LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
12.a CONFERENZA
SECONDA CONFERENZA DELL'ABATE CHEREMONE
LA CASTITA'
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. Parole
dell’abate Cheremone sulla castità.
II. Il corpo del
peccato e le sue membra.
III. Dovere di
mortificare la fornicazione e l’impurità.
IV. Per ottenere la
vera castità non basta l’impegno puramente umano.
V. Utilità degli
assalti che ci vengono dalla carne.
VI. La pazienza
spegne il fuoco dell’impurità.
VII. I diversi
gradi della castità.
VIII. Coloro che
non ne hanno esperienza, non possono trattare della natura a degli effetti della
castità.
IX. È possibile
evitare i moti della carne anche durante il sonno?
X. I moti della
carne che si producono nel sonno non offendono la castità.
XI. C’è una
notevole differenza tra continenza e castità.
XII. Le meraviglie
che il Signore opera nei suoi santi.
XIII. Solo chi l’ha
provata può conoscere la dolcezza della castità.
XIV. Con quali
penitenze e in quanto tempo si può giungere alla virtù della castità?
XV. Quanto tempo è
necessario per conoscere se la castità è possibile.
XVI. Fine e rimedio
della castità.
I -
Parole dell’abate Cheremone
sulla castità
Il desiderio che avevamo del pane spirituale ci fece apparire
piuttosto pesante che allegro il nostro pasto. Finito che fu, il vecchio abate
capì che noi volevamo immediatamente la sua nuova conferenza, e prese a dire:
«Io godo nel vedere l’ardore che avete di apprendere la scienza spirituale; godo
ancor più perché mi avete proposto un tema di grande importanza. Devo anche
notare che l’ordine in cui si pone la vostra domanda è logico, ragionevole;
infatti è necessario che alla pienezza della carità segua come premio, una
perfetta castità. Si tratta di due vittorie che molto si somigliano, di due
gioie che si uguagliano: l’alleanza che le unisce è così stretta che non è
possibile possedere l’una senza l’altra.
La vostra domanda esprime un dubbio: se sia possibile spegnere
completamente in noi il fuoco della concupiscenza, di cui la nostra carne sente
l’ardore come innato. È quello che mi riprometto di spiegarvi con una conferenza
simile alla prima.
Innanzi tutto cerchiamo attentamente di scoprire che cosa ne
pensa il beato Apostolo.
«Mortificate — egli dice — le vostre membra terrene» (Col
3,5). Prima di procedere oltre, vediamo di intendere quali sono queste membra
che s. Paolo ci comanda di mortificare.
Non è da credere che l’Apostolo ci esorti a tagliarci le mani,
i piedi, o altre parti del corpo che tacere è bello. Egli vuole che, per amore
della santità, distruggiamo al più presto il «corpo del peccato» che è formato
da vive membra. Dice in un passo della lettera ai Romani: «Sia distrutto il
corpo del peccato» (Rm 6,6) e subito spiega in che cosa consista questa
distruzione: «In modo che non siamo più —egli dice — schiavi del peccato» (Rm
6,6). Da questo corpo l’Apostolo chiede tra i gemiti di poter esser liberato:
«Disgraziato che io sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7,24).
II -
II corpo del
peccato e le sue membra
Il corpo del peccato è formato da tante membra che sono i
vizi: gli appartengono tutti i peccati che si possano commettere con parole,
opere, pensieri. Queste membra sono chiamate terrestri, e con ottima ragione;
infatti coloro che se ne servono non potrebbero dire sinceramente: «La nostra
cittadinanza è nei cieli». (Fil 3,20)
Ecco come l’Apostolo descrive le membra di questo corpo:
«Mortificate le vostre membra terrene, cioè la fornicazione, l’impurità, la
libidine, la prava concupiscenza e l’avarizia che è un’idolatria» (Col 3,5).
Ha messo al primo posto la fornicazione, che consiste in una
unione carnale. Nomina come secondo membro del corpo di peccato l’impurità, che
a volte, nello stato di sonno o di veglia, al di fuori di ogni unione sessuale,
sorprende l’anima che non è vigilante. La legge condannava e proibiva l’impurità
in quanto, oltre ad allontanare chi se n’era macchiato dalla partecipazione ad
ogni banchetto sacro, ordinava pure di segregarlo dall’accampamento in cui stava
raccolto il popolo. Ecco la testimonianza della sacra Scrittura: «Chi, essendo
immondo, avrà mangiato delle carni dell’ostia pacifica che è stata offerta al
Signore, perirà davanti al Signore» (Lv 7,20: LXX); e «Tutto ciò che toccherà un
immondo diventerà immondo» (Nm 19,22).
Nel
Deuteronomio
si legge: «Se ci sarà tra voi qualcuno che sia divenuto immondo la notte nel
sonno, esca dagli alloggiamenti, e non vi ritorni prima di essersi lavato con
acqua, la sera; tramontato il sole rientrerà nel campo» (Dt 23,10-11).
Come terzo membro del corpo di peccato l’Apostolo nomina la
libidine che si sviluppa nell’intimo segreto dell’anima, anche senza commozione
del corpo. È chiaro infatti che il termine «libidine» deriva dal verbo
libet, che significa
qualcosa che piace. Dopo ciò l’Apostolo scende dai peccati più gravi a quelli
più leggeri ed enumera come quarto membro la concupiscenza malvagia, la quale
non si riferisce soltanto ai peccati di lussuria, ma a tutti i desideri
genericamente dannosi. Essa è la malattia di una volontà corrotta. Di questa
concupiscenza dice il Signore nel Vangelo: «Chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già in cuor suo commesso adulterio con lei» (Mt 5,28).
È molto difficile trattenere i desideri di uno spirito incline
al peccato impuro, quando gli si presenta alla vista una visione conturbante. Da
ciò si ha la prova che una castità non può essere perfetta finché alla
continenza del corpo non si aggiunge anche l’integrità dell’anima.
Ecco ora, alla fine dell’elenco, l’ultimo membro del corpo del
peccato: l’avarizia. L’Apostolo intende così dimostrare che non basta
trattenersi dal desiderare le cose d’altri, ma bisogna anche disprezzare con
cuore magnanimo le cose nostre. Così faceva la moltitudine dei primi cristiani,
secondo ciò che riferisce il libro degli
Atti: «La moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima
sola; né alcuno c’era che considerasse come cosa sua quel che possedeva, ma
avevano tutto in comune. Tutti quelli che possedevano poderi e case, li
vendevano e portavano il prezzo delle cose vendute, e lo mettevano ai piedi
degli Apostoli; poi si distribuiva a ciascuno, secondo il bisogno» (At 4,32 e
34-35).
Perché non si credesse che questa perfezione era riservata a
pochi, l’Apostolo aggiunge che l’avarizia è una forma d’idolatria. Ed ha
perfettamente ragione. Chiunque si rifiuta di soccorrere i bisognosi nelle loro
necessità e mette i comandi di Cristo al disotto del denaro, che conserva con
l’attaccamento di un pagano, cade nel peccato d’idolatria, perché preferisce
all’amore di Dio l’amore d’una cosa materiale di questo mondo.
III -
Dovere di mortificare la
fornicazione e l’impurità
Noi vediamo che molti, per amore di Cristo, hanno rinunciato
alle loro ricchezze e l’hanno fatto in modo tale che, non solo si sono privati
del possesso, ma hanno sradicato dal cuore anche il desiderio. Se così è per la
ricchezza, dobbiamo credere che la stessa cosa possa avvenire anche per l’ardore
impuro. L’Apostolo non avrebbe mai accostato una cosa impossibile a una
possibile. Se ci comanda di mortificare l’uno e l’altro vizio, è segno che l’uno
e l’altro può essere mortificato, cioè vinto. Anzi l’apostolo è tanto convinto
della nostra capacità di estirpare dalle nostre membra il vizio impuro, che non
ci dice solo di mortificare l’impurità, ma ci avverte che questa bruttura non
dev’essere neppure nominata tra noi: «Fornicazione poi e qualsiasi impudicizia o
avidità di possedere, non siano neppure nominate tra voi, come conviene ai
santi; e così: non disoneste parole, o buffonerie, o scurrilità che non
convengono» (Ef 5,3-4).
Altrove lo stesso Apostolo insegna ancora che queste cose sono
gravissime e ci escludono dal regno di Dio.
«Non illudetevi: né fornicatori, né idolatri, né adulteri, né
effeminati, né pervertiti, né ladri, né avari, né ubriachi, né maldicenti, né
rapaci erediteranno il regno di Dio» (1 Cor 6,9-10). E ancora: «Questo si deve
tenere a mente: che ogni adultero o impudico, o avaro, che vuol dire idolatra,
non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio» (Ef 5,5).
Nessun dubbio può dunque sussistere sulla possibilità di
estirpare dal nostro corpo il contagio della lussuria. L’Apostolo mette
l’obbligo di vincere l’impurità insieme con quello di vincere l’avarizia, le
parole sciocche, le buffonerie, l'ubriachezza, i furti: tutte cose, queste, di
cui si può avere facile vittoria.
IV -
Per ottenere
la vera castità non basta l’impegno puramente umano
Mettiamoci però bene in mente che le più rigorose astinenze,
fame, sete, veglie, lavoro assiduo, applicazione incessante alla lettura, non ci
potranno meritare una continua e perfetta castità. In mezzo alle nostre continue
fatiche dobbiamo imparare, da quella grande maestra che è l’esperienza, che la
perfetta castità è un dono gratuito della grazia divina. Ciascuno sappia che ha
il dovere di esercitarsi instancabilmente negli esercizi di penitenza per
ottenere così la misericordia del Signore, per meritare che egli ci liberi dagli
assalti della carne e dalla dominazione tirannica dei vizi. Ma non pensiamo
neppure lontanamente di poter arrivare in virtù delle nostre penitenze, alla
desideratissima castità perfetta.
Nei confronti della castità da conquistare, ognuno di noi deve
sentirsi infiammato di quello stesso ardore che si trova in un avaro divorato
dal desiderio delle ricchezze, nell’ambizioso bruciato dalla sete degli onori,
nell’uomo appassionato che è rapito dall’amore irresistibile di una bellezza
femminile. Al pari di costoro bisogna desiderare la realizzazione del nostro
desiderio con intensità impaziente.
L’uomo che sia tutto preso da un desiderio insaziabile della
perfetta castità, disprezzerà il cibo, anche se desiderabile; avrà orrore delle
bevande, anche di quelle necessarie; allontanerà da sé il sonno, che pure è una
necessità di natura; oppure si affiderà al sonno con la mente timorosa di ciò
che in quel tempo potrà intentargli il nemico della purezza, l’avversario
irriducibile di ogni castità. Se svegliandosi al mattino si accorgerà che la sua
purezza è rimasta intatta, godrà di questo dono che gli è stato accordato da
Dio. Egli infatti sa perfettamente che non ha conservato la castità col suo zelo
e con la sua vigilanza, ma solo per grazia del Signore; sa pure che il suo corpo
rimarrà casto per tutto il tempo che la divina generosità vorrà concedergli.
Chi avrà procurato di stabilirsi in questa persuasione, non
avrà alta stima di sé, non avrà fiducia nella sua virtù. Non si lascerà
ingannare dai lunghi periodi di calma, né si lascerà snervare da una sicurezza
fallace. Sarà invece certo che potrà avere qualche triste sorpresa se la
protezione divina si ritirerà da lui anche per un solo istante. In conseguenza
di ciò, allo scopo di conservare in sé la perpetua e perfetta castità, si
applicherà indefessamente alla preghiera, con ogni contrizione e umiltà di
cuore.
V -
Utilità
degli assalti che ci vengono dalla carne
Volete una prova evidente su quanto vi ho detto a proposito
dell’utilità delle tentazioni mosseci dalla carne? Volete esser sicuri che quei
combattimenti, sebbene ci sembrino dannosi e pericolosi, sono invece utilmente
inseriti nelle membra del nostro corpo? Considerate, vi prego, coloro che sono
impotenti, e domandatevi che cosa è che li rende così stanchi e tiepidi nella
ricerca della virtù. Non è forse vero che sono così apatici spiritualmente
perché non temono di perdere la loro castità?
Nessuno pensi tuttavia che quando parlo così io voglia
affermare che tra quella categoria di persone non se ne trova alcuna capace di
vivere la perfetta rinunzia. Intendo soltanto dire che anche tra loro, se ci son
quelli che tendono alla meta della perfezione, proposta alle nostre ambizioni,
ci dovrà essere chi in qualche modo vince la propria natura. Infatti, quando il
desiderio ardente della perfezione ha preso un’anima, la costringe a sopportare
la fame, la sete, le veglie, la nudità e tutte le fatiche del corpo, non solo
con pazienza, ma anche con piacere. «L’uomo che si affatica, si affatica per sé,
e usa violenza per impedire il suo danno» (Pr 16,26: LXX). E ancora: «L’anima
che ha fame troverà dolce anche l’amaro» (Pr 27,7: LXX).
I desideri delle cose presenti non potranno essere né repressi
né estirpati, se al posto di questi desideri funesti, dei quali desideriamo
liberarci, non ne metteremo altri che siano portatori di salute. L’anima
possiede una vivacità naturale che non le permette di starsene senza qualche
sentimento di desiderio o di timore, di gioia o di tristezza. Dovrà dunque
accettare questi sentimenti e rivolgerli al lato buono. Pertanto, se desideriamo
togliere dal nostro cuore le concupiscenze della carne, dobbiamo inserire al
loro posto le gioie dello spirito. Se aderirà ai piaceri spirituali, l’anima
nostra avrà trovato il suo punto di stabilità, allora le parrà facile rifiutare
i piaceri del tempo presente.
Quando gli esercizi quotidiani avranno condotto l’anima nostra
in questo stato, essa potrà conoscere per esperienza il significato profondo di
quel versetto che tutti cantiamo sul ritmo della consueta salmodia, ma pochi
soltanto hanno capito sperimentalmente. Dice quel versetto: «Vedo il Signore
sempre davanti ai miei occhi; poiché egli sta alla mia destra, non vacillerò»
(Sal 16 (15), 8). Giungerà a comprendere tutta la forza di queste parole
soltanto colui che, dopo aver acquistato quella purezza dell’anima e del corpo
di cui abbiamo già parlato sopra, si convincerà di essere ad ogni istante
sorretto dal Signore. Dio lo conserva perché non decada dalle altezze raggiunte;
Dio fortifica continuamente la sua destra, cioè le sue azioni virtuose.
Dio non sta alla sinistra dei suoi santi, perché i santi non
hanno alcunché di sinistro; sta invece alla loro destra. I peccatori e gli empi
non vedono Dio perché essi non hanno quella destra alla quale si tiene il
Signore; perciò non possono dire col profeta: «Gli occhi miei son sempre rivolti
al Signore, perché egli districherà dal laccio i miei piedi» (Sal 25 (24),5).
Queste parole possono essere sinceramente pronunciate soltanto da colui che
stima tutte le cose di questo mondo come dannose o superflue, o per lo meno come
inferiori alla virtù perfetta, e perciò indirizza gli sguardi, gli affetti, gli
sforzi, alla custodia del cuore e alla conquista della perfetta castità.
Con questi esercizi lo spirito si lima; a mano a mano che
progredisce si fa più puro; alla fine raggiunge la perfetta santità dell’anima e
del corpo.
VI
-
La pazienza spegne il fuoco dell’impurità
Quanto più uno cresce nella mitezza e nella pazienza, tanto
più avanza nella purezza del corpo; quanto più lontano sarà cacciato il vizio
dell’ira, tanto più ferma sarà la castità. Infatti non potrà dominare i moti
della carne chi non abbia domato prima i moti del cuore. Questa verità ci è
proclamata dalla voce del Salvatore: «Beati i miti perché essi possederanno la
terra» (Mt 5,4).
Non abbiamo altro mezzo per possedere la nostra terra — cioè
per sottomettere alla nostra sovranità la terra ribelle del nostro corpo —
all’infuori di questo: fondare l’anima nostra nella dolcezza della pazienza.
Nei combattimenti che la passione suscita nella nostra carne
si trionfa soltanto se si impugnano le armi della mansuetudine. «I mansueti
possederanno la terra e l’abiteranno nei secoli dei secoli» (Sal 37 (36),11 e
29). La sacra Scrittura, nello stesso Salmo, ci insegna anche il metodo per
conquistare questa terra: «Spera nel Signore e segui la sua via, e t’innalzerà
su, a possedere la terra» (Sal 37 (36),34)21.
È chiaro dunque che nessuno arriva ad un saldo possesso di
questa terra all’infuori di coloro che battono le vie dure e osservano i
precetti del Signore nella mitezza di una pazienza inalterabile. La mano divina
li ritrarrà dal fango delle passioni carnali e li esalterà. «I miti possederanno
la terra» e non solo la possederanno, «ma vi godranno abbondanza di pace» (Sal
37 (36),11).
Chi invece sperimenta ancora nella sua carne la guerra della
concupiscenza, non potrà godere stabilmente di questa pace. I demoni non
smetteranno di muovergli i loro crudeli assalti; egli, ferito dalle frecce
infiammate della lussuria, sarà impedito dal prendere possesso della sua terra,
fino al momento in cui il Signore non «spazzerà via le guerre sino ai confini
della sua terra, spezzerà l’arco, romperà le lance, brucerà gli scudi nel fuoco»
(Sal 46 (45),10). Questo è il fuoco che il Signore è venuto a portare sulla
terra. Gli archi e le lance che il Signore spezzerà sono le armi di cui gli
spiriti maligni si serviranno contro l’uomo in una battaglia incessante, di
giorno e di notte, per ferire il suo cuore con le frecce infocate delle
passioni.
Ma quando il Signore, che spazza via le guerre, l’avrà
liberato da tutti gli assalti della carne, quest’uomo giungerà a tale stato di
purezza che scomparirà quella vergogna che aveva di se stesso, cioè della carne
da cui era combattuto, e incomincerà a compiacersi della sua carne, come di un
tabernacolo purissimo. «Il male non si avvicinerà a lui, il flagello non
s’accosterà al suo tabernacolo» (Sal 91 (90),10). Grazie alla virtù della
pazienza si avvererà la promessa del profeta: «Per merito della mansuetudine
egli non si limiterà ad ereditare la sua terra, ma si rallegrerà in una pace
abbondante» (Sal 37 (36),11). Dove permane il timore del combattimento, non ci
può essere l’abbondanza della pace. Ma nel caso nostro ogni timore è svanito;
per questo la divina Scrittura non dice che gusterà la gioia della pace, ma che
gusterà la gioia di una «pace abbondante».
Da tutto ciò appare evidente che il medicamento più efficace
sul cuore dell’uomo è la pazienza, secondo quel detto di Salomone:
«L’uomo mansueto è medico del cuore» (Pr 14,30: LXX). La
pazienza non elimina soltanto l’ira, la tristezza, l’accidia, la vanagloria, la
superbia, ma anche la lussuria e tutti gli altri vizi: «La pazienza — dice
ancora Salomone — fa prosperi i re» (Pr 25,15: LXX). Chi rimane sempre mite e
tranquillo, non si accende per impeti d’ira, né si consuma nell’angoscia
dell’accidia e della tristezza, né si distrae nelle miseriole della vanagloria,
né si gonfia di superbia. Per lui valgono le parole: «Molta pace per quelli che
amano il nome del Signore, e non v’è inciampo per essi» (Sal 119 (118),165). È
giusta la sentenza del Savio: «Meglio l’uomo paziente che l’uomo forte; e chi
domina l’animo suo è da più che un espugnatore di città» (Pr 16.32).
Ma prima di ottenere questa pace forte e sicura dobbiamo
essere provati da molti assalti. Avremo perciò da ripetere molte volte, fra
lacrime e gemiti, questa invocazione: «Misero io sono e afflitto fino
all’estremo, tutto il dì me ne vo’ contristato. I miei lombi sono pieni di
fiamme» (Sal 38 (37), 7-8). E ancora: «Non v’è sanità nella mia carne, a cagione
dell’ira tua; non v’è pace per le mie ossa, a cagione dei miei peccati» (Sal 38
(37), 4).
Questi lamenti ci converranno perfettamente quando, dopo avere
a lungo conservata la purezza del corpo ed esserci convinti di avere eliminato
per sempre le impurità della carne, sentiremo gli stimoli della lussuria
insorgere di nuovo, o ci accorgeremo che nelle fantasie notturne ci perseguita
il ricordo delle impurità passate.
Quando uno ha incominciato a godere per lunga consuetudine le
gioie che derivano dalla purezza dell’anima e del corpo, è naturale che pensi di
non poter essere separato dalla purezza che gode. Avverrà allora che intimamente
si compiaccia e si glori così: «Io dico nella mia prosperità: non vacillerò in
eterno» (Sal 30 (29), 7). Ma quando il Signore lo abbandonerà e l’uomo sentirà
venir meno quello stato di calma in cui tanto fidava, allora ricorrerà
all’autore della sua virtù e, convinto della propria debolezza, dirà: «Signore,
la mia permanenza nello stato di virtù e di decoro, era effetto della tua
volontà, non della mia. Rivolgesti da me la tua faccia e fui sconvolto» (Sal 30
(29), 8). Dirà ancora col beato Giobbe: «Se io mi lavassi con acqua di neve, e
le mie mani risplendessero per mondezza, nella lordura tu m’intingeresti, sicché
mi avessero a schifo i miei stessi abiti» (Gb 9,30-31).
Queste parole tuttavia non può ripeterle al suo Creatore colui
che s’è macchiato di sozzura per sua colpa.
Finché non sarà giunto allo stato di purezza perfetta, l’anima
dovrà essere frequentemente sottoposta a queste alternative, ma alla fine,
fortificata dalla grazia del Signore, sarà resa salda in quella purezza che
desiderava. Allora potrà dire: «Con fermezza aspettai il Signore ed egli si
volse a me, e ascoltò le mie grida supplichevoli. Mi ritrasse da rovinosa fossa
e dal fango melmoso. E stabilì sopra una rupe i miei piedi e guidò i miei passi»
(Sal 40 (39), 2-3).
VII -
I diversi
gradi della castità
Molti sono i gradi di castità attraverso i quali si sale fino
alla purezza perfetta. La mia virtù non è sufficiente né a descriverli a fondo,
né ad elencarli. Tuttavia, poiché l’ordine stesso di questa trattazione lo
richiede, mi sforzerò di illustrarli in qualche modo, secondo la mediocrità
della mia esperienza. Lascio ai perfetti l’esposizione di una dottrina perfetta,
né desidero prevenire il giudizio di coloro che, con una vita più fervente, sono
arrivati a conquistare una castità più perfetta della mia. Costoro mi
sopravanzano nel vigore della perspicacia quanto mi superano nell’ardore dello
zelo.
Distinguerò in sei gradi le vette della castità, benché tra
l’una e l’altra di queste vette la differenza d’altezza sia notevole. I gradi
intermedi, quantunque siano molto numerosi, li passerò sotto silenzio. La loro
diversità è così sottile da non essere facilmente percettibile al senso umano:
la mente non riesce a penetrarla, la lingua non riesce ad esprimerla. Essi
segnano i progetti quotidiani attraverso i quali la castità avanza a poco a poco
verso la sua perfezione. Infatti la forza dello spirito e la perfezione della
castità crescono progressivamente, a somiglianza dei corpi materiali che
prendono incremento ogni giorno insensibilmente e giungono così, senza neppure
accorgersene, al loro stato perfetto.
Il primo grado di castità è che il monaco non soccomba,
durante la veglia, agli assalti della carne.
Il secondo è che la sua mente non s’indugi sui pensieri
impuri.
Il terzo, che la vista di una donna non gli risvegli neppur
debolmente dei sentimenti di concupiscenza.
Il quarto, che mentre è sveglio non provi nella sua carne il
movimento più leggero e innocente.
Il quinto, che quando il tema di una conferenza o l’argomento
di una lettura fanno menzione della generazione umana, la mente non si lasci
sfiorare dal più leggero assenso all’atto voluttuoso, ma lo consideri invece con
uno sguardo tranquillo e puro, come un’opera semplicissima, come un dovere
assegnato al genere umano; il suo ricordo lasci indifferenti come il ricordo del
modo in cui si fabbricano i mattoni, o come l'esercizio di qualche altro
mestiere.
Il sesto grado è che il monaco non sia turbato da fantasmi che
rappresentano donne, neppure durante il sonno. È vero che noi riteniamo immune
da colpa questa illusione notturna, tuttavia è segno di una concupiscenza che si
nasconde nelle profondità del nostro essere.
È poi certo che l’illusione di cui trattiamo si produce in
diversi modi: ognuno infatti è tentato nel sonno secondo il modo d’agire o di
pensare che tiene quando è sveglio. In un modo son tentati coloro che hanno
avuto esperienze sessuali, in altro modo coloro che di tali esperienze sono
privi. Questi ultimi sono inquietati da sogni che chiamerei più semplici e più
puri, perciò possono liberarsene con minor diligenza e con minor fatica. I primi
invece sono assaliti da immagini più sconce e più distinte, in modo che a poco a
poco secondo la misura della castità alla quale tendono, l’anima loro incomincia
a detestare anche nel sonno ciò che una volta le era causa di piacere. E questo
è segno che le è stata concessa dal Signore la ricompensa promessa per bocca del
profeta ai valorosi che meritano il premio delle loro fatiche: «L’arco e la
spada e le belliche armi manderò infrante lungi dalla terra e li farò riposare
al sicuro» (Os 2.18).
Così il monaco potrà giungere persino alla castità dell’abate
Sereno e di pochi altri monaci somiglianti a lui. Questa forma di castità l’ho
voluta distinguere dai sei gradi sopra descritti perché è talmente alta che
pochi soltanto possono, non dico possederla, ma addirittura crederla possibile.
Oltre a ciò io non posso proporre a tutti, come un comando universale, quel
grado che a Sereno fu concesso come dono straordinario della divina benignità.
Non posso cioè chiedere che l’anima nostra giunga a tale grado di castità che
scompaiano completamente anche i moti naturali della carne e il corpo non mostri
più alcun segno o fenomeno riguardante la sfera sessuale.
Non posso tacere la spiegazione che alcuni dànno a riguardo
dei moti carnali che si producono nel sonno. Dicono essi che il fenomeno
avviene, non già perché lo producono i sogni lascivi, ma piuttosto perché la
sovrabbondanza degli umori naturali produce immagini seducenti in un cuore
ammalato. Costoro assicurano che quando gli umori si estinguono anche le
illusioni cessano.
VIII -
Coloro che non ne hanno esperienza,
non possono trattare della natura e degli effetti della castità
Nessuno mai potrà accettare e sperimentare queste cose,
decidere se sono o no possibili, se prima non sia giunto là dove sono segnati i
confini fra la carne e lo spirito. E per giungere a quella linea di demarcazione
c’è bisogno d’una lunga esperienza, d’una grande purezza di cuore e della luce
che deriva dalla parola di Dio. Dice infatti l’Apostolo: «Viva è la parola di
Dio, ed efficace, e più tagliente d’una spada a due tagli, e penetrante sino a
dividere l’anima e lo spirito, e le giunture e le midolle, e scrutatrice dei
sentimenti e dei pensieri del cuore» (Eb 4,12).
Posta sulla linea di confine tra la carne e lo spirito, la
mente potrà giudicare con perfetta imparzialità ciò che è proprio e inevitabile
alla condizione umana, distinguendolo da ciò che deriva da abitudini viziose, o
dalla negligenza della gioventù. Tutto determinerà come se fosse spettatore
spassionato, o un giudice imparziale. Riguardo alla natura ed agli effetti della
carne e dello spirito, non si lascerà ingannare dalle false opinioni del volgo,
o dai pregiudizi della gente sprovveduta, ma terrà come giusta misura la sua
personale esperienza.
Dopo un giusto esame deciderà quali sono le esigenze della
purezza, senza cadere nell’errore di coloro che ricorrono alla condizione della
natura umana per scusare certi atti o affetti che non hanno niente a che fare
con la natura, ma sono dovuti solo a negligenza. È infatti certo che sono essi a
far violenza alla natura perché produca effetti impuri; non è la natura a
produrli spontaneamente. Giungono costoro ad attribuire la loro intemperanza ad
una necessità della carne, anzi al Creatore stesso della natura umana, e tentano
così di addossare alla natura il disordine della loro colpa. Di questi tipi
parla molto a proposito il libro dei
Proverbi: «La stoltezza dell’uomo corrompe le sue vie, e poi in cuor
suo incolpa Dio» (Pr 19,3: LXX).
Se c’è qualcuno che non intende prestar fede a queste mie
affermazioni, io lo prego di non discutere con me partendo da un’opinione
preconcetta. Faccia prima l’esperimento della vita eremitica, e lo faccia per
qualche mese, secondo tutte le forme prescritte; potrà allora accettare per vero
tutto quello che ho detto.
È sciocco discutere sul fine di una disciplina o di un’arte
senza essere prima entrati, con tutto il cuore e con tutte le forze, nei segreti
di quell’arte. Per esempio: io dico che dal grano si può estrarre una specie di
miele o un olio dolcissimo, somigliante a quello che si estrae dai semi di lino
e di ravanello. Uno dei presenti, completamente ignaro del fatto, incomincia a
dire che ciò è contro natura, e mi deride come colpevole di ima menzogna
patente. Io allora gli porto testimonianze innumerevoli che affermano d’aver
sentito e visto ciò, anzi di aver gustato e prodotto quel liquore; gli spiego
poi tutta la serie di trasformazioni attraverso le quali il frumento diventa
liquido come l’olio, o dolce come il miele. Quello però si ostina a negare che
dal grano si possa ricavare qualche cosa di dolce o di grasso. Non è forse vero
che sarà più giusto condannare la sua irragionevole ostinazione, che deridere la
verità delle mie parole, ben fondate su testimonianze, numerose, fedeli e
autorevoli, su dimostrazioni evidenti e, quel che più conta, comprovate
dall’esperienza?
Perciò colui che sarà arrivato, con una continua applicazione
del cuore, a tal grado di purezza che la sua mente sia totalmente libera dalle
sollecitazioni della passione impura, e la sua carne si liberi naturalmente nel
sonno dall’abbondanza degli umori superflui, costui sarà in grado di
comprendere, con assoluta certezza, la condizione della carne e le sue esigenze.
E così, quando allo svegliarsi, egli si accorgerà che dopo lungo tempo la sua
carne si è liberata nel sonno dagli umori naturali e superflui — e ciò a sua
completa insaputa — allora egli potrà parlare di necessità naturale. Costui,
senza dubbio, è giunto ad uno stato in cui sarà trovato uguale la notte e il
giorno, in letto e alla preghiera, solo e tra la gente. Mai si troverà
nell’intimo in una condizione che lo farebbe arrossire se altri lo vedessero; lo
sguardo penetrante di Dio non scoprirà in lui alcunché che quello desideri tener
nascosto alla vista dell’uomo. La luce soavissima della castità incomincia
allora a carezzarlo con le sue continue gioie e gli fa dire col profeta: «La
notte stessa è divenuta luminosa nello stato di felicità in cui mi trovo. Le
tenebre non saranno buie per te, e la notte splenderà come il giorno: così è
l’oscurità per te come la luce» (Sal 139 (138), 11-12). Siccome questo stato
pare superiore alla natura umana, il profeta aggiunge una spiegazione sul modo
in cui ha potuto ottenerlo: «Perché — egli dice — tu possiedi i miei reni» (Sal
139 (138), 13). È lo stesso che dire: io non ho meritato questa purezza coi miei
sforzi o con la mia virtù; sei stato tu, Signore, ad estinguere l’ardore
sessuale che si annidava nei miei reni.
IX -
È possibile
evitare i moti della carne anche durante il sonno?
Germano — Sappiamo per esperienza che con la grazia del Signore è
possibile mantenere il nostro corpo perfettamente puro durante la veglia. Non
saremo noi a negare che il rigore di una vita austera e la forza della ragione
abbiano il potere di tener lontana ogni rivolta della carne. Vorremmo però
sapere se sia possibile rimanere immuni da questa rivolta anche durante il
sonno.
Ci sono due ragioni per le quali crediamo che ciò non sia
possibile. Un senso di pudore ci rende difficile manifestare quelle cause, ma
siccome questo è necessario per ottenere il rimedio, parleremo. E tu perdonaci
se le nostre parole saranno un poco grossolane. La prima ragione è che nella
quiete del sonno il vigore dello spirito si attenua fino a scomparire, cosicché
non possiamo neppure accorgerci delle commozioni della carne. La seconda ragione
è che la quantità di orina, la quale va crescendo continuamente durante il
sonno, può riempire la vescica e provocare una eccitazione nelle membra
rilassate. A questo fenomeno sono soggetti anche i bambini e gli eunuchi. Da ciò
si conclude che l’anima, pur non essendo ferita dal piacere impuro, è almeno
umiliata dalla turpitudine del corpo.
X -
I moti della
carne che si producono nel sonno non offendono la castità
Cheremone — Ho l’impressione che non abbiate ancora capito qual è la
natura della vera castità. Credete che si possa conservarla soltanto durante la
veglia per mezzo di una vita austera; nel sonno (per la sospensione delle
attività dello spirito) credete che non sia possibile custodire integra quella
virtù.
No: la castità non si fonda — come voi credete — sulla difesa
di una vita austera, ma sull’amore che la virtù ispira, e sulle gioie che si
gustano nella purezza stessa. Finché rimane qualche attrattiva per il piacere,
si parlerà di continenza, non di castità.
Vedete ora che il sonno non può nuocere a coloro che la grazia
divina ha penetrato a fondo con l’amore della castità, sia pure che dormendo
essi sospendano la loro austerità di vita.
È
anzi provato con certezza inoppugnabile che l’austerità può
ingannarci anche durante la veglia. Un vizio che è tenuto lontano con fatica,
darà al combattente una tregua passeggera, non la sicurezza o il riposo completo
che succede alla fatica. Se invece il vizio è completamente vinto da una virtù
che penetra fino nelle più riposte fibre dell’essere, si stimerà in seguito come
debellato, non darà sospetti di rivolta, lascerà che il vincitore goda di una
pace continua e imperturbata.
Finché sentiamo ribellioni della carne, ammettiamo che non
siamo ancora arrivati alle vette della castità, ma siamo ancora nel dominio
fluttuante della continenza, dove si svolgono battaglie continue con esito
necessariamente dubbio.
Avete inoltre provato che le commozioni della carne sono
inevitabili portando come esempio gli eunuchi, i quali, sebbene mutilati, non
vanno esenti da questo fenomeno. Ma dovete ricordare che agli eunuchi manca
soltanto la capacità di generare, non l’ardore della carne, o lo stimolo della
libidine. Da ciò consegue che se essi vogliono arrivare a quella castità che è
il fine dei nostri sforzi, non possono fare a meno dell’umiltà, della
contrizione del cuore, dell’austerità, dell’astinenza. È vero però che essi
possono acquistare la castità con meno fatica e meno applicazione di noi.
XI -
C’è una
notevole differenza tra continenza e castità
È chiaro che la perfetta castità si distingue dalla continenza
rudimentale e faticosa per il segno di una tranquillità inalterabile. Tale è
veramente la perfezione della vera castità: essa non ha più da combattere i
movimenti della concupiscenza carnale, ma li detesta con odio completo e rimane
in una purezza costantemente inviolabile. E questo non è altro che la santità.
Tutto ciò avviene quando la carne cessa di aver desideri contrari allo spirito e
comincia a consentire ai suoi desideri e alle sue virtù. I due elementi, prima
nemici, incominciano ad unirsi coi legami di una pace fermissima e realizzano in
sé la sentenza del salmista, là dove parla dei «fratelli che abitano insieme»
(Sal 133 (132), 1). Posseggono già la beatitudine promessa dal Signore, che
dice: «Se due si mettono insieme sulla terra a domandare qualsiasi cosa, essa
sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli (Mt 18,19).
Chiunque avrà superato il grado di castità raffigurato nel
«soppiantatore» Giacobbe, non solo paralizzerà il nervo del fianco, ma dalle
lotte per la continenza e dal lavoro per sostituire la virtù ai vizi, si leverà
al titolo glorioso d’Israele, e il suo cuore non devierà più dalla giusta
direzione.
David, ispirato da Dio, ha ben distinto questi due momenti
nella vita dello spirito. «Dio — egli dice — si è fatto conoscere in Giudea»
(Sal 76 (75), 2), cioè nell’anima che deve ancora confessare i suoi peccati.
Giudea infatti significa confessione. Ma in Israele, cioè in colui che vede Dio,
oppure — come vuole un’altra etimologia — nell’uomo perfettamente retto davanti
a Dio, il Signore non è soltanto conosciuto, ma «grande è il suo nome» (Sal 76
(75), 2). Poi il salmista ci chiama verso altezze ancora più sublimi; vuol
mostrarci il luogo stesso in cui Dio si diletta: «La sua dimora — egli dice — è
stabilita nella pace» (Sal 76 (75), 3). In altre parole, la dimora di Dio non è
là dove si svolge la lotta contro il vizio, ma nella pace della castità e nella
perpetua tranquillità del cuore.
Chi avrà meritato, con l’estinzione delle passioni carnali, di
penetrare in questa dimora di pace, potrà continuare a progredire e diverrà una
«Sionne» spirituale. Sion significa torre e osservatorio di Dio. Chi giunge a
questo grado diventa dimora di Dio. Dio infatti non si trova in mezzo alle
battaglie della continenza; la sua abitazione è l’osservatorio delle virtù. Là
non si accontenta di rintuzzare o contenere gli assalti del vizio, ma
addirittura spezza la potenza degli archi. Voglio dire di quegli archi dai quali
un tempo partivano contro di noi le frecce infiammate dell’impurità.
Convincetevi dunque che l’abitazione del Signore non è nei
combattimenti della continenza, ma nella pace della castità, cioè
nell’osservatorio e nella contemplazione della virtù. Il Salmista aveva ragione
di porre le porte di Sion al disopra di tutte le tende di Giacobbe. «Il Signore
— dice — ama le porte di Sion più che tutte le tende di Giacobbe» (Sal 87 (86),
2).
Voi avete pur detto che certe commozioni della carne sono
inevitabili, perché i bisogni naturali le producono durante il sonno. Io vi farò
osservare che quelle commozioni, oltre a non recare alcun danno ai veri e
sinceri ricercatori della purezza, per il fatto che si producono raramente, per
necessità e nel sonno, sono anche soggette al dominio della volontà. Le membra
eccitate in tal modo possono essere ridotte alla più assoluta calma per comando
della castità, cosicché si quieteranno, non soltanto senza alcuna sensazione
impura, ma anche senza il minimo ricordo di un piacere meno nobile.
Per mettere in accordo la legge dello spirito con quella della
carne, sarà dunque necessario mortificare e regolare anche l’uso dell’acqua. Gli
umori naturali si formeranno in minor quantità in un corpo inaridito, e così
quei moti carnali che voi stimate inevitabili, non soltanto diventeranno
rarissimi, ma si faranno deboli e susciteranno un fuoco senza ardore, una fiamma
che chiamerei fredda, la quale, invece di bruciare, rinfranca. Avverrà qualcosa
di somigliante alla meravigliosa visione di Mosè: il roveto della nostra carne,
avvolto di un fuoco innocente, non sarà consumato. Oppure avverrà a noi quel che
avvenne ai tre fanciulli nella fornace di Babilonia, dai quali il soffio dello
spirito divino allontanava così bene le fiamme, che l’ardore del fuoco non
sfiorò minimamente né i capelli, né le frange delle vesti. In tal modo, già da
questa vita, incominceremo a possedere quel che è promesso ai santi per bocca
del profeta: «Quando passerai per mezzo al fuoco, non ti brucerai e l’ardore
della fiamma non ti assalirà» (Is 43,2).
XII -
Le
meraviglie che il Signore opera nei suoi santi
Grandi davvero e meravigliosi e sconosciuti — a meno che non
si tratti di coloro che li conoscono sperimentalmente — sono i doni che Dio
elargisce con liberalità indicibile ai suoi fedeli, anche mentre vivono nella
carne corruttibile. Il profeta, dopo aver considerati quei doni a uno a uno,
nella purezza dell’anima sua, parlando a nome proprio e a nome di coloro che
giungono a questo stato di pace, a questa condizione di castità, esclama: «Le
tue opere sono ammirabili, e l’anima mia gode nel contemplarle» (Sal 139 (138),
14).
Ma era questo il senso inteso dal Salmista? Si. Altrimenti, se
avesse parlato in altro senso, se avesse inteso fare allusione ad altre opere,
non avrebbe detto niente di nuovo o di grande. Certo, nessuno può negare che le
meraviglie del Signore si vedono anche nella vastità del creato. Ma i doni che
Dio dispensa ai suoi santi, giorno per giorno; i doni di cui li ricolma con
larghezza inaudita, nessuno li conosce, tranne l’anima che li riceve. Essa ne è
l’unico testimone nel segreto della sua coscienza, e testimone muto, perché
quando dalla considerazione tutta infocata di quei doni ridiscende al contatto
delle cose materiali e terrestri, non ha parole per dire ciò che ha provato:
l’intelligenza e la riflessione sono incapaci di concepire sì alta realtà. Chi
potrebbe non ammirare in sé le meraviglie operate da Dio, quando si accorge che
l’istinto della golosità e la ricerca dispendiosa e dannosa dei piaceri della
tavola sono cose totalmente scomparse, così che ora prende, raramente e di
malavoglia, un cibo limitato nella quantità e rozzo nella qualità? Chi potrebbe
non rimanere altamente stupito davanti alle opere del Signore, accorgendosi che
il fuoco dell’impurità, considerato prima come una conseguenza della natura e in
qualche modo inestinguibile, s’è talmente raffreddato, da non lasciargli provare
più un movimento carnale, neppure di quelli senza colpa?
E come non ammirare tremanti la virtù del Signore, quando si
vedono uomini per l’innanzi crudeli e feroci, divenuti così miti che non
soltanto non si lasciano eccitare dalle ingiurie, ma arrivano a goderne con
invitta magnanimità? Chi non si meraviglierà dinanzi a queste opere di Dio? Chi
potrà astenersi dal gridare, dal profondo del cuore: «Ho compreso che il Signore
è grande» (Sal 135 (134), 5), allorché si accorgerà che lui stesso o qualche
altro è passato dalla più sordida avarizia alla più alta liberalità; dalla
prodigalità a una vita d’astinenza; dalla superbia all’umiltà; dalle delicatezze
alla rozzezza e alla povertà del vivere, abbracciata volontariamente e perfino
gioiosamente?
Queste sono le meraviglie divine che l’anima del profeta, e
altre anime somiglianti a quella, scoprono con stupore quando si dànno alla
contemplazione. Ecco i prodigi che Dio ha operato sopra la terra, che, appena
manifestati, fanno dire così al profeta che invita tutti i popoli ad ammirarli:
«Venite, vedete le opere del Signore, quali prodigi egli fa sulla terra! Spazza
via le guerre fino ai confini della terra, spezza l’arco e rompe le lance, e
brucia gli scudi nel fuoco» (Sal 46 (45), 9-10). Quale prodigio può essere più
grande che vedere dei pubblicani avarissimi, diventati in un momento apostoli;
dei persecutori furibondi, cambiati in predicatori del Vangelo, pronti a
sopportare qualsiasi cosa, anche a testimoniare col sangue la fede che
perseguitavano? Queste sono quelle opere di Dio che Gesù Cristo afferma di
compiere ogni giorno unitamente al Padre suo: «Il Padre mio — egli dice — opera
fino al presente, e io lavoro con lui» (Gv 5,17). Di queste opere di Dio il
profeta David così canta, sotto l’ispirazione divina: «Benedetto il Signore
Iddio d’Israele, che solo opera portenti» (Sal 72 (71), 18). Di questi prodigi parla anche il profeta Amos: «Egli fa tutte
le cose e le trasforma; cambia in un bel mattino anche l’ombra di morte» (Am
5,8: LXX). «Questi cambiamenti — dice ancora il salmo — sono opera della mano di
Dio» (Sal 77 (76), 11). Intende riferirsi a quest’opera di salute il profeta che
prega così: «Consolida, o Dio, ciò che hai fatto in noi» (Sal 68 (67), 29).
Niente dirò di quelle correnti divine, segrete e nascoste, da
cui l’anima dei santi è percorsa ad ogni istante; niente di quella infusione
della gioia spirituale che solleva l’anima depressa e le ispira contentezza;
niente di quei moti infocati del cuore, di quelle consolazioni dolcissime che la
lingua non sa descrivere e l’orecchio non sa intendere, ma che tuttavia ci
svegliano spesso dall’ignavia e dall’inazione, come da uno stato di sonno
profondo, per farci passare alla preghiera più fervorosa.
Questa è la gioia di cui parla l’Apostolo quando dice: «Occhio
umano mai non vide, né orecchio udì, né mai ascese nel cuore dell’uomo» (1 Cor
2,9). L’Apostolo però prende come soggetto del suo dire uno che,
inebetito dai vizi della carne, è rimasto attaccato alle passioni umane ed è
perciò incapace di gustare anche una minima parte di questi doni. Di se stesso,
invece, e di altri che secondo il suo esempio si sono già resi estranei al modo
di vivere comune agli uomini, l’Apostolo dice: «Ma a noi lo rivelò Dio, per
mezzo dello Spirito suo» ! Cor 2,10).
XIII -
Solo chi l’ha provata può conoscere la dolcezza della castità
In tutti costoro, dunque, quanto più l’anima progredisce verso
una maggiore purezza, tanto più s’innalza la contemplazione di Dio. Ma chi fa
una simile esperienza non trova parole per spiegarla, non sa fare discorsi per
manifestarla ad altri: sente soltanto crescere in sé il senso della meraviglia.
Come non potrebbe immaginare una simile gioia chi non l’ha mai provata, così chi
l’ha provata, non la potrebbe esprimere. È come se uno non avesse mai gustato
niente di dolce e gli si volesse far intendere quanto sia dolce il miele. Si
otterrebbe questo risultato: colui che mai assaggiò il miele non se ne
immaginerà la dolcezza per le parole che gli giungono all’orecchio, e chi quella
dolcezza l’ha gustata, non saprà ridirla a parole. Così finirà con l’ammirare
silenziosamente in sé stesso il sapore soave di cui ha fatto esperienza,
allietandosi di una conoscenza che lui solo possiede.
La stessa cosa accade a colui che ha meritato di raggiungere
quel grado eccelso di virtù del quale parliamo. Egli considera silenziosamente
le meraviglie che Dio opera, con grazia tutta particolare, in coloro che gli
appartengono; nell’ammirazione estatica che questo pensiero gli suscita, si
infiamma e grida dal più profondo del cuore: «Le tue opere, Signore, sono
ammirabili, e l’anima mia si diletta a contemplarle» (Sal 139 (138), 14).
Questo è un vero miracolo di Dio: che un uomo di carne, e
vivente nella carne, abbia ripudiato tutti gli affetti carnali; che lo stesso
uomo, in circostanze spesso difficili, sotto assalti continui, conservi una
costante disposizione di spirito e rimanga sempre uguale, in mezzo al continuo
fluire degli avvenimenti.
Un vecchio, solidamente fondato in questa virtù, viveva presso
Alessandria, circondato da popoli infedeli, che lo ricoprivano di male parole,
lo assalivano con gravi ingiurie e gli dicevano in tono ironico: «Quali miracoli
ha fatto quel Cristo che tu adori?» Il vecchio rispose: «Questo è il miracolo:
che le vostre offese, ed altre più gravi che potreste arrecarmi, non valgono ad
inquietarmi e offendermi».
XIV -
Con quali
penitenze e in quanto tempo si può giungere alla virtù della castità
Germano. La castità, come tu ce l’hai presentata, non è più una virtù
umana o terrena; sembra piuttosto un privilegio del cielo, un dono speciale
degli angeli. Sorpresi e confusi, noi proviamo più spavento e disperazione che
brama di conquistarla. Ti preghiamo ora di volerci insegnare, nella maniera più
completa, quali osservanze e quanto tempo sia richiesto per acquistarla,
affinché ci convinciamo di poterla raggiungere e ci invogliamo a conquistarla
nello spazio di tempo stabilito.
Per ora crediamo che questa virtù sia in certo modo
irraggiungibile per uomini che vivono in questa carne, a meno che tu non ci manifesti il metodo e la via per cui la si possa raggiungere.
XV -
Quanto tempo
è necessario per conoscere se la castità è possibile
Cheremone. Sarebbe da temerari voler stabilire un periodo determinato di
tempo per l’acquisto di questa castità della quale parliamo; soprattutto quando
si pensi alla grande differenza di volontà e di forze che esiste tra gli uomini.
Una tale precisione sarebbe difficile anche per le arti materiali e per le
discipline visibili, nelle quali l’applicazione dell’allievo e i suoi doni
naturali rendono più rapida o più lenta la buona riuscita. Posso dirvi però
quali sono le osservanze necessarie e quale è il tempo richiesto per conoscere
almeno la possibilità di questa virtù.
Il monaco che si è liberato da tutti i discorsi oziosi, che
mortifica ogni sentimento d’ira, ogni sollecitudine e preoccupazione terrestre;
si contenta di due pagnotte per il suo nutrimento quotidiano; fa a meno di bere,
anche acqua, fino alla sazietà; si accontenta di tre o quattro ore di sonno, e
con tutto questo non crede affatto di poter acquistare quella virtù per il suo
merito o per la sua fatica o astinenza, ma l’aspetta unicamente dalla divina
misericordia — perché senza questa convinzione vani sarebbero tutti gli sforzi
umani — questo monaco, dico, non avrà bisogno di uno spazio di tempo superiore
ai sei mesi per accorgersi che non gli è impossibile giungere alla perfezione
della castità.
Da quanto detto, avete compreso che il segno certo di una
purezza ormai vicina è questo: che si cominci a non attenderla più dai nostri
sforzi. Chi ha compreso tutta la verità di quel versetto: «Se il Signore non
edifica la casa, si affaticano invano quelli che la costruiscono» (Sal 127
(126), 1), non si fa un merito orgoglioso della sua purezza, perché vede anche
troppo bene che gli viene dalla misericordia del Signore e non dalla sua
diligenza. Costui non si leva più contro gli altri, con rigore severo, perché sa
che la virtù dell’uomo è nulla, se non è aiutata dalla virtù divina.
XVI -
Fine e
rimedio detta castità
Per ogni monaco che combatte con tutte le forze contro lo
spirito di fornicazione, è già una bella vittoria non attendere il risultato dal
merito dei suoi sforzi. Questa persuasione sembra facile e naturale, invece è
difficile, per i principianti, quanto la stessa castità perfetta. Essi infatti
appena si vedono in possesso di qualche briciola di castità si lusingano e si
lasciano penetrare sottilmente nel cuore un sentimento di orgoglio, per cui
credono che quei risultati sono stati raggiunti grazie al loro impegno e alla
loro diligenza. È necessario allora che costoro si vedano ritirare per qualche
tempo l’aiuto divino, e subiscano la tirannia delle passioni che la divina virtù
aveva estinto, finché non si saranno persuasi che mai potranno, con le loro
forze e col lavoro personale, acquistare il bene della purezza.
Ma questo discorso sul grado più alto della castità, è andato
già per le lunghe; concludiamo ora ricapitolando in una sola proposizione tutti
i pensieri che abbiamo svolto qua e là. Ecco: La perfezione della castità esige
che il monaco, durante la veglia, non sia mai turbato dal piacere della carne;
durante il sonno, poi, non sia ingannato da illusioni lubriche; se (mentre dorme
e la volontà è sospesa) sopravverrà qualche moto della carne, sia un moto che si
produce senza alcuna compiacenza impura e scompare senza lasciare nel corpo
eccitazione di sorta.
Ho parlato della perfetta castità come meglio ho potuto,
prendendo la mia dottrina dall’esperienza e non dai precetti verbali. Penso che
i monaci pigri e negligenti troveranno probabilmente impossibile quanto ho
detto, ma son certo che le anime spirituali e amanti della perfezione mi
comprenderanno e mi approveranno.
La distanza tra un uomo e un altro è pari alla distanza che
separa le mete alle quali si rivolge il loro cuore: quelle mete sono: il cielo o
l’inferno, Cristo o Belial, secondo quella parola del nostro Salvatore e
Signore: «Chi mi vuol servire, mi segua; perché dove sarò io, quivi sarà anche
il mio servo» (Gv 12,26). E ancora: «Dove è il tuo tesoro, quivi sarà anche il
tuo cuore» (Mt 6,21).
*
Qui terminò la conferenza dell’abate Cheremone sulla castità
perfetta: questa fu la conclusione da lui apposta alla sua mirabile dottrina
sulla più sublime purezza. Noi rimanemmo incantati e oppressi, ma Cheremone,
vedendo che la più gran parte della notte era già trascorsa, ci consigliò di non
negare alla natura quel tanto di sonno che giustamente ci chiede, affinché
l’anima, aggravata dalla stanchezza del corpo, non perdesse il suo vigore e il
suo ardente proposito.
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15 aprile 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net