LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
Cassianus Ioannes - Collationes
CONLATIO X - ABBATIS ISAAC. DE ORATIONE CONTINUA
Estratto da "Patrologia Latina Database" vol. 49 - J. P. Migne |
CONFERENZA
X L'ORAZIONE
Estratto da “Dispensa di Storia della Spiritualità antica”
A cura di Antonio Montanari – A.A. 2012 – 2013 – dal sito
www.teologiamilano.it e
da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
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CAPUT PRIMUM.— Prooemium. Ibid. |
I Introduzione; II Uso che vige in Egitto di annunziare la Pasqua; III Dell'abate Serapione, caduto per la ma semplicità nell'eresia degli antropomorfìti; IV Nostro ritorno all'abate Isacco e domanda riguardante l'errore dell'abate Serapione;
V Risposta sull'origine dell'eresia antropomorfìta; VI Perché Gesù Cristo appare a ciascun di noi, o nell'umiltà, o nella gloria; VII In che cosa consiste il nostro fine o la perfetta felicità; VIII Domanda sui mezzi di perfezione attraverso i quali si possa giungere ad un ricordo continuo del Signore; IX Risposta sulla utilità che all'intelligenza deriva dall'esperienza; X Palestra della preghiera continua; XI Perfetta preghiera a cui si giunge attraverso la scuola di cui abbiamo detto sopra; XII Domanda: come fare per trattenere immobilmente i pensieri spirituali?; XIII Mobilità dei pensieri; XIV Risposta sul modo di acquistare la stabilità del cuore e dei pensieri. |
I. Inter haec anachoretarum instituta sublimia, quae utcumque donante deo licet inperito digesta sunt stilo, quiddam nos interserere atque contexere, quod uelut pulchro corpori naeuum quendam uideatur adponere, narrationis ipsius ordo conpellit : quamquam non dubitem etiam ex hoc ipso non minimam instructionem super omnipotentis dei quae in Genesi legitur imagine quibusque simplicioribus conferendam, praesertim cum tanti dogmatis causa uertatur, ut ignoratio eius sine ingenti blasphemia et catholicae fidei detrimento esse non possit.
II. Intra Aegypti regionem mos iste antiqua
traditione seruatur, ut peracto Epiphaniorum die, quem prouinciae illius
sacerdotes uel dominici baptismi uel secundum carnem natiuitatis esse
definiunt et idcirco utriusque sacramenti sollemnitatem non bifarie ut
in occiduis prouinciis, sed sub una diei huius festiuitate concelebrant,
epistulae pontificis Alexandrini per uniuersas Aegypti ecclesias
dirigantur, quibus et initium Quadragensimae et dies Paschae non solum
per ciuitates omnes, sed etiam per uniuersa monasteria designetur.
III. Inter hos ergo qui hoc detinebantur errore
fuit antiquissimae districtionis atque in actuali disciplina per omnia
consummatus nomine Sarapion, cuius inperitia super praedicti dogmatis
opinione tantum praeiudicabat cunctis ueram tenentibus fidem, quantum
ipse uel uitae merito uel antiquitate temporis omnes fere monachos
anteibat. |
I -
Introduzione Tra i sublimi
insegnamenti degli anacoreti che io, con l'aiuto di Dio, ho riferito,
(anche se alla buona e con stile non elegante) devo ora inserire
qualcosa che farà l'impressione di un neo sopra una bella faccia.
Non
lascerò tuttavia di fare questa aggiunta perché penso che le anime
semplici ne ritrarranno un insegnamento prezioso riguardo alla immagine
di Dio onnipotente, di cui parla il libro del Genesi. Lo farò tanto più
volentieri perché l'ignoranza di questa verità che riguarda l'immagine
di Dio può essere causa di una grave eresia e di un rilevante danno alla
fede cattolica. II - Uso che
vige in Egitto di annunziare la Pasqua In Egitto vige
un'antica consuetudine per la quale, appena passato il giorno
dell'Epifania - che a detta dei preti di quella regione rappresenta
l'anniversario della nascita e del battesimo del Signore, e per questo
presso di loro i due misteri non si celebrano in due giorni, come in
Occidente, ma lo stesso giorno - passata l'Epifania, dicevamo, il
vescovo d'Alessandria spedisce una lettera a tutte le chiese della
regione, con la quale annunzia l'inizio della quaresima e la data della
Pasqua a tutte le città e a tutti i monasteri. Pochi giorni dopo
il nostro primo incontro con l'abate Isacco, giunse da Alessandria,
secondo la consuetudine nota, la lettera pasquale di Teofilo, vescovo di
quella città. Costui, non contento di annunziare la Pasqua, prese anche
a disputare contro l'assurda eresia degli antropomorfiti e la confutò
con grande abbondanza di ragioni. Il fatto suscitò
vivo malcontento in quasi tutti i monaci egiziani, i quali, per la
semplicità della loro mente, eran caduti in quell'errore. La più gran
parte dei monaci anziani pensò che il vescovo Teofilo si fosse macchiato
di una grave eresia e sentenziò che doveva essere evitato come eretico
da tutte le comunità di monaci. Si disse: egli impugna e contraddice la
sacra Scrittura la quale afferma che Dio ha figura umana, quando dice
che Adamo fu creato a immagine e somiglianza di Dio. Per farla breve: i
monaci che abitavano nel deserto di Scito, e superavano in scienza e
pietà tutti quelli degli altri monasteri egiziani, rifiutarono la
lettera pastorale di Teofilo. Fra tutti i monaci sacerdoti, ci fu solo
l'abate Pafnuzio, superiore della nostra congregazione, che si dichiarò
pronto ad accettarla. Gli altri, che presiedevano le tre Chiese del
deserto, non permisero neppure che quella lettera fosse letta nelle
pubbliche assemblee dei monaci. III -
Dell'abate Serapione, caduto per la sua semplicità nell'eresia degli
antropomorfiti Nel numero dei
monaci che aderivano all'errore antropomorfita, ce n'era uno di nome
Serapione. Egli si distingueva per una lunga pratica di austerità, e
conosceva tutti i segreti della vita attiva; ma proprio per questa la
sua adesione all'errore - derivante da ignoranza della vera dottrina -
era più dannosa. Moltissimi lo seguivano perché egli superava tutti gli
altri nella santità della vita e negli anni passati al servizio del
Signore. Le molteplici
esortazioni del prete Pafnuzio non erano riuscite a ricondurlo sulla
retta via. Egli diceva che la dottrina della lettera di Teofilo era una
novità: gli anziani l'avevano né conosciuta né insegnata! Le cose
stavano a questo punto quando capitò un diacono di nome Fotino, venuto
dalla Cappadocia, per il desiderio di visitare i monaci che abitavano
nel deserto: costui era uomo espertissimo nella scienza sacra. Il beato Pafnuzio
lo accolse con grande letizia e lo condusse in mezzo ai suoi monaci
perché confermasse con la sua scienza ed autorità la dottrina contenuta
nella lettera di Teofilo. Pafnuzio domandò:
Come intendono, le venerabili Chiese d'Oriente, la parola del Genesi:
«Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza »? Fotino rispose che i
Capi delle Chiese d'Oriente eran tutti d'accordo nel superare la
semplice lettera e nel prendere in senso spirituale la somiglianza di
Dio con l'uomo. Da parte sua, il diacono difese questa sentenza con
parole eloquenti e con molte prove prese dalla sacra Scrittura. Non si
può ammettere egli spiegò che l'infinita, invisibile e incomprensibile
maestà divina possa aver qualcosa di limitato e di composto, alla
maniera umana. Dio è sostanza spirituale, senza composizione,
assolutamente semplice: l'occhio è incapace di vederlo, la mente è
incapace di comprenderlo. .Dopo molte e
valide prove, addotte dal dotto Fotino, il vecchio Serapione si dichiarò
convinto e ritornò alla fede e alla tradizione cattolica. Questa
conversazione ricolmò di gioia l'abate Pafnuzio e noi. Dio non aveva
permesso che un uomo così avanzato negli anni e nella virtù, indotto in
errore dall'ignoranza e da una certa naturale semplicità, persistesse
fino alla morte nella via dell'errore. Ci alzammo dunque per rendere
grazie a Dio tutti insieme. Ma durante l'orazione la mente del vecchio
si confuse. Sentendo scomparire dal suo cuore quella forma umana della
divinità che fino a quel punto era solito fissare mentre pregava, ruppe
in pianti amarissimi e frequenti singhiozzi. Gettandosi per terra,
gridava gemendo: «Povero me, povero me! Mi hanno portato via il mio Dio,
e non so più a chi attaccarmi. Non so più chi adorare, non so più chi
invocare », Commossi da questo avvenimento, e commossi pure dal ricordo della precedente conferenza ascoltata dall'abate Isacco, appena vedemmo da lontano il santo abate, andammo da lui e gli dicemmo: |
IV. Licet nos etiam citra eius rei quae nuper
oborta est nouitatem praeteritae conlationis, quae super orationis statu
digesta est, desiderium recurrere ad tuam beatitudinem postpositis
omnibus inuitaret, adiecit tamen aliquid huic cupiditati etiam abbatis
Sarapionis tam grauis error, nequissimorum ut arbitramur daemonum
calliditate conceptus. Non enim parua desperatione deicimur
considerantes eum labores tantos, quos per quinquaginta annos in hac
heremo tam laudabiliter exegit, ignorantiae huius uitio non solum
penitus perdidisse, sed etiam perpetuae mortis incurrisse discrimen.
V. ISAAC : Non est mirandum hominem
simplicissimum et de substantia ac natura diuinitatis numquam penitus
eruditum rusticitatis uitio et consuetudine erroris antiqui usque nunc
detineri uel decipi potuisse et ut uerius dicam in errore pristino
perdurare, qui non recenti sicut putatis daemonum inlusione, sed
ignorantia pristinae gentilitatis infertur, dum secundum consuetudinem
erroris illius, quo daemonas hominum figura conpositos excolebant, nunc
quoque illam inconprehensibilem atque ineffabilem ueri numinis
maiestatem sub circumscriptione alicuius imaginis existimant adorandam,
nihil se tenere uel habere credentes, si propositam non habuerint
imaginem quandam, quam in supplicatione positi iugiter interpellent
eamque circumferant mente ac prae oculis teneant semper adfixam.
VI. Secundum mensuram namque puritatis suae,
sicut superiore conlatione praefatus sum , unaquaeque mens in oratione
sua uel erigitur uel formatur, tantum scilicet a terrenarum ac
materialium rerum contemplatione discedens, quantum eam status suae
prouexerit puritatis feceritque Iesum uel humilem adhuc et carneum, uel
glorificatum et in maiestatis suae gloria uenientem internis obtutibus
animae peruideri. |
IV - Nostro
ritorno all'abate Isacco e domanda riguardante l'errore dell' abate
Serapione Anche se non fossero
avvenuti i fatti nuovi di questi giorni, il ricordo della conferenza
sulla natura della preghiera, ci avrebbe acceso in cuore il desiderio di
tutto lasciare per tornare presso la paternità vostra. Ora però il grave
errore in cui è caduto l'abate Serapione ha fatto crescere molto il
nostro desiderio. A nostro avviso
Serapione è stato ingannato dai demoni più perfidi: noi ci sentiamo
assalire da una profonda tristezza quando pensiamo che quel poveretto, a
causa della sua ignoranza, non ha soltanto perduto il frutto di
cinquant'anni di fatiche santamente sopportate in questo deserto, ma s'è
messo nel pericolo di perdersi eternamente. Perciò vorremmo sapere in
primo luogo quale è l'origine di un errore sì grave; in secondo luogo
chiediamo di essere istruiti sul modo di giungere a quella perfetta
preghiera della quale ci hai parlato già abbondantemente e
magnificamente. La tua bellissima conferenza ha prodotto l'effetto di
farci rimanere stupiti profondamente, ma non ci ha insegnato come si può
giungere a quella meta, e come si possa perfezionarsi in quella pratica. V - Risposta
sull' origine dell' eresia antropomorfita Isacco - Non c'è da
meravigliarsi che un uomo molto semplice, che mai fu bene istruito sulla
sostanza e sulla natura di Dio, abbia potuto così a lungo rimanere
schiavo dell'ignoranza e della sua stessa abitudine all'errore. Per
parlare propriamente, dirò che egli non è caduto nell'errore, ma ha
perseverato in un errore antico. Infatti non si tratta, come voi
pensate, di una recente illusione dei demoni, bensì di un'antica
credenza pagana. Il paganesimo rivestiva di forma umana i demoni ai
quali rivolgeva il suo culto. Ai nostri giorni molti credono che
l'incomprensibile e ineffabile maestà del vero Dio si debba anch'essa
rappresentare nei limiti di qualche immagine o figura. Costoro, se non
hanno una immagine alla quale indirizzarsi mentre pregano, da portarsi
di continuo nella mente, da tenere sempre davanti agli occhi, credono di
trovarsi in presenza del vuoto o del nulla. A questo errore si riferisce
direttamente la sentenza della Scrittura: «Scambiarono la gloria
dell'incorruttibile Iddio nella riproduzione di un'immagine di
corruttibile uomo » (Rm 1,23). Anche Geremia ha qualcosa di simile: «Il
mio popolo egli dice ha cambiato la sua gloria in un idolo » (Ger 2,11).
Casi passò nell'animo di molti l'errore di
cui stiamo parlando; e costoro eran pagani. Negli altri, che non furono
mai inquinati dalle superstizioni pagane, l'errore si insinuò col
pretesto della rivelazione divina, che dice: «Facciamo l'uomo a nostra
immagine e somiglianza » Gn 1,26).
Per la stessa ignoranza e grossolanità, per
la stessa falsa interpretazione del testo Sacro, è nata l'eresia degli
antropomorfiti, la quale sostiene, con pertinace cattiveria, che la
sostanza divina, infinita e semplicissima, è composta con gli stessi
nostri lineamenti umani ed ha figura umana.
Chiunque è istruito
nelle verità cristiane, rigetterà questa opinione come una bestemmia
pagana e giungerà così a quella preghiera purissima della quale abbiamo
parlato. Questa forma di orazione, non soltanto esclude da Dio ogni
lineamento umano (cosa offensiva anche a dirsi), ma non ammette neppure
l'ombra di una parola, di un fatto, di una forma. VI - Perché Gesù
Cristo appare a ciascuno di noi, o nell'umiltà, o nella gloria Nella precedente
conferenza, ho detto che ogni anima si innalza e si forma nella
preghiera, in modo corrispondente al grado di purezza raggiunto. In
altre parole: l'anima si eleva al di sopra delle cose terrene e
materiali, tanto quanto si è elevata in purezza. Da ciò deriva che
l'anima veda Gesù nell'umiltà della carne, oppure lo contempli
misticamente assiso in gloria, o in atto di venire nello splendore della
sua maestà.
Non potrebbero mai vedere Gesù che viene
nella gloria della sua regalità, coloro che sono ancora schiavi di una
specie di pregiudizio giudaico e non possono dire con l'Apostolo: «Se
anche abbiamo visto il Cristo secondo la carne ora non lo conosciamo più
così » (2 Cor 5,16). Possono contemplare
la divinità di Cristo, con uno sguardo purissimo, soltanto coloro che si
sollevano dalle opere, dai pensieri, dalle passioni della terra, per
salire con lui sull'alto monte della solitudine. Lassù, fuori del
tumulto dei pensieri e delle passioni terrestri, lungi dalla confusione
dei vizi, sulle vette di una fede purissima e di una virtù eminente,
Egli rivela la gloria del suo volto e lo splendore della sua immagine a
coloro che son degni di contemplarlo con gli occhi puri dello spirito.
Gesù si mostra anche a coloro che abitano
nelle città, nei castelli, nei paesi - voglio dire a coloro che si
trovano nella vita attiva - ma non si mostra con lo stesso splendore col
quale apparve a coloro che poterono salire con Lui sul monte delle
virtù, come fecero Pietro, Giacomo, Giovanni (Mt 17,1). Così apparve - nella
solitudine - anche a Mosè; casi parlò ad Elia nel deserto.
Anche il Signore ha voluto confermare questa
dottrina e lasciarci l'esempio di una purezza perfetta. Egli che è fonte
inviolabile di santità, non aveva alcun bisogno, per radicarsi in essa,
di quei mezzi esteriori che per noi sono l'allontanamento dagli uomini e
la solitudine. La sua perfetta purezza mai avrebbe potuto essere
macchiata dal contatto impuro delle turbe, o da altro contatto umano:
Egli purifica e santifica tutto ciò che è macchiato. Eppure, anche Gesù
si ritirò solo sul monte a pregare (Mt 14,23). Con l'esempio del suo ritiro volle insegnarci che anche noi, se vogliamo pregare Dio con cuore puro e ricco d'affetto, dobbiamo fuggire come Lui l'inquietudine e la confusione delle turbe. Solo così, pur restando ancora in questa vita, potremo in qualche modo riprodurre la beatitudine promessa ai santi nella eternità, e potremo far si, che anche per noi «Dio sia tutto in tutti » (1 Cor 15,28). |
VII. Tunc enim perfecte consummabitur in nobis
illa nostri saluatoris oratio, qua pro suis discipulis orauit ad patrem
dicens : ut dilectio qua dilexisti me in eis sit et ipsi in nobis , et
iterum : ut omnes unum sint, sicut tu pater in me et ego in te, ut et
ipsi in nobis unum sint , quando illa dei perfecta dilectio, qua prior
nos ille dilexit , in nostri quoque transierit cordis affectum hac
dominica oratione conpleta, quam credimus nullo modo posse cassari.
VIII. GERMANVS : Maior nobis ad praeteritae
conlationis illius admirationem, ob quam huc recurrimus, magnitudo
stuporis adcrescit. Quantum enim incitamento doctrinae huius ad
desiderium perfectae beatitudinis inflammamur, tantum maiore
desperatione concidimus, ignorantes quemadmodum disciplinam tantae
sublimitatis expetere uel obtinere possimus. Quapropter quae in cella
positi diutina meditatione uoluere coeperamus, quia necesse est loquaci
forsitan prosecutione proferri, quaesumus ut explicari ea a nobis
patienter admittas, quamquam sciamus beatitudinem tuam nullis solere
offendi ineptiis infirmorum, quae uel ob hoc sunt in medium proferendae,
ut quae in eis absurda sunt corrigantur.
IX. ISAAC : Inquisitio uestra tam minuta atque
subtilis proximae puritatis praesignat indicium. Nec enim de his saltim
interrogare, non dicam introspicere atque discernere quispiam preualebit,
nisi quem diligens et efficax mentis industria ac sollicitudo peruigil
ad perscrutandam istarum profunditatem prouexerit quaestionum
castigataeque uitae iugis intentio per experientiam fecerit actualem
adtemptare puritatis huius limina ianuasque pulsare.
|
VII - In che
cosa consiste il nostro fine o la perfetta semplicità In tal modo si
realizzerà in noi la preghiera che il Salvatore nostro rivolse al Padre
in favore dei suoi discepoli: « L'amore con cui mi hai amato sia in essi
e io in loro » (Gv 17,26); e ancora: «Siano tutti uno come tu Padre sei
in me e io sono in te, anch'essi siano uno in noi » (Gv 17,21). Quando
si sarà avverata questa preghiera del Signore - che non può rimanere in
alcun modo inascoltata - allora quell'amore perfetto col quale Dio «per
primo ci ha amati »(1 Gv 4,10), si trasmetterà anche ai nostri cuori. Ciò avverrà quando
Dio sarà l'unico termine del nostro amore e del nostro desiderio, d'ogni
nostro studio e di tutti i nostri sforzi, dei nostri pensieri e della
nostra vita. L'unità che regna tra il Padre e il Figlio, e tra il Figlio
e il Padre, si trasfonderà nei nostri sentimenti e nell'anima nostra;
come Dio ci ama d'un amore puro e indissolubile, così anche noi ci
ameremo in Lui con un amore perpetuo e inseparabile. Saremo uniti a Lui
in modo tale che ogni nostro respiro, ogni moto dell'intelligenza, ogni
moto della lingua che parla, porterà l'impronta di Dio. Giungeremo al fine
di cui abbiamo parlato e che il Signore chiede per noi nella sua
preghiera: «Siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me,
affinché siano perfetti nell'unità » (Gv 17,22-23). E ancora: «Padre, io
voglio che quelli che mi hai dati, dove sono io siano anch'essi con me »
(Gv 17,24).
Questo è l'ideale del monaco, a questo
termine deve protendersi con tutte le forze: meritare di possedere una
somiglianza della beatitudine eterna fin da questa vita, gustare in
questo mondo un'anticipazione della vita e della gloria celeste. Questo,
dico, è il fine di tutta la perfezione: che l'anima sia alleggerita a
tal punto, della pesantezza della carne, da salire ogni giorno di più
verso le altezze delle realtà spirituali, finché tutta la vita, tutti i
movimenti del cuore, diventino una preghiera unica ed incessante. VIII - Domanda
sui mezzi di perfezione attraverso i quali si possa giungere ad un
ricordo continuo del Signore Germano - Lo stupore
nato in noi dalla tua prima conferenza era tanto grande che ci ha
ricondotti alla tua cella, ma ora il nostro stupore si accresce
maggiormente. Quanto il tuo insegnamento c'infiamma del desiderio della
perfetta beatitudine, altrettanto, anzi maggiormente, lo scoraggiamento
ci abbatte: noi non conosciamo la via che conduce a codeste altezze.
Ecco: ci siamo molto applicati alla meditazione nelle nostre celle;
forse ora è necessario che diciamo in quali pensieri ci siamo
intrattenuti. Abbi dunque la bontà di ascoltarci e di usarci pazienza,
quantunque già sappiamo che tu non sei solito offenderti per le
debolezze dei fratelli più umili. È bene che ti diciamo tutto, non fosse
altro per correggere quello che è sbagliato. Questo è il nostro
pensiero. Per arrivare alla perfezione, in ogni arte o disciplina, è
necessario incominciare dai rudimenti e dagli esercizi più facili.
Nutrita del latte appropriato, a poco a poco la mente cresce e si educa;
così gradatamente si eleva dalle cose più umili alle più alte. Quando
uno ha bene appreso i più semplici principi dell'arte, o ha - per così
dire - varcato la porta della professione prescelta, ne penetra i
segreti naturalmente e senza fatica, per giungere poi fino alla più alta
perfezione. Come potrebbe, un fanciullo, pronunciare le sillabe, se
prima non avesse imparato a conoscere le lettere? E come potrebbe
leggere speditamente chi non fosse ancora capace di mettere insieme le
varie parti di una parola? Come potrebbe far buona prova nella retorica
o nella filosofia, chi non conoscesse ancora la grammatica? lo penso che
qualcosa di simile debba avvenire anche per quella scienza sublime che
c'insegna l'unione continua con Dio. Deve avere anch'essa i suoi
fondamenti, e ben saldi, sui quali si costruirà l'edificio altissimo
della perfezione. Ecco quali sono - a
nostro parere - quei fondamenti. Il primo consiste nel sapere con quale
mezzo si scopre Dio e si fa nascere in noi il pensiero di Lui. Il
secondo consiste nel trovare il modo d'intrattenere continuamente il
pensiero di Dio, qualunque sia il mezzo col quale lo abbiamo concepito.
È proprio in questa perseveranza - ne siamo ben certi - che si ritrova
il colmo della perfezione. Per queste ragioni
desideriamo che ci sia rivelata la foromula per mezzo della quale
possiamo suscitare nella nostra mente il pensiero di Dio e trattenervelo
continuamente. Poi ci sforzeremo di tener sempre davanti agli occhi
quella formula, e quando ci accorgeremo che il pensiero di Dio è più
presente al nostro spirito, avremo a disposizione il mezzo per farlo
ritornare, senza alcun indugio e senza faticose ricerche. Ci accade infatti
che il nostro pensiero si stanchi della contemplazione spirituale e
vaghi qua e là; quando poi ritorniamo in noi stessi, simili a chi si
sveglia da un sonno di morte, cerchiamo qualche cosa che ci aiuti a
ritrovare il pensiero di Dio. Ma ecco che mentre cerchiamo, il tempo
passa e prima che abbiamo trovato ci allontaniamo dal nostro proposito;
cosicché la nostra attenzione si dilegua prima che il nostro sguardo si
sia aperto sul mondo dello spirito. È certo che questa
confusione c'incoglie perché non abbiamo davanti agli occhi una speciale
formula alla quale, l'anima nostra, dopo aver vagato per sentieri
involuti, possa ritornare ad ancorarsi, come in un porto di pace, dopo
il naufragio. Questa ignoranza e
le difficoltà che ne derivano costituiscono per l'anima nostra un
continuo ostacolo. Sempre in movimento, sballottata da una parte e
dall'altra come ubriaca, se un buon pensiero le si presenta, più per
caso che per suo merito, l'anima è incapace di trattenerlo saldamente e
a lungo. Un pensiero succede
all'altro: in questa specie di moto perpetuo, come non s'accorge che
nascono o che vengono, così l'anima non s'accorge neppure che i suoi
pensieri se ne vanno.
IX - Risposta sulla utilità che
all'intelligenza deriva dall'esperienza Isacco - La vostra
esposizione, così chiara e sottile, indica che voi siete vicini alla
purezza del cuore. Saper interrogare su questa materia - non dico
saperla distinguere e penetrare a fondo - è possibile soltanto a coloro
che un impegno diligente e continuo, una sollecitudine sempre attenta,
hanno resi capaci di affrontare la profondità di questi problemi. Ciò è
possibile a coloro ai quali la pratica costante di una vita penitente dà
la facoltà di accostarsi alla soglia della purezza e di bussare alla sua
porta.
A me pare che voi non siate soltanto alla
porta della vera preghiera: la vostra esperienza ve ne ha fatto già
toccare il mistero intimo e nascosto, ve n'ha fatto già, sia pure in
parte, possedere la realtà. Credo dunque che non farò gran fatica - se
il Signore vorrà guidarmi - nell'introdurvi, da quel vestibolo in cui
movete i passi ancora incerti, fino nella parte più segreta del
santuario. Nessun ostacolo, penso, potrà impedirvi di penetrare con la
vostra contemplazione nei misteri che sto per manifestarvi. È vicino a
raggiungere la scienza colui che già conosce che cosa deve indagare; non
è lontano dalla scienza chi ha la chiara nozione di ciò che ignora. lo
temo che sarò tacciato d'indiscrezione o di leggerezza se vi manifesterò
ciò che nella precedente conferenza sulla preghiera avevo lasciato
nascosto ai vostri occhi. Al punto a cui siete, io credo che, anche
senza il soccorso della mia parola, la grazia del Signore vi avrebbe
essa stessa manifestati quei segreti. |
X. Quapropter secundum illam institutionem,
quam paruulorum eruditioni prudentissime conparastis (qui alias
elementorum traditionem primam percipere non possunt nec eorum uel
agnoscere lineas uel intrepida manu queunt describere characteres, quam
protypis quibusdam et formulis cerae diligenter inpressis effigies eorum
exprimere contemplatione iugi et cotidiana imitatione consuescant),
huius quoque spiritalis theoriae tradenda uobis est formula, ad quam
semper tenacissime uestrum intuitum defigentes uel eandem salubriter
uoluere indisrupta iugitate discatis uel sublimiores intuitus scandere
illius usu ac meditatione possitis. 12. Directionem rursus animae, stabilitatem
cogitationum, alacritatem cordis cum ineffabili gaudio et mentis excessu
uisitatione sancti spiritus me sentio consecutum, exuberantia quoque
spiritalium sensuum redundare reuelationem sacratissimorum intellectuum
et antea mihi penitus occultorum repentina domini inlustratione percepi
: ut in his merear diutius immorari, sollicite mihi est frequenterque
clamandum : Deus in adiutorium meum intende : domine ad adiuuandum mihi
festina. |
X – Palestra della preghiera continua
Per questo voi avete
richiamato con tutta convenienza la formazione alla preghiera in
rapporto all'istruzione dedicata ai fanciulli: essi infatti non possono
apprendere in altro modo la prima cognizione degli elementi relativi
alla lettura, e neppure a ripeterne, scrivendo, i lineamenti, come pure
a riscriverne i caratteri con mano sicura, se prima non si abituano a
osservare con considerazione continuata e quotidiana imitazione la loro
figura nei prototipi e nei segni già impressi diligentemente della cera;
al modo stesso è necessario comunicare a voi il modulo della dottrina
spirituale, al quale, dirigendo in continuità e assai tenacemente il
vostro sguardo, impariate a coltivarla salutarmente con ininterrotta
prosecuzione, e così possiate, con quel ricorso e con la sua
meditazione, risalire a visioni ancora più elevate. Per voi dunque sarà
proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi
richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo
ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da
parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri
pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non
si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali.
Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa
da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così
pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente
sitibondi di accoglierla. Pertanto sarà da noi
suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo
scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio:
"O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni
presto ad aiutarmi"
Di fatto, questo breve versetto, non senza
motivo, è stato particolarmente ripreso da tutto il complesso della
Scrittura. Essa riflette tutti i sentimenti, di cui può essere capace la
natura umana, e si adatta con sufficiente proprietà e convenienza ad
ogni stato e a tutte le tentazioni. E in realtà questo versetto contiene
l'invocazione a Dio di fronte a tutte le difficoltà, contiene l'umiltà
d'una pia confessione, contiene la vigilanza in vista d'ogni
sollecitudine e timore, la fiducia d'essere esauditi, la confidenza d'un
aiuto sempre presente e disponibile.
E di fatto, chi sempre invoca il proprio protettore, è sicuro che quello
è sempre presente. Questo versetto contiene l'ardore dell'amore e della
carità, ha la visione delle insidie e la paura dei nemici, dai quali
l'anima, osservando se stessa, ammette giorno e notte di non poter
essere liberata senza l'aiuto del proprio protettore. Questo versetto è
un muro inespugnabile, una corazza impenetrabile e uno scudo ben sicuro
per tutti coloro che sostengono gli attacchi dei demoni. Esso non
ammette che disperino dei rimedi per la loro salvezza coloro che vengono
a trovarsi in preda all'accidia, all'ansietà dell'animo e alla
tristezza, o comunque depressi, poiché dichiara che colui che viene
invocato osserva costantemente le nostre lotte e non è lontano da chi lo
invoca. Questo versetto ci ammonisce a non doverci insuperbire troppo
per i successi del nostro spirito e per la letizia del nostro cuore, e a
non gonfiarci nei momenti della prosperità, visto che non è possibile,
com'esso attesta, perseverare in quello stato senza la protezione di
Dio, dato che esso non è soltanto un'espressione di continua preghiera,
ma anche una supplica per essere aiutati al più presto. Questo versetto,
ripeto, risulta necessario e utile per chiunque di noi venga a trovarsi
in qualsiasi occorrenza. E in realtà chi desidera d'essere aiutato
sempre e in ogni caso, dichiara che non solo ha bisogno di un coadiutore
nei casi duri e tristi, ma anche, e in ogni modo, in quelli favorevoli e
lieti, sicché, come desidera di essere salvato da quelli, così pure
brama di perseverare in questi, ben sapendo che in un caso come
nell'altro non potrebbe persistere senza l'intervento del suo
protettore. Mi sento preso dalla passione della gola al punto di cercare
i cibi ignorati nel deserto, e in questa squallida solitudine mi
raggiungono i profumi delle mense regali, ed io mi accorgo di venire
trascinato dalla loro voglia pur contro la mia volontà risoluta, ebbene,
proprio allora occorre che io dica: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore,
vieni presto ad aiutarmi".
Sono indotto ad
anticipare l'ora della refezione prescritta, oppure debbo sforzarmi a
mantenere la misura della giusta e solita parcità, ebbene, anche allora,
io devo esclamare, gemendo: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni
presto ad aiutarmi".
La stanchezza
dello stomaco, come pure la secchezza costrittiva dell'intestino
tenderebbero a distogliermi da digiuni alquanto stretti, pur dovendo io
attenermi ad essi, a causa degli assalti della carne; e allora, affinché
il buon effetto venga attribuito ai miei desideri ed anche, con
certezza, affinché gli ardori della concupiscenza carnale si acquietino
senza ricorrere all'intervento di digiuni più rigorosi, io dovrò pregare
così: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi". Apprestandomi alla
refezione, allorché s'avvicina l'ora stabilita, sento ripugnanza per il
pane e provo disgusto per ogni cibo suggerito dal bisogno della natura;
è allora che mi conviene pregare, gemendo: "O Dio, vieni in mio aiuto;
Signore, vieni presto ad aiutarmi". Anche quando vorrei
insistere nella lettura allo scopo di assicurare la stabilità del cuore,
ecco subito intervenire a proibirmelo il mal di capo, così come all'ora
terza il sonno mi fa piegare la testa sulle sacre pagine, tanto da
essere indotto a superare e a prevenire il tempo destinato al riposo,
infine l'assalto impietoso del sonno mi costringe a interrompere la
funzione canonica fissata per la sinassi e la recita dei salmi, ecco
allora il bisogno di pregare così: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore,
vieni presto ad aiutarmi". Ma può anche
accadere che, sparito il sonno dai miei occhi, io veda me stesso, in
molte notti, affaticato da diaboliche insonnie, e scorga escluso dalle
mie palpebre ogni mistero arrecato dalla quiete notturna; occorre allora
pregare, così sospirando: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni
presto ad aiutarmi".
Nell'età, in cui
ancora mi trovo con la lotta sostenuta contro i vizi, ecco d'improvviso
assalirmi la pressione della carne, la quale, mentre sono assopito nel
sonno, mi spinge al consenso col suo blando compiacimento, e allora, per
evitare che quell'ardore intacchi i fiori olezzanti della castità,
occorre che io preghi fino a gridare: "O Dio, vieni in mio aiuto;
Signore, vieni presto ad aiutarmi". Avverto estinti in
me gli incentivi della libidine e già soffocato dalle mie membra
l'ardore della carne; allora, affinché questa virtù così affiorata, o
meglio, affinché la grazia di Dio duri in me a lungo o addirittura
perseveri sempre, dovrò pregare intensamente proprio così: "O Dio, vieni
in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi".
Ed ecco sentirmi
sorpreso dagli stimoli dell'ira, dell'avidità, della tristezza, fino ad
essere indotto a vincere la mia decisa favorevole discrezione; allora,
per non essere condotto fino all'amarezza del fiele dall'incursione
dell'eccitazione, dovrò così pregare con alti gemiti: "O Dio, vieni in
mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi". Ed eccomi assalito
dall'introdursi, in me, del disgusto, della vanagloria e dell'orgoglio;
il mio animo risulta suggestionato in qualche modo da sottili
insinuazioni, dettate dalla negligenza e dal torpore degli altri;
allora, affinché in me non prevalga una tale dannosa suggestione
provocata dal demonio, dovrò pregare così con tutta la contrizione del
cuore: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi". Una volta represso
il tumore della mia superbia, ho ottenuto la grazia dell'umiltà e della
semplicità con il soccorso di una continua compunzione dello spirito, ma
allora, "affinché di nuovo non mi raggiunga il piede dell'orgoglio e non
mi rimuova la mano del peccatore", e così io non resti nuovamente e più
gravemente provocato dalla mia vittoria a causa dell'orgoglio, con tutta
la mia forza così pregherò: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni
presto ad aiutarmi".
Mi sento agitato
da strane e innumerevoli divagazioni dell'animo e dall'instabilità del
cuore, e nemmeno riesco a dominare la dispersione dei miei pensieri; non
ce la faccio a esprimere le mie orazioni senza l'interruzione dovuta
all'apparizione di vuote fantasie e senza l'inserirsi del ricordo delle
mie parole e delle mie azioni, e così io finisco per sentirmi gravato
dall'aridità di una tale sterilità al punto da convincermi di non essere
più in grado di produrre qualche effetto sicuro di valore spirituale,
allora, per poter meritare di essere liberato da questo squallore del
mio animo, visto che non mi sarebbe possibile sollevarmi da tale stato
con molti gemiti e sospiri, necessariamente esclamerò: "O Dio, vieni in
mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi".
Mi rendo conto
d'essermi assicurata nuovamente la direzione della mia anima, la
stabilità dei miei pensieri, la snellezza del mio cuore, unitamente a
una gioia ineffabile e al trasporto del mio spirito, e tutto questo come
frutto della visita dello Spirito Santo; in più, dall'esuberanza dei
pensieri spirituali e per una illuminazione pressoché repentina del
Signore, ho avvertito in me la sovrabbondanza della rivelazione di
concezioni, in precedenza per me del tutto occulte, allora, affinché io
meriti di perseverare a lungo in questo stato, sento il dovere di
esclamare sollecitamente e frequentemente: "O Dio, vieni in mio aiuto;
Signore, vieni presto ad aiutarmi". Mi sento agitato di
notte, perché sono assediato dal terrore proveniente dai demoni, e mi
trovo nell'inquietudine per l'apparizione di fantasmi ad opera degli
spiriti immondi; mi vedo sottratta la speranza stessa della mia salvezza
e della mia vita per l'orrore prodotto in me dalla trepidazione, allora
mi rifugio nel porto salutare di quel versetto ed esclamo con tutta la
mia forza: "O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad
aiutarmi". Ed ecco di nuovo,
allorché mi sento come rianimato dalla consolazione del Signore, e come
ravvivato per la sua venuta, mi pare di ritrovarmi come circondato da
migliaia di angeli senza numero; avviene allora che di quegli spiriti
maligni, dei quali in precedenza io temevo la presenza più gravemente
della morte stessa, e il cui contatto, anzi, la sola vicinanza mi
riempiva d'orrore l'anima e il corpo, improvvisamente oso adesso
richiamarli e provocarli perché mi assalgano, ma perché perseveri a
lungo in me il vigore di una tale costanza per la grazia del Signore, mi
è doveroso esclamare con tutte le forze: "O Dio, vieni in mio aiuto;
Signore, vieni presto ad aiutarmi". Ne segue quindi che noi dobbiamo continuamente elevare la preghiera di questo versetto nelle circostanze avverse per esserne liberati, e nelle circostanze propizie per essere conservati e per non inorgoglirci. Lo ripeto, la meditazione di questo versetto si svolga senza tregua nella tua anima. Non desistere mai di richiamarla in qualunque momento della tua attività, nell'operare come nel camminare. Procura di meditarla quando dormi, quando riposi, e perfino quando ti occupi per attendere alle più importanti necessità della vita. Questa riflessione del cuore, divenuta per te un procedimento salutare, ti conserverà illeso non soltanto da ogni incursione diabolica, ma, in più, purificandoti da tutti i vizi propri del contagio terreno, ti condurrà alle visioni invisibili e celesti, e ti promuoverà a un ardore di orazione ineffabile e riservata a pochi. Per chi medita questo versetto, irrompe il sonno, ma, una volta ammaestrato da un tale incessante esercizio, egli si abituerà a ripeterselo anche durante il sonno. E quando poi tu ti alzi, esso ti si presenterà per primo; esso, quando tu ricominci la tua giornata, precederà tutti i tuoi pensieri; esso, nell'alzarti dal letto, ti indurrà a inginocchiarti, e così ti disporrà a riprendere tutte le tue occupazioni; esso ti accompagnerà in ogni momento. Voi dunque mediterete quelle parole, conformandovi al precetto del legislatore (Mosè): "Quando stai seduto in casa tua e quando camminerai per via", come pure quando dormirai e quando ti alzerai. Tu lo scriverai sul limite e sulle pareti della tua bocca, e le inciderai sulle pareti di casa tua e nei penetrali del tuo cuore, in modo che, disponendoti alla preghiera, esse ti siano come un tema ricorrente, e, alla fine della tua orazione, nell'accingerti a tutte le necessarie attività della vita, una sicura e continua preghiera. |
XI. Istam, istam mens indesinenter formulam
teneat, donec usu eius incessabili et iugi meditatione firmata cunctarum
cogitationum diuitias amplasque substantias abiciat ac refutet, atque
ita uersiculi huius paupertate constricta ad illam euangelicam
beatitudinem, quae inter ceteras beatitudines primatum tenet, prona
facilitate perueniat. Beati enim inquit pauperes spiritu, quoniam
ipsorum est regnum caelorum . Et ita quis per istiusmodi paupertatem
egregius pauper exsistens illud propheticum inplibit eloquium : pauper
et inops laudabit nomen domini . XII. GERMANVS : Non solum nobis traditionem
spiritalis huius quam poposcimus disciplinae, sed ipsam plane
perfectionem satis aperte atque dilucide putamus expressam. Quid enim
potest esse perfectius quidue sublimius quam dei memoriam tam
conpendiosa meditatione conplecti atque unius uersiculi uolutatione a
cunctis uisibilium terminis emigrare et quodammodo affectus orationum
cunctarum breui sermone concludere? et idcirco unum quod superest adhuc
nobis precamur exponi, quemadmodum hunc eundem uersiculum quem nobis
uice formulae tradidisti stabiliter retinere possimus, ut sicut per dei
gratiam sumus a saecularium cogitationum ineptiis liberati, ita
spiritales quasque inmobiliter retentemus.
|
XI - La preghiera perfetta, alla quale si
giunge attraverso l'insegnamento dettato in precedenza L'anima, pertanto,
mantenga senza tregua la formula di quella preghiera, finché, con la sua
incessante utilizzazione e la continua meditazione, ricacci l'abbondanza
di tutti i pensieri e il loro contenuto, fino ad annullarli, e così
l'anima, rifugiatasi nei limiti di quel versetto, con ben disposta
facilità pervenga a quella beatitudine evangelica, la quale, tra le
altre beatitudini, tiene il primo posto. Così infatti è detto: 'Beati i
poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli". E così chiunque
sarà divenuto un illustre povero per effetto di quella povertà, potrà
avverare quella parola del profeta: "Il povero e l'indigente loderanno
il nome del Signore". E in realtà, quale povertà potrebbe essere più
grande e più santa di quella di colui il quale, essendo convinto di non
possedere né sussidi né forze, chiede aiuto ogni giorno alla generosità
degli altri e, in più, persuaso com'egli è che la sua vita e tutto il
suo essere viene sostenuto in ogni momento dall'aiuto divino, confessa
giustamente di essere un vero mendico del Signore al punto di esclamare
ogni giorno, rivolto a Lui: "Io sono un mendicante e un povero: di me ha
cura il Signore?". Avverrà così che egli, risalendo fino alla multiforme
scienza di Dio per l'illuminazione stessa da Lui ispirata, incomincerà a
saziarsi dei misteri più alti e più profondi, secondo quanto è
annunciato dal profeta: "I monti sono per i cervi e le rocce sono un
rifugio per gli iràci". Questo testo s'adatta con proprietà al senso già
da noi indicato, in quanto chiunque, perseverando nella sua semplicità e
innocenza, non è dannoso e molesto a nessuno; al contrario, soddisfatto
unicamente, com'egli è, della propria semplicità, desidera soltanto
difendersi dall'audacia degli spiriti insidiatori; divenuto simile all'iràcide,
ne esce protetto dal costante riparo della roccia evangelica, ed è come
dire che egli, forte per il ricordo della passione del Signore e per la
meditazione assidua del versetto già richiamato, affronta
vittoriosamente il nemico che lo assale. Di questi iràci spirituali si
trova un accenno anche nei Proverbi: "Gli iràci, popolo imbelle, che ha
costruito sulle rupi le proprie case". E in realtà, che cosa v'è di più
debole d'un cristiano, più infermo d'un monaco, al quale non solo
mancano i mezzi per vendicare le ingiurie ricevute, ma nemmeno gli è
concesso di concepire, sia pure internamente, una pur leggera e tacita
reazione? Ognuno, del resto, movendo da questo stato, non solo possiede
la semplicità dell'innocenza, ma, fortificatosi con la virtù della
discrezione, è divenuto uno sterminatore di serpenti velenosi fino a
tenersi il vinto Satana sotto i propri piedi, e allora, giunto a
rappresentare la figura di un cervo razionale in virtù dell'alacrità
della propria mente, egli potrà pascersi sui monti dei profeti e degli
apostoli, ed è come dire che egli si pascerà dei loro eccelsi e
sublimissimi insegnamenti. Egli dunque, alimentato da un tale costante
nutrimento, comincerà a raccogliere in se stesso tutti i sentimenti
contenuti nei Salmi e li riesprimerà in modo da enunciarli, non come
composti dal profeta, ma quasi come prodotti da lui stesso al modo di
una preghiera tutta propria, nata dalla profonda compunzione del cuore,
e così egli crederà che i salmi siano stati creati in vista della sua
persona, fino a convincersi che le loro sentenze non furono formulate in
passato unicamente per mezzo del profeta e in vista del profeta, ma che
esse vengano di volta in volta, ogni giorno, ricreate e realizzate in
lui. E allora che le Scritture divine ci appaiono con maggiore chiarezza
e, in un certo qual modo, ci aprono le loro vene e le loro viscere,
appunto quando la nostra esperienza personale non solo avverte, ma ne
previene la conoscenza, e così noi finiremo per intuire non solo il
senso delle parole con l'aiuto di qualche esposizione, ma come il frutto
di un esercizio del tutto soggettivo. E di fatto, accogliendo in noi gli
stessi sentimenti, con i quali è stato cantato e composto ogni Salmo,
quasi ne fossimo noi stessi gli autori, finiremo per prevenire il
pensiero anziché seguirlo, ed è quanto dire che noi, accogliendo il
frutto delle parole prima ancora di afferrarne il senso, ricorderemo, in
certo qual modo, quanto già si è compiuto in noi e si sta compiendo a
causa degli assalti d'ogni giorno, e questo accade per il sopravvenire
del loro ricordo; rammenteremo quello che ci ha causato la nostra
negligenza, quello che ci ha apportato la divina Provvidenza e quello
che ci ha sottratto l'istigazione del nemico, quello che una lubrica e
sottile dimenticanza ci ha impedito e quello che la fragilità umana ci
ha arrecato, come pure quello in cui la leggerezza della nostra
ignoranza ci ha ingannato. E in realtà noi sorprendiamo nei Salmi
proprio questi stessi sentimenti in modo che, osservandoli come se
avessimo di fronte a noi uno specchio purissimo, possiamo così
riconoscerli con più efficacia; ne segue allora che noi, ammaestrati da
tali sentimenti, finiamo come per toccarli con mano, non come cose
udite, quanto piuttosto come vedute direttamente; non come cose affidate
alla memoria, quanto piuttosto come insinuate in noi dalla realtà della
nostra natura, come generate dall'interno del nostro cuore, sicché noi
potremo penetrare il loro senso, non derivandolo dalla lettura del
testo, ma dalla nostra esperienza vissuta. E così l'anima nostra
riuscirà a raggiungere quella incorruttibilità di preghiera, fino alla
quale nella passata conferenza siamo ascesi, per quanto il Signore si è
degnato di concederci nella disposizione dei nostri argomenti. Questa
preghiera non solo non è offuscata dalla presenza di qualche immagine,
ma non è distratta neppure dal succedersi di qualche voce e d'alcuna
parola; al contrario, essa, infervorata dall'attenzione della mente, per
effetto dell'impeto del cuore si slancia con l'inesplicabile alacrità
dello spirito, e così la mente nostra, trasferita al di sopra di tutti i
sensi e della materia sensibile, si eleva fino a Dio con gemiti e
sospiri inesprimibili».
XII - Domanda: in che modo i pensieri
spirituali possono essere conservati senza mutarsi? GERMANO: «Noi dichiariamo ora che non solo è stata a noi esposta la scienza della disciplina spirituale, quale era stata da noi richiesta, ma, in più, chiaramente e lucidamente è stata richiamata la sua stessa perfezione. Che cosa infatti può esservi di più perfetto e di più sublime quanto l'abbracciare il ricordo di Dio con una riflessione così compendiosa, e il distogliersi da tutte le tendenze alle cose visibili, e, in un certo qual modo, racchiudere in una breve espressione gli affetti di tutte le preghiere? E allora noi ti preghiamo di esporci questa sola cosa che ancora ci manca, come cioè ci sia possibile conservare stabilmente quello stesso versetto, da te presentatoci come una formula, affinché, come per la grazia di Dio ci siamo liberati dalle inezie dei pensieri secolari, così pure impariamo a conservare immutabilmente i pensieri spirituali. |
XIII. Cum enim capitulum cuiuslibet psalmi mens
nostra conceperit, insensibiliter eo subtracto ad alterius scripturae
textum nesciens stupensque deuoluitur. Cumque illud in semet ipsa
coeperit uolutare, necdum illo ad integrum uentilato oborta alterius
testimonii memoria meditationem materiae prioris excludit. De hac quoque
ad alteram subintrante alia meditatione transfertur, et ita animus
semper de psalmo rotatus ad psalmum, de euangelii textu ad apostoli
transiliens lectionem, de hac quoque ad prophetica deuolutus eloquia et
exinde ad quasdam spiritales delatus historias per omne scripturarum
corpus instabilis uagusque iactatur, nihil pro arbitrio suo praeualens
uel abicere uel tenere nec pleno quicquam iudicio et examinatione
finire, palpator tantummodo spiritalium sensuum ac degustator, non
generator nec possessor effectus. XIV. ISAAC : Licet pridem super hac re
disputantibus nobis de orationis statu, quantum reor, sit sufficienter
expressum, tamen quia uobis haec eadem poscitis iterari, de
confirmatione cordis breuiter intimabo. Tria sunt quae uagam mentem
stabilem faciunt, uigiliae, meditatio et oratio, quarum adsiduitas et
iugis intentio conferunt animae stabilem firmitatem. |
XIII - La mobilità dei pensieri
E di fatto, non
appena la nostra mente ha richiamato un versetto di qualche Salmo,
insensibilmente essa, trascurato quello e come stupita, viene attratta
da un altro testo delle Scritture. Poi, non appena ha cominciato a
meditare fra se stessa su quel passo, ecco sorgere il ricordo di un
altro passo che elimina la riflessione sul testo precedente. Avviene
così che la mente si trasferisce da una a un'altra riflessione così
subentrata, in modo che l'animo, volteggiandosi in continuità da un
salmo a un altro, da un testo del vangelo a un testo dell'Apostolo, e,
da questo, trasbordata a un testo dei profeti, e, non bastando, perfino
a certi racconti spirituali, si raggira qua e là per tutto il corpo
delle Scritture, senza riuscire con la propria volontà a respingere o a
trattenere e nemmeno a definire con pieno esame e giudizio qualche
testo, riducendosi così unicamente come a uno che palpa e degusta i
sensi spirituali senza rigenerarli e possederli. Ne segue allora che la
mente, mobile e vaga com'essa è, si distrae, errando di qua e di là
perfino nel tempo della sinassi, e così non compie bene, come dovrebbe,
nessun ufficio: per esempio, allorché essa prega, volge l'attenzione a
un Salmo o a qualche lettura già fatta. Quando la funzione comporta il
canto, essa medita qualche altra cosa diversa dal testo di quel salmo.
Quando fa la lettura, essa si volge a quello che intende compiere o
ricorda quello che ha già compiuto. In questo modo, nulla accogliendo e
nulla rifiutando come comporta la disciplina e l'opportunità, essa
sembra divenuta vittima di combinazioni fortuite, senza alcuna
possibilità di trattenere quello di cui si diletta e, tanto meno, di
indugiarvisi. Ne risulta, per noi, come una necessità di conoscere
soprattutto in che modo possiamo compiere a dovere questi uffici
spirituali e, in particolare, in che modo custodire quel versetto del
Salmo, da te a noi assegnato come una formula di preghiera, affinché
l'inizio e il termine di tutti i nostri sentimenti non divaghino in
preda alla loro mobilità, ma restino assicurati al nostro volere».
XIV - In che modo è possibile raggiungere
la stabilità del cuore e dei pensieri ISACCO: «Sebbene in
precedenza, nell'esaminare lo stato della preghiera, io abbia già
risposto sufficientemente, almeno per quanto a me risulta, a questa
questione, dietro il vostro ripetuto desiderio, io parlerò ancora, sia
pur brevemente, intorno alla stabilità del cuore. Tre sono i mezzi che
rendono stabile la mente dissipata: la veglia, la meditazione e la
preghiera; l'assiduità di questi mezzi e la loro intensità conferiscono
all'anima una stabile fermezza. La quale fermezza in nessun altro modo
potrà essere assicurata, se prima non saranno escluse interamente tutte
le sollecitudini e premure della vita presente con un'infaticabile e
continua dedizione al lavoro, affrontato non a scopo di lucro, ma per
sovvenire alle sacre necessità del monastero, in modo da poter adempiere
il precetto dell'Apostolo: "Pregate incessantemente". E in realtà prega
assai poco chiunque è solito pregare solamente nel tempo in cui i suoi
ginocchi sono piegati a terra. E non prega affatto chiunque, anche
tenendo le ginocchia a terra, si lascia distrarre con le divagazioni del
proprio cuore. Pertanto, quali noi vogliamo essere trovati nel momento
della preghiera tali dobbiamo essere prima di disporci a pregare. É
infatti necessario che, nel momento della preghiera, la mente si trovi
nello stato in cui si trovava in precedenza: ne segue allora che essa,
disponendosi a pregare, o si eleverà alle sublimità del cielo, oppure
sarà trascinata alle cose della terra, vale a dire rimarrà in preda ai
pensieri, in cui essa prima s'era trattenuta». ***** Fin qui l'abate
Isacco espose a noi, del tutto attenti, la seconda conferenza intorno
alla natura della preghiera. La sua dottrina però intorno al versetto
del Salmo sopra citato, quello che l'abate aveva detto che doveva essere
ben conservato dagli esordienti, pur essendo da noi ammirato al punto da
desiderare tenacemente di metterla in pratica, poiché la ritenevamo
compendiosa e facile, in realtà la trovammo ben più difficile nel
tradurla in atto di quanto lo fosse la pratica, con la quale in
precedenza eravamo soliti scorrere per tutto il corpo delle Scritture
con varie riflessioni e senza alcun impegno di particolari riferimenti. Risulta dunque che nessuno viene escluso dal raggiungere la perfezione del cuore a causa della sua imperizia in fatto di cultura, come pure risulta che la rozzezza di una persona non è di impedimento alla purezza del cuore e dell'anima, la quale, anche in modo superlativo, è accessibile a tutti, purché tutti si assicurino il sano e integro proposito della mente, inteso a raggiungere Dio con la meditazione continuata di quel semplice versetto della Scrittura. |
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24 maggio 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net