LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
19.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL'ABATE GIOVANNI
SUL FINE DELLA VITA CENOBITICA ED EREMITICA
Estratto da “Giovanni Cassiano – 
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei capitoli
I. Il monastero dell’abate 
Paolo. Esempio di pazienza.
II. Umiltà dell’abate Giovanni e 
nostra domanda.
III. L’abate Giovanni spiega 
perché ha lasciato il deserto.
IV. Le virtù praticate 
dall’abate Giovanni durante la vita anacoretica.
V. Utilità della solitudine.
VI. Utilità della vita 
cenobitica.
VII. Domande sui frutti prodotti 
dalla vita comune e da quella solitaria.
VIII. Risposta alle domande.
IX. Della perfezione vera e 
completa.
X. Di coloro che vanno nel deserto prima di essere giunti alla perfezione.
XI. Domanda: quali rimedi si 
devono applicare a coloro che hanno lasciato troppo presto i monasteri dei 
cenobiti.
XII. Risposta sul modo in cui il 
solitario può conoscere i suoi vizi.
XIII. Domanda: come potrà 
guarire colui che è entrato 
nella vita eremitica prima di 
essersi purificato dai vizi.
XIV. Risposta sul tema proposto.
XV. Domanda: se la castità debba essere messa alla prova 
al pari delle altre virtù.
XVI. Risposta: da quali segni si può riconoscere la 
castità.
I.
Il monastero dell’abate Paolo. Esempio di pazienza.
Dopo 
pochissimi giorni, divorati dal desiderio di imparare, tornammo con grande 
alacrità al monastero dell’abate Paolo.
Quel 
monastero accoglieva di solito più di duecento monaci, ma allora — per una 
solennità che vi si celebrava — ne aveva richiamati moltissimi anche da altri 
monasteri.
La 
solennità a cui ho fatto cenno era l’anniversario della sepoltura dell’ultimo 
abate che aveva retto quel monastero.
Ho 
voluto far menzione di questa circostanza perché vorrei raccontare l’esempio di 
pazienza dato da un fratello in presenza di tutti quei monaci.
Lo so 
che questo episodio è fuori del mio tema. Io ho promesso di riferire gli 
insegnamenti dell’abate Giovanni, il quale aveva abbandonato la sua cella 
d’eremita per andare a vivere in quel monastero, sotto la disciplina cenobitica.
Penso 
tuttavia di non fare cosa fuori proposito se molto brevemente riferisco un fatto 
capace di edificare grandemente chiunque possiede un amore sincero della virtù. 
Ecco il fatto.
La 
turba dei monaci si era assisa per terra in gruppi di dodici, dentro un atrio 
immenso e senza tetto. I presenti stavano consumando il loro pasto, ma uno dei 
fratelli incaricati di servire i commensali arrivò con ritardo a portare il 
piatto. L’abate Paolo, che andava tra la schiera degli inservienti ad osservare 
e ad aiutare, allungò la mano e, alla presenza di tutti, lasciò andare al nostro 
monaco uno schiaffo così sonoro che ne sentirono il suono anche quelli che 
voltavano le spalle, o stavano molto distanti.
Nonostante ciò, quel giovane monaco, degno davvero di essere ricordato, accettò 
la prova con tanta dolcezza che nessuna parola gli uscì di bocca, né gli si 
mossero le labbra ad un lamento, sia pure impercettibile. Anzi, il suo aspetto 
modesto e sereno, il colore del volto, non subirono alcun mutamento.
Il 
fatto fu motivo di meraviglia a tutti, non solo per noi, che eravamo appena 
arrivati dal nostro monastero di Siria e non avevamo ancora imparato a 
conoscere, attraverso esempi così luminosi, la qualità di questa pazienza. Si 
meravigliarono molto anche coloro che erano abituati a simili esempi: perfino i 
monaci più provetti trovarono qualche cosa da imparare. Passi che la pazienza 
del monaco non si fosse lasciata turbare dalla correzione dell’abate, ma quel 
che veramente stupisce è che la vista di tutta quella moltitudine non 
imporporasse di vergogna le guance del poveretto.
II. - 
Umiltà dell’abate Giovanni e nostra domanda
Torniamo al nostro tema. In quel cenobio trovammo un vecchio, carico d’anni, che 
si chiamava Giovanni e si sollevava al disopra di tutti per la sapienza delle 
parole e per gli esempi di umiltà. Non è possibile tacere di lui.
Egli 
eccelleva nell’umiltà, che è la madre di tutte le virtù e il fondamento di tutto 
l’edificio spirituale. Questa virtù, ahimè, è come esiliata dai nostri 
monasteri, e ciò spiega perché non riusciamo a sollevarci alle altezze di 
perfezione cui giungevano quei santi uomini.
Non 
dirò che noi — a differenza dell’abate Giovanni — siamo incapaci di rimanere per 
tutta la vita nella disciplina cenobitica; ma quando abbiamo portato per un paio 
d’anni il giogo di quella disciplina, subito prendiamo il via per correre verso 
una libertà presuntuosa e pericolosa. E fosse poi vero che nel breve intervallo 
della nostra esperienza cenobitica, ci sottomettiamo ad una vera obbedienza e 
non riprendiamo la nostra libertà sotto uno o altro pretesto!
Quando noi vedemmo quel santo vecchio, là nel monastero dell’abate Paolo, prima 
di tutto ammirammo l’età e la grazia che lo circondava, poi, inchinandoci fino a 
terra, lo supplicammo di volerci spiegare le ragioni per le quali aveva 
rinunciato al deserto, alla libertà, alla professione 
sublime 
in cui si era tanto distinto, a 
una fama universale, per tornare al giogo della vita cenobitica.
Egli 
rispose che la pratica eremitica era troppo alta per lui e che si sentiva 
indegno di una perfezione così elevata. Per questo era ritornato alla scuola in 
cui si formano i novizi, e si sentiva molto felice di poterne seguire le 
pratiche in modo confacente all’eccellenza di questo genere di vita. L’umiltà di 
questa risposta ci chiamò sulle labbra molte obiezioni. Allora il vecchio monaco 
prese a dire così.
III. L'abate Giovanni spiega 
perché ha lasciato il deserto.
Quella vita eremitica che io con vostra grande meraviglia ho lasciato, non la 
respingo, né la condanno; anzi la rispetto e la stimo molto.
Dopo 
aver passato trent'anni in un certo cenobio, io sono stato vent’anni eremita e 
mi rallegro di non essere mai stato accusato di poco impegno da coloro che in 
quella forma di vita erano maestri. Tuttavia, dopo aver goduto le gioie 
dell’eremo, a poco a poco le sentii diminuire soprattutto per il sopraggiungere 
delle necessità corporali che mi distraevano. Allora mi sembrò conveniente 
ritornare ad un monastero di cenobiti, per raggiungervi meglio il fine del mio 
proposito e per evitare il pericolo che presenta all’umiltà una professione 
troppo sublime. Preferisco il fervore in una forma di vita più bassa, alla 
tiepidezza in una forma di vita più sublime. Perciò, se mi ascolterete dire 
qualche parola un po' troppo forte, o addirittura troppo libera, non vogliate 
pensare che provenga dal vizio della superbia, ma dal desiderio di farvi del 
bene. Se infatti mi tengo in dovere di nulla nascondere a uomini come voi, che 
sinceramente cercano la verità, è segno che non sono mosso da orgoglio ma da 
carità.
Io 
credo che potrò in qualche modo istruirvi se metterò un po' da parte l’umiltà e 
vi manifesterò semplicemente e sinceramente quello che fu il mio proposito. E 
confido che la mia sincerità non mi farà credere ammalato di vanità, mentre per 
altro lato, eviterò, di fronte alla mia coscienza, il rimprovero di aver 
mentito, o almeno di aver manipolato la verità.
IV.
- 
Le virtù praticate dall’abate Giovanni durante la vita 
anacoretica
Se ci 
fu mai un monaco che si rallegrò nel segreto della solitudine e dimenticò 
completamente i rapporti col mondo, fino a poter dire col profeta Geremia: «ho 
desiderato il giorno dell’uomo» (Ger 17,16), quel monaco sono io. Sperai anche 
che il Signore mi facesse la grazia di rimanere sempre in questa disposizione. 
Mi ricordo di essere stato, per un dono della divina misericordia, rapito in 
estasi così sublimi da dimenticare completamente il peso di questo fragile 
corpo. La mia anima si liberava improvvisamente dal corpo e se ne andava così 
lontano dal mondo materiale che né gli occhi né le orecchie compivano più i loro 
normali uffici.
Lo 
spirito era talmente ripieno di pensieri divini e di contemplazioni celesti, che 
spesso non ricordavo, giunto a sera, se in quel giorno avevo toccato cibo, e il 
giorno seguente non sapevo decidere se il giorno prima avessi o no rotto il 
digiuno. Per questo motivo si suol mettere al sabato, in un 
prochirio, che è una piccola sporta a mano, il cibo dell’intera 
settimana, cioè quattordici pagnotte. In tal modo, se l’eremita si è dimenticato 
di mangiare può accorgersene guardando la quantità della provvista.
Ma 
questo uso ha un altro scopo, quello di far da calendario. Quando il pane è 
finito è segno che la settimana è trascorsa ed è giunta la domenica. Così 
l’eremita è avvertito di recarsi all’assemblea dei fratelli per celebrare la 
divina liturgia. Se poi l’intensità dell’estasi rende vano questo metodo di 
calcolo, il lavoro quotidiano offre un altro mezzo per contare i giorni ed 
evitare ogni errore.
Passerò sotto silenzio gli altri pregi della vita eremitica, dato che il nostro 
scopo non è quello di considerare gl’innumerevoli pregi del deserto, ma quello 
di conoscere il fine del cenobio e della solitudine. Vi spiegherò tuttavia le 
ragioni per cui lasciai l’eremo (voi infatti mi avete interrogato al riguardo) e 
dirò pure in poche parole quali più alti meriti io abbia preferito a quei frutti 
del deserto, di cui ho parlato prima.
V. 
- 
Utilità della solitudine
Finché il piccolo stuolo di coloro che abitavano nel deserto ci lasciò liberi di 
vagare per immense solitudini; finché, immersi in vasto segreto, ci fu facile 
essere spesso rapiti in estasi; finché la frequenza delle visite non venne ad 
apportarci preoccupazioni e noie senza numero, con l’obbligo di soddisfare ai 
doveri dell’ospitalità, io abbracciai con tutto l’ardore dell’anima i segreti 
della tranquilla solitudine, che è vita somigliante alla beatitudine degli 
angeli. Ma venne un tempo nel quale — come ho detto — molti monaci si 
trasferirono nel deserto e le solitudini, che prima erano tanto vaste, 
diventarono all’improvviso strette. Per questo motivo, non solo si illanguidì il 
fuoco della divina contemplazione, ma le preoccupazioni della vita presente ci 
legarono con molteplici lacci. Fu così che io preferii seguire nel miglior modo 
possibile la vita cenobitica, invece che snervarmi in quella professione 
sublime, sotto gli assalti continui delle necessità della carne. È vero che così 
facendo non avrei più goduto la libertà e le estasi di un tempo, ma avrei avuto 
la consolazione di adempiere quel comando del Signore che dice di non darsi 
premura per il domani. La perdita di una contemplazione tanto elevata avrebbe 
avuto il suo compenso nell’umiltà dell’obbedienza. A me pare una cosa 
inammissibile fare professione di un’arte o di una disciplina senza rendersi 
perfetti in essa.
VI. 
- 
Utilità della vita cenobitica
Ora 
vi dirò brevemente quanti vantaggi io trovi nella vita cenobitica. Voi stessi, a 
narrazione finita, giudicherete se le bellezze della vita cenobitica valgano a 
compensare le meraviglie già dette, a proposito della solitudine. Dalle mie 
parole potrete anche intendere se è stato il disgusto o il disprezzo della 
solitudine a persuadermi di chiudermi nell’angustia di questo cenobio.
Qui 
nella vita cenobitica, non c’è alcun bisogno di misurare il lavoro quotidiano, 
non ci son le noie del vendere e del comprare, non c’è il pensiero di procurarsi 
il pane per tutto l’anno, non esiste l’ansia delle cose temporali, per 
provvedere alle necessità proprie e a quelle dei visitatori che possono 
arrivare; finalmente qui non c’è alcuna ricerca di quella gloria umana che 
davanti a Dio è più sconveniente di tutto il resto, e talvolta rende vane tutte 
le grandi fatiche che si sopportano nel deserto.
Ma 
lasciamo da parte le tempeste di superbia e i pericoli di vana gloria che tanta 
parte hanno nella vita eremitica: torniamo al peso comune a tutti, che è quello 
di provvedere il vitto quotidiano. In questo campo, non dirò che sono stati 
varcati i confini dell’antica disciplina, alla quale era ignoto l’uso dell’olio, 
ma non si è più contenti neppur della misura introdotta in tempi di recente 
rilassamento. Fin qui un orciolo d’olio e uno staio di lenticchie bastavano un 
anno intero per far onore agli ospiti; ora si è passati ad una misura doppia e 
tripla, e molti si lamentano perché trovano che la misura è scarsa. Alcuni poi 
sono andati molto al di là di questa funesta delicatezza. Ora non si 
accontentano più di quella goccia d’olio che i nostri antichi (tanto superiori a 
noi nel rigore dell’astinenza) mescolavano con l’aceto nella salsa, allo scopo 
unico di evitare la vanagloria. Ecco che per soddisfare la gola, ora si spezza 
in due parti la forma di cacio egiziano e ci si versa olio più del necessario. 
Così, due cibi, fra loro diversi e che potrebbero in due tempi soddisfare 
delicatamente la ghiottoneria del monaco, si uniscono in una volta a soddisfare 
la gola.
Questa 
yliké ktésis, cioè questa caccia alle cose temporali, è cresciuta a tal 
segno che gli eremiti (lo dico arrossendo di vergogna) con la scusa 
dell’ospitalità e dell’accoglienza da fare ai visitatori, hanno incominciato a 
possedere nelle loro celle un abito di ricambio. Passerò sotto silenzio molte 
altre cose che son particolarmente nocive ad un’anima tutta attenta e intenta 
alla contemplazione spirituale: visite frequenti da parte dei confratelli, i 
doveri di accoglienza e di compagnia, la restituzione delle visite, il 
cicaleccio delle conversazioni, e il disbrigo di affari che, anche quando sono 
giunti a termine, continuano a distrarre l’anima con le preoccupazioni che vi 
lasciano. Avviene così che la libertà del deserto viene come imprigionata da 
queste catene. Il cuore non si innalza mai a quella gioia che abbiamo descritta, 
e non arriva più a godere il frutto della professione eremitica. Se quel frutto 
ora non è più concesso a me, che vivo in una comunità cenobitica, in mezzo ad 
una folla di confratelli, non mi mancano tuttavia la pace del cuore e la 
tranquillità di un’anima libera da qualsivoglia preoccupazione. Quelli che ora 
godo sono doni così preziosi che devono possederli anche coloro che vivono nel 
deserto; se non li avessero, praticherebbero la vita eremitica e tutti i suoi 
rigori, senza ricavarne alcun frutto. La solitudine giova solo quando sia 
accompagnata da una quiete imperturbabile dello spirito. Infine dirò che, 
sebbene nella vita del cenobio mi sia tolto qualcosa della purezza di cuore 
goduta nel deserto, trovo un compenso soddisfacente nella pratica dell’abbandono 
in Dio, che è grande comando del Vangelo. Tutti i vantaggi della solitudine non 
superano certamente quello di non aver preoccupazioni per il domani, e l’altro 
di potersi sottomettere continuamente alla guida di un abate, per imitare in 
qualche modo Colui del quale è scritto: «Si è umiliato e si è fatto obbediente 
fino alla morte» (Fil 2,8). Posso inoltre ripetere, nella mia umiltà, le parole 
stesse del Signore: «Non son venuto a fare la mia volontà, ma quella del Padre 
che mi ha mandato» (Gv 6,38).
VII. 
- 
Domande sui frutti prodotti dalla vita comune e da quella solitaria
Germano. È chiaro che tu, venerabile Giovanni, non hai soltanto 
sperimentato gli inizi di queste due forme di vita monastica, (cosa che fanno 
molti) ma hai raggiunto le vette, percorrendo ambedue le vie. Vorremmo ora che 
tu ci spiegassi qual è il fine del cenobita, quale quello dell’eremita. Nessuno 
certo è più indicato, per trattare in maniera chiara e completa questo tema, di 
colui che una lunga pratica e gli insegnamenti dell’esperienza hanno reso 
perfetto nell’una e nell’altra professione. Costui può insegnare con dottrina 
vera e sincera il merito e il fine delle due forme di vita.
VIII. 
- 
Risposta alle domande
Giovanni. Sarei tentato di affermare che una stessa persona non può 
essere perfetta nell’una e nell’altra professione, se non ci fossero alcuni 
esempi — anche se molto rari — ad impedirmelo. È già cosa meravigliosa trovare 
uno che sia perfetto nell’una o nell’altra forma di vita; quanto più sarà 
difficile — se non proprio impossibile — trovare chi sia eccellente nelle due 
forme allo stesso tempo! Quando poi il fatto si avvera, non se ne può subito 
trarre una regola generale. Una qualsiasi regola generale non si fonda 
sull’osservazione di pochi casi, né sull’esame di alcuni fatti; si fonda invece 
su ciò che è possibile a molti, o, meglio ancora, a tutti. Se certi risultati 
sono ottenuti molto raramente e da pochissimi, se superano le possibilità comuni 
e sembrano concessi come doni superiori alla natura e alla fragilità umana, 
questi risultati non possono essere imposti come comandi generali: vanno citati 
più come miracolo che come esempio. Per questo io risponderò brevemente, e 
secondo la mia debole capacità, alla domanda che mi avete rivolto.
Il 
fine della vita cenobitica è quello di mortificare e crocifiggere la propria 
volontà; ciò senza preoccuparsi minimamente del domani, secondo il comando 
salutare della perfezione evangelica. Una tale perfezione non può essere 
raggiunta da alcuno che non sia un cenobita.
Di 
questo monaco il profeta Isaia tesse il seguente elogio: «Se ti asterrai dal 
profanare il sabato e dal trattare i tuoi interessi in quel giorno santo, se 
chiamerai tua delizia il sabato, e venerabili le cose del Signore; se tu lo 
santificherai senza seguire le tue vie, i tuoi affari preferiti e i tuoi 
interessi, allora potrai riporre le tue delizie nel Signore e io ti condurrò 
trionfante fin sulle vette del paese, ti farò godere dell’eredità di tuo padre 
Giacobbe. Così ha parlato la bocca del Signore» (Is 58, 13-14).
La 
perfezione dell’eremita, invece, consiste nell’avere l’anima sgombra da tutte le 
cose terresti e nell’unirsi a Cristo nella più alta misura concessa all’umana 
debolezza. Dell’eremita così parla il profeta Geremia: «È bene per l’uomo che 
porti il suo giogo fin dalla giovinezza, se ne stia solitario, in silenzio, 
quando il Signore lo porrà su di lui» (Lam 3, 27-28). E il salmista aggiunge: 
«Somiglio a un pellicano del deserto, son pari a un gufo in mezzo alle macerie. 
Io veglio insonne, divenuto eguale a un passero solitario sopra il tetto» (Sal 
102 (101), 7-8).
Se 
cenobita ed eremita non giungono al fine della loro professione, secondo i 
caratteri da noi descritti, invano hanno rispettivamente abbracciato la 
disciplina cenobitica e la vita solitaria. Né l’uno né l’altro adempierà in 
pieno la bellezza della sua vocazione.
IX. - 
Della 
perfezione vera e completa
Ma 
quella descritta finora è una perfezione 
meriké, cioè non intera e non consumata: è una parte della perfezione.
È 
dunque vero che la perfezione totale è rara e son pochissimi quelli ai quali, 
Dio la concede per suo dono gratuito. È veramente e integralmente perfetto colui 
che sa sopportare con eguale magnanimità l’orrore della solitudine nel deserto e 
le debolezze dei confratelli in un monastero. Ma quanto è difficile trovare uno 
che sia perfettamente consumato nell’una e nell’altra professione! L’eremita, di 
solito, non raggiunge la perfetta 
actemosìne, cioè il completo disprezzo, il vero spogliamento delle 
cose materiali; il cenobita non raggiunge la purezza della contemplazione. Io so 
però che gli abati Mosè, Pafnuzio e i due Macari (d'Egitto e 
d'Alessandria), hanno avuto in grado perfetto l’una e l’altra virtù. Essi erano 
perfetti nelle due professioni. Più di tutti gli altri abitanti del deserto 
stavano ritirati, e si pascevano insaziabilmente del segreto della solitudine; 
per quanto dipendeva da loro non cercavano mai contatti col resto degli uomini. 
Ma nello stesso tempo sopportavano mirabilmente la presenza e la debolezza di 
coloro che li andavano a cercare da ogni parte, fosse per una semplice visita, 
fosse per essere aiutati a progredire spiritualmente. Sopportavano il continuo 
incomodo di queste innumerevoli visite con pazienza inalterabile, cosicché si 
sarebbe detto che in tutta la loro vita non avevano imparato o esercitato altro 
ufficio all’infuori di quello di accogliere ospiti e fare ad essi gli onori 
consueti. A tutti era difficile stabilire in quale professione rifulgesse meglio 
il loro zelo, o se la loro grandezza d’animo si adattasse di più con la purità 
eremitica o con la vita cenobitica.
X. - 
Di 
coloro che vanno nel deserto prima d’esser giunti alla perfezione
Alcuni, dopo esser vissuti a lungo nel silenzio della solitudine, diventano 
talmente selvatici che hanno in orrore il consorzio umano. Quando, per la visita 
di qualche confratello, sono staccati momentaneamente al loro abituale silenzio, 
ne mostrano una contrarietà evidente e danno prova sicura di pusillanimità. E 
questo effetto capita soprattutto in coloro che passarono troppo presto alla 
vita eremitica, senza essersi prima ben formati nei monasteri dei cenobiti, e 
senza essersi liberati dai loro antichi vizi. Costoro rimangono imperfetti 
nell’uno e nell’altro stato: sempre fragili, sempre pronti a cadere là dove li 
spinge il soffio della commozione. Quando sono nel cenobio, la compagnia e la 
conversazione dei confratelli li fanno ribollire di impazienza; nella 
solitudine, invece, non sanno sopportare l’immensità del silenzio che prima 
desideravano. C’è di più: essi non sanno neppure per quale scopo la solitudine 
dev’essere desiderata e cercata. Credono che la virtù eremitica, il colmo di 
questa professione, consista unicamente nell’evitare la compagnia dei 
confratelli, nel detestare la vista degli uomini.
XI. - 
Domanda: quali rimedi si devono applicare a coloro che hanno lasciato troppo 
presto i monasteri dei cenobiti
Germano. Quale rimedio potresti consigliare a noi (e ad altri 
deboli e sventurati come noi) che abbiamo preso la via del deserto con una 
formazione cenobitica insufficiente, prima d’aver estirpato tutti i nostri vizi? 
Come potremo imparare la costanza imperturbabile della mente, la fermezza 
immobile della pazienza; noi che abbiamo troppo presto abbandonato i monasteri, 
i quali sono scuole e palestre di tali virtù? Era là — lo comprendiamo — che 
dovevamo incominciare e portare a termine la nostra prima educazione. Ma ora che 
siamo eremiti, in qual modo possiamo raggiungere la perfezione della longanimità 
e della pazienza? Come può fare la coscienza che esplora i movimenti interiori, 
a scoprire se noi possediamo o no queste virtù? Non c’è da temere che, per 
essere separati dal consorzio umano e per non aver mai da sopportare qualche 
molestia da parte degli uomini, finiamo col persuaderci e col credere 
scioccamente di esser arrivati ad una irremovibile tranquillità di spirito?
XII. - 
Risposta sul modo in cui il solitario può conoscere i suoi vizi
Giovanni. A coloro che cercano sinceramente la guarigione, non 
possono mancare i rimedi e le cure del vero Medico delle anime. Soprattutto non 
possono mancare i rimedi a coloro che non disprezzano i loro mali per 
scoraggiamento o negligenza, che non nascondono il pericolo delle loro ferite, 
che non disprezzano superbamente il medicamento della penitenza, ma ricorrono 
con cuore umile e vigilante al Medico divino, per curare i mali che hanno 
contratto per ignoranza, per errore, o per necessità. Dobbiamo tuttavia ben 
ricordare che se ci ritiriamo nel nostro deserto, o in altri luoghi segreti, 
prima d’avere estirpato i nostri vizi, riusciremo ad impedire gli effetti dei 
vizi stessi, ma non avremo estinto la passione da cui nascono. La radice dei 
peccati rimane nascosta dentro di noi, anzi va crescendo continuamente, finché 
non l’avremo completamente estirpata. E questi sono i segni da cui si potrà 
giudicare che quella radice non è morta. Ecco qualche esempio. Noi stiamo nel 
deserto e viene un fratello che si trattiene un poco. Se non siamo capaci di 
sopportarlo senza un certo nervosismo, è segno che c’è ancora in noi un focolaio 
assai pericoloso d’impazienza.
Se 
invece attendiamo la visita di un confratello, e quello per un motivo qualunque 
ritarda, supposto che uno sdegno represso ci fomenti nel cuore, che tra noi 
condanniamo quel ritardo, che l’anima nostra si turbi per l’attesa non gradita: 
un attento esame di coscienza dovrà convincerci che le radici dell’ira e della 
tristezza rimangono ancora in noi. Un altro caso: un fratello ci chiede un libro 
per leggerlo, o qualche altra cosa per adoperarla; supposto che la sua domanda 
ci rattristi, o che neghiamo quanto ci è domandato, non c’è alcun dubbio che 
siamo legati dai lacci dell’avarizia. E ancora: un pensiero che ci sorge 
improvviso durante la lettura sacra porta alla memoria l’immagine di una donna; 
se noi proviamo qualche turbamento carnale, è segno che il fuoco della lussuria 
non è ancora spento nelle nostre carni. Se confrontiamo la nostra austerità con 
la vita facile degli altri, e un moto appena percettibile di compiacenza ci 
sorge nel cuore, è segno certo che siamo infetti dalla peste nefasta della 
superbia.
Quando scopriamo nei nostri cuori i segni di questi vizi, dobbiamo ammettere che 
siamo immuni 
dall’effetto del peccato, non già 
dall’affetto al peccato. E queste passioni, se ci mescoliamo un poco 
alla vita degli altri uomini, improvvisamente erompono dalla caverna del nostro 
cuore. Ecco la prova che esse non nascono nel momento in cui erompono dal nostro 
cuore; no: esse si manifestano in quel momento, ma dopo essere rimaste 
lungamente allo stato latente. In tal modo ogni eremita può scoprire, per segni 
sicuri, se la radice di questo o di quel vizio esiste in fondo al suo cuore. 
Basta che egli non ostenti la sua purezza, davanti agli uomini, ma si studi di 
presentarla inviolata agli occhi di Colui che vede anche i segreti più riposti 
del cuore.
XIII. - 
Domanda: Come potrà guarire colui che è entrato nella vita eremitica prima di 
essersi purificato dai vizi.
Germano. I segni dai quali si possono indovinare le nostre 
infermità; i metodi per discernere le nostre malattie, in parole più chiare: i 
modi per scoprire i vizi nascosti nel nostro intimo, li conosciamo chiaramente e 
facilmente. L’esperienza quotidiana, i moti che sorgono ad ogni istante 
nell’anima nostra, ci fanno concludere che le cose stanno proprio come tu dici. 
Ora rimane, venerabile Giovanni, che dopo averci scoperto in modo così chiaro la 
causa dei nostri mali e il mezzo per riconoscerli, tu ci mostri anche il rimedio 
per guarirli. Nessuno dubita che il più indicato a parlare del rimedio dei mali 
è colui che prima ha scoperto le loro cause e le loro fonti, e le ha scoperte in 
modo così chiaro da convincere della sua diagnosi gli stessi ammalati.
Il 
fatto che la tua beatitudine abbia scoperto le nostre più segrete magagne, ci 
lascia sperare che tu vorrai darci anche l’indicazione dei rimedi. Una diagnosi 
così chiara del male, fa sperare il suggerimento di un efficace rimedio. 
Tuttavia, siccome l’opera della nostra salute incomincia nella vita comune del 
cenobio — come hai detto prima — e le anime restano sane nel deserto, solo se la 
disciplina cenobitica le ha precedentemente sanate, noi siamo mortalmente feriti 
da un pensiero. Potremo noi, che siamo usciti dal cenobio ancora imperfetti, 
raggiungere la perfezione nel deserto?
XIV. - 
Risposta sul tema proposto
Giovanni. A chi desidera guarire dai suoi mali i rimedi non 
potranno mai mancare. Ecco: con lo stesso metodo col quale si scoprono i segni 
del vizio, si scoprono anche i rimedi da apportare.
Abbiamo detto che gli eremiti non sono immuni dai vizi che colpiscono la vita 
ordinaria degli uomini; ora dobbiamo dire che anche per coloro che vivono 
segregati dal consorzio umano, non mancano i mezzi per esercitarsi nella virtù e 
per giungere alla sanità dello spirito.
Appena un solitario, per i segni che abbiamo descritto qui sopra, si accorge di 
essere scosso dai fremiti dell’impazienza e dell’ira, prontamente si eserciti 
nei pensieri contrari. S’immagini di essere fatto bersaglio ad ogni genere 
d’ingiurie e di provocazioni, si abitui a sopportare con perfetta umiltà tutto 
ciò che l’umana malizia potrà escogitare contro di lui.
Si 
ponga spesso dinanzi agli occhi le prove più crudeli e insopportabili; poi — 
tutto pervaso da pensieri di profonda contrizione — si metta a meditare quale 
grande dolcezza abbia il dovere di praticare la pazienza in simile circostanza. 
Col pensiero rivolto ai dolori tollerati dai santi e a quelli del Signor nostro 
Gesù Cristo, quel monaco riconoscerà che le offese e i castighi di ogni genere 
sono inferiori a ciò che meriterebbe. In tal modo si preparerà a sopportare 
qualsiasi prova.
Supponiamo che il nostro eremita venga invitato un giorno ad un convegno di 
confratelli, la qual cosa, prima o poi, capita anche agli eremiti più rigorosi. 
Se l’invitato si accorge che il suo spirito si è turbato per questo avvenimento, 
(e si sarebbe evidentemente turbato per cause futili), diventi subito giudice 
severissimo dei suoi movimenti interiori. Si richiami immediatamente alla 
memoria le durissime ingiurie con la meditazione delle quali, nei giorni 
precedenti, si esercitava alla pazienza; condanni se stesso e, parlando a se 
medesimo in tono di rimprovero, dica così: sei tu quel brav’uomo che, mentre si 
esercitava nel deserto, s’illudeva di vincere tutti i mali con la sua costanza? 
Sei tu quel tale che poco fa, mentre andava immaginandosi tutte le più crudeli 
offese e persino i supplizi più atroci, si riteneva così forte da restare 
immobile tra le più furiose tempeste? Come va che la tua pazienza incrollabile 
ha tremato dalle fondamenta per il suono di una semplice parola? Come ha fatto 
un piccolo soffio di vento a far tremare la tua casa? Eppure tu eri convinto di 
averla costruita sopra una pietra solidissima, e di averla elevata in una mole 
ragguardevole. Dov’è andato quel coraggio che ti faceva desiderare il 
combattimento mentre eri in pace, e ti faceva dire con falsa sicurezza: «Sono 
pronto e non ho paura»? (Sal 119 (118), 60) Tu dicevi pure le parole del 
profeta: «Mettimi a prova, o Dio, fa esperimento su me, scruta al crogiuolo le 
mie reni e il cuore» (Sal 26 (25), 2). Oppure «Scrutami, o Dio, e conosci il mio 
cuore, fa di me prova e sappi quel che io sento. Vedi se io vado per la strada 
del male, guidami tu nella via degli antichi» (Sal 139 (138), 23-24).
Com’è 
che questo immenso schieramento di forze ha tremato davanti all’ombra di un 
nemico?
Mentre condanna se stesso con questi rimproveri improntati al pentimento, il 
solitario non lascia impunito il moto di passione che l’ha sorpreso. Ma c’è di 
più: costui castigherà duramente la sua carne con le veglie e coi digiuni, farà 
penitenza, nell’austerità del digiuno, per la colpa derivata dalla sua 
debolezza. In tal modo, quel che avrebbe dovuto pienamente sradicare nella vita 
cenobitica, lo consumerà nella solitudine: col fuoco di questi esercizi.
Una 
cosa è fuori dubbio: chi vuol giungere ad una pazienza continua e ferma, deve 
tenere questo principio inconcusso: noi, per legge del Signore, non solo non 
abbiamo il diritto di vendicare le offese ricevute, ma non abbiamo neppure il 
diritto di ricordarle. A noi è proibito adirarci, qualunque sia il danno o la 
provocazione che ci coglie. Quale danno ci potrebbe capitare, che superi quello 
di essere privati (per l’accecamento in cui ci precipita l’ira) 
dell’illuminazione della luce vera ed eterna, e della contemplazione di Colui 
che è «dolce ed umile di cuore»? (Mt 11,29).
Vorrei domandarvi: che cosa c’è di più dannoso e di più turpe che vedere un uomo 
perdere il senso della dignità, la regola e la disciplina della discrezione, per 
fare, da sano e mentre è in senno, ciò che neppure in stato di ubriachezza 
potrebbe permettersi?
Se 
uno ben considera questi ed altri danni del genere, non solo sopporterà tutte le 
offese, ma anche le ingiurie e le pene d’ogni sorta, siano pure le più crudeli, 
che potranno venirgli da parte degli uomini. E la ragione è che l’uomo 
riflessivo vedrà come niente è più dannoso dell’ira, niente è più prezioso della 
tranquillità dell’anima e della purità del cuore. Per una tale perla, meritano 
d’essere disprezzati, non solo i beni carnali, ma anche quelli che sembrano 
spirituali: supposto che non si possano acquistare e conservare senza mettere in 
pericolo la tranquillità del cuore.
XV. - 
Domanda: se la castità debba esser messa alla prova al pari delle altre virtù
Germano. Ci hai insegnato fin qui a combattere molte passioni, 
come l’ira, la tristezza, l’impazienza; ci hai anche suggerito i rimedi atti a 
guarire quei vizi. Ma noi vorremmo ora che tu c’istruissi anche sul genere di 
cura da applicare contro lo spirito di fornicazione. Ecco la nostra domanda: il 
fuoco della concupiscenza carnale, si può spegnere usando a modo di rimedio la 
considerazione dei suoi eccessi, come si è fatto per gli altri vizi? Questa 
tattica, a nostro avviso, sarebbe molto contraria alla virtù della castità; non 
solo quando potenziasse in noi gli ardori della libidine, ma anche quando ci 
facesse leggermente fermare su immaginazioni di questo genere.
XVI. - 
Risposta: da quali segni si può riconoscere la castità
Giovanni. La vostra intelligente domanda ha proposto un argomento 
al quale il nostro discorso già tendeva per sua natura: io ne avrei parlato 
anche se voi non me l’aveste chiesto. Ora son certo che voi comprenderete 
perfettamente tutta la questione che tratteremo: me ne assicura il fatto che 
l’acutezza del vostro ingegno ha preceduto la mia proposta. Non si prova fatica 
ad illustrare la oscurità di un problema quando l’interrogante anticipa la 
soluzione, e va spontaneamente verso quel punto al quale dovrebbe essere 
guidato.
Per 
emendare i vizi dei quali abbiamo parlato, la vicinanza degli uomini non è 
affatto nociva; può al contrario offrire dei grandi vantaggi. Nel contatto col 
prossimo si manifesta più spesso il vizio dell’impazienza; ma se aumentano le 
esplosioni di quella passione, aumentano anche gli atti di dolore e di 
penitenza. Così la guarigione del male diventa più sollecita. Questa è la 
ragione per cui noi abitatori del deserto — che non troviamo negli uomini 
occasioni e provocazioni a perder la pazienza — dobbiamo a bella posta 
procurarci degli stimoli irritanti, per affrettare la nostra completa guarigione 
attraverso un combattimento ininterrotto.
Quando però si tratta dello spirito di fornicazione, la tattica da seguire è 
diversa, come diversa è la fonte da cui quella passione scaturisce. Infatti, 
come è opportuno sottrarre al corpo ogni atto libidinoso e ogni vicinanza 
carnale, così è necessario sottrarre all’anima perfino il più piccolo ricordo di 
queste brutture. Sarebbe cosa davvero pericolosa, per anime deboli e malate, 
accettare anche la più piccola idea riguardante questa passione. Il pericolo è 
talmente grave che qualche volta il semplice ricordo di sante donne, o qualche 
passo della sacra Scrittura, possono bastare ad eccitare lo stimolo del piacere 
peccaminoso. Per questo motivo i nostri anziani son soliti sorvolare su certi 
passi del Libro Sacro, quando son presenti dei giovani. Quelli poi che son 
perfetti, e già consumati nell’amore della castità, troveranno prove sufficienti 
per mettersi alla prova ed esaminarsi. Essi potranno in tal modo rendersi conto 
dell’integrità del loro cuore, attraverso la testimonianza incorruttibile della 
coscienza.
Concludiamo dunque che soltanto il solitario giunto ormai alla perfezione — 
soltanto lui — potrà mettersi alla prova riguardo a questo vizio con la stessa 
tattica che si usa per gli altri. Costui, dopo essersi convinto di aver 
estirpato fino in fondo le radici di questo male, potrà concepire nella mente 
qualche immaginazione scabrosa, allo scopo di mettere alla prova la sua castità. 
Ma questa prova non può assolutamente essere tentata da parte di coloro che sono 
ancora deboli. Non debbono costoro pensare a contatti muliebri, a carezze tenere 
e voluttuose: ciò sarebbe più nocivo che utile. Quando un solitario 
perfettamente fondato nella virtù non proverà alcun turbamento dell’anima, alcun 
pericolo di consenso, alcuna ribellione della carne, al pensiero di atti e gesti 
lubrici, avrà la prova certa della sua purezza. Esercitandosi allora in questa 
solida castità, non soltanto possederà il tesoro della purezza e della 
incorruttibilità nell’intimo dell’anima sua, ma, se la necessità stessa lo 
obbligherà ad avere contatto con qualche donna, ne proverà orrore.
A 
questo punto l’abate Giovanni, essendosi accorto che era ormai vicina l’ora 
nona, cioè l’ora del pasto, pose fine alla sua conferenza.
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19 aprile 2019   
            a cura di
Alberto
"da Cormano"     
    alberto@ora-et-labora.net
      
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