LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
2.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE MOSÈ
LA
DISCREZIONE
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei Capitoli
I - Esordio dell'abate Mosè sulla grazia della discrezione;
II - I vantaggi che il monaco può trovare nella sola discrezione, e discorso del
beato Antonio su tale argomento;
III - Errore in cui caddero Saul e Acab per non aver avuto conoscenza della
discrezione;
IV - Testimonianze della sacra Scrittura sul valore della discrezione;
V - La morte del vecchio Erone;
VI - Due monaci vanno incontro alla morte per ignoranza della discrezione;
VII - Illusione in cui cadde un altro monaco per ignoranza della discrezione;
VIII - Caduta di un monaco della Mesopotamia che si lasciò ingannare;
IX - Domanda sui mezzi per acquistare la vera discrezione;
X - Risposta sul modo di acquistare la vera discrezione;
XI - Parole dell'abate Serapione. I cattivi pensieri perdono il loro veleno se
manifestati. Pericolo della confidenza in noi stessi;
XII - Domanda sulla vergogna che ci fa arrossire nel rivelare i nostri pensieri
agli anziani;
XIII - Risposta sul dovere di calpestare la falsa vergogna e sul pericolo di non
avere compassione;
XIV - La vocazione di Samuele;
XV - La vocazione dell'apostolo Paolo;
XVI - Dovere di tendere all'acquisto della discrezione;
XVII - Digiuni e veglie senza discrezione;
XVIII - Domanda sulla misura del mangiare e del digiunare;
XIX - Quale sia la misura ottima del cibo quotidiano;
XX - Obiezione: l'astinenza non è difficile se si possono avere due pagnotte al
giorno;
XXI - Risposta: l'astinenza - se fedelmente osservata - è difficile;
XXII - Quale sia la regola generale dell'astenersi e del mangiare;
XXIII - Come regolare la sovrabbondanza degli umori;
XXIV - Fatica che richiede una regola costante nel mangiare, golosità del monaco
Beniamino;
XXV - Domanda: come si possa tener sempre la stessa misura;
XXVI - Risposta: nel mangiare non si deve mai oltrepassare la misura stabilita.
I - Esordio dell'abate Mosè
sulla grazia della discrezione
Dopo aver concesso al sonno le
prime ore del mattino, finalmente - col cuore tumultuante di gioia - vedemmo il
sole tornare a splendere, e subito chiedemmo di riprendere la conferenza
interrotta. L'abate Mosè incominciò: quanto desiderio, quale struggente fiamma
vi divora? Io dubito che i pochi istanti sottratti alla nostra conversazione
spirituale e concessi al sonno vi abbiano veramente giovato.
Osservando in voi tanto fervore,
io mi sento confuso. Quanto più è grande il vostro desiderio, tanto più dovrà
esser grande il mio impegno nel soddisfarlo, secondo quella parola della
Scrittura che dice: " Quando siedi commensale di un gran signore, sta attento a
ciò che ti vien messo dinanzi, e quando allunghi la mano, pensa che anche tu
dovrai imbandire un banchetto somigliante " (Pr 23, 1-2).
Incominciamo dunque a parlare del
valore della discrezione, argomento che già avevamo pregustato la scorsa notte,
quando mettemmo fine alla nostra conferenza.
Innanzi tutto sarà bene
sottolineare l'eccellenza di questa virtù, riferendo le sentenze dei Padri a suo
riguardo. Allorché avremo conosciuto il pensiero dei Padri, porterò esempi
riguardanti le miserevoli cadute di alcuni monaci; cadute che ebbero come unica
causa la mancanza di discrezione. Infine dimostrerò - se ne sarò capace - i
benefici e i vantaggi di questa virtù, affinché - persuasi della sua eccellenza
e bontà - possiamo imparare con più gioia il modo di raggiungerla e
perfezionarci in essa.
Non si tratta certamente di una
virtù da poco, che possa essere acquistata con la naturale industria dell'uomo:
noi non potremmo mai ottenerla se non ci fosse elargita dalla divina bontà. S.
Paolo apostolo la enumera fra i doni più nobili dello Spirito Santo: ecco le sue
parole: " A uno, per via dello Spirito, fu data la parola della sapienza, a un
altro la parola della scienza, secondo lo stesso Spirito. A un altro la fede nel
medesimo Spirito; a un altro ancora il dono delle guarigioni nell'unico Spirito
" (1 Cor 12, 8-9); e poco dopo: " A un altro il discernimento ( = discrezione)
degli spiriti " (1 Cor 12, 10).
Terminato l'elenco dei carismi
spirituali, l'apostolo aggiunge: " Or bene, tutti questi effetti li produce
l'unico e medesimo Spirito che distribuisce a ciascuno secondo che vuole " (1
Cor 12, 11).
Voi lo vedete bene, il dono della
discrezione non è cosa terrestre e da poco, ma è un premio grandissimo della
grazia divina. Se il monaco non si sforza di ottenerlo e non impara a bene
usarlo, per saper distinguere con sicurezza gl'impulsi da cui è pervaso e
sollecitato, somiglierà ad uno che va di notte, fra le tenebre più fitte, col
rischio di cadere in fosse e precipizi, e anche di smarrirsi là dove la via è
piana e diritta.
II - I vantaggi che il monaco
può trovare nella sola discrezione, e discorso del beato Antonio su tale
argomento
Un ricordo della fanciullezza mi
ripresenta alla mente molti monaci anziani venuti un giorno a trovare Antonio
nel deserto della Tebaide. La conversazione di quegli uomini di Dio si prolungò
dal tramonto del sole all'aurora del giorno seguente, e rammento che il tema
della discrezione occupò quasi tutta la nottata. Si investigò a lungo quale sia
la virtù o l'osservanza che, oltre a custodire il monaco immune dai lacci e
dagli inganni del demonio, possa anche farlo progredire sulla via della
perfezione. Ciascuno diceva il suo pensiero secondo il proprio modo di vedere.
Alcuni dicevano che a produrre si mirabili effetti era l'amore per le veglie e i
digiuni, perché l'anima - spiritualizzata da quelle pratiche e fatta padrona
d'un cuore e d'una carne pura - più facilmente si unisce a Dio. Altri dicevano
che era la rinuncia totale, perché se l'anima riesce a spogliarsi di tutto e a
liberarsi da ogni attacco o legame alla terra, può volare più spedita verso Dio.
Altri ancora dicevano che era l'anacoresi, cioè l'abbandono del mondo e il
ritiro nel deserto, dove la conversazione con Dio diventa più familiare e
l'unione con lui più intima. Non mancò un gruppo secondo il quale la virtù prima
del monaco sarebbe stata la pratica della carità, perché il Signore, nel
Vangelo, ha promesso di dare il regno dei cieli a coloro che esercitano questa
virtù: " Venite, benedetti dal Padre mio, entrate in possesso del regno che vi è
stato preparato fin dall'origine del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da
mangiare, ebbi sete e mi deste da bere... " (Mt 25, 34-35).
Chi dava a una virtù, chi ad
un'altra, il merito d'introdurre l'anima all'unione con Dio. Era già passata
gran parte della notte, quando prese a parlare Antonio.
" Tutte le pratiche da voi
enumerate - egli disse - sono utili all'anima assetata di Dio e desiderosa di
giungere a lui, ma le tristi esperienze e le lacrimevoli cadute di molti
solitari ci sconsigliano di assegnare la palma a qualcuna di codeste virtù. Noi
abbiamo visto molti monaci applicarsi ai digiuni e alle veglie più rigorose,
acquistarsi grande ammirazione per il loro amore alla solitudine, dar prova di
distacco così completo da non serbare per sé né il pane per un sol giorno, né
una sola moneta; abbiamo visto monaci caritatevoli esercitare con somma
devozione le opere di misericordia, eppure, costoro si sono miseramente illusi!
Non hanno saputo portare a buon termine l'opera intrapresa ed hanno posto fine
al loro ammirevole fervore, alla loro vita lodevolissima, con una caduta
abominevole. Perciò noi potremo riconoscere la virtù più atta a condurci a Dio,
se cercheremo la causa delle loro illusioni e delle loro cadute.
Le opere di quelle virtù che voi
avete enumerate, sovrabbondavano in quei monaci, ma la mancanza della
discrezione fece sì che quelle opere non durassero fino in fondo. Non si trova
altra causa, per spiegare la loro caduta, all'infuori di questa: essi non ebbero
la possibilità di formarsi alla scuola degli anziani e non acquistarono la virtù
della discrezione. E' la discrezione che, tenendosi lontana dai due eccessi
contrari, insegna al monaco a camminare sempre sulla via regia, e non gli
permette di deviare a destra (verso una virtù scioccamente presuntuosa, o un
fervore esagerato che passerebbe i confini della buona misura), né a sinistra
(verso il rilassamento e il vizio, o verso la tiepidezza dello spirito, che si
annida dietro il pretesto di ben governare il corpo).
Gesù pensava alla discrezione
quando nel Vangelo parlava dell'occhio che è lampada del corpo: " La lucerna del
tuo corpo è il tuo occhio: se il tuo occhio è sano, tutto il tuo corpo sarà
illuminato; ma se il tuo occhio è torbido, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre
" (Mt 6, 22-23).
La discrezione, infatti, esamina
atti e pensieri dell'uomo, e sceglie oculatamente quelli che sono da ammettere.
Se quest'occhio interiore è cattivo, o - per parlare fuori di metafora - se
siamo privi di scienza e di giudizio sicuro, se ci lasciamo trascinare
dall'errore e dalla presunzione, tutto il nostro corpo sarà tenebroso, perché la
luce dell'intelligenza e la nostra stessa attività si saranno oscurate. Il vizio
- evidentemente - acceca, e la passione è madre di tenebre. " Se la luce che è
in voi diventa tenebra - dice ancora il Signore - quanto grandi saranno le
tenebre! " (Mt 6, 23).
Nessuno dubita che, se il nostro
giudizio è falso e immerso nelle tenebre dell'ignoranza, anche i nostri pensieri
e le nostre opere - che da quel giudizio derivano come da naturale sorgente -
saranno avvolte nelle tenebre del peccato.
III - Errore in cui caddero
Saul e Acab per non aver avuto conoscenza della discrezione
Saul, che Dio scelse come primo
re d'Israele, per non aver posseduto l'occhio della discrezione, diventò
tenebroso in tutto il corpo, e alla fine fu sbalzato dal trono. La sua " luce ",
diventata sorgente di tenebre e d'errore, lo rovinò. Egli pensò che Dio avrebbe
gradito di più i suoi sacrifici che l'obbedienza al comando di Samuele, e trovò
modo di offendere Dio con un gesto che mirava a rendergli propizia la divina
maestà (1 Sam 15).
La stessa mancanza di discrezione
rovinò Acab, re d'Israele. Dopo la bella vittoria che gli era stata concessa per
bontà del Signore, egli pensò che la misericordia verso i vinti sarebbe stata
preferibile all'esecuzione letterale di un comando divino, che ai suoi occhi
appariva crudele. Questo pensiero lo indusse a porre fine alla vittoria e allo
spargimento di sangue con un atto di clemenza. Ma una simile pietà senza
discrezione lo fece tenebroso in tutto il corpo e lo condannò a morte
irrevocabile (1 Re 20).
IV - Testimonianze della sacra
Scrittura sul valore della discrezione
Questa è la virtù della
discrezione, che, dopo essere stata detta " lucerna " del corpo, viene chiamata
da S. Paolo anche " sole ", là dove è detto: " Il sole non tramonti sulla vostra
collera " (Ef 4, 26). La stessa virtù è chiamata nella sacra Scrittura " timone
" della nostra vita: " Coloro che non hanno discrezione cadono come foglie " (Pr
11, 14). La discrezione è pur giustamente assimilata a quel dono del consiglio
senza il quale la Scrittura ci proibisce di fare le cose anche piccolissime;
dobbiamo infatti esser guidati dal consiglio anche quando beviamo quel vino
spirituale che allieta il cuore dell'uomo (Sal 103, 15), secondo la sentenza
sapienziale: " Farai tutto con consiglio; col consiglio bevi anche il vino " (Pr
31,3). E ancora: " Città senza mura e senza difesa è l'uomo che agisce senza
consiglio " (Pr 25,28). Quest'ultimo passo del libro Sacro, con la figura della
città incustodita e indifesa, dice assai chiaramente quanto sia nociva al monaco
la mancanza di discrezione. In questa virtù sono racchiusi anche l'intelletto e
il giudizio, senza i quali non ci è possibile né costruire il nostro edificio
interiore, né ammassare le ricchezze spirituali, secondo una parola divina che
suona così: " Una casa si edifica con la sapienza e le continue ricchezze
preziose e gustose " (Pr 24, 3-4).
Dice S. Paolo che la discrezione
è il cibo sostanzioso fatto per uomini completi e robusti. " Il cibo solido è
fatto per uomini che hanno raggiunto il perfetto sviluppo, per coloro che hanno
esercitato l'occhio a distinguere il bene dal male " (Ebr 5, 14). E' tanto
evidente la sua utilità che essa viene paragonata alla parola di Dio e le
vengono attribuite le prerogative di quella. La discrezione - a somiglianza
della parola di Dio - è " viva, efficace, più tagliente di una spada a due
tagli, così tagliente che giunge a separare l'anima e lo spirito, le giunture e
il midollo: essa separa i pensieri e i sentimenti del cuore " (Ebr 4, 12).
Tutti questi testi ci convincono
che senza la grazia della discrezione non ci può essere alcuna virtù completa e
duratura.
Il beato Antonio e gli altri
monaci andati a visitarlo, convennero all'unanimità che è la virtù della
discrezione quella che conduce l'uomo, con passo fermo e impavido, fino a Dio.
E' ancora la discrezione a conservare sempre intatte quelle stesse virtù di cui
gli altri solitari avevano parlato prima che Antonio prendesse la parola. Per
mezzo di essa, infatti, il monaco progredisce con poca fatica verso le vette
della perfezione; alle quali vette - senza l'aiuto della discrezione - mai
sarebbero arrivati molti di quelli che per tale via si erano già spinti molto
innanzi. La discrezione dunque può esser salutata madre, custode e guida di
tutte le virtù.
V La morte del vecchio Erone
Manterrò ora la promessa di
confermare con esempi recenti la dottrina presentata dal beato Antonio e dagli
altri Padri.
Richiamatevi alla memoria un
avvenimento che non molto tempo fa avete osservato con i vostri occhi, come cioè
un vecchio monaco fu vittima di una illusione diabolica e precipitò dalle vette
agli abissi: lui che per ben cinquant'anni era vissuto in questo deserto, sempre
fedele all'astinenza, sempre meravigliosamente affezionato alla solitudine. Come
poté, quel caro vecchio, farsi mettere in trappola dal tentatore, dopo tante
penitenze? Non è forse perché era privo della discrezione, e preferiva lasciarsi
guidare dal suo giudizio anziché ispirarsi ai consigli e ai pareri dei fratelli?
Anziché obbedire alle regole dei nostri Padri?
Per lui il digiuno era legge così
rigorosa e di cui si mostrava talmente osservante, da non voler ammettere la
compagnia dei confratelli neppure nella refezione del giorno di Pasqua. Ogni
anno, per la solennità pasquale, tutti i monaci si radunavano in Chiesa: lui
solo non vi partecipava, per paura di apparire infedele ai propositi formulati,
qualora avesse mangiato un po' di legumi in compagnia dei suoi confratelli.
Questa presunzione lo rovinò.
L'angelo di Satana si presentò a lui e fu ricevuto col massimo rispetto, quasi
fosse un angelo di luce. Per istigazione del demonio Erone si gettò a capofitto
in un pozzo, del quale l'occhio non poteva scorgere il fondo: egli confidava
sulla promessa che i suoi meriti e le sue virtù lo avrebbero liberato da ogni
pericolo. « Questo è certo gli sussurrava il demonio e l'esperimento ne sarà la
riprova », Il merito delle sue virtù avrebbe mandato bagliori, quando lo
avessero visto uscire sano e salvo dal pozzo. Così, nel cuore della notte,
quello si gettò nel pozzo pensando che avrebbe fatto riconoscere i suoi meriti
uscendone illeso. Ma i monaci dei dintorni, dopo aver faticato a lungo, lo
tirarono fuori più morto che vivo, e dopo due giorni il disgraziato morì.
Il peggio è che morì ostinato:
neppure un esperimento che gli era costato la vita lo convinse di essere stato
illuso dal demonio. I monaci, profondamente commossi dalla sua fine, nonostante
che facessero valere i meriti di tante fatiche e di tanti anni passati nel
deserto, a mala pena poterono ottenere dal sacerdote (che era l'abate Panuzio),
che Erone non fosse computato tra i suicidi e, come tale, fosse giudicato
indegno del ricordo e del sacrificio che si offre in suffragio dei morti.
VI Due monaci vanno incontro
alla morte per ignoranza della discrezione
Che dire di quei monaci i quali
abitavano oltre il deserto della Tebaide, che un tempo era stato la dimora del
beato Antonio? Essi, vinti dallo spirito d'indipendenza, dovendo viaggiare per
un deserto sterminato, decisero di non prendere altro cibo all'infuori di quello
che Dio avesse fatto trovare lungo il cammino.
I due poveretti vagolavano per il
deserto, vicini ormai a morire di fame, quando furon visti di lontano dai
Mazici, che sono un popolo superiore ad ogni altro in ferocia e crudeltà.
Costoro non uccidono la gente per desiderio di preda, come fanno altre tribù, ma
uccidono per il solo gusto di esercitare la loro ferocia. Ebbene, dimentichi
della loro naturale crudeltà, quei selvaggi andarono incontro ai due monaci
portando pane; ma uno solo dei due monaci ricordandosi della discrezione accettò
quel nutrimento come un dono di Dio, con sentimenti di gioia e in ispirito di
ringraziamento. Questo pane egli pensò mi è mandato da Dio, perché senza un
intervento divino non si spiegherebbe come questi uomini, per i quali è una
festa versare il sangue del prossimo, possano far dono del nutrimento vitale a
chi per languore sta già per morire. Ma l'altro monaco rifiutò il cibo perché
gli veniva offerto da mano d'uomo. Casi morì.
Tutti e due partirono da principi
sbagliati, ma il primo si ricordò della discrezione e rinunziò al suo stolto
proposito, l'altro, invece, perseverò nella sciocca impresa e rimase chiuso ad
ogni idea di discrezione. Il Signore avrebbe voluto allontanare da lui la morte,
ma quello la chiamò per non aver voluto vedere un miracolo di Dio anche nel
gesto di quei barbari che, dimentichi della loro ferocia, presentavano pani
invece che spade.
VII Illusione in cui cadde un
altro monaco per ignoranza della discrezione
E che dire di un altro monaco del
quale taccio il nome perché vive ancora? Costui accolse per lungo tempo il
demonio circonfuso di luce angelica; ingannato dalle sue rivelazioni, si fidò e
lo credette un messaggero di giustizia perché fra le altre cose, ogni notte
gl'illuminava la cella senza bisogno di alcuna lucerna.
Alla fine il demonio gli comandò
di offrire in sacrificio un suo figlio, abitante nello stesso monastero, e ciò
per acquistare un merito pari a quello del patriarca Abramo. Il nostro monaco
s'internò tanto in questa seduzione che avrebbe consumato il misfatto, se il
ragazzo, vedendo il padre che affilava insolitamente il coltello e cercava corde
per legare la vittima, non avesse indovinato il delitto che si preparava e non
fosse fuggito esterrefatto.
VIII Caduta di un monaco della
Mesopotamia che si lascio ingannare
Sarebbe troppo lungo narrare in
tutti i particolari l'illusione in cui cadde un monaco della Mesopotamia, il
quale osservava una tale astinenza che pochissimi, in tutta la regione, potevano
imitarlo. Dopo molti anni di fedeltà, il diavolo lo avvicinò e a forza di
rivelazioni e di sogni lo giocò così bene che quello nonostante le fatiche e le
virtù che lo avevano innalzato al disopra di tutti i monaci della zona arrivò a
farsi ebreo e ad accettare la circoncisione.
Volendo condurlo a lasciarsi
illudere sul principio e per molto tempo il demonio gli presentò visioni
veritiere, come avrebbe fatto un angelo della luce. Alla fine gli mostrò il
popolo cristiano con tutti i grandi dignitari della nostra religione, come gli
Apostoli e i martiri; ma era un popolo tenebroso, tetro, ridotto a forme
spettrali. Dall'altra parte mostrò il popolo giudaico, con Mosè, i Patriarchi e
i Profeti, tripudianti di gioia e risplendenti di una luce abbagliante. Allo
stesso tempo il seduttore gli suggerì di ricevere subito la circoncisione, se
voleva essere partecipe dei loro meriti e della loro felicità.
Nessuno di questi monaci sarebbe
caduto vittima delle illusioni, se essi si fossero studiati di acquistare la
discrezione. Perciò, queste numerose cadute e questi tristi esempi, dimostrano
quanto sia pericoloso per il monaco non possedere la discrezione.
IX - Domanda sui mezzi per
acquistare la vera discrezione
Germano rispose: dagli esempi
recenti e dalle sentenze degli antichi Padri, ci è apparso chiarissimo che la
discrezione è in certo modo la sorgente e la radice di tutte le virtù. Vorremmo
ora sapere quale sia il metodo per acquistarla e il metodo per riconoscere
quando è vera e proveniente da Dio, oppure falsa e suggerita dal diavolo. Così,
a norma della parabola evangelica che ci avete raccontata nella precedente
conferenza - e che vuol far di noi degli abili banchieri - noi potremo
accorgerci se l'immagine del re, che pur è vera, è impressa su metallo illegale
e rifiutare la moneta come falsa. Noi vogliamo esser dotati di quella scienza
che voi, con chiare e complete spiegazioni, ci avete mostrato essere la dote più
preziosa del banchiere spirituale, o banchiere secondo il Vangelo (citazione dal
cosiddetto "Vangelo degli Ebrei", apocrifo - n.d.r.).
Che cosa ci gioverebbe conoscere
l'eccellenza della discrezione e il metodo della sua grazia, se non conoscessimo
il modo di trovarla e acquistarla?
X - Risposta sul modo di
acquistare la vera discrezione
Mosé riprese: la vera discrezione
si acquista per mezzo della vera umiltà. E il primo segno della vera umiltà sarà
quello di lasciare agli anziani il giudizio di tutte le nostre azioni e di tutti
i nostri pensieri, fino al punto che uno non si affidi mai al proprio giudizio,
ma sempre e in tutto stia alle decisioni degli anziani e voglia conoscere solo
dalla loro bocca ciò che sia da ritenersi buono e ciò che sia da stimarsi
cattivo.
Questa disciplina, non solo
insegnerà al giovane monaco a camminare diritto sulla via della vera
discrezione, ma gli darà anche sicurezza contro tutti gl'inganni e tutte le
insidie del nemico. E' impossibile che cada nell'illusione chi prende come
regola della propria vita, non già il suo giudizio, ma gli esempi degli anziani.
L'astuzia del demonio non potrà valersi dell'ignoranza di un monaco il quale non
cede al falso pudore e non nasconde qualcuno di quei pensieri che gli nascono in
cuore, ma tutti li mostra al prudente giudizio degli anziani, per sapere se deve
ammetterli o rifiutarli.
Un cattivo pensiero, portato alla
luce del giorno, perde subito il suo veleno. Prima ancora che la discrezione
abbia proferita la sua sentenza, il serpente infernale, che la confessione ha
tirato fuori dal suo nascondiglio tenebroso, se ne fugge svergognato. Le sue
suggestioni hanno potere su noi finché restano nascoste in fondo al cuore.
XI Parole dell'abate
Serapione. I cattivi pensieri perdono il loro veleno se manifestati. Pericolo
della confidenza in noi stessi.
« Da fanciullo così raccontava
Serapione io vivevo nel deserto con l'abate Teana, e il nemico delle anime
riuscì a farmi contrarre l'abitudine che sto per dire. Ogni giorno, dopo la
refezione di nona", che io consumavo insieme col buon vecchio, prendevo di
nascosto una pagnotta e me la facevo scendere sotto l'abito, all'altezza del
petto. Più tardi, a insaputa dell'abate, me la mangiavo di nascosto. La passione
mise in me le radici e non fui capace di dominarla; anzi, la mia stessa volontà
si mise a servizio della passione e continuai imperterrito il mio furto.
Tuttavia, quando rientravo in me stesso, dopo aver soddisfatto la mia golosità,
sentivo più dispiacere per il furto commesso che soddisfazione per l'appetito
acquietato. Ero nella condizione in cui si trovarono un tempo gli ebrei, quando
sotto la sferza dei sorveglianti egiziani dovevano costruire i mattoni". Ogni
giorno ero costretto al mio furto; con grande dispiacere, sì, ma anche senza
possibilità di sottrarmi a quella crudelissima tirannide. Avrei voluto
manifestare al vecchio la mia colpa, ma avevo vergogna, e non lo facevo. Alla
fine, per volontà di Dio che voleva liberarmi da quella schiavitù, accadde che
alcuni monaci venissero alla cella del vecchio abate per essere edificati dalla
sua conversazione.
Finito il pasto incominciò la
conferenza spirituale. L'abate Teona, per rispondere alle domande che gli erano
state rivolte, prese a parlare del vizio della gola e dei pensieri occulti.
Mentre egli descriveva la natura di quei pensieri e la violenza che esercitano
finché son tenuti nascosti, io mi sentivo toccare il cuore dalla forza del
discorso ed ero atterrito dal rimorso della coscienza. Credevo che quelle parole
fossero dette proprio per me, come se Dio avesse rivelato all'abate il segreto
del mio cuore. Alla fine, aumentando in me il rimorso, scoppiai in singhiozzi e
lacrime, e trassi fuori dal seno la pagnotta che vi avevo introdotta secondo la
detestabile abitudine per mangiarla più tardi. Mettendomi in ginocchio mostrai a
tutti quel pane e confessai, implorando perdono, il mio pasto clandestino di
tutti i giorni. Sempre piangendo, chiesi anche le preghiere di tutti i presenti
per ottenere che il Signore mi liberasse da una schiavitù tanto dura.
Allora il vecchio disse:
figliolo, sta' di buon animo: la tua liberazione è già avvenuta per effetto
della confessione, anche se io non ti ho detto ancora parole di perdono. Oggi tu
hai trionfato del tuo antico vincitore: la tua confessione lo abbatte in modo
assai più decisivo di quello che avesse abbattuto te il silenzio colpevole.
Finora mai una parola, tua o di altri, aveva tentato di rintuzzare la sua
audacia: per questo tu gli lasciavi la facoltà di signoreggiarti, secondo il
detto di Salomone: «Perché non si resiste prontamente da parte di coloro che
fanno il male, ecco che il cuore dei figli dell'uomo si riempie di pensieri
malvagi »21. Ma dopo questa denuncia lo spirito di nequizia non potrà
inquietarti più a lungo: il terribile serpente non potrà trovare altro
nascondiglio in cui entrare, ora che lo hai portato alla luce del giorno con una
salutare confessione.
Il vecchio abate non aveva ancora
terminato queste parole, quando una fiaccola accesa uscì dal mio seno e riempi
la cella di un acre odore di zolfo: tanto fu grande il fetore, che a mala pena
lo potemmo sopportare. Allora il vecchio riprese la sua ammonizione: ecco che il
Signore ti ha manifestato con un prodigio la verità delle mie parole; tu hai
visto con i tuoi occhi il fomentatore di questa passione cacciato fuori dal tuo
cuore per virtù di una salutare confessione. Dio ti assicura che il nemico,
scovato dal suo nascondiglio, non troverà più dimora dentro il tuo cuore. E così
fu. Secondo quanto il vecchio aveva detto, quella confessione fece sparire per
sempre simile tirannia diabolica: il demonio non cercò neppure di risuscitare in
me il ricordo di quella golosità, né mai più mi sentii sfiorare dal desiderio di
rubare qualcosa.
Questa verità è espressa molto
bene nell'Ecclesiaste, là dove dice: «Se il serpente morde senza fischio, a
nulla vale l'opera dell'incantatore ». Il libro sacro vuole indicare così che il
morso del serpente silenzioso è il più terribile.' Se chi è stato avvelenato non
confessa la suggestione diabolica a qualche incantatore, cioè a qualche uomo
spirituale, capace di medicate le ferite e di estrarre il veleno dal cuore, con
le parole miracolose della sacra Scrittura, non ci sarà altro soccorso nel
pericolo, né rimedio contro la morte.
Il mezzo certo per raggiungere
facilmente la scienza della discrezione, è camminare sulle orme degli anziani.
Non dobbiamo introdurre novità, non dobbiamo presumere di fare a modo nostro:
dobbiamo sempre camminare per la via che ci fu tracciata dai loro insegnamenti e
dai loro esempi. Con una simile formazione, non soltanto ognuno arriverà a un
grado perfetto di discrezione, ma sarà pure sicuro da tutte le insidie del
nemico. All'infuori del disprezzo verso i consigli degli anziani e
dell'attaccamento al proprio giudizio e al proprio modo di vedere, non c'è altro
VIZIO per mezzo del quale il demonio porti tanto facilmente il monaco alla
rovina e alla perdizione.
Tutte le arti e tutte le scienze
in cui si esercita l'ingegno umano, quantunque non giovino ad altro che a questa
vita del tempo, e quantunque siano trattabili con le mani e visibili con gli
occhi, non possono essere ben conosciute senza la guida di un maestro. Non è
dunque da stolti credere che si possa imparare senza maestro quest'arte
invisibile e nascosta in cui si richiede occhio purissimo per vedere, e in cui
un errore che si commetta, non provoca già un danno temporale facile a
ripararsi, ma produce la perdizione dell'anima e la morte eterna? Qui non si
tratta di nemici visibili ma invisibili; e son nemici senza misericordia. Si
combatte di giorno e di notte. in un combattimento spirituale. Lo scontro non è
contro un nemico o due, ma contro legioni innumerevoli: l'esito tanto più è
incerto quanto più è astuto il nemico e subdolo l'attacco.
Per questo è necessario seguire
con somma attenzione le orme degli anziani e manifestare a loro tutto ciò che ci
nasce in cuore, disprezzando i suggerimenti del falso pudore.
XII Domanda sulla vergogna che
ci fa arrossire nel rivelare i nostri pensieri agli anziani
Germano
La causa principale di quella vergogna dannosa che ci persuade a tacere i nostri
cattivi pensieri, sta in certi fatti che si raccontano. Eccone uno. Viveva in
Siria un certo monaco che fra gli anziani teneva il primo posto: un giorno venne
da lui un fratello per confessare con la massima semplicità i pensieri che lo
tormentavano. Ma il vecchio monaco era in un momento di collera e Il per lì non
seppe fare altro che rimproverare aspramente chi gli si apriva.
Da esempi come questo viene che
noi chiudiamo nel nostro intimo i pensieri cattivi e ci vergogniamo di
manifestarli agli anziani; così ci priviamo del rimedio e della guarigione.
XIII Risposta sul dovere
di calpestare la falsa vergogna e sul pericolo di non avere compassione
Mosè
Come i giovani non sono tutti di uguale fervore, saggezza e virtù, così anche
gli anziani non sono tutti allo stesso grado di perfezione e di provata santità.
La saggezza dei vecchi non si misura dal candore dei loro capelli, ma dal
fervore che misero in gioventù ad acquistarsi meriti. « Come potrai ritrovare
nella tua vecchiaia ciò che non raccogliesti nella gioventù? La vecchiaia degna
di questo nome non si riconosce da un lungo numero di anni. La sapienza
sostituisce nell'uomo i capelli bianchi: la vera vecchiaia è una vita senza
macchia ».
I vecchi dalla testa canuta, ma
ricchi soltanto di anni, non son quelli di cui dobbiamo seguire le orme e
ascoltare insegnamenti e consigli. La nostra venerazione deve rivolgersi
soltanto a quegli anziani che hanno condotto da giovani una vita degna di stima
e si sono formati non alla scuola del proprio capriccio, ma secondo le
tradizioni dei Padri. Ci sono alcuni monaci, anzi dirò meglio: ci sono molti
monaci, anche se ciò è doloroso, i quali son diventati vecchi nella tiepidezza e
nell'accidia che concepirono in gioventù; ora essi cercano di acquistarsi
autorità non con la santità dei costumi, ma con la quantità degli anni. A loro
va il rimprovero che il Signore pronunzia per bocca del Profeta: «Gli stranieri
hanno divorato la loro forza; essi son coperti di capelli bianchi e non lo sanno
».
Tutti
costoro sono stati elevati a modello per la gioventù, non dalla integrità della
vita o dallo zelo spiegato nel seguire l'ideale monastico, ma dalla loro età
molto avanzata. Il nemico astutissimo si vale dei loro capelli bianchi per
ingannare i giovani ai quali li presenta come depositari di autorità, ma è
un'autorità usurpata. Con abile astuzia il nemico usa i loro esempi per far
cadere nei suoi lacci anche certuni che si erano già incamminati per la via
della perfezione, o per propria inclinazione o per sollecitazione di altri. La
dottrina di questi monaci e gli esempi della loro virtù servono al demonio per
condurre tante povere anime ad una tiepidezza funesta, o ad una disperazione
mortale. Voglio darvi un esempio di quel che vado dicendo, ma non farò nomi, per
non cadere nella stessa colpa del monaco di cui sto per parlarvi: egli infatti
manifestava le colpe del fratello appena quello gli si era confidato. Mi limito
ad esporre il fatto perché è tale da potervi servire di buona lezione.
Un anziano che io ben conosco,
ricevette una volta un giovane e bravo monaco, che veniva a cercare occasione di
progresso spirituale e rimedio ai suoi mali: egli era infatti tormentato dagli
stimoli della carne e dallo spirito di fornicazione. Pensava di poter trovare
nelle preghiere dell'anziano una consolazione al suo tormento e una medicina
alle sue ferite. Ma l'altro ruppe in parole amare e disse: «È un uomo miserabile
e indegno di chiamarsi monaco chiunque senta gli stimoli di un tal vizio e d'una
tale concupiscenza ». I rimproveri ferirono profondamente il giovane monaco, che
uscì da quella cella sprofondato nella disperazione, in preda a una mortale
angoscia. Vinto ormai dallo scoraggiamento, non pensava più a guarire dal suo
male, ma cercava il modo di soddisfare la passione che aveva concepita. Era
tutto immerso in questo pensiero, quando incontrò l'abate Apollo, il più santo
fra tutti gli anziani. Osservando il volto del giovane e l'abbattimento
che vi era dipinto, Apollo comprese il dolore e la violenza del combattimento
che silenziosamente gli dilaniavano l'anima. Gli domandò quindi la causa di sì
gran turbamento e insisté con dolcezza. Ma l'altro non riusciva a dir parola. Il
vecchio si convinse ancora di più che doveva esserci una causa assai grave a
indurre quel giovane a tacere ostinatamente la ragione di una tristezza tanto
grande da non poter si dissimulare nel volto, e moltiplicò le sue domande per
conoscere il dolore nascosto. Vinto dalle dolci insistenze, il giovane disse
tutto. Poiché, a giudizio dell'anziano che aveva consultato, non poteva esser
monaco e non poteva avere i mezzi atti a respingere gli assalti della carne,
disse che sarebbe andato al villaggio vicino a prender moglie. Intanto salutava
la vita monastica per tornarsene nel mondo. Apollo prese allora a consolarlo con
parole piene di dolcezza, affermando che anche lui era combattuto ogni giorno
dagli stessi stimoli e dagli stessi ardori.
Non bisogna abbandonarsi alla
disperazione - diceva l'abate - né meravigliarsi della violenza della
tentazione; molto più che a vincere le tentazioni non sono i nostri sforzi ma la
misericordia di Dio e la sua grazia. Gli domandò di attendere ancora un giorno,
prima di prendere la decisione, e lo pregò di ritornarsene alla sua cella; egli,
a sua volta, si incamminò immediatamente alla capanna di quel tale anziano.
Nell'avvicinarsi pregava così,
versando lacrime e allargando le braccia: «Signore, tu solo vedi con occhi
compassionevoli le forze di ciascuno e la debolezza della nostra natura, tu solo
sai porvi rimedio con mano invisibile. Ti prego, trasferisci la tentazione del
giovane monaco nell'anima dell'anziano, affinché egli impari, almeno sul finire
dei suoi giorni, a compatire le debolezze degli afflitti e a comprendere la
fragilità della gioventù ». Mentre terminava, tra gemiti, questa preghiera, vide
davanti alla cella dell'anziano un etiope mostruoso che scagliava contro quel
monaco saette infocate, Colpito da quelle frecce, il vecchio monaco uscì di
cella e incominciò a saltare di qua e di là, come se fosse ubriaco o avesse
perduto la ragione. Ora entrava, ora usciva: non era capace di trovar quiete.
Alla fine si incamminò veloce sulla via che aveva preso il monaco giovane.
L'abate Apollo, vedendolo come un
pazzo agitato dalle furie, capì che era stato colpito al cuore dal dardo
infocato del demonio e si convinse che da ciò derivava la confusione della mente
e il turbamento dei sensi. Gli si avvicinò e disse: «Dove vai con tanta fretta?
Che cosa è che ti fa dimenticare la gravità senile, e ti agita come un bambino,
e ti fa correre da ogni parte? ».
Quello, umiliato dal rimorso
della coscienza e dalla passione vergognosa che lo tormentava, pensò che Apollo
avesse indovinato la fiamma che gli si era accesa in cuore, e credendo svelato
il suo segreto, non ardì rispondere. Allora Apollo gli disse: «Torna alla tua
cella e impara che fino ad oggi tu sei stato o ignorato o disprezzato dal
demonio: comunque non sei stato del numero di coloro che impongono al demonio
una lotta continua, col loro progresso e i loro santi desideri. Vergognati! Dopo
tanti anni di professione monastica, per una sola freccia che ti ha scoccato il
tentatore, non solo non sei stato capace di respingerla, ma non hai saputo
resistere neppure un giorno. Ecco che il Signore ha permesso tu fossi ferito
affinché, sul finir della vita, imparassi per esperienza personale a compatire
le debolezze altrui, e a comprendere la fragilità dei tuoi fratelli più giovani.
Pensa ora quel che hai fatto: hai ricevuto un giovane monaco che sperimentava un
duro assalto del demonio, e invece di incoraggiarlo con parole di consolazione,
l'hai gettato nelle mani del nemico, inducendolo alla disperazione: per quanto è
dipeso da te, il giovane monaco poteva finire assai male. Sappi ora che quel
giovane non avrebbe avuto da sopportare un guerra così violenta, se colui che
finora mai ne ha mossa a te una somigliante, non avesse visto con occhio
invidioso il suo progresso spirituale. Quel giovane monaco aveva in cuore
ricchezza di virtù, perciò Satana lo assaliva con le sue frecce infuocate. Senza
dubbio il demonio lo ha stimato più forte di te, se ha creduto necessario
attaccarlo con tanta violenza. Impara dunque a tue spese la compassione verso
gli afflitti; impara a non atterrire con lo spauracchio della disperazione il
fratello che versa in pericolo; impara a non esasperare la gente con parole
dure: impara piuttosto a confortare tutti con parole dolci e blande, secondo il
consiglio sapientissimo di Salomone: «Liberare coloro che son condotti a morte,
salvare coloro che stanno per essere uccisi »25. Sull'esempio del Salvatore,
guardati dallo spezzare la canna fessa e dallo spegnere il lucignolo fumigante26;
domanda piuttosto la grazia di poter cantare fiduciosamente e sinceramente: «Il
Signore mi ha dato una lingua sapiente per fortificare con la mia parola chi è
debole e affaticato ».
Nessuno potrebbe fuggire le
insidie del nemico, né spegnere o moderare gli ardori della carne _ che son
fuoco acceso in noi dalla natura se la grazia di Dio non venisse in aiuto alla
nostra debolezza, per proteggerla e difenderla.
Ora è chiaro il piano d'azione
che Dio si proponeva in quest'opera della sua sapienza: Egli ha liberato il
giovane dalla sua terribile tentazione e a te ha insegnato quale violenza possa
talvolta prendere un assalto del demonio: così ti ha insegnato ad essere
compassionevole. Uniamo perciò le nostre preghiere ad implorare la fine della
prova che il Signore s'è degnato di mandarti per tuo spirituale profitto: «
poiché egli ferisce e pur medica, percuote e pur le sue mani guariscono »; egli
« umilia ed esalta, fa morire e fa vivere, fa accedere agli inferi e ne
riconduce ». Che egli si degni con la rugiada traboccante del suo spirito di
spegnere in te le frecce infuocate del tentatore, delle quali ha voluto che tu
fossi afflitto per mia richiesta ».
Una sola preghiera del santo
monaco bastò: il Signore fece cessare la tentazione improvvisamente, come
improvvisamente l'aveva permessa. L'insegnamento tuttavia è chiaro: oltre a non
rimproverare ai fratelli le debolezze che ci manifestano, non dobbiamo neppure
disprezzare le loro pene, fossero anche molto leggere.
Non bisogna permettere che la
leggerezza di uno o di pochi, i cui capelli bianchi servono al nemico per
ingannare i giovani, vi faccia abbandonare quella via della salvezza che vi è
stata mostrata, e vi allontani dagli insegnamenti dei Padri. Senza alcun velo di
falsa vergogna, dovete manifestare agli anziani tutti i vostri pensieri e dovete
attendere da loro medicina alle vostre ferite, esempi di vita santa. In questo
metodo troverà soccorso e profitto chiunque si guarda dall'agire secondo il
proprio giudizio e la propria personale inclinazione.
XIV - La vocazione di Samuele
La venerazione verso gli anziani
è molto gradita a Dio, che ce la inculca dalle pagine della sacra Scrittura.
Per decreto della sua
Provvidenza, Dio aveva scelto il piccolo Samuele, ma invece d'istruirlo
direttamente e intraprendere un colloquio con lui, lo mandò una e due volte dal
vecchio sacerdote (1 Sam 3). Dio volle che questo fanciullo, chiamato a
diventare il suo confidente, fosse istruito da un uomo, che per giunta era in
colpa: Dio volle così per l'unica ragione che quell'uomo era un anziano.
Il fanciullo giudicato degno di
una vocazione altissima fu sottoposto alla direzione di un anziano affinché
brillasse l'umiltà di chi era stato chiamato da Dio a un grande ministero, e
fosse offerto alla gioventù un esempio di sottomissione.
XV - La vocazione
dell'apostolo Paolo
L'apostolo Paolo fu chiamato
direttamente da Cristo, ma colui che poteva, subito e senza intermediari,
insegnargli la via della perfezione, preferì indirizzarlo ad Anania e fargli
imparare da quello la via della verità. " Alzati - disse il Signore - entra in
città, e là ti sarà detto quello che devi fare " (At 9, 6).
Se Dio indirizza anche Saulo a un
anziano, e preferisce metterlo a quella scuola anziché istruirlo direttamente,
lo fa per evitare che l'intervento diretto- spiegabile nel caso di Paolo - possa
in seguito incoraggiare la presunzione. Il pericolo era che tutti avessero a
persuadersi di non avere (come l'Apostolo) altra guida o maestro all'infuori di
Dio, e non volessero formarsi alla scuola degli anziani.
Quanto sia da detestare la
presunzione, l'apostolo stesso ce lo insegna, non solo con le parole, ma con le
opere e con l'esempio. Egli infatti afferma di essersi recato a Gerusalemme
unicamente per confrontare ed esaminare - in un incontro privato ed amichevole
con i fratelli e predecessori nell'apostolato - il Vangelo che predicava tra i
pagani, con accompagnamento di prodigi derivanti dalla grazia dello Spirito
Santo. Ecco le sue parole: " Esposi loro il Vangelo quale lo predico ai Gentili,
nel pensiero che io, forse, corressi o avessi corso invano " (Gal 2, 2).
Chi sarà tanto presuntuoso e
cieco da volersi affidare al suo giudizio e alla sua discrezione, quando perfino
il " Vaso di elezione " afferma di aver avuto bisogno di un incontro con i
fratelli nell'apostolato? In questo noi abbiamo la riprova di un metodo caro al
Signore: egli non manifesta la via della perfezione a chi, pur avendo la
possibilità di farsi istruire, disprezza la dottrina degli anziani e le loro
regole di vita, senza far caso a una parola di Dio che dovrebbe essere
diligentemente ascoltata: " Interroga tuo padre e te lo insegnerà, interroga gli
anziani e te lo diranno " (Dt 32, 7).
XVI - Dovere di tendere
all'acquisto della discrezione
Sforziamoci dunque con tutte le
nostre energie per giungere alla virtù della discrezione attraverso la pratica
dell'umiltà: solo la discrezione può tenerci lontani dagli eccessi opposti.
C'è un vecchio proverbio che
dice: " Acròtes isòtes ", cioè: gli eccessi sono tutti dannosi. L'eccesso
del digiuno e la voracità portano allo stesso fine; le veglie smodate non sono
meno dannose, per un monaco, di un sonno pigramente prolungato. Per le eccessive
privazioni, uno si indebolisce ed è necessariamente ricondotto allo stato in cui
prosperano la negligenza e l'apatia. Molti che non poterono essere ingannati
dalla golosità, li vedemmo ingannati dai digiuni smodati: la passione vinta,
prese la sua rivincita in occasione dell'infermità. Spesso le lunghe veglie e le
intere notti sottratte al sonno riuscirono ad ingannare quelli che il sonno non
aveva potuto vincere.
Noi, " muniti delle armi della
giustizia, a destra e a sinistra " (2 Cor 6, 7) - come ci insegna S. Paolo -
dobbiamo procedere con molta moderazione e passare tra i due estremi, guidati
dalla discrezione. Così non ci faremo allontanare dalla giusta misura nel
mortificarci, né cederemo alla gola e all'intemperanza, vinti da fiacchezza
funesta.
XVII - Digiuni e veglie senza
discrezione
Mi ricordo che io stesso ho più volte concepito un tale disprezzo del cibo, da
stare fino a due o tre giorni senza toccarne, cosicché non mi veniva più neppure
il pensiero di mangiare. Ma si trattava di suggestioni diaboliche. Mi ricordo
anche che il demonio riuscì qualche volta a impedirmi compieta- mente di
dormire, cosicché, per più giorni e più notti, dovetti implorare il Signore che
concedesse un poco di quiete ai miei occhi. In tutte queste occasioni mi son
dovuto accorgere che l’avversione al cibo e al sonno mi recavano più pericolo
che la golosità e la sonnolenza.
Dobbiamo dunque essere doppiamente attenti: prima per non cadere nella colpa
della gola, come chi mangia fuori tempo e fuori della giusta misura, poi attenti
a prendere cibo e sonno alla giusta ora, anche se la nostra natura a ciò si
rifiutasse. I due contrari assalti vengono dal demonio, ma è più grave il danno
che ci può procurare un digiuno esagerato, di quello che può derivarci da un
appetito soddisfatto: infatti, dopo aver mangiato con un certo eccesso, possiamo
tornare alla consueta austerità con un atto di pentimento salutare, mentre dal
male dell’eccessiva astinenza non è possibile riaversi.
XVIII - Domanda sulla misura del mangiare e del digiunare
Germano - Qual è la regola dell’astinenza che noi dobbiamo osservare, per
passare indenni tra i due eccessi opposti?
XIX - Quale sia la misura ottima del cibo quotidiano
Mosè - Posso dirvi che i nostri Padri hanno molto discusso su questo argomento.
Dopo aver osservato il metodo di non pochi solitari, i quali eran sempre vissuti
di legumi, d’erbe, di frutti, i Padri stimarono preferibile l’uso del solo pane,
e stabilirono che la giusta misura giornaliera era quella di due « passamazi »,
che sono pagnottelle di circa mezza libbra ciascuna.
XX - Obiezione: l’astinenza non è difficile se si possono avere due pagnotte
al giorno
A queste parole ci rallegrammo molto e rispondemmo che una tale misura non ci
pareva gravosa, anzi ci pareva indegna di chiamarsi astinenza. Noi, per esempio
non saremmo mai riusciti, in un giorno, a mangiare una simile quantità di pane.
XXI - Risposta: l’astinenza - se fedelmente osservata - è difficile
Mosè - Se volete provare quanto costi al monaco la dieta sopra suggerita,
mettetevi ad osservarla fedelmente, senza aggiungere alcunché di cotto, alla
domenica o al sabato, o quando vi si presenti in visita qualche confratello.
L’aggiunta di un cibo cotto, non solo permette che nei giorni seguenti si possa
vivere con minor quantità di nutrimento, ma consente pure di poter digiunare
senza alcuna difficoltà, perché il corpo continua a risentirsi il vantaggio di
quel supplemento che gli è stato concesso.
Chi invece si atterrà fedelmente alla razione da me consigliata non sarà capace
di rimanere un giorno senza mangiare. Mi risulta che i nostri Padri - e noi
stessi lo abbiamo sperimentato personalmente più volte - trovarono grandissima
difficoltà a sopportare una simile dieta e dovettero fare tanta violenza al loro
appetito, da levarsi ogni volta da tavola con visibile dispiacere e non senza
qualche gemito di tristezza.
XXII - Quale sia la regola generale dell’astenersi e del mangiare
La regola generale, in materia d’astinenza, si enuncia così: «ognuno deve
prendere tanto cibo quanto ne occorre per sostentarlo, non per satollarlo».
In ogni eccesso c'è ugualmente grave danno, sia per dai obbliga il corpo ad un
digiuno troppo rigoroso, sia per chi concede al corpo un cibo troppo abbondante.
La mente nostra, illanguidita per mancanza di nutrimento, prega stancamente:
perché essendo aggravata dalla pesantezza del corpo, si sente premere da
involontaria sonnolenza. Ma anche un eccessivo nutrimento grava l’anima e le
impedisce di levare a Dio preghiere pure e vivaci.
Per chi non è regolato nel cibo, diventa difficile anche l’osservanza della
castità. Persino nei giorni in cui la carne potrà sembrare soggiogata dalla
penitenza, avverrà che la sottrazione del cibo farà divampare più potente il
fuoco della concupiscenza.
XXIII - Come regolare la sovrabbondanza degli umori
Quegli umori che si son raccolti nelle nostre carni, in conseguenza di una
alimentazione sovrabbondante, è necessario che siano espulsi, come vuole una
legge di natura, per la quale gli umori superflui non possono rimanere nel corpo
in cui sarebbero eccessivi e nocivi. Noi dobbiamo perciò castigare il nostro
corpo secondo una disciplina ragionevole ed uguale, cosicché, pur non potendo,
per la nostra condizione umana, sottrarci a certe necessità della carne, molto
raramente almeno, e non più di tre volte nel corso di un anno, abbiamo a
trovarci inquinati dalle immondizie che fuoriescono dal corpo. Ed è pur
necessario che un tale fenomeno si produca senza eccitazione alcuna, durante la
quiete del sonno, in assenza di ogni immaginazione lubrica, che sarebbe segno di
una voluttà nascosta.
Ecco dunque la regola aurea dell’astinenza, secondo il giudizio dei Padri e
nostro: un pasto di solo pane ogni giorno, ma tale da lasciare sopravvivere un
po’ di fame. In tal modo l’anima e il corpo rimangono in uno stato uniforme: né
abbattuti dal digiuno, né appesantiti dalla sazietà. Con un regime di tal sorta
si arriva al punto che il monaco, verso l’ora del tramonto, non si ricorda più e
non si accorge più d’aver mangiato.
XXIV - Fatica che richiede una regola costante nel mangiare, golosità del
monaco Beniamino
Il regime da noi consigliato è tanto difficile che alcuni monaci, ignari della
perfetta discrezione, preferiscono digiunare un giorno intero e serbare una
doppia razione di pane per il giorno seguente, al fine di potersi concedere, col
pasto che fanno, la desiderata sazietà. Questo, come voi ben sapete, è il metodo
costantemente seguito da un vostro compatriota, il monaco Beniamino. Per
sottrarsi a una penitenza sempre uguale e ad una sobrietà snervante, egli
preferiva digiunare due giorni di seguito, ma quando si metteva a mangiare,
voleva soddisfare, con una razione aumentata, tutta la sua voracità. Quattro
pagnotte gli consentivano di soddisfare il suo appetito e di ben riempirsi il
ventre, mentre i due giorni di digiuno facevano da giusto contrappeso a una
solenne scorpacciata.
Per la ostinazione pertinace a vivere secondo il proprio capriccio, voi sapete
che bella fine ha fatto il monaco Beniamino: ha lasciato il deserto per correre
dietro alla falsa filosofia del mondo e alle vanità del secolo. La sua defezione
serva di esempio e confermi la validità della tradizione trasmessaci dai Padri.
La sua caduta insegni che chiunque si fa guidare dalla propria inclinazione e
dal proprio personale giudizio, non arriverà mai al culmine della perfezione.
Anzi, non potrà far a meno di essere ingannato dalle pericolose illusioni del
demonio.
XXV - Domanda: come si possa tener sempre la stessa misura
Germano - E come sarà possibile osservare questa regola senza mai contravvenire?
Talvolta, dopo aver rotto il digiuno all’ora di nona, il monaco si troverà a
dover ricevere un ospite, e in tal caso, per non venir meno ai doveri tanto
raccomandati della cortesia, sarà necessario che prenda con quello un
supplemento alla quotidiana razione di cibo.
XXVI - Risposta: nel mangiare non si deve mai oltrepassare la misura
stabilita
Mose - Bisogna osservare contemporaneamente l’uno e l’altro dovere. Da una parte
conviene osservare scrupolosamente l’astinenza nel cibo, per amore della
temperanza e della purezza; d’altra parte, per dovere d’ospitalità, d’aiuto
fraterno e di carità, conviene ricevere gentilmente i fratelli che arrivano.
Sarebbe poi veramente assurdo che, ricevendo un fratello alla nostra mensa, anzi
ricevendo Cristo nella persona del fratello, non prendessimo cibo con lui e
assistessimo al suo pasto come estranei. Ecco perciò il metodo da seguire: non
esser meritevoli di condanna né in uno né in altro senso.
All’ora nona dobbiamo mangiare una sola delle due pagnotte che dalla regola ci
son concesse: la seconda la serberemo alla sera, in vista dell’ospite che
potrebbe arrivare, Se l’ospite arriverà realmente, noi mangeremo con lui il pane
dell’amicizia, senza nulla aggiungere alla consueta razione giornaliera. In tal
modo l’arrivo di un fratello, che deve sempre essere cosa lieta, non potrà
arrecarci alcuna tristezza, perché potremo rendergli gli onori dell’ospitalità
senza nulla sottrarre al rigore della nostra disciplina. Se invece non avremo
visite, potremo da soli mangiare tranquillamente il nostro pane: esso ci è
dovuto e ne abbiamo il diritto. Se all’ora di nona avremo mangiato una sola
pagnotta, l’aggiunta di una seconda verso l’ora del tramonto, non ci graverà lo
stomaco, come avviene talvolta a certi monaci i quali - credendo di osservare
un’astinenza più rigorosa - mangiano tutta la razione alla sera. Così il
nutrimento abbondante, preso da poco, rende la loro mente appesantita e
distratta durante la recita del vespro e della preghiera notturna.
La consuetudine di prender cibo all’ora di nona ha innegabili vantaggi: non solo
lo spirito del monaco si sente libero e pronto per le preci notturne, ma si
trova ben disposto anche per la recita di vespro, in quanto a quell’ora è già
avvenuta la digestione.
Per due volte il venerabile Mosè ci aveva nutriti della sua parola: con la
seconda conferenza ci aveva fatto conoscere la virtù della discrezione, con la
prima ci aveva già fatto conoscere il carattere della rinuncia, nonché il fine
prossimo e quello remoto della vita monastica. Così, quel che prima noi
cercavamo alla cieca, mossi solo dal fervore dello spirito e dallo zelo di Dio,
ci appariva ora più chiaro del sole. Vedevamo bene ormai che fino a quel momento
eravamo andati vagando, lontani dalla purezza del cuore e dalla via retta.
Questa persuasione si faceva ancor più viva quando riflettevamo che anche le
attività materiali della vita mondana, per arrivare allo scopo che si
propongono, richiedono conoscenza del fine e riflessione attenta sul modo atto a
raggiungerlo.
Ritorno all'indice delle "CONFERENZE SPIRITUALI"
Ritorno alle "Regole monastiche"
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
23 maggio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net