspetti e le grandi linee di ogni
questione; è compito della scienza far conoscere quel che prima non si
conosceva. Per questo è detto nella sacra Scrittura: « Lo stolto che interroga
sarà reputato saggio » (Pr 17,28). È chiaro infatti che colui il quale interroga
ignora la sostanza della questione, ma poiché interroga, dimostra di capire che
non ha capito; proprio questo in lui sarà stimato sapienza: aver riconosciuto
prudentemente quel che non sapeva.
Secondo la vostra divisione sembra che l’Apostolo nomini tre cose: la
concupiscenza della carne contro lo spirito, la concupiscenza dello spirito
contro la carne, la causa di questo combattimento che consiste - per usare le
parole stesse dell’Apostolo - nell’impedirci di fare quel che vorremmo. Ma c’è
un quarto elemento che a voi è sfuggito, ed è che noi, da questa lotta, siamo
spinti a fare ciò che non vorremmo. Ecco dunque il nostro compito. Dobbiamo innanzi tutto imparare a conoscere queste due concupiscenze: quella della carne e quella dello spirito; poi esamineremo che cosa sia questa volontà che sta di mezzo fra le due concupiscenze; infine esamineremo quel che non è in potere della nostra volontà. |
CAPUT X. Quod vocabulum carnis non in una significatione ponatur. Vocabulum carnis in Scripturis sanctis multifarie |
X - La
parola "carne” non è usata univocamente
La parola « carne », nella sacra Scrittura, è usata in molti significati.
Talvolta indica l’uomo nella sua completezza, come composto d’anima e di corpo,
così si dice: « Il Verbo s’è fatto carne » (Gv 1,14), oppure: « Ogni carne vedrà
la salute di Dio » (Lc 3,6). Altre volte significa gli uomini peccatori carnali:
« Il mio spirito non abiterà nell’uomo sempre, perché egli è carne » (Gen 6,3).
Altre volte ancora, « carne » è sinonimo di peccato, come quando si dice: « Voi
non siete nella carne, ma nello spirito » (Rm 8,9), oppure: « La carne e il
sangue non possederanno il regno di Dio » (1 Cor 15,50), a cui si aggiunge
immediatamente: « Né la corruzione può ereditare l’incorruttibilità ». In certi
casi la parola « carne » indica discendenza da uno stesso stipite, parentela,
come quando è detto: « Ecco, noi siamo tue ossa e tua carne » (2 Sam (2 Re;
Vulg.), 5,1). Anche l’Apostolo usa il termine in questo senso: « Se mi avverrà
di suscitare l’emulazione della mia carne (=la gente della sua stirpe) e di
poterne salvare qualcuno » (Rm 11,14).
Ora bisogna scoprire in quale di questi quattro significati è usato il termine «
carne » nel testo che c’interessa. È chiaro che il primo significato, quello riscontrato nelle parole: « Il Verbo s’è fatto carne » e « Ogni carne vedrà la salvezza di Dio », non può fare al caso nostro. Neppure il secondo significato, quello che sottostà alle parole: « Il mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne », va bene per noi. Nel testo di san Paolo: « La carne ha desideri contro lo spirito e lo spirito ha desideri contro la carne », non s’intende parlare semplicemente ed esclusivamente dell’uomo peccatore, come invece intende il Genesi quando dice: « il mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne ». Inoltre l’Apostolo non parla di una sostanza ma di due attività che si affrontano in uno stesso uomo, sia che vi si trovino contemporaneamente, sia che si succedano col variare dei tempi. |
CAPUT XI. Quid in hoc loco caro ab Apostolo nominetur, et quid sit concupiscentia carnis. Quamobrem in hoc loco carnem non hominem, id est,
hominis substantiam, sed voluntatem carnis et desideria debemus pessima
accipere: sicut nec spiritum quidem aliquam rem substantialem, sed animae
desideria bona et spiritalia designare. Quem sensum idem beatus Apostolus
superius evidenter expressit, ita dicens: Dico autem, spiritu ambulate, et
desideria carnis non perficietis. Caro enim concupiscit adversus spiritum,
spiritus vero adversus carnem. |
XI - Che
cosa significa "carne" per san Paolo e che cosa sia la concupiscenza della carne
Quando san Paolo dice « carne », non si deve intendere l’uomo, cioè la sostanza
dell’uomo; si deve intendere invece la volontà della carne o i cattivi desideri.
Allo stesso modo, quando l’Apostolo dice « spirito », non intende qualcosa di
sostanziale, ma indica le aspirazioni buone e spirituali. Questo senso si
ritrova chiarissimo nel passo già tante volte citato, purché lo si legga per
intero. Eccolo ora fin dal suo inizio: « Io dico: conducetevi secondo lo spirito
e non soddisfate i desideri della carne. La carne ha desideri contrari allo
spirito e lo spirito li ha contrari alla carne; son cose opposte fra loro,
sicché voi non dovete fate tutto quel che vorreste » (Gal 5,16-17).
Siccome questi contrastanti desideri - quelli della carne e quelli dello spirito
- coabitano in un solo uomo, ne nasce una guerra intestina che non ha mai
tregua. La concupiscenza della carne si precipita al vizio e si diletta di tutti quei piaceri che riguardano la tranquillità terrestre; la concupiscenza dello spirito si oppone a quei piaceri e tanto desidera dedicarsi ai pensieri delle cose celesti, che vorrebbe liberarsi anche dalle più elementari necessità della carne. Tanto vorrebbe unirsi a Dio da rifiutare al corpo persino quelle cure che la nostra fragilità esige assolutamente. La carne si pasce di lussuria e di libidine, lo spirito non vuole ascoltare neppure i desideri conformi alla natura. Quella ama saziarsi di sonno e riempirsi di cibo, questo vuole tanto impinguarsi di veglie e di digiuni che si mostra insofferente del sonno e del cibo anche nella misura richiesta dalle necessità del vivere. Ad una piace abbondare in tutto, all’altro sembra anche troppo avere ogni giorno una modesta razione di pane. Quella si diletta ad abbellirsi con bagni quotidiani, e desidera essere attorniata da turbe di adulatori; questo gode di un corpo squallido e mal vestito e della sconfinata vastità del deserto, dove può evitare la presenza degli uomini. Quella si pasce con gli onori e le lodi degli uomini, questo si vanta delle ingiurie e delle persecuzioni che gli possono capitare. |
CAPUT XII. Quae sit voluntas nostra, quae inter
concupiscentiam carnis et spiritus ponitur. Inter has igitur utrasque concupiscentias, animae
voluntas in meditullio quodam vituperabiliore consistens, nec vitiorum flagitiis
oblectatur, nec virtutum doloribus acquiescit, sic quaerens a passionibus
carnalibus temperari, ut nequaquam velit dolores necessarios sustinere, sine
quibus desideria spiritus
|
XII - Che
cosa sia la volontà che viene situata tra la concupiscenza della carne e quella
dello spirito
Tra le due concupiscenze che la sollecitano, la nostra volontà sceglie e
mantiene una vituperevole via di mezzo: non si diletta delle brutture del vizio,
ma neppure acconsente ai sacrifici della virtù. Cerca di star lontana dalle
passioni della carne, ma non vuol sostenere quelle prove dolorose senza le quali
non si possono compiere i desideri dello spirito. Vuol possedere la castità del
corpo senza castigare la carne; acquistare la purezza del cuore, senza la
pratica delle veglie; essere ricca di virtù, senza rinunziare al piacere della
quiete; possedere la grazia della pazienza, senza essere colpita dalla rudezza
delle ingiurie; praticare l’umiltà di Cristo, senza patire la perdita degli
onori mondani. Vorrebbe, sì, abbracciare la semplicità della religione, ma non
perdere per questo gli applausi e le approvazioni degli uomini; vorrebbe
professare integralmente la verità, ma senza dispiacere minimamente ad alcuno;
in una parola: pretenderebbe assicurarsi i beni eterni, senza rinunciare a
quelli presenti.
Una simile volontà non ci acconsentirà mai di raggiungere la vera perfezione; ci
indurrà piuttosto in uno stato deplorevole di tiepidezza: ci farà somiglianti a
colui che il Signore colpisce col suo rimprovero nell'Apocalisse: ”Io so le tue
opere, che non sei né freddo né fervente. Fossi tu freddo oppure fervente! Ma
poiché sei tiepido, e non fervente né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca
» (Ap 3,15-16).
Rallegriamoci dunque che le guerre insorgenti da ogni parte, tra la carne e lo
spirito, rompano il grigiore della nostra tiepidezza! Se, per compiacere alla
nostra volontà, ci lasciamo andare un poco verso il rilassamento, subito il
pungiglione della carne insorge e ci percuote: i vizi e le passioni non ci
permettono di rimanere in quello stato di purezza che tanto ci diletta, ma ci
trascinano, per ima via spinosa, verso quella fredda voluttà che ci fa orrore.
Se invece, accesi di fervore spirituale e decisi a sopprimere le opere della
carne, pensiamo di consacrarci completamente alla pratica della virtù, e ciò
senza tener conto della fragilità umana, ecco che la debolezza della carne ci
frena e ci richiama dalla nostra dannosa esagerazione.
Nel contrasto tra le due opposte concupiscenze, la volontà dell’anima, che trova
ripugnanza ad abbandonarsi completamente ai desideri della carne, ma trova
altresì difficile faticare e sudare per osservare la virtù, viene a stabilirsi
in un certo stato di equilibrio. Il contrasto tra le due forze opposte allontana
l’inclinazione più dannosa e pone in noi una specie di facoltà regolatrice che
segna con giusta distinzione i confini tra ciò che è spirituale e ciò che è
carnale, senza permettere che l’anima nostra inclini di più a destra,
sollecitata dagli ardori eccessivi dello spirito, o a sinistra, incitata
dall’aculeo del vizio.
Questa guerra intestina di cui ciascuno di noi è ogni giorno campo di battaglia,
ha, come buon risultato, quello di condurci a quel « quarto effetto » di cui
sopra parlavamo, a fare cioè anche le cose che non vorremmo, quando siano
giovevoli all’anima. E di che si tratta più esplicitamente? Di acquistare la
purezza del cuore, non già attraverso l’ozio e la tranquillità ma con la fatica
continua e la contrizione dello spirito; di conservare la castità con digiuni
severi, nella fame, nella sete, nella vigilanza; di dare al nostro cuore
l’orientamento verso Dio per mezzo della lettura divina, le veglie, la preghiera
continua, la nuda solitudine del deserto; di conservare la pazienza con la
sopportazione delle avversità; di servire il nostro Creatore tra le offese e gli
obbrobri; di dir la verità anche a costo di attirarci - se necessario -
l’abbandono e l’inimicizia del mondo.
Finché dura nel nostro corpo questa lotta, noi siamo strappati alla pigra
sicurezza ed eccitati all’amore della virtù: è così che si stabilisce in noi un
giusto equilibrio. La tiepidezza della nostra libera volontà viene ad essere
corretta: il suo correttivo è, da una parte, l’ardore dello spirito che la
stimola, dall’altra parte, il freddo rigore della carne che fa da contrappeso
all’ardore dello spirito. La concupiscenza dello spirito non permette che
l’anima sia trascinata verso i vizi sfrenati, la fragilità della carne - a sua
volta - non permette che lo spirito si spinga fino ad un desiderio irragionevole
della virtù. In tal modo resta impossibile ai vizi d’ogni sorta di pullulare;
resta impossibile anche alla nostra malattia capitale, che è la superbia, di
manifestarsi e produrre in noi ferite più gravi.
Dalla lotta fra gli opposti nasce l’equilibrio. Si apre così, fra i due eccessi,
la via della virtù, saggia e moderata: quella è la via che guida i passi del
soldato di Cristo. Se la debolezza della nostra volontà tanto accidiosa, porta
l’anima troppo violentemente verso i piaceri della carne, la concupiscenza dello
spirito pone un freno, perché lo spirito non sa adattarsi ai vizi del mondo. Ma
se il fervore eccessivo d’un cuore esaltato trasporta lo spirito a pratiche
impossibili e inopportune, la infermità della carne lo ricondurrà al giusto
grado d’intensità. Lo spirito perciò, dopo aver superato lo stato di torpore
della volontà, ed aver raggiunto una buona moderazione nel fervore, avanzerà con
slancio e con fatica, per la via della perfezione, fattasi ormai sicura e piana. Qualcosa che fa al caso nostro si legge nel Genesi, là dove è narrata la costruzione della torre di Babele, quando la improvvisa confusione delle lingue pose fine alle bravate sacrileghe ed empie degli uomini. La tremenda concordia della ribellione a Dio, (meglio sarebbe dire la concordia nel danneggiare se stessi con l’attentato alla divina maestà) sarebbe durata chissà quanto se Dio non avesse chiamato gli uomini a miglior consiglio con la confusione delle lingue e il contrasto delle parole. Fu quel benefico disaccordo a rimettere sulla via della salvezza coloro che da una detestabile concordia erano condotti verso la perdizione. La divisione che entrò fra loro li condusse a riconoscere quella fragilità umana che prima, nell’orgoglio della colpevole concordia avevano ignorato. |
CAPUT XIII. De utilitate cunctationis quae ex colluctatione oritur carnis et spiritus. In tantum vero utilis nobis ex hujus pugnae diversitate |
XIII - Utilità
della lentezza che nasce dalla lotta tra carne e spirito
Da questo scontro di forze contrarie nasce una lentezza per noi vantaggiosa, un
indugio salutare. Mentre la pesantezza del corpo ci ritarda dal compiere quei
cattivi pensieri che la mente concepì, accade talvolta che ci assalga il rimorso
o si produca in noi un certo miglioramento, per lo più effetto di riflessione e
di indugio ad agire. In tal modo avviene che noi ci correggiamo e veniamo a
sentimenti migliori per le resistenze che la carne ci ha opposto. Vediamo invece che coloro i quali non sono ritardati dall’ostacolo della carne nel mandare ad effetto i desideri della volontà - intendo dire i demoni e gli spiriti del male - son decaduti dall’ordine eccelso degli angeli e diventati peggiori degli uomini. In loro, desiderio e possibilità di tradurlo in pratica, stanno ad immediato contatto, e perché l’esecuzione dei malvagi propositi non può subire alcun ritardo, il male che fanno è irrevocabile. Quanto è pronto il loro spirito a pensare il male, altrettanto è pronta la loro natura a farlo; ma la facilità di cui essi godono nel fare tutto quello che vogliono, toglie alla facoltà deliberativa l’occasione d’intervenire per correggere - col suo salutare intervento - il male che era nel pensiero. |
CAPUT XIV. De inemendabili malitia spiritalium nequitiarum. Spiritalis namque substantia, nec ulla carnis
soliditate devincta, ut excusationem exortae in se pravae non recipit
voluntatis, ita veniam malignitatis excludit, quia nulla quemadmodum nos ad
peccandum impugnatione carnis extrinsecus lacessita est, sed vitio solius malae
voluntatis accensa, et ob hoc sine venia peccatum et languor sine remedio |
XIV - Malizia
incorreggibile degli spiriti malvagi
La sostanza spirituale, per non essere gravata dalla pesantezza della carne, non
ha alcuna scusa da addurre contro i cattivi propositi che nascono in essa. Per
questo non le può essere perdonata la sua malignità. Nelle sostanze spirituali
il male non è sollecitato - come in noi - dagli assalti della carne, ma è acceso
unicamente dalla malizia della volontà perversa. Il loro peccato è quindi senza
perdono, il loro male senza rimedio. Siccome la caduta non è stata provocata in
loro da una natura terrestre, così non possono ottenere indulgenza o tempo di
pentirsi. Da ciò si deduce chiaramente che la guerra combattuta in ciascuno di noi tra la carne e lo spirito, non solo non è fonte di danno, ma è, al contrario, fonte di non piccola utilità. |
CAPUT XV. Quid nobis prosit carnis adversus spiritum concupiscentia. Primo quod desidias ac negligentias nostras statim
arguit, et, ut quidam diligentissimus paedagogus, a districtionis et disciplinae
linea numquam nos deviare concedens, si paululum quid securitas nostra mensuram
congruae severitatis excesserit, |
XV - In
che cosa ci giova la concupiscenza della carne contro lo spirito
Il primo vantaggio di questa lotta è che ci convince della nostra pigrizia e
della nostra negligenza. A somiglianza di un espertissimo pedagogo, non permette
che noi abbiamo mai ad allontanarci dalla via della stretta osservanza e della
regolarità. Se per caso la nostra spensieratezza oltrepassa i limiti
di serietà prescritta alla nostra condotta, il flagello della tentazione subito
ci stimola e d richiama, rimproverandoci, all’austerità che dobbiamo osservare.
Vediamo ora il secondo vantaggio. Il favore della grazia divina ha voluto che la
nostra castità rimanesse lungo tempo immune dagli assalti e dagli appetiti della
carne. Noi abbiamo incominciato a credere per questo di essere ormai liberati
anche dai più innocenti movimenti carnali: ci siamo inorgogliti nel segreto
della nostra coscienza, come se non avessimo più da portare il peso di questo
corpo corruttibile. Ma ecco che all’improvviso siamo sorpresi da qualche moto
carnale, sia pure involontario e non colpevole, che ci abbatte, ci umilia e ci
ricorda che siamo dei poveri uomini sottoposti agli stimoli della carne.
Di solito noi ci disinteressiamo, senza neppur provare pentimento, di certi
difetti che sono assai più gravi e dannosi di quei fenomeni spontanei che si
producono nella sfera sessuale del nostro organismo: ciò perché il vizio della
carne ha questo di particolare: ci umilia di più.
Oltre a ciò un esperimento triste di genere carnale risveglia in noi il rimorso
anche per altre passioni, delle quali non ci diamo alcun pensiero. L’anima non
fa gran caso ai vizi dello spirito, quantunque contragga da quelli le sue
vergogne più gravi, ma nel vizio della carne si rende conto con cruda chiarezza
che la concupiscenza la macchia d’impurità. Allora si dà premura di correggere
la sua negligenza anteriore e si mette in guardia dalla eccessiva fiducia nella
castità già per lungo tempo conservata: è bastato infatti che si allontanasse un
istante dal Signore, perché tutta la sua castità andasse perduta. In tal modo si
convince che non potrà godere il dono della castità senza una grazia particolare
di Dio. Questo è l’insegnamento che ci dà l’esperienza, affinché, se ci preme vivere in una costante integrità di cuore, ci sforziamo senza posa di acquistare la virtù dell’umiltà. |
CAPUT XVI. De incentivis carnis, quibus, nisi humiliaremur, gravius rueremus. Hujus igitur puritatis elationem perniciosiorem futuram
cunctis sceleribus atque flagitiis, et ob hanc nihil nos emolumenti consecuturos
pro qualibet castitatis integritate, testantur illae virtutes quarum superius
fecimus mentionem, quae cum nullas hujusmodi titillationes carnis habuisse
credantur,
|
XVI - Le
nostre cadute sarebbero più miserevoli se gli impulsi della carne non fossero
tanto umilianti
L’orgoglio concepito da noi, a causa della castità posseduta, sarebbe il più
funesto fra tutti i delitti. Qualunque possa essere la perfezione della nostra
castità, se l’accompagneremo con l’orgoglio, non potremo averne alcun
giovamento. Ci fanno fede di ciò le potenze del male, delle quali abbiamo fatto
menzione più sopra: ad esse le tentazioni della carne erano assolutamente
sconosciute, ma la superbia del cuore bastò a precipitarle nel baratro eterno,
da quello stato sublime di gloria che occupavano in cielo. Se la tentazione della carne non venisse ad incuorarci profonda umiltà, ad umiliarci salutarmente, a renderci attenti e ferventi nel purificare anche i vizi dello spirito, noi saremmo irrimediabilmente condannati alla tiepidezza. Privi nel corpo e nello spirito di un indice rivelatore della nostra accidia, non ci daremmo premura di raggiungere il fervore della perfezione, non saremmo neppur fedeli all’esatta osservanza della sobrietà e dell’astinenza. |
CAPUT XVII. De eunuchorum tepore Denique in his qui spadones sunt corpore, idcirco hunc
animi teporem plerumque inesse deprehendimus, |
XVII - Tiepidezza
di coloro che sono casti per difetto naturale Coloro che son privi dell’integrità fisica, gli eunuchi, li abbiam visti quasi sempre adagiati nella tiepidezza. Liberi come sono dagli assalti della carne, credono di poter fare a meno della mortificazione corporale e della contrizione del cuore. Infiacchiti da questa sicurezza, non si curano di cercare e di acquistare la purezza del cuore e la liberazione dai vizi dello spirito. Il loro stato, che si distingue da quello carnale, diventa facilmente uno stato animale. Si tratta certamente di un passaggio verso il peggio, perché è un andare dalla freddezza alla tiepidezza, la qual tiepidezza, secondo la parola del Signore nell’Apocalisse, è la cosa più abominevole che esista. |
CAPUT XVIII. Interrogatio quid intersit inter carnalem et animalem. Germanus: De utilitate colluctationis quae inter carnem et spiritum suscitatur, quantum videtur nobis evidenter expressum est, ita ut eam ipsis quodammodo manibus nostris palpabilem factam esse credamus. Et idcirco hanc quoque rationem nobis similiter cupimus aperiri, quid intersit inter carnalem et animalem virum, vel quemadmodum animalis carnali possit esse deterior. |
XVIII - Domanda:
quale differenza passa tra un uomo carnale e uno spirituale? Germano - Con quel che siete andato dicendo, voi ci avete resa evidente l’utilità del combattimento fra la carne e lo spirito: l’evidenza è tanto grande che quasi ci sembra di toccarla con mano. Ora vi preghiamo di sviluppare l’ultimo vostro accenno e di spiegarci la differenza fra uomo carnale e uomo animale, e la ragione per cui l’uomo animale è peggiore dell’uomo carnale. |
CAPUT XIX. De triplici animarum statu. Daniel: Secundum definitionem Scripturae tres |
XIX - Risposta
sul triplice stato delle anime
Daniele -
Tre sono, secondo la Scrittura, gli stati dell’anima: il primo è lo stato
carnale, il secondo animale, il terzo spirituale. Di tutti e tre questi stati
parla s. Paolo. Ecco che cosa dice degli uomini carnali: « Vi ho dato del latte
a bere, non del cibo solido, perché non eravate ancora in grado di tollerarlo.
Ma neanche ora siete in grado, perché siete ancora carnali » (1 Cor 3,2). E
aggiunge: « Dal momento che vi sono in voi gelosie e contese, non è egli vero
che siete carnali? » (1 Cor 3,3).
Dell’uomo animale l’Apostolo parla in questi termini: « L’uomo animale non
capisce le cose dello spirito di Dio: per lui sono stoltezze » (1 Cor 2,14).
E dell’uomo spirituale parla così: « L’uomo spirituale giudica tutto, ed egli
non è giudicato da alcuno » (1 Cor 2,15). Ancora: « Voi siete spirituali,
correggete questi tali con spirito di mitezza ».
Per mezzo della rinuncia noi abbiamo cessato di essere uomini carnali, ci siamo
cioè separati dalla vita secolaresca e abbiamo rotto i rapporti con i disordini
della carne. Ora però, animati da santa premura, dobbiamo impegnarci con tutte
le nostre forze per passare immediatamente allo stato spirituale, onde non
avvenga che, sopravvalutando la rinuncia al mondo e alle opere della carne, ci
persuadiamo falsamente di aver raggiunto in un momento la più alta perfezione,
facendoci così più fiacchi e più lenti a purificarci dalle altre passioni. Se
cadessimo in questa illusione non ci fermeremmo certamente a mezza strada fra lo
stato carnale e quello spirituale. Non andremmo verso lo stato più alto, perché
convinti che per essere perfetti è sufficiente la separazione esteriore dal
mondo e dai suoi piaceri, la liberazione dalle corruttele e dalle imprese della
carne; ma neppure rimarremmo fissi in una posizione intermedia. È fuori dubbio
che non potremmo evitare di cadere nello stato più temibile in cui possa
trovarsi un’anima. Noi cadremmo inevitabilmente nello stato di tiepidezza che è
il peggiore di tutti; così non ci resterebbe altro che essere vomitati dalla
bocca del Signore, secondo quanto dice egli stesso nell’Apocalisse: « Fossi tu
almeno freddo o caldo! Ma sei tiepido, e io sto per vomitarti dalla mia bocca »
(Ap 3,15-16).
A buon diritto il Signore dice di voler rigettare con un movimento di ripulsa
coloro che, dopo essere stati ricevuti nelle viscere della sua carità, hanno
contratto una dannosa tiepidezza. Costoro potevano essere - ci si perdoni
l’immagine - un sano nutrimento per il Signore, hanno invece preferito essere
violentemente espulsi dal suo cuore. Son divenuti somiglianti al cibo
detestabile che lo stomaco rifiuta sotto gli stimoli della nausea: questo cibo è
assai peggiore di quello che mai si accostò alle labbra divine.
Il cibo freddo si fa caldo quando penetra nella nostra bocca: noi ce ne nutriamo
con piacere e giovamento, ma il cibo rigettato per la sua insopportabile
tiepidezza, non possiamo più portarlo alle labbra, anzi non possiamo neppur
guardarlo di lontano senza provare un senso di repulsione.
È giusto dunque che l’anima tiepida sia proclamata la peggiore di tutte. L’uomo
carnale, vale a dire il mondano o il pagano, per giungere alla vera conversione
e per salire alla più alta santità, si troverà sommamente avvantaggiato su colui
che ha fatto professione di vita monastica ma non ha abbracciato risolutamente
la via della perfezione, né si è conformato alle leggi della disciplina
monastica, facendo perciò raffreddare il fuoco del fervore iniziale.
L’uomo carnale sarà salutarmente umiliato dai vizi della carne, si riconoscerà
immondo: forse un giorno correrà pentito alla fonte della vera purificazione e
salirà poi al culmine della vita perfetta: il disgusto che proverà per lo sta-
sto d’infedeltà e freddezza in cui si trova, lo riempirà di santo ardore e gli
darà ali per volare più facilmente alla perfezione. Ma colui che fin da
principio ha disonorato con la sua tiepidezza il nome di monaco; che ha portato
nella sua professione né umiltà né zelo, una volta colpito dal cancro della
tiepidezza, sarà da quello corroso; né per volontà propria, né per richiamo
fraterno di altri, sarà capace di gustare la perfezione. Egli infatti dice in
cuor suo, come ci assicura il Signore: « Sono ricco, sono nell’abbondanza, non
ho bisogno di nulla » (Ap 3,17). A lui però vanno anche applicate le parole che
seguono: « Tu sei meschino e miserabile e pitocco e cieco e nudo » (Ap 3,17).
Egli è peggiore di un uomo mondano perché non ha coscienza della sua miseria,
del suo accecamento, della sua nudità: in lui non c’è nulla da correggere; egli
non ha bisogno né delle ammonizioni né delle correzioni dei fratelli, perciò non
accetta neppure una di quelle parole che potrebbero salvarlo. Non si accorge che
il titolo di monaco è per lui un peso che lo schiaccia: la pubblica opinione lo
crede santo, gli rende onore come a un servo di Dio: per questo il giudizio e la
condanna saranno per lui più gravi.
Ma perché dilungarci su cose che l’esperienza ci ha fin troppo comprovate? Noi
abbiamo visto spesso uomini freddi, carnali, cioè mondani o pagani, diventare
ferventi e spirituali, mai abbiamo visto verificarsi qualcosa di simile in
uomini tiepidi e animali. Leggiamo anzi che il Signore, rappresentato dal suo
profeta, tanto detesta i tiepidi da comandare agli uomini spirituali e ai suoi
dottori di astenersi dal- l’istruirli e dall’ammonirli. Spargerebbero infatti il
seme della parola di vita in terreno sterile e incolto, tutto coperto di acute
spine; perciò è meglio allontanarsi da loro e andare a spargere il seme in una
terra nuova. In altre parole; è meglio trasferire ai pagani e ai mondani
l’insegnamento della dottrina e la seminagione della parola che salva. « Così dice il Signore agli uomini di Giuda e agli abitanti di Gerusalemme: dissodatevi un campo novale e non seminate sopra le spine » (Ger 4,3). |
CAPUT XX. De male abrenuntiantibus. Denique, quod pudet dicere, ita plerosque abrenuntiasse
conspicimus, ut nihil amplius immutasse de anterioribus vitiis ac moribus
comprobentur, nisi ordinem tantummodo atque habitum saecularem (Vide collat.
3, cap. 3, 6 et seq.). Nam et acquirere pecunias gestiunt, quas nec ante
possederunt; vel certe, quas habuerant, retinere non desinunt; aut, quod est
lugubrius, etiam amplificare desiderant, sub hoc praetextu quod vel famulos suos
semper exinde vel fratres alere se debere justum esse contendunt, vel certe sub
obtentu congregandi coetus reservant, quem velut abbates, instituere se posse |
XX - Coloro
che hanno mal rinunciato al mondo
Mi vergogno a dirlo, ma
tutti vediamo che la più gran parte dei monaci ha rinunciato al mondo in modo
tale da far chiaramente conoscere che, dei vizi e della vita passata, ha
lasciato soltanto l’apparenza e l’abito esteriore. I nostri monaci si struggono
di acquistare ricchezze che prima non avevano, oppure continuano a possedere
quelle che prima avevano. Talvolta - e questo è più triste - si dànno pensiero
di aumentare le loro ricchezze col pretesto che con quelle hanno da mantenere i
loro servi e fratelli [1].
Altra volta si tengono le ricchezze, con la scusa che hanno da fondare una
comunità di cenobiti con annesso monastero: perché - non dimentichiamolo! - sono
anche così umili da stimarsi predestinati alla carica di abati.
Tutti costoro, se cercassero davvero la via della perfezione, impegnerebbero
ogni forza, non solo a liberarsi dalle ricchezze, ma anche a liberarsi dalle
vecchie passioni e a sbarazzarsi da ogni preoccupazione mondana. Poi si
metterebbero - soli e privi di tutto - sotto la guida degli anziani, senza
pretendere di governare gli altri e neppure se stessi. Invece accade esattamente
il contrario. Desiderosi come sono di comandare, non si sottomettono mai agli
anziani: essi incominciano a edificare la loro vita spirituale sul fondamento
della superbia, e mentre vogliono formare i loro confratelli, né imparano né
fanno essi stessi quello che pretendono d’insegnare agli altri. È quindi
inevitabile che questi ciechi, fatti guide di altri ciechi, vadano insieme a
cader nella fossa (Mt 15,14).
L’orgoglio di
cui parliamo, nonostante la sua fondamentale unità, ha due specie diverse. La
prima mostra al di fuori serietà e gravità, la seconda - nella sua libertà
sfrenata - s’abbandona a risa sgangherate e sciocche. La prima specie si diletta
del silenzio, l’altra invece mal sopporta il silenzio e non si perita di parlare
spesso anche di cose stupide e sconvenienti; ha timore di una cosa sola: di non
essere tenuta in gran conto, di non essere stimata dotta. I monaci della prima
specie aspirano al sacerdozio per elevarsi, quelli della seconda specie
disprezzano il sacerdozio come troppo meschino, in proporzione ai meriti della
loro vita e del loro casato.
Di queste due specie d’orgoglio, quale è la peggiore? Ciascuno giudichi a suo
piacere. Essenzialmente è un medesimo atto d’insubordinazione quello di chi si
dà a un lavoro non concesso e quello di chi si dà all’ozio; è ugualmente
riprovevole chi contravviene alle regole del monastero, sia che questo avvenga
per vegliare, sia che avvenga per dormire; è ugualmente grave venir meno al
comando dell’abate per darsi al sonno o per darsi alla lettura; è atto che parte
dalla stessa radice della superbia disprezzare un fratello: sia che lo si
disprezzi perché digiuna, sia perché mangia. C’è semmai da notare che i vizi ammantati con le apparenze della virtù e avvolti in paludamenti spirituali, son più dannosi e più difficili a guarirsi di quelli che hanno come loro evidente origine il piacere della carne. Questi ultimi, somiglianti a malattia che tutti vedono, si manifestano spontaneamente, perciò possono essere facilmente sanati. Invece quei vizi che si nascondono sotto le apparenze della virtù, non sono curati e si radicano più profondamente. Per questo fanno ammalare sempre più gravemente coloro che ne sono colpiti. |
CAPUT XXI. De his qui, contemptis magnis, occupantur in parvis. Jam illud ridiculum qualiter exprimatur, quod nonnullos
post illum primae renuntiationis ardorem, quo vel res familiares vel opes
plurimas ac militiam saeculi relinquentes, semetipsos ad monasteria contulerunt,
tanto cernimus studio in his quae penitus abscindi non possunt, et quae nequeunt
in hoc ordine non haberi, quamvis parva viliaque sint, esse devinctos, ut horum
cura pristinarum omnium facultatum superet passionem (Collat. 3 cap. 3).
Quibus profecto non magni proderit majores opes ac |
XXI - Coloro
che dopo aver lasciato le cose grandi, sì fanno dominare da quelle piccole
Io non saprei come spiegare questo fatto ridicolo: molti hanno lasciato
patrimoni e ricchezze ingenti, hanno abbandonato la vita del secolo, si sono
ritirati nei monasteri, ma poi, dopo aver perduto l’ardore della prima rinuncia,
si sono attaccati fortissimamente a quelle cose insignificanti alle quali non si
può rinunciare del tutto, e che si trovano anche presso noi monaci.
L’attaccamento a queste cose da nulla supera la passione che ebbero un tempo per
le grandi ricchezze. A costoro non gioverà nulla aver lasciato patrimoni ingenti
perché hanno riversato su cose umili e spregevoli quell’affetto al quale
intendevano rinunziare quando disprezzarono le prime ricchezze.
Non potendo più esercitare la loro cupidigia e la loro avarizia su cose
preziose, la trasferiscono su cose da nulla: e questo dimostra che la loro
vecchia passione non è morta: ha solo cambiato oggetto. Presi da esagerata
premura per una stuoia, per una sporta, per una bisaccia, per un manoscritto e
altre cose simili e di nessun valore, lasciano capire che sono ancora in preda
alla vecchia libidine di possesso. Custodiscono e difendono queste inezie con
tanto accanimento che per esse non si vergognano d’inquietarsi e perfino di
litigare con qualche fratello. Costoro, per essere ancora affetti dalla febbre
dell’antica cupidigia, non si accontentano di avere, nello stesso numero e nella
stessa misura dei loro fratelli, quegli oggetti che le necessità del corpo
rendono necessari anche ai monaci. Dimostrano l’avarizia del loro cuore anche in
altro modo: o perché vogliono avere più abbondantemente degli altri gli oggetti
necessari, o perché custodiscono quegli stessi oggetti con una diligenza
smoderata, con spirito di avidità e di possesso, fino al punto di non permettere
che altri tocchino quello che è affidato a loro ma appartiene a tutti. Mostrano
di credere che la colpa dell’avarizia risiede tutta e soltanto nella preziosità
dei metalli, non nello spirito di cupidigia.
Se non è permesso andare in collera per cose di gran conto, sarà permesso per le
cose da nulla? Noi abbiamo lasciato le cose preziose per imparare a disprezzare
più facilmente quelle vili. Che un uomo si turbi a causa di cose preziose e
belle, o a causa di cose spregevoli, che differenza c’è? Certamente questa: è
più degno di biasimo chi si fa schiavo di cose da nulla, dopo aver disprezzato
quelle grandi. La forma di rinuncia da noi lamentata non può ottenere la perfezione del cuore, perché sebbene iscriva il monaco nel catalogo dei poveri, non gli fa perdere la volontà del ricco. |
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24 maggio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net