LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
18.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE PIAMO
SULLE TRE SPECIE DI MONACI
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. Come fummo ricevuti
dall’abate Piamo al nostro arrivo a Diolcos.
II. Discorso dell’abate Piamo,
nel quale si spiega come i monaci novizi devono essere istruiti dall’esempio
degli anziani.
III. I monaci giovani non devono
discutere i precetti degli anziani.
IV. Le tre specie di monaci che
si trovano in Egitto.
V. Da chi sia stata istituita la
professione cenobitica.
VI. Origine e inizio degli
anacoreti.
VII. Origine e costumi dei
sarabaiti.
VIII. Una quarta specie di
monaci.
IX. Domanda: quale differenza
passa tra una casa di cenobiti e un monastero.
X. Risposta.
XI. La vera umiltà; e come
l’abate Serapione smascherò la falsa umiltà di un monaco.
XII. Domanda sul modo di
acquistare la vera pazienza.
XIII. Risposta.
XIV. Esempio di pazienza dato da
una donna devota.
XV. Esempio di pazienza
dell’abate Pafnuzio.
XVI. La perfezione della
pazienza.
I -
Come fummo ricevuti dall’abate Piamo al nostro arrivo a
Diolcos
Dopo aver goduto la vista e la conversazione di quei tre
celebri abati dei quali, bene o male, ho riferito le Conferenze spirituali,
secondo la richiesta del venerabile fratello Eucherio, devo dire che in me e in
Germano si fece sempre più vivo il desiderio di visitare le più remote province
dell’Egitto, dove i santi monaci sono più numerosi e più famosi.
Così ci dirigemmo al paese chiamato Diolcos, posto sopra una
delle sette bocche del Nilo. Non fummo portati colà dalla strada che dovevamo
necessariamente percorrere, ma piuttosto dal desiderio di vedere i santi monaci
che dimoravano in quella zona. Sapevamo che là esistevano numerosi gruppi di
cenobiti, fondati dai Padri più antichi; perciò a somiglianza di mercanti
desiderosissimi d’arricchirsi, ci lasciammo persuadere dalla speranza di un
guadagno più alto e dirigemmo in quella parte la nostra navigazione e la nostra
ricerca.
Dopo aver navigato a lungo, e dopo essere stati trasportati di
qua e di là, mentre gli occhi nostri cercavano avidamente quei luminari della
virtù, il nostro sguardo scoprì l’abate Piamo, emergente tra tutti a somiglianza
di un faro. Fra gli anacoreti che abitavano in quella regione egli era l’Anziano
e il Sacerdote. Posto, come la città di cui parla il Vangelo, sulla cima del
monte, non fa meraviglia che brillasse immediatamente ai nostri occhi.
Penso opportuno non riferire qui i miracoli e i prodigi con i
quali la divina grazia testimoniò anche dinanzi a noi i meriti di quel servo di
Dio, diversamente mi allontanerei dal mio primo proposito e oltrepasserei i
giusti limiti di questo volume. Io infatti non ho promesso di tramandare alla
memoria dei posteri le opere miracolose del Signore, ma le istituzioni e le
pratiche di quegli uomini santi, secondo la mia capacità di ricordare. Mi sono
proposto soltanto d’istruire il lettore sulla vita perfetta, non di alimentare
la curiosità, senza alcun risultato per la correzione dei suoi difetti.
Il beato Piamo ci accolse con grandi segni di contentezza e ci
ristorò con una cordialità degna di lui. Poi, accorgendosi che eravamo
forestieri, si interessò di conoscere la nostra provenienza e il motivo per cui
ci eravamo recati in Egitto Quando ebbe saputo che venivamo da una casa di
cenobiti della Siria, e che il desiderio della perfezione ci aveva fatto
intraprendere quel viaggio, ci rivolse questo discorso.
II -
Discorso dell’abate Piamo, nel
quale si spiega come i monaci novizi devono essere istruiti dall’esempio degli
anziani
Figlioli miei, chiunque vuole acquistare perizia in una
qualsivoglia arte, deve applicarsi, con tutta l’attenzione e con tutta la
vigilanza di cui è capace, agli esercizi della professione che desidera
conoscere; deve osservare i comandi e i consigli dei maestri di una determinata
arte o scienza. Se non fa così si pasce di vani desideri e inutilmente spera di
raggiungere la valentia di quegli artisti dei quali non si adatta ad imitare lo
studio e la diligenza.
Noi abbiamo conosciuto alcuni che venivano dalle vostre
regioni a queste e percorrevano i monasteri dei fratelli allo scopo di imparare.
Ma era gente che non si decideva ad abbracciare con la sua condotta le regole e
gli usi che costituivano l’oggetto del viaggio intrapreso; gente che non se la
sentiva di ritirarsi in qualche cella per veder di mettere in pratica ciò che
aveva visto o udito.
Costoro ritenevano ancora gli usi e i costumi nei quali erano
stati prima ammaestrati e davano motivo a pensare — come qualcuno diceva in tono
di condanna — d’aver lasciato le loro province allo scopo di fuggire la povertà,
non già per amore del progresso spirituale. Di conseguenza, oltre a non
acquistare una briciola d’istruzione, non trovavano neppure la forza di rimanere
a lungo in questi luoghi, a causa della loro inflessibile ostinazione. Non
vollero cambiare né l’osservanza dei digiuni, né l’ordine della salmodia, né
l’abito che indossavano; e allora come si poteva evitar di pensare, che, nel
venire tra noi, avevano un solo scopo, quello cioè di trovar da mangiare?
III. –
I monaci giovani non devono
discutere i precetti degli anziani
Ma se voi, come io credo, venite a studiare il nostro metodo
di vita unicamente per meglio servire il Signore, è necessario che vi liberiate
completamente da tutti quei metodi che vi furono insegnati all’inizio della
vostra vita religiosa, per abbracciare in perfetta umiltà gli insegnamenti che
vi daranno i nostri Anziani. Potrà accadere talvolta che il motivo ispiratore di
certi detti e di certi fatti, lì per lì vi sfugga, ma ciò non deve trattenervi o
ritrarvi dall’imitazione. La scienza più perfetta è il premio di coloro che
giudicano rettamente e semplicemente su tutte le cose, e son più pronti ad
imitare che a discutere quanto odono o vedono fare dagli Anziani. Colui, invece,
che comincia con le dispute la sua istruzione, non penetrerà mai nel regno della
verità. Il nemico, vedendo che quello si fida più del proprio giudizio che di
quello degli Anziani, lo indurrà facilmente a giudicare superflue e pericolose
le cose più utili e salutari. Il demonio, maestro d’inganni, lo giocherà così
bene che quello, sempre più attaccandosi alle sue idee irragionevoli, arriverà a
persuadersi che è cosa buona e santa soltanto quella che appare tale alla sua
cieca caparbietà.
IV -
Le tre specie di monaci che si
trovano in Egitto
Prima di tutto dovete imparare quale sia l’esordio e l’origine
della nostra professione; cioè com’essa è nata e da quale sorgente è derivata. È
vero infatti che è facile penetrare i principi dell’arte a cui si ispira ed è
pur facile infervorarsi ed esercitarla, quando ci è conosciuta la dignità di
coloro che ne furono gli inventori e i fondatori.
In Egitto esistono tre specie di monaci: due sono ottime; la
terza è biasimevole e da evitarsi in modo assoluto.
La prima è la specie dei
cenobiti, vale a dire
di quei monaci che vivono raggruppati in una comunità, sotto la guida e la
direzione di un Anziano. Costoro sono sparsi in tutto l’Egitto e il loro numero
è molto elevato.
La seconda specie è quella degli
anacoreti. Questi,
dopo essersi formati nelle case dei cenobiti, dove son diventati perfetti nella
vita ascetica, hanno scelto il segreto della solitudine. Di questa forma di vita
anche noi desideriamo fare esperienza.
La terza specie — quella che merita la nostra condanna — è dei
Sarabaiti. Intendiamo
parlare di queste tre forme separatamente e per ordine.
Prima di tutto, dunque, voi dovete imparare a conoscere i
fondatori di queste tre professioni monastiche. Tale conoscenza servirà ad
ispirarvi avversione verso la forma che dev’essere fuggita e desiderio delle due
forme che son da seguire, perché ognuna di queste due vie conduce
necessariamente colui che la segue, al fine raggiunto da chi la scoprì e la
seguì per primo.
V -
Da chi sia stata istituita la
professione cenobitica
La vita cenobitica nacque al tempo della predicazione
apostolica. È proprio questa la forma di vita che vediamo sorgere a Gerusalemme,
in quella moltitudine di credenti di cui il libro degli Atti così ci parla: «La
moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola: né vi era chi
dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era tra loro comune (At 4,32).
Vendevano i loro beni e ne distribuivano il prezzo fra tutti, secondo il bisogno
di ciascuno» (At 2,45). E ancora: «Non vi era alcun bisognoso tra loro. Perché
quanti possedevano terreni o case, li vendevano; poi, preso il prezzo delle cose
vendute, lo deponevano ai piedi degli Apostoli, e si distribuiva a ciascuno
secondo il suo bisogno» (At 4,34-35). Tutta la Chiesa presentava allora uno
spettacolo che oggi è possibile vedere soltanto (ohimè raramente!) presso un
numero ristretto di cristiani, cioè nelle case cenobitiche.
Ma dopo la morte degli Apostoli la moltitudine dei cristiani —
specialmente quella che veniva dai popoli idolatri — incominciò a intiepidirsi.
Ai convertiti dal gentilismo, per riguardo alla loro fede ancora rudimentale, e
in considerazione dei loro inveterati costumi, gli Apostoli domandarono soltanto
di astenersi «dalle carni immolate agli idoli, dal sangue, dagli animali
soffocati e dalla fornicazione» (At 15,29). La libertà concessa ai convertiti
dal gentilesimo, in considerazione della debolezza della loro fede incipiente,
non mancò di contaminare a poco a poco la perfezione della Chiesa di
Gerusalemme. Ogni giorno aumentava il numero dei convertiti, sia dal giudaismo
che dal paganesimo, ma il fervore della primitiva fede diminuiva ogni giorno di
più. E non fu soltanto la massa dei neo-convertiti a raffreddarsi e allontanarsi
dall’antica austerità: i capi della Chiesa fecero altrettanto. Molti, ritenendo
lecite anche per se stessi le concessioni fatte alla debolezza dei gentili, si
persuasero che non c’era niente di male a conservare i loro beni patrimoniali,
pur professando la fede in Cristo.
Ma quelli che sentivano ancora il fervore dei tempi apostolici
e volevano restare fedeli al ricordo della primitiva perfezione, lasciarono le
città e la compagnia di coloro che ritenevano lecita, a se stessi e a tutta la
Chiesa di Dio, la negligenza di una vita più comoda. Si stabilirono nei dintorni
delle città, in luoghi appartati, e s’impegnarono a seguire per proprio conto
quelle regole di vita che sapevano dettate dagli Apostoli per tutto il corpo
della Chiesa. Nacque così il metodo di vita del quale stiamo parlando, cioè di
quei seguaci del Signore che si erano ritirati nella solitudine per non
contagiarsi nella tiepidezza dei più
[1].
Con l’andare del tempo questi solitari si costituirono in una
categoria distinta da tutte le altre. Dato che rinunciavano al matrimonio e si
tenevano lontani dai parenti e dalla vita del mondo, furono chiamati
monaci o
monazontes, a causa
della loro vita senza famiglia e solitaria. Le comunità che formarono in
seguito, meritarono a loro il nome di cenobiti, mentre alle celle e ai luoghi
nei quali si raggruppavano fu dato il nome di cenobi.
Questa è la sola specie di monaci dei tempi più antichi: essa
è la prima nel tempo e la prima per grazia. Si conservò per molti anni in tutto
il suo splendore e in tutta la sua integrità, fino all’epoca degli abati Paolo e
Antonio. Ai nostri giorni possiamo vederne i vestigi nei monasteri dei cenobiti.
VI – Origine e inizio
degli anacoreti
Dal numero di questi uomini perfetti o, se così m’è permesso
dire, dalla loro fecondissima radice, nacquero quei fiori e quei frutti che sono
i santi anacoreti.
S. Paolo e s. Antonio, che ho poco fa nominati, sono ritenuti
gli iniziatori di questa forma di vita. Non furono né la pusillanimità, né il
vizio dell’impazienza (come avviene per certuni) a spingerli nel segreto della
solitudine. Furono guidati soltanto dal desiderio di un progresso più sublime e
dal gusto della divina contemplazione; ciò resta vero anche se il primo di loro
pare che abbia cercato il deserto in tempo di persecuzione, per sfuggire alle
insidie dei suoi stessi congiunti.
Ecco che dalla prima professione monastica, della quale
abbiamo parlato, ne è nata un’altra, e veramente perfetta. Coloro che
l’abbracciano si chiamano giustamente
anacoreti, cioè uomini che vivono ritirati.
Non contenti di quella vittoria ottenuta tra gli uomini,
quando calpestarono gli assalti occulti del demonio, bramano ora combattere
contro i demoni a viso aperto, in una lotta da pari a pari; per questo non
temono di inoltrarsi nella solitudine del deserto. Assomigliano a Giovanni
Battista, che passò nel deserto tutta la sua vita; assomigliano a Elia, ad
Eliseo e a tutti gli altri di cui parla l’Apostolo quando dice: «Andarono
raminghi, coperti di pelli di pecora o di capra, privi di tutto, angustiati,
maltrattati; personaggi di cui il mondo non era degno, costretti a vagar pei
deserti e per le montagne, o a rifugiarsi nelle spelonche e nelle caverne della
terra» (Eb 11,37-38). Di costoro, cosi parla figuratamente il Signore con
Giobbe: «Chi ha dato la libertà all’onagro? e i legami dell’asino selvatico chi
li sciolse? A questo io assegnai il deserto per abitazione e qual sua dimora una
terra salmastra. Se la ride dello strepito della città e il gridare del
mandriano non ode; va attorno per i monti del suo pascolo, ed ogni verde zolla
egli ricerca» (Gb 39,5-8). Nei salmi si legge: «Lo dicano ora coloro che furono
riscattati dal Signore, che furono strappati dalle mani del nemico» (Sal 107
(106), 2). E poco dopo lo stesso salmo aggiunge: «E vagarono per il deserto, in
una solitudine senz’acqua e non trovarono la via di una città per dimorarvi.
Assaliti dalla fame e dalla sete, sentivano la loro vita venir meno. Nella
tribolazione levarono la loro voce al Signore ed egli li liberò dalle loro
strettezze» (Sal 107 (106), 4-6). Geremia ci dà di questi solitari il quadro che
segue: «È bene che l’uomo porti il giogo fin dalla sua giovinezza, e se ne stia
solitario, in silenzio, quando il Signore porrà quel giogo su di lui» (Lam
3,27-28). I solitari, con le disposizioni interiori e con le opere che compiono,
cantano quei versi del salmo: «Somiglio a un pellicano del deserto, son pari a
un gufo in mezzo alle macerie. Io veglio insonne, divenuto eguale a un passero
solingo sopra il tetto» (Sal 102 (101), 7-8).
VII – Origine e costumi
dei sarabaiti
Mentre queste due forme di monachesimo rallegravano la
religione cristiana, anzi, quando le due forme descritte avevano incominciato
adagio adagio a decadere, nacque una genia di monaci malvagi e infedeli. Forse è
meglio dire che rispuntò e crebbe la mala pianta che nacque agli inizi della
Chiesa, per opera di Anania e Saffira, quella pianta che la maledizione
dell’apostolo Pietro aveva reciso. Giudicata detestabile e maledetta da tutti i
monaci, quella mal erba non s’era più vista germogliare al mondo finché durò la
paura d’un castigo tanto severo. Il santo Apostolo non aveva lasciato agli
autori di una colpa così mostruosa né il tempo di pentirsi né di ripararla: con
una morte repentina aveva stroncato il germe maledetto.
Ma a poco a poco una certa negligenza e la lunga usura del
tempo, cancellarono dalla mente degli uomini l’esempio che era stato punito
severamente dall’Apostolo nel caso di Anania e Saffira. Per questo si vide
nascere la genia dei sarabaiti, così chiamati, con nome di derivazione egiziana,
perché si separavano dalle comunità cenobitiche e provvedevano alle loro
necessità ciascuno per proprio conto. Essi discendevano direttamente da Anania e
Saffira, i quali preferivano simulare la perfezione evangelica, anziché
abbracciarla realmente, ed erano spinti a quella finzione dal desiderio di
guadagnarsi le lodi con le quali erano onorati coloro che avevan preferito a
tutte le ricchezze la perfetta povertà di Cristo.
Costoro pretendono di compiere un’impresa che richiede una
virtù insolita, con animo meschino; o forse sono stati sospinti alla professione
monastica dalla necessità; perciò si affrettano tanto a fregiarsi del nome di
monaco quanto s’ingegnano di fuggirne la vita. Non si curano della disciplina
cenobitica, né di sottomettersi all’autorità degli Anziani, né d’imparare da
loro a vincere la propria volontà. Non hanno una formazione sistematica, non
hanno una regola dettata dalla discrezione. La loro rinuncia è per uso esterno,
fatta per esser conosciuta dagli uomini. Talvolta rimangono nelle loro
abitazioni private e, dopo essersi ammantati col nome di monaco, continuano ad
occuparsi degli stessi affari di prima. Tal altra si costruiscono delle celle,
le ornano col nome di monastero, ma vivono là dentro a loro talento e in piena
libertà. Il Vangelo comanda: non vi date premura del vitto quotidiano, né dei
beni di fortuna, ma quelli non se la sentono di curvare il collo a quel giogo.
Il precetto del Signore lo possono osservare soltanto coloro che senza
esitazione e con piena fedeltà si staccano completamente dai beni di questo
mondo e si sottomettono ai superiori delle comunità cenobitiche, fino al punto
di poter dire che non appartengono più neppure a se stessi. Di tutt’altro stampo
sono i sarabaiti. Fuggono, come si è detto, l’austerità cenobitica e abitano a
gruppi di due o tre nelle celle. Non vogliono esser governati dall'autorità di
un abate, anzi mettono tutto l’impegno a conservarsi liberi dal giogo degli
Anziani, per conservare la facoltà di soddisfare tutti i loro capricci: vagare
qua e là, fare tutto quello che vogliono. Può capitare che essi lavorino di più
degli stessi cenobiti: non contenti di lavorare durante il giorno possono
applicarvisi anche nella notte, ma non agiscono con la stessa fede e con lo
stesso scopo dei cenobiti. Si danno da fare tanto, non già per consegnare il
frutto della loro fatica nelle mani dell’economo, ma per guadagnare denari e
metterli da parte.
Osservate ora quanta differenza intercorre fra queste due
specie di monaci.
I cenobiti, per nulla preoccupati del domani, offrono a Dio il
frutto dei loro sudori come un’ostia gradita; i sarabaiti estendono le loro
preoccupazioni materiali non solo al giorno vicino, ma agli anni lontani, e si
figurano Dio come se fosse bugiardo o impotente: quasi che non volesse o non
potesse mantener la promessa di dare ad ognuno di che mangiare ogni giorno e di
che vestirsi. I cenobiti cercano con tutte le loro forze la
actemosune, cioè la
rinuncia totale e la povertà perpetua, i sarabaiti cercano l’abbondanza di tutti
i beni. I primi si sforzano di superare la misura prescritta del lavoro
quotidiano, ma lo fanno con l’intenzione che il loro guadagno, dopo aver
provveduto alle necessità del monastero, sia dispensato, a giudizio dell’abate,
alle carceri, agli ospizi per pellegrini, agli ospedali, ai poveri; gli altri
vogliono che quanto avanza al quotidiano sostentamento vada a soddisfare la loro
volontà spendereccia, o sia conservato ad alimentare l’avarizia.
Posso anche concedere che i sarabaiti usano bene del denaro
male ammassato, ma anche in questo caso non tendono ad imitare la virtù e la
perfezione dei cenobiti. Questi ultimi infatti, procurano al monastero grandi
guadagni e rinunciano ad essi ogni giorno, per rimanere nella umiltà e nella
sottomissione più profonda. Così, dopo aver rinunciato al dominio su se stessi,
rinunciano anche al dominio sulle cose che guadagnano col sudore della loro
fronte; e con questo spogliamento quotidiano, che li distacca anche dal frutto
del loro lavoro, rinnovano continuamente il fervore della prima rinuncia. I
sarabaiti invece, anche quando fanno una elemosina ai poveri, si insuperbiscono,
e così cadono ogni giorno nel precipizio. La pazienza e la fedeltà rigorosa con
cui i cenobiti perseverano devotamente nella professione intrapresa, fa ogni
giorno di loro dei crocifissi al mondo e dei martiri viventi; la tiepidezza e il
capriccio precipitano i sarabaiti nell’inferno.
Le due prime specie di monaci, vale a dire i cenobiti e gli
anacoreti, si trovano in numero pressoché uguale in questa nostra provincia, ma
nelle altre terre che le necessità della fede cattolica mi hanno obbligato a
percorrere, prevale la terza specie, quella dei sarabaiti, anzi è quasi sola a
tenere il campo.
Ai tempi di Lucio, che era un vescovo passato all’eresia
ariana negli anni in cui l’imperatore Valente governava il mondo, io fui
incaricato di portare i frutti di una colletta ai fratelli che, dall’Egitto e
dalla Tebaide, erano stati esiliati e condannati alle miniere nel Ponto e
nell’Armenia, per punirli della loro irremovibilità nella fede cattolica. In
quell’occasione potei vedere in qualche città rarissimi segni di vita
cenobitica; quanto ad anacoreti, dovetti accorgermi che in quelle regioni non se
ne conosceva neppure il nome.
VIII -
Una quarta specie di monaci
Esiste una quarta specie di monaci che abbiamo visto sorgere
da poco tempo: è la categoria di coloro che tentano d’ingannare se stessi con la
vana apparenza della vita anacoretica. All’inizio questi monaci, presi da
passeggero fervore, lasciano sperare di voler ricercare la perfezione
cenobitica. Ma si raffreddano presto, e siccome non vogliono saperne di
estirpare i loro vizi e le loro abitudini del passato, non sopportano di
sostenere il giogo dell’umiltà e della pazienza, né si adattano a star
sottomessi alla disciplina degli Anziani. Cercano perciò qualche cella separata
e desiderano di vivere là in assoluta solitudine; così — non essendo più messi
alla prova da qualche confratello — possono apparire pazienti, mansueti, umili.
Ma questa nuova forma di vita eremitica, o per dir meglio,
questa forma di tiepidezza spirituale, non permette mai a coloro che ha
assaliti, di arrivare alla perfezione. Né basta dire che in tal modo i loro vizi
non scompaiono, bisogna aggiungere che s’ingrandiscono, proprio per il fatto che
non sono stuzzicati da alcuno.
I vizi sono come un veleno nascosto e mortale, quanto più quel
veleno si cela, tanto più penetra in profondità e produce mali insanabili.
Per rispettarne la solitudine, nessuno ardisce rimproverare ad
un tal monaco i vizi che egli stesso ha voluto ignorare. Le virtù — sia ben
chiaro — non si acquistano con il nascondere i propri vizi, ma col liberarsene.
IX -
Domanda: quale differenza passa
tra una casa di cenobiti e un monastero
Germano.
C’è differenza tra «cenobio» e «monastero»; oppure i due nomi dicono la stessa
cosa?
X -
Risposta
Riamo.
Molti usano promiscuamente i termini «monastero» e «cenobio»; una differenza
tuttavia c’è e consiste in questo: il termine monastero si addice all’abitazione
e non indica altro che il luogo di raccolta; cenobio invece indica anche la
forma di vita e il genere di disciplina che vi si osserva. Si potrebbe chiamar
monastero anche l’abitazione di un solo monaco, mentre l’appellativo di cenobio
si addice soltanto al luogo in cui molte persone coabitano e formano una
comunità. Si chiamano monasteri anche i luoghi in cui vivono le associazioni dei
sarabaiti.
XI. -
La vera umiltà e come
l’abate Serapione smascherò la falsa umiltà di un monaco
Voi che, a quanto posso vedere, siete venuti a bussare alla
nostra porta partendo da un’esperienza di ottima vita monastica; voi che siete
venuti dalla palestra onorata della vita cenobitica, per tendere alle altezze
della disciplina anacoretica, esercitatevi più a fondo nelle virtù dell’umiltà e
della pazienza, che avete certamente coltivate nel vostro primo genere di vita.
Non dovete contentarvi, come fanno alcuni, di rivestirvi di quelle virtù
soltanto all’esterno, fingendovi umili nelle parole, o affettando una falsa
bassezza nel portamento del corpo. Questa maschera di umiltà fu una volta
elegantemente messa in ridicolo dall’abate Serapione.
Un giorno si presentò a lui un tale che nel comportamento
esteriore e nelle parole mostrava la più profonda umiltà. Il vecchio abate lo
invitò, com’è d’uso, a pregare insieme, ma per quanto insistesse non riuscì a
convincerlo. Quello protestava di essere gravato da tanti e tali delitti da non
meritare neppure di respirare l’aria che respirano tutti gli uomini. Non voleva
neppure sedersi sulla stuoia e stava piuttosto accovacciato per terra.
Inutile dire che non si lasciò lavare i piedi...
Finito che ebbero di mangiare, l’abate Serapione approfittò
della conferenza spirituale che doveva tenere, per ammonirlo benevolmente e
cortesemente a non andar vagando oziosamente qua e là. Sei giovane e robusto —
disse — non andare a zonzo senza far nulla; stattene in cella, come vuole la
regola degli Anziani, e guadagnati la vita col tuo lavoro, invece di farti
mantenere dal lavoro e dalla generosità degli altri.
Fu questo il rimprovero temuto dall’apostolo Paolo. Pur avendo
diritto al sostentamento da parte dei fedeli, perché era operaio del Vangelo,
volle l’Apostolo lavorare giorno e notte per procurare il pane quotidiano a sé e
a coloro che, impegnati a lavorare con lui, non avevano la possibilità di
dedicarsi a qualche altro lavoro.
A queste parole il nostro monaco fu preso da tanta tristezza e
da tale dolore che il volto non riuscì a dissimulare la contrarietà del cuore.
Gli disse allora il vecchio abate: «Figliolo mio, poco fa ti accusavi dei
delitti più atroci e te ne caricavi il peso senza punto temere di perdere la mia
stima; ecco che ora io ti dò un piccolo avvertimento il quale oltre a non aver
nulla d’ingiurioso ti dimostra invece il mio affetto, il mio desiderio di
aiutarti, e ti vedo talmente inquieto che non riesci a nascondere lo sdegno e a
conservare un volto sereno. Che forse, mentre facevi mostra di quella tua
umiltà, ti aspettavi che io ti dicessi: «Il giusto accusa se stesso fin dal
principio delle sue parole»? (Pr 18,7: LXX).
Caro il mio ragazzo, bisogna possedere la vera umiltà di
cuore, che non consiste in gesti e parole affettate, ma nasce dall’intima umiltà
dell’anima.
Quella si rivelerà poi nella pazienza, che ne è il segno più
sicuro. È inutile accusarsi di delitti ai quali nessuno crede; è molto meglio
restare calmi di fronte alle ingiurie arroganti che uno ti rivolge e sopportare
con mansuetudine e serenità d’animo i torti che ti son fatti.
XII. -
Domanda sul modo di
acquistare la vera pazienza
Germano.
Desideriamo sapere come si acquista e come si conserva la tranquillità della
quale tu ci parli. Ottima cosa è imporsi il silenzio, tener chiusa la bocca,
tener a freno ogni parola ardita, ma bisogna anche conservare la tranquillità
del cuore, la qual cosa non sempre avviene.
Talvolta, anche se la lingua sta a segno, all’interno non
regna la pace. Ed è proprio per questo che ci pare impossibile mantenere la
virtù della mansuetudine se non si vive in una cella solitaria e nascosta.
XIII. -
Risposta
La vera pazienza e la vera tranquillità non si acquistano e
non si conservano senza una profonda umiltà di cuore. Quando una virtù nasce da
questa fonte non ha bisogno né dell’aiuto d’una cella, né del rifugio nella
solitudine. Non abbisogna infatti d’un sostegno esteriore la virtù che sia
interiormente sostenuta dall’umiltà, sua madre e sua custode.
Del resto, se abbiamo moti di ribellione, quando qualcuno ci
provoca, è segno che i fondamenti dell’umiltà non sono ben consolidati in noi.
Per questo, al sopraggiungere della più piccola burrasca, il nostro edificio
spirituale si scuote fin dalle fondamenta e minaccia di crollare.
La pazienza che rimane tranquilla perché non ha alcun nemico
pronto ad assalirla coi suoi dardi, non merita lode né ammirazione. È illustre e
gloriosa quella pazienza che sa restare immobile quando la tempesta della
tentazione le cade sopra. La vera virtù, lungi dal tremare o infrangersi nelle
avversità, in esse si rafforza, e si fa più acuta quando sembrerebbe che dovesse
spuntarsi.
Nessuno ignora che «pazienza» deriva da patire e sopportare;
dunque è chiaro che merita di esser chiamato paziente soltanto colui che
sopporta senza ribellarsi tutte le offese che gli si potranno arrecare. Di
quest’uomo paziente tesse il meritato elogio Salomone quando dice: «L’uomo
paziente val più del forte, e chi sa frenare l’ira è preferibile a colui che
espugna le città» (Pr 16,32: LXX). E ancora: «L’uomo longanime è ricco di
prudenza, ma il pusillanime è molto sciocco» (Pr 14,29).
Perciò quando un uomo offeso si infiamma e si adira, non si
deve credere che la gravità dell’offesa sia la causa del suo peccato. No:
l’offesa non fa altro che mettere in chiaro una debolezza
prima nascosta. In questo caso si vede avverata la parabola del Signore e
Salvatore nostro riguardante le due case; delle quali, una era fondata sulla
pietra e l’altra sulla sabbia. Piogge, fiumi, venti tempestosi si abbatterono
sull’una e sull’altra, ma quella che era fondata sulla dura pietra non riportò
alcun danno da un colpo tanto violento, mentre quella che era costruita sulla
sabbia instabile, andò subito in rovina. Ed è facile capire che questa rovinò,
non già perché fu assalita dalle piogge e dai torrenti, ma per l’imprudenza di
colui che l’aveva costruita sulla sabbia.
Il santo e il peccatore non si distinguono tra loro per il
fatto che il primo è tentato e il secondo no. Entrambi sono tentati, ma il primo
non si lascia sopraffare neppur dagli assalti più violenti, il secondo cede
all’impeto più leggero.
La fortezza del santo — lo abbiamo già detto — non sarebbe
meritevole di lode se perdurasse solo quando non è messa alla prova: la vittoria
non si dà senza combattere contro qualche avversario. «Felice l’uomo che
sopporta pazientemente la prova, perché dopo essere stato provato, riceverà la
corona di vita che il Signore ha promesso a coloro che lo amano» (Gc 1,12).
Anche a giudizio dell’apostolo Paolo la virtù non si tempra
nell’ozio e nelle delizie, ma nella infermità (Cfr. 2 Cor 12,9). Dice ancora il
Signore: «Ecco, in questo giorno, io ti stabilisco come una città forte, come
colonna di ferro, come muro di bronzo, contro tutta la terra, contro il re di
Giuda e i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il popolo del paese. Se vorranno
farti guerra non avranno il sopravvento, perché io sono con te per liberarti»
(Is 1,18-19).
XIV. -
Esempio di pazienza dato
da una donna devota
Ora voglio presentarvi almeno due esempi di pazienza. Il primo
riguarderà una donna devota, la quale praticò la pazienza con tanto fervore che
invece di fuggire le occasioni di tentazione le andò a cercare con grande
avidità, per meglio abituarsi a vincerle, data la loro frequenza. Costei era
nata ad Alessandria, ed era discendente da nobile famiglia. Serviva il Signore
nella casa che i suoi antenati le avevano lasciata. Un giorno si presentò al
vescovo Atanasio, di felice memoria, e lo pregò di consegnarle in custodia una
delle vedove che venivano mantenute a spese della Chiesa. E per dir la cosa con
le stesse sue parole: «Dammi — disse — una di queste sorelle e io penserò a
mantenerla».
Il vescovo lodò il proposito della buona donna e, vistala così
pronta alle opere di misericordia, ordinò che le fosse consegnata una donna
distinta fra tutte, a motivo dei suoi costumi e della sua condotta. Non voleva,
il santo vescovo, che il generoso desiderio della benefattrice fosse vinto dalla
cattiveria della beneficata, o che la benefattrice, cercando di farsi meriti
nell’aiutare una bisognosa, avesse a patir pericolo nella fede a causa dei
cattivi costumi di quella.
Mentre la pia signora serviva con ogni riguardo la sua ospite,
questa non faceva altro che dimostrare modestia, dolcezza, e rendere grazie per
le attenzioni di carità di cui era oggetto. Dopo qualche tempo la pia
benefattrice ritornò dal vescovo e gli disse: «Io avevo chiesto che mi fosse
assegnata una vedova da sostentare e da servire docilmente nelle sue necessità».
Il vescovo allora, non conoscendo il proposito e il desiderio
della donna, pensò che la persona incaricata di soddisfarla non avesse adempiuto
il suo compito, e domandò con una certa animosità la ragione dell’indugio. Venne
così a sapere che per quella pia donna era stata scelta la vedova più buona che
si potesse trovare. Allora il vescovo comandò che le fosse assegnata la peggiore
di tutte: irosa, rissosa, bevitrice, chiacchierona, quant’altre mai.
La buona donna se la prese in casa e incominciò a servirla con
la stessa diligenza, e forse con maggior amore di quello mostrato con la
precedente. Ma in cambio di tanti servigi ne ricavava come compenso offese,
imprecazioni, sgarbi a non finire. Talvolta la vedova insultava la sua
benefattrice rimproverandole di averla chiesta al vescovo, non già per prestarle
assistenza, ma per tormentarla e offenderla. Affermava infine che invece di
passare dalla fatica al riposo, era passata dal riposo alla fatica. La frequenza
dei litigi arrivò a tal segno che qualche volta la pessima vedova non si
trattenne dal colpire con le mani la sua benefattrice. Questa, da parte sua,
cercava di vincerla non con opporre violenza a violenza, ma sottomettendosi con
crescente umiltà. Sperava cosi di calmare, con la mansuetudine della sua carità,
l’ira scatenata di quella furia.
Quando, con simile esercizio, si fu fortificata e perfezionata
nella pazienza — come aveva sempre ardentemente desiderato — tornò dal vescovo e
lo ringraziò della scelta felice, nonché del bene che le aveva procurato. Il
vescovo, com’è chiaro, le aveva procurato un’ottima maestra di pazienza, che per
mezzo delle sue interminabili offese l’aveva ogni giorno fortificata — proprio
come l’olio fortifica gli atleti — e l’aveva finalmente condotta alla vetta
della pazienza. «Ora sì, disse la donna al vescovo, che mi è stata data una
vedova da assistere. La prima non era da assistere, perché mi onorava e mi
consolava con le sue gentilezze».
E di esempi femminili basti questo. Il racconto valga non solo
a edificarci, ma anche a farci vergognare, visto che noi non sappiamo conservare
la pazienza se non ci chiudiamo in una tana, alla maniera delle fiere.
XV —
Esempio di pazienza dell’abate
Pafnuzio
Ora passiamo al secondo esempio, che è quello dell’abate
Pafnuzio. Costui abita tuttora nel deserto di Scito, del quale è sacerdote. È
quello un eremo glorioso, degno di essere lodato su tutta la terra. Pafnuzio si
compiace tanto di vivere ritirato, che gli altri eremiti lo hanno chiamato
Bufalo, o bove
selvatico, proprio in ragione del profondissimo desiderio di solitudine che
vedono in lui, nonché per la sua aspirazione a stare sempre nascosto.
Fin dalla più giovane età il monaco Pafnuzio possedeva tanta
virtù e tanta grazia che i monaci più santi ed illustri di quel tempo ammiravano
la sua gravità e la sua incrollabile costanza. Nonostante la sua giovane età,
molti lo equiparavano agli anziani in fatto di merito e di virtù, e lo
giudicavano degno di appartenere al gruppo degli Anziani. Per questo avvenne che
quello stesso fuoco, che una volta accese il cuore dei fratelli contro il
patriarca Giuseppe, accendesse con la fiamma della gelosia l’animo di un
fratello contro di lui.
Il monaco geloso, volendo deturpare una sì grande bellezza,
con qualche neo o qualche macchia, preparò un piano maligno e si propose di
condurlo ad effetto una domenica, quando Pafnuzio avesse abbandonato la sua
cella per recarsi alla Chiesa.
Così fu. Corse alla cella vuota e furtivamente nascose il suo
libro fra la carta che il giovane monaco andava fabbricando con le foglie di
palma. Poi, fiducioso che nessuno lo avesse scoperto, come uno che è sicuro del
fatto suo, se n’andò anche lui alla Chiesa. Quando il sacro rito giunse al
termine, il monaco geloso andò a lamentarsi, in presenza di tutti i fratelli, di
essere stato derubato del suo libro.
Il lamento era rivolto a s. Isidoro, che fu il sacerdote del
deserto di Scito prima che lo fosse l’abate Pafnuzio.
La notizia turbò moltissimo l’animo di tutti i fratelli,
specialmente quello di Isidoro.
Nessuno sapeva che cosa fare o pensare, di fronte a un
avvenimento così nuovo e mai prima verificatosi. Non c’era monaco che ricordasse
qualcosa di simile in quell’eremo, e neppure dopo se ne ebbe un altro esempio.
Ma il derubato insisteva a chiedere che si facessero trattenere tutti i monaci
in chiesa e nel frattempo si mandasse una delegazione di monaci scelti, per
rovistare in tutte le celle.
Il prete Isidoro comandò a tre monaci dei più anziani di fare
l’ispezione, cella per cella. Quelli andarono, misero sottosopra ogni cosa, e
finalmente nella cella di Pafnuzio, tra quelle carte di palma che nel gergo
monastico si chiamano «sira»,
proprio là, dunque, dove lo aveva nascosto il monaco geloso, trovarono il corpo
del reato. I monaci persecutori portarono il libro alla chiesa, dove stavano
riuniti i loro confratelli. Allora Pafnuzio, che era sicurissimo della sua
innocenza, accettando di essere reo di furto, si mostrò disposto a far la
penitenza e domandò in quale luogo dovesse recarsi ad espiare. In tal modo egli
intendeva difendere la sua modestia e il suo onore. Infatti, se avesse tentato
di scagionarsi a parole dalla colpa di furto, avrebbe aggiunto alla prima anche
quella di menzogna, in quanto nessuno dei monaci presenti poteva sospettare
qualcosa di diverso da quanto il corpo del reato attestava.
S’allontanò dunque dalla chiesa, più fiducioso nel giudizio di
Dio che atterrito del triste caso capitatogli. Pregò senza interruzione, pianse,
triplicò i digiuni e si umiliò anche davanti agli uomini con la sincerità più
profonda. Per due settimane si abbassò dinanzi a tutti nella più grande
contrizione dell’anima e del corpo: arrivò a tal punto che il sabato e la
domenica si recava alla chiesa il mattino prestissimo, non già per ricevere la
comunione, ma per inginocchiarsi sulla porta e supplicare, gemendo, il perdono.
Colui che vede i pensieri occulti degli uomini non permise che
il buon monaco tormentasse più a lungo se stesso, o che gli altri lo stimassero
ancora colpevole.
L’inventore del furto, colui che aveva rubato il suo proprio
libro, colui che aveva imbrattato l’onore di Pafnuzio, alla fine rivelò ciò che
aveva fatto nascostamente.
La confessione avvenne per impulso del diavolo, che era stato
anche istigatore della colpa. Caduto in potere di un demonio tra i più crudeli,
il monaco geloso svelò il piano nascosto del suo delitto: così, colui che aveva
inventato l’orribile calunnia se ne fece anche denunciatore.
Lo spirito maligno tormentò poi a lungo il monaco geloso,
senza che le preghiere dei santi monaci, presenti in quell’eremo e muniti della
virtù di comandare agli spiriti immondi, riuscissero a liberarlo. Neppure il
prete Isidoro riuscì nell’impresa, nonostante la virtù speciale che possedeva.
Egli infatti aveva ricevuto dalla divina benignità una potenza tanto grande, che
mai un ossesso veniva condotto a lui, senza che si trovasse guarito prima ancora
di toccar la soglia della sua cella.
La gloria di questa liberazione, il Signore l’aveva riservata
al giovane Pafnuzio. Il colpevole doveva essere liberato soltanto dalle
preghiere di colui che era stato ingiustamente accusato. Soltanto invocando il
nome di colui che sotto gli stimoli dell’invidia avrebbe voluto infamare, poteva
ottenere il perdono della sua colpa e porre fine all’ossessione diabolica.
Così, fin dalla prima giovinezza, Pafnuzio dette qualche segno
rivelatore di ciò che sarebbe stato in seguito. Fin dagli anni dell’infanzia
egli lasciava intendere quell’alta perfezione che, col progredire degli anni,
avrebbe avuto altri accrescimenti. Anche noi, se vogliamo arrivare come lui a
queste altezze di virtù, dobbiamo fondare l’edificio della nostra perfezione
sopra un fondamento non diverso dal suo.
XVI -
La perfezione della pazienza
Due ragioni mi hanno spinto a riferire questo esempio. La
prima è che noi, considerando la calma imperturbabile e la costanza del beato
Pafnuzio, ci sentiamo mossi a sentimenti di pace e di pazienza, specialmente in
considerazione del fatto che gli assalti sferrati dal nemico contro di noi sono
una cosa da nulla in confronto con quelli toccati a quel monaco. La seconda
ragione è di convincerci che non potremo esser sicuri contro gli assalti e le
tentazioni del demonio, se poniamo la difesa e la speranza della nostra pazienza
nella clausura della nostra cella, nella separazione dagli altri, nella
compagnia dei santi, o in altre difese esteriori, anziché nella robustezza della
nostra vita interiore.
Se colui che ha detto nel Vangelo: «Il regno di Dio è dentro
di voi» (Lc 17,21), non fortifica l’anima nostra con la virtù della sua
protezione, inutilmente noi spereremo di vincere gli assalti degli spiriti
maligni, o anche solo di evitarli, con la distanza dai luoghi abitati, o con
l’angustia di una cella.
Tutte queste protezioni non mancavano davvero al beato
Pafnuzio, eppure il tentatore trovò ugualmente la via per tentarlo. Il maligno
non si lasciò scoraggiare né dalle mura del chiostro, né dai meriti di tanti
santi radunati in quei luoghi. Ma siccome il monaco tentato non aveva poggiato
la sua speranza nei soccorsi esteriori, ma in Colui che giudica i più riposti
segreti del cuore, per questo non potè esser mosso dalla potenza di un assalto
tanto violento.
Considerate ora il monaco che per invidia ordì la calunnia.
Non è vero che godeva anche lui il beneficio della solitudine? La protezione di
una cella appartata? La compagnia dell’abate e prete Isidoro, nonché degli altri
santi monaci? Ma la tempesta suscitata dal demonio trovò la casa fondata sulla
sabbia, e cosi — oltre ad assalirla — la fece completamente rovinare.
Non cerchiamo dunque la nostra pace fuori di noi, né pensiamo
che la pazienza degli altri possa liberarci dalla nostra impazienza.
Come è vero che il regno di Dio è dentro di noi, altrettanto è
vero che i peggiori nemici dell’uomo sono nella sua stessa casa (Cfr. Mt 10,36).
Nessuno mi è più vicino del mio cuore; eppure, nessuno mi è
più di lui nemico. Cerchiamo dunque di stare all’erta, e i nemici interni non
potranno ferirci. Quando i nemici interni cessano di assalirci, la nostra anima
comincia a possedere in pace il regno di Dio. A voler essere sinceri si deve
dire che nessun estraneo, per quanto mal disposto possa essere, è capace di
recarci del male, se noi non ci rivolgiamo contro noi stessi con cuore nemico.
Se io son ferito, non è per colpa d’un estraneo che mi ha assalito: è la colpa
della mia impazienza. Avviene in questo caso quel che si verifica per un forte
cibo: per un sano è utile, per il malato è nocivo; non può cioè far male a chi
lo mangia se non trova nella sua debolezza la forza di nuocergli.
Se tentazioni del genere di quelle descritte sorgeranno tra i
fratelli, non perdiamo la calma, non apriamo il varco alle critiche, alle parole
d’ira, che risuonano sulle labbra dei mondani. Tutt’al più potremo meravigliarci
che uomini cattivi e detestabili si siano nascosti in mezzo ai santi. Finché
saremo calpestati e battuti nell’aia, che è il mondo, sarà necessario che la
paglia destinata al fuoco eterno, si trovi mescolata al buon grano. Non
dimentichiamo che si trovò un Satana fra gli Angeli, un Giuda fra gli Apostoli,
un Nicolao, autore d’una pessima eresia, in mezzo ai sette diaconi
[2].
Non deve dunque meravigliarci che in mezzo a uomini santissimi se ne trovi
qualcuno malvagio.
Qualcuno, lo so, nega che il Nicolao dei Nicolaiti sia da
identificare con quello scelto dagli Apostoli e annoverato tra i primi diaconi.
Nessuno però può negare che il Nicolao eretico apparteneva al numero dei
Discepoli, i quali praticavano, a quei tempi, una perfezione così alta, da poter
essere raramente equiparata con quella che praticano oggi i migliori cenobiti.
Ma non ci fermiamo a considerare la caduta del monaco che in
quell’eremo famoso precipitò in una colpa tanto grave; non è bello considerare
un disonore che peraltro il colpevole seppe lavare con le lacrime della
penitenza. Meglio è proporre a noi stessi l’esempio del venerabile Pafnuzio.
Invece di scandalizzarci per il peccato del calunniatore, nel quale il vizio
dell’invidia volse al peggio la non sincera virtù della religione, imitiamo con
tutte le forze l’umiltà di Pafnuzio. E ricordiamoci che quella virtù non fu un
frutto del deserto, ma fu acquistata in mezzo agli uomini: nel deserto, poi, si
sviluppò e raggiunse la sua pienezza.
Bisogna anche dire che l’invidia è il più ribelle di tutti i
vizi: quando si è attaccata ad un’anima col suo veleno, direi quasi che non c’è
più rimedio. L’invidia è quella peste di cui parla figuratamente il profeta
quando dice: «Ecco, io vi manderò dei serpenti velenosi che non si possono
incatenare; essi vi morderanno» (Is 8,17). A buon diritto il profeta assomiglia
al veleno mortale del basilisco il morso dell’invidia. Da quel morso fu colpito
anche il principe e autore di tutti i mali: egli per invidia cadde, e per
invidia fa cadere. È chiaro infatti che egli fu uccisore di se stesso prima di
diventare uccisore dell’uomo, verso il quale sentiva gelosia, e nel quale versò
il veleno della morte. Sta scritto: «La morte entrò nel mondo per l’invidia del
demonio; e quelli che lo seguono, ne fanno l’esperienza» (Sap 2, 24-25). Come il
demonio, che fu infetto per primo dal veleno dell’invidia, rimane incurabile ai
rimedi della penitenza e ad ogni altro medicamento capace di alleviare quel
male, così coloro che si abbandonano a quei morsi velenosi, escludono da sé ogni
rimedio del celeste Incantatore. E la ragione è che il loro interno rodimento
non nasce dalla colpa di colui che invidiano, ma piuttosto dalla felicità di
lui. Per questo si vergognano a manifestare la verità del loro sentimento e
cercano vani pretesti per spiegare la loro malevolenza. Siccome le cause che
adducono sono falsissime, e il veleno mortale che non vogliono manifestare resta
nascosto nel loro interno, ecco che ogni cura diventa naturalmente inutile. Di
loro dice giustamente la divina sapienza: «Se il serpente morde prima di essere
incantato, non c’è niente da fare per l’incantatore» (Qo 10,11). Questi sono i
morsi segreti contro i quali le medicine dei sapienti non valgono a nulla.
Questo male fino ad ora s’è mostrato inguaribile; le buone maniere lo irritano,
gli ossequi lo gonfiano, i doni lo provocano a furore: «L’invidia — dice
Salomone — non sopporta niente» (Pr 27,4). Quanto più il fratello si arricchisce
con le prove di umiltà, con la virtù della pazienza o con la gloria della
munificenza, tanto più l’invidioso si sente pungere dagli stimoli della sua
passione; egli vuole la rovina del fratello, la sua morte: niente altro. Basta
osservare i figli di Giacobbe. L’amabilità dell’innocente Giuseppe non bastava a
superare la gelosia dei suoi undici fratelli. Sul loro conto ci assicura la
Scrittura: «I suoi fratelli, vedendo che il padre loro lo amava più di tutti gli
altri, lo presero in tale avversione, che non gli potevano dire una parola in
pace» (Gen 37,4). La loro gelosia, sorda a tutte le obbedienze e le
sottomissioni del fratello innocente
[3],
ne voleva la morte, e si adattò di malavoglia a sostituire alla morte una
vendita da schiavi. È dunque vero che, fra tutti i vizi, l’invidia è il più
dannoso e il più difficile a guarire, perché i rimedi che curano gli altri vizi
servono a incrementare l’invidia.
Facciamo qualche esempio: uno si lamenta di una offesa patita:
se fa un atto di generosità, con questo guarisce il suo male; un altro ha
ricevuto un affronto: un’umile soddisfazione basterà a placarlo. Ma come calmare
un uomo che si ritiene offeso proprio quando ti vede più umile e più benevolo?
Se fosse il desiderio di possedere, a farlo andare in collera, un dono potrebbe
soddisfarlo; se fosse una puntura d’amor proprio, o il desiderio di vendetta, le
carezze potrebbero soddisfarlo, ma è solo la felicità degli altri a irritarlo, e
non si può farci niente. Chi infatti sarebbe disposto a perdere i suoi beni; ad
abbandonare la prosperità, a cacciarsi in qualche guaio, per far piacere a un
invidioso?
Bisogna dunque implorare continuamente il soccorso di Dio
onnipotente, se vogliamo che questo basilisco non uccida, con uno dei suoi morsi
avvelenati, tutto ciò che è in noi vivo e animato dal soffio dello Spirito
Santo.
Il veleno degli altri serpenti — cioè i peccati o vizi carnali
— come è facile a penetrare nella natura umana, altrettanto è facile ad esserne
estromesso. Le ferite di quel veleno si riconoscono anche da certi segni
esteriori; e per quanto pericolose possano essere le enfiagioni, un incantatore
esperto nell’uso magico delle formule della Sacra Scrittura, saprà applicare il
rimedio delle parole salutari, cosicché il veleno non arrivi a produrre la morte
dell’anima. L’invidia, invece, a somiglianza del veleno iniettato dal basilisco,
distrugge la religione e la fedeltà fin dalle radici, prima ancora che il
colpito ne senta le ferite nel corpo. L’invidioso non pecca contro il fratello,
ma pecca contro Dio, perché non trovando nulla da condannare nel fratello,
all’infuori della felicità di cui quello gode, non condanna la colpa di un uomo,
ma condanna e bestemmia i giudizi stessi di Dio. L’invidia dunque è quella
«radice d’amarezza» che spunta fuori a produrre infezione (Eb 12,15); essa si
leva verso l’alto per offendere il Creatore stesso, dal quale derivano all’uomo
tutti i beni.
Del resto non conviene impressionarsi che Dio minacci di
mandare i basilischi a mordere gli empi che l’offendono. Sappiamo bene che Dio
non è l’autore dell’invidia; ma siccome i doni della grazia sono concessi agli
umili e rifiutati ai superbi, è cosa degna dei divini giudizi che l’invidia
sembri un castigo mandato da Dio per colpire e consumare coloro che, secondo
l’apostolo Paolo «abbandonò a perversi pensieri» (Rm 1,28). E dice ancora la
Scrittura: «Essi mi hanno reso geloso contro uno che non è Dio, mi hanno
irritato coi loro idoli vani; io susciterò la loro gelosia verso uno che non è
popolo, li irriterò con gente insensata» (Dt 32,21).
★
Con questi ragionamenti l’abate Piamo infiammò ancor più il
nostro desiderio di lasciare la scuola rudimentale della vita cenobitica per
tendere al grado superiore della vita anacoretica. Alla sua scuola imparammo i
primi elementi della pratica eremitica, nella quale diventammo poi molto
versati, al tempo della nostra dimora nel deserto di Scito.
[1]
Cassiano riprende la tesi, cara a tanti altri autori contemporanei e
anteriori a lui, secondo la quale la vita cenobitica sarebbe nata
all’età apostolica. (Cfr. Socrate:
Historia Ecclesiastica. P. G. 67, 512). In realtà il monachesimo
nasce soltanto agli inizi del IV secolo, con Antonio e Pacomio.
[2]
Cassiano pensa - con s. Ireneo, Tertulliano ed altri - che il diacono
Nicolao sia l’inventore dell’eresia detta dei
Nicolaiti. La derivazione non
è sicura. Eusebio, nella Storia
Ecclesiastica, dice che i Nicolaiti usurparono il nome del diacono
per camuffare i loro errori.
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19 aprile 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net