LE CONFERENZE SPIRITUALI
di GIOVANNI CASSIANO
5.a CONFERENZA
CONFERENZA DELL’ABATE SERAPIONE
GLI OTTO * VIZI CAPITALI
Estratto da “Giovanni Cassiano –
Conferenze spirituali” – Edizioni Paoline
Indice dei Capitoli
I - Arrivo alla cella dell’abate Serapione. Domanda sui diversi generi di vizi e sugli assalti che ci muovono;
II - Discorso dell’abate Serapione sugli otto vizi capitali;
III - Due sono i vizi e quattro i modi in cui esercitano il loro potere;
IV - I vizi della gola e della lussuria: modo di curarli;
V - Come soltanto nostro Signore fu tentato senza peccato;
VI - Natura della tentazione con la quale il Signore fu assalito dal demonio;
VII - La vanagloria e l’orgoglio operano senza il concorso del corpo;
VIII - L’amore del denaro non è secondo natura: differenza tra questo vizio e quelli naturali;
IX -L’ira e la tristezza non si trovano, generalmente, tra i vizi provocati dall’esterno;
X - Connessione tra i primi vizi e parentela degli ultimi due coi primi;
XI - Origine e natura di ogni singolo vizio;
XII -In che cosa consista l’utilità della vanagloria;
XIII - Guerra di varia natura che ci muovono i vizi;
XIV - Il combattimento contro i vizi deve proporzionarsi al loro assalto;
XV - Senza l’aiuto di Dio, niente potremo contro i vizi: nelle vittorie ottenute su di essi non dobbiamo esaltarci;
XVI - Senso mistico delle sette nazioni sulle quali il popolo ebreo, entrato nella terra promessa, riportò vittoria. Perché talvolta si dice che quelle nazioni erano sette, altra volta si dice che erano molte?;
XVII - Domanda sulle somiglianze tra le sette nazioni e gli otto vizi;
XVIII - Risposta: agli otto vizi corrispondono otto nazioni;
XIX - Perché Dio domanda di risparmiare una nazione e di annientare le altre sette;
XX - Il vizio della gola paragonato all’aquila;
XXI - La resistenza della gola: disputa tra filosofi;
XXII -Perché Dio profetizzò ad Abramo che il popolo d’Israele avrebbe vinto dieci nazioni;
XXIII - È utile per noi entrare in possesso di quella zona del nostro essere che era dominata dai vizi;
XXIV - Le terre dalle quali furono espulsi i Cananei furono assegnate ai discendenti di Sem;
XXV - Diversi testi riguardanti gli otto vizi capitali;
XXVI -Dopo la vittoria sul vizio della gola, occorre applicare tutte le forze all’acquisto delle altre virtù;
XXVII - L’ordine da seguire, nel combattere i vizi, non è lo stesso che si trova nella lista dei vizi stessi.
I - Arrivo alla cella dell’abate Serapione. Domanda sui diversi generi di vizi e sugli assalti che ci muovono
Nella schiera dei santi vegliardi vi fu un uomo di nome Serapione che si distinse fra tutti per la virtù della discrezione. Io stimo opportuno riferire per iscritto la sua conferenza.
Pregandolo noi di dire qualcosa sugli assalti che ci muovono i vizi — affinché potessimo meglio conoscere le loro origini e le loro cause — il santo abate incominciò così.
II - Discorso dell’abate Serapione sugli otto vizi capitali
Otto sono i vizi che fanno al genere umano la guerra più spietata: il primo è la gastrimargia o golosità; il secondo è la lussuria; il terzo si chiama avarizia o amor del denaro; il quarto ira; il quinto tristezza; il sesto accidia, che significa inquietudine e disgusto del cuore; il settimo è la cenodoscia, che vuol dire vanagloria; l’ottavo è l’orgoglio 1).
III - Due sono i gruppi dei vizi e quattro i modi in cui esercitano il loro potere
Questi vizi si dividono in due raggruppamenti: alcuni sono naturali, come la gola; altri sono innaturali, come l’avarizia. Il loro modo di operare può prendere quattro aspetti diversi. Alcuni non possono operare senza il concorso del corpo: come avviene per la gola e la lussuria; altri non chiedono necessariamente il concorso del corpo: questo è il caso dell’orgoglio e della vanagloria. Alcuni vizi traggono i loro stimoli da cause esteriori, come avviene per l’avarizia e per la collera; altri nascono da impulsi interiori, come si riscontra nell’accidia e nella tristezza.
IV - I vizi della gola e della lussuria: modo di curarli
Quanto sono andato dicendo fin qui, vorrei ora sottolinearlo e chiarirlo brevemente con l’aiuto della sacra Scrittura. La gola e la lussuria, per il fatto che son vizi naturali ed innati, si svegliano spesso senza alcun incitamento, basta a muoverli il semplice prurito della carne; tuttavia non arrivano a produrre il loro effetto senza un’azione del corpo e senza un oggetto esteriore. « Ognuno è tentato dalla sua concupiscenza. Essa, quando ha concepito, partorisce il peccato; il peccato poi, quando sia stato consumato, genera morte » (Gc 1,14-15). Il primo Adamo non sarebbe stato vinto dalla gola se non avesse abusato illecitamente e contro il comando divino, del frutto che gli stava davanti agli occhi. E neppure il secondo Adamo potè sperimentare la tentazione senza la presenza di un oggetto capace di sedurlo: « Se tu sei il figlio di Dio — gli fu detto — comanda che queste pietre diventino pane » (Mt 4,3). Per quanto riguarda la lussuria è pacifico per tutti che essa non effettua le sue opere senza l’aiuto del corpo. Ecco come il Signore parla dello spirito di fornicazione al beato Giobbe: « La sua forza risiede nei lombi e la sua potenza risiede all’interno del ventre » (Gb 40,11 LXX).
Questi due vizi, proprio perché non si posson consumare senza l’aiuto della carne, esigono - oltre ai rimedi spirituali - anche la pratica della penitenza. Non basta, insomma, per contenere i loro attacchi, la sola applicazione delle potenze spirituali, quella applicazione che ordinariamente è sufficiente a rintuzzare gli assalti dell’ira, della tristezza e di altre passioni, sulle quali la semplice industria dell’anima è capace di ottenere vittoria senza far ricorso alla penitenza corporale. Con la gola e la lussuria è necessaria anche la mortificazione della carne, con veglie, digiuni, fatica: a queste pratiche bisognerà poi aggiungere la fuga delle occasioni. L’anima e il corpo concorrono a produrre il vizio della gola e quello della lussuria, non si potrà perciò riportarne vittoria se l'una e l’altro non concorreranno a tale scopo.
È vero che Paolo apostolo dichiara carnali tutti i vizi (Gal 5,19 ss.), senza eccezione di sorta: egli annovera le inimicizie, le ire, le eresie, tra altri vizi della carne. Ma noi, che desideriamo conoscere più a fondo la natura e la cura dei vari vizi, conserviamo la nostra divisione in vizi carnali e vizi spirituali.
Chiamiamo carnali quei vizi che hanno una speciale relazione al senso della carne: quelli di cui la carne si diletta e si pasce fino al punto che talvolta sveglia le anime quiete e ritrose e le conduce ad acconsentire alle sue sollecitazioni. A questo proposito l’Apostolo dice: « Noi tutti, come i pagani, siamo vissuti un tempo nei vizi e nelle passioni della nostra carne: abbiamo soddisfatto i desideri della carne e delle nostre passioni. Anche noi — al pari degli altri — eravamo per natura figli dell’ira » (Ef 2,3 Vulg).
Chiamiamo invece « vizi spirituali » quelli che, nati sotto l’impulso della sola anima, anziché procurare alla carne anche un minimo di sensazioni piacevoli, la caricano di pesi duri a portarsi, mentre offrono all’anima soltanto un nutrimento di miserande soddisfazioni.
I vizi spirituali vogliono essere curati con rimedi spirituali; gli altri — lo abbiamo già detto — vogliono una doppia cura. Perciò giova moltissimo, a coloro che cercano la purezza del cuore, allontanare da sé, fin dagli inizi della vita spirituale, gli oggetti che potrebbero risvegliare i vizi della carne; e giova altresì allontanarne il ricordo da un’anima ancora ammalata. A doppio male, deve rispondere doppio rimedio. Bisogna innanzi tutto sottrarre alla concupiscenza ogni oggetto che sia capace di stimolarla, affinché la concupiscenza non si precipiti là dove l’oggetto la chiama; bisogna poi portare all’anima l’aiuto di una più attenta meditazione delle sacre Scritture, di una vigilanza delicata, di un ritiro nella solitudine, per impedirle perfino di concepire il pensiero del male. Negli altri vizi invece, la vita di contatto col prossimo non nuoce, anzi giova moltissimo a coloro che desiderano sinceramente emendarsi. Son vizi che nelle relazioni sociali si scoprono meglio e, perché fanno capolino più spesso, possono esser curati con una medicina ad effetto più rapido.
V - Come soltanto nostro Signore fu tentato senza peccato
Nostro Signore Gesù Cristo è stato « tentato in tutte le forme, a somiglianza di noi » (Eb 4,15), ma l’Apostolo subito aggiunge: « Però, senza peccato », vale a dire: senza la macchia del vizio di cui ora parliamo. Egli non assaporò minimamente gli stimoli della concupiscenza carnale, quelli che noi sperimentiamo anche a nostra insaputa e controvoglia. In Gesù infatti non ci fu somiglianza — per quanto riguarda la generazione — con gli altri uomini: l’arcangelo parlò così della sua straordinaria generazione: « Lo Spirito Santo scenderà su di te, la virtù dell’Altissimo ti avvolgerà, perciò il Santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio » (Lc 1,35).
VI - Natura della tentazione con la quale il Signore fu assalito dal demonio
Gesù Cristo, proprio perché possedeva incorruttibilmente l’immagine e la somiglianza di Dio, dove esser tentato da quelle stesse passioni che tentarono Adamo quand’era in possesso saldo della immagine divina: intendo dire le passioni della gola, della vanagloria, della superbia. Ma Gesù non potè esser tentato da quelle passioni in cui Adamo si trovò precipitato e avviluppato dopo che ebbe violato, per sua colpa, l’immagine e la somiglianza divina, con la sua trasgressione al comando di Dio.
Fu un atto di gola, per Adamo, mangiare il frutto dell’albero proibito; la vanagloria si rivela nelle parole « i vostri occhi si apriranno » (Gn 3,5), la superbia è manifesta nelle altre parole :« Voi sarete come Dio: avrete la conoscenza del bene e del male » (Gn 3,5).
In questi tre vizi fu tentato anche il Salvatore. Egli fu tentato di gola quando il diavolo gli disse: « Comanda che queste pietre diventino pane » (Mt 4,3); fu tentato di vanagloria con le parole :« Se tu sei figlio di Dio, gettati giù dal pinnacolo del tempio » (Mt 4,6); finalmente fu tentato di superbia quando il demonio, mostrandogli tutti i regni del mondo e la loro gloria, disse: « Io ti darò tutte queste cose se, prostrandoti ai miei piedi mi adorerai » (Mt 4,9). Gesù volle essere assalito dalle stesse tentazioni che assalirono Adamo per insegnarci col suo esempio come dobbiamo vincere il tentatore. Anche Gesù — al pari del primo uomo — si chiama Adamo. Uno è il primo fra gli uomini per la caduta e la morte, l’altro è il primo per la resurrezione e la vita. Nel primo Adamo tutto il genere umano è stato condannato, nel secondo tutto il genere umano è stato liberato. Il primo è stato formato con una terra nuova e vergine, il secondo è nato dalla vergine Maria.
Se fu necessario che il Salvatore fosse assalito dalle tentazioni di Adamo, fu anche necessario che non ne sperimentasse altre al di là di quelle. Dopo aver vinto la gola, non poteva essere tentato di lussuria, la quale nasce dalla radice della gola, ed è come una sovrabbondanza di quel vizio. Neppure Adamo avrebbe sofferto le tentazioni della lussuria se prima non si fosse lasciato sedurre dalle arti del demonio e non avesse ceduto alla passione della gola, che è madre della lussuria. Per questo nella sacra Scrittura non si dice che Gesù è venuto nella carne del peccato, ma che è venuto « nella somiglianza della carne del peccato » (Rm 8,3). Egli ebbe certamente una vera carne: mangiò, bevve, dormì, fu realmente trafitto dai chiodi, ma per quanto riguarda il peccato che la carne contrasse nella prevaricazione, Egli ne ebbe l’apparenza, non la realtà. Egli non provò gli ardori e gli stimoli della concupiscenza carnale, che noi sperimentiamo anche contro la nostra volontà, per effetto della natura; ma per il fatto che partecipava della natura umana, assunse una certa somiglianza della concupiscenza. Vedendolo veracemente compiere tutti gli atti propri della nostra natura, vedendolo portare il giogo di tutte le umane miserie, si pensò che egli fosse soggetto anche a questa passione: le sue infermità sembraron la prova per dimostrare che Egli fosse soggetto come noi, nella carne, a questa condizione di vizio e di peccato.
Il diavolo tentò il Salvatore soltanto in quei vizi nei quali aveva tentato e vinto il primo Adamo: ciò perché credeva di aver a che fare con un semplice uomo; era quindi sicuro che, quando lo avesse fatto soccombere alle passioni nelle quali cadde il primo Adamo, lo avrebbe poi precipitato anche nelle altre. Ma quando il demonio vide che il Signore era invincibile al vizio della gola — che è la radice della lussuria — non potè sperare di ottenere quei frutti (i peccati di impurità) dei quali era stata rifiutata la radice.
Ben vide il tentatore di non potergli inoculare il primo morbo, perciò non tentò d’inoculargli quello che dal primo deriva.
San Luca pone come ultima tentazione quella introdotta con le parole: « Se tu sei il figlio di Dio gettati giù dal pinnacolo del tempio »: in questo suggerimento si può riconoscere una sollecitazione alla superbia. Per tal modo la seconda tentazione — quella che nel Vangelo di san Matteo è presentata come terza e in cui il diavolo mostra e promette al Signore tutti i regni della terra — dovrà essere intesa come tentazione di avarizia.
Andato a vuoto l’assalto della gola e vistosi nell’impossibilità di tentarlo con la lussuria il demonio sarebbe ricorso all’avarizia, che sapeva essere la radice di tutti i mali. Sconfitto anche questa volta, non osò suggerire alcuno dei vizi che derivano dall’avarizia come da loro sorgente. Così come ultimo tentativo, il maligno fece ricorso alla superbia. Egli sapeva bene che anche i perfetti, dopo aver superato tutti i vizi rimangono esposti ai colpi di questo: non dimenticava che proprio il vizio della superbia aveva precipitato lui, Lucifero, e tanti altri angeli, dalle altezze dei cieli. Eppure essi non avevano provato per l’innanzi alcuno stimolo d’altri vizi.
Stando dunque all’ordine che ci mostra il Vangelo di san Luca è facile scoprire una perfetta corrispondenza fra le tentazioni che l’astutissimo nemico rivolse al primo e al secondo Adamo. Disse il tentatore al primo Adamo: « Si apriranno i vostri occhi », al secondo « mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria ». Al primo disse: « Voi sarete come Dio », al secondo: « Se tu sei Figlio di Dio ».
VII - La vanagloria e l’orgoglio operano senza il concorso del corpo
Fedeli all’ordine che ci siamo proposti, parleremo ora del modo in cui si manifestano gli altri vizi e riprenderemo l’esposizione che abbiam dovuto interrompere per trattare della gola e delle tentazioni del Signore.
La vanagloria e la superbia si consumano di solito senza intervento del corpo: esse infatti non hanno alcun bisogno di un intervento carnale. Bastano la compiacenza e l’appetito di lode che esse esercitano sull’anima, fatta loro schiava, per produrre una rovina di vaste proporzioni. Che forse l’antica superbia di Lucifero ebbe qualche effetto corporale? Non derivò, invece, unicamente dal suo spirito e dal suo pensiero? Il Profeta ne parla in questi termini: « Tu dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al disopra degli astri di Dio innalzerò il mio trono; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all’Altissimo » (Is 14,13-14).
E poiché nessuno lo aveva sollecitato esteriormente alla superbia, così il suo delitto e la sua perpetua rovina si consumano nel solo pensiero, senza che alcun effetto esteriore consegua al sogno ambizioso di una grandezza orgogliosamente agognata.
VIII - L ‘amore del denaro non è secondo natura: differenza fra questo vizio e quelli naturali.
L’avarizia e l’ira non sono della stessa natura. La prima infatti è al difuori della natura; la seconda, invece, sembra avere in noi il suo germe originale. L’avarizia e l’ira — dicevamo — si somigliano quanto al modo della loro origine: intendo dire che a metterle in moto sono per lo più cause esteriori. I più deboli, quando soccombono a questi vizi, si lamentano spesso di essere stati spinti o provocati da altri e si scusano della loro caduta addossandone la responsabilità a questo o a quel provocatore.
Che l’avarizia sia contro natura appare evidente dal fatto che essa non ha in noi il suo principio originale, e l’oggetto al quale si rivolge non ha nulla che possa giovare all’anima o al corpo, o alla nozione fondamentale della vita. Le necessità della nostra natura non chiedono di più che il pane e la bevanda di ogni giorno: questo è fuori di ogni dubbio. Tutte le altre cose, qualunque sia l’ardore e la passione che si mette in possederle, rimangono estranee alle necessità dell’uomo, come testimonia l’esperienza della vita. Quei vizi che sono al di fuori della natura — come l’avarizia — possono assalire soltanto i monaci tiepidi e vacillanti nel loro proposito; i vizi naturali, al contrario, non cessano di tentare neppure i monaci più santi, fino nei più segreti recessi della loro solitudine.
Ciò è tanto vero che noi conosciamo popoli pagani assolutamente liberi dalla passione dell’avarizia: questa è una malattia che non lasciarono entrare nei loro costumi. Io credo anche che il mondo antico, prima del diluvio, non abbia conosciuto affatto il furore dell’avarizia. E tra i monaci quel vizio si estingue completamente senza alcuna fatica in tutti coloro che hanno fatto una perfetta rinuncia e, dopo aver lasciato i loro beni, si son votati così integralmente alla disciplina cenobitica da non ritenersi neppure un soldo. A tal proposito abbiamo migliaia di esempi. Moltissimi monaci, spogliandosi dei loro beni, sradicarono dal cuore questo vizio in modo tale da non sentirne più il minimo attacco. Essi invece dovettero lottare continuamente contro la gola, dalla quale non poterono mettersi al sicuro se non a prezzo di una circospezione e di una astinenza senza tregua.
IX - L’ira e la tristezza non si trovano, generalmente, tra i vizi provocati dall’esterno
La tristezza e l’accidia, contrariamente ai due vizi precedenti, nascono quasi sempre senza alcuna provocazione dall’esterno. Si sa infatti che tormentano violentemente gli stessi solitari che vivono nel fondo dei deserti, lontani da ogni contatto umano. Chiunque abbia dimorato nella solitudine e abbia sperimentato le lotte della vita interiore, sa per esperienza personale che dico il vero.
X - Connessione tra i primi vizi e parentela degli ultimi due con i primi
Per quanto i vizi capitali siano diversi nell’origine e nel modo in cui si manifestano, i primi sei, cioè la gola, la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza e l’accidia, son legati fra loro da una specie di parentela, o — per dirla con altre parole — sono vicendevolmente concatenati; cosicché l’esuberanza del vizio precedente diviene l’origine del seguente. Dalla sovrabbondanza della gola nasce necessariamente la lussuria; dalla lussuria l’avarizia; dall’avarizia l’ira; dall’ira la tristezza; dalla tristezza l’accidia.
Per questo conviene usare contro questi vizi una tattica unica, che consiste nel cominciare dal vizio precedente la lotta contro il vizio seguente.
Se una pianta gigantesca si mostra dannosa, c’è un mezzo per farla seccare: basta mettere le radici al sole e tagliarle. Se c’è un fiume che porta infezione, basterà, a renderlo innocuo, chiudere la sorgente da cui nasce e disperdere gli affluenti che vanno ad arricchirlo. Per vincere l’accidia bisogna trionfare prima sulla tristezza; per liberarsi dalla tristezza, bisogna prima debellare l’ira; per estinguere l’ira bisogna calpestare l’avarizia; per spiantare l’avarizia bisogna reprimere la lussuria; per togliere di mezzo la lussuria bisogna castigare il vizio della gola.
Gli ultimi due vizi: la vanagloria e la superbia sono anch’essi intimamente collegati, come gli altri di cui abbiamo già parlato sopra: l’abbondanza del primo è ancora origine del secondo. Che cosa è infatti la superbia se non una vanagloria che trabocca? Questi ultimi tuttavia si distinguono dai primi sei e non hanno con essi un legame naturale. Non sono cioè i primi sei vizi a dare origine agli ultimi due della serie; al contrario: i due ultimi nascono quando i primi sei vengono a mancare. Allorché i primi sono estirpati gli ultimi si ramificano enormemente: questi nascono dalla morte di quelli, con prepotente vitalità. Da ciò deriva che gli assalti degli ultimi vizi son di natura tutta speciale. Nella prima serie bisogna aver ceduto al vizio precedente per essere vinti da quello seguente; con gli ultimi due son proprio le nostre vittorie e i nostri trionfi a metterci nel pericolo di cadere ed essere sconfitti.
Resta tuttavia comune ai vizi di entrambe le serie il fatto che la crescita di uno diventa l’origine di un altro e la liberazione da uno inizia la liberazione da un altro. In forza di questo principio, per cacciare la superbia bisogna soffocare la vanagloria: tolto il primo vizio, il secondo perde il suo sostegno. Recise che siano le prime passioni, quelle che ne derivano spariranno senza fatica.
Senza nulla rinnegare di quanto abbiamo detto dei modi in cui si uniscono gli otto vizi capitali, dobbiamo ora osservare che tra essi esistono quattro combinazioni... matrimoniali. Esiste una particolare connessione tra la gola e la lussuria, un’altra tra l’avarizia e l’ira; la tristezza e l’accidia; la vanagloria e la superbia sono unite da un vincolo di strettissima parentela.
XI - Origine e natura di ogni singolo vizio
Passiamo ora a parlare delle diverse forme che si riscontrano in ciascun vizio.
Esistono tre sottospecie di golosità. La prima spinge il monaco a nutrirsi senza tener conto dell’ora stabilita dalla regola; la seconda si diletta nell’ingurgitarsi e nel mangiare con voracità; la terza vuole cibi ricercati e delicati. Tutte e tre arrecano al monaco un danno non indifferente, a meno che egli non si sforzi di liberarsene con grande impegno e pari fedeltà. Come non deve mai prendersi la libertà di rompere il digiuno prima dell’ora stabilita, così, il buon monaco deve sapersi interdire la ghiottoneria e la ricercata delicatezza dei cibi. Da queste tre fonti derivano molte gravissime malattie dell’anima. La prima forma di golosità produce l’odio del monastero e rende la permanenza in esso sempre più dura e insopportabile, fino al punto di suggerire l’allontanamento mediante la fuga veloce. La seconda forma accende i fuochi e gli stimoli della passione impura. La terza fa cadere sul capo delle sue vittime la rete inestricabile dell’avarizia e non permette al monaco di ben consolidarsi nella perfetta rinunzia di Cristo.
C’è un segno per riconoscere in noi la presenza di quest’ultima malattia. Eccolo. Un fratello ci ha invitati alla sua mensa, ma i cibi da lui preparati non hanno per noi un sapore gradevole. Allora, senza timore di apparire sfacciati, noi osiamo chiedere qualche condimento supplementare. Questo modo di agire è assolutamente da condannare, e ciò per tre ragioni. Innanzi tutto perché un monaco deve esercitarsi sempre e in tutto a vivere parcamente: egli deve imparare a contentarsi di quel che ha, come dice l’Apostolo (Fil 4,11).
Non è possibile che sappia frenare le passioni nascoste e più violente della carne, colui che, offeso da un piccolo sapore sgradevole, non sa frenare neppure per un momento il piacere della gola.
In secondo luogo, potrebbe darsi che il nostro ospite non abbia quel che noi domandiamo; in tal caso noi faremmo offesa alla sua penuria e alla sua sobrietà, manifestando una povertà che egli voleva far conoscere a Dio solo. In terzo luogo può darsi che il condimento da noi richiesto non piaccia agli altri; così accadrà che noi, per soddisfare la nostra gola, recheremo offesa a molti. Per questi motivi dobbiamo nel modo più assoluto proibirci una tale libertà.
Tre sono le forme della lussuria. La prima consiste nell’unione dell’uomo con la donna. La seconda si compie senza contatti sessuali ed è quella per cui Onan, figlio del patriarca Giuda, fu colpito da Dio (Gn 38,8-10). La sacra Scrittura la chiama « impurità » e l’Apostolo ne parla in questi termini: « Dico poi ai celibi e alle vedove: è bello per loro se rimangono come sono io, ma se non si contengono, si sposino, poiché è meglio sposarsi che ardere » (1 Cor 7,8-9). La terza forma è un peccato di pensiero e di desiderio; di questa dice il Signore nel Vangelo: « Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già — in cuor suo — commesso adulterio con lei » (Mt 5,28).
L’Apostolo proclama che bisogna estirpare queste tre forme del vizio: « Mortificate — egli dice — le vostre membra terrene, cioè la fornicazione, l’impurità, la libidine » (Col 3,5). Agli Efesini l’Apostolo parla di due specie di lussuria e dice: « La fornicazione e l’impurità non siano neppur nominate tra voi » (Ef 5,3). E ancora: « Questo dovete tenere a mente, che ogni adultero o impudico o avaro, che vuol dire idolatra, non ha eredità nel regno di Cristo e di Dio » (Ef 5,5). Le tre colpe sono globalmente colpite con la minaccia di esclusione dal regno di Dio, perché da tutte ci guardiamo con uguale attenzione.
Anche l’avarizia ci presenta tre forme. La prima impedisce all’uomo che rinuncia al mondo di liberarsi completamente dai suoi beni e dalle sue ricchezze. La seconda è quella che ci fa ricercare e richiedere con accresciuto ardore tutto ciò che avevamo dato qua e là o distribuito ai poveri. La terza ci fa desiderare e acquistare certe cose che neppure prima di lasciare il mondo possedevamo.
Tre sono anche i generi dell’ira. Il primo è fuoco che arde dentro: i greci la chiamano « thumòs ». Il secondo si manifesta violentemente nelle parole e negli atti. I greci lo chiamano « orghé ». Di questi due primi generi, così parla l’Apostolo: « Buttate via anche voi tutte codeste cose: ira, animosità » (Col 3,8). Il terzo genere d’ira non è, come i due primi, una fiamma di poca durata, è un fuoco che cova per giorni e mesi. I greci lo chiamano « ménis ».
Tutti questi gradi del vizio debbono essere da noi condannati con uguale orrore.
La tristezza ha due forme soltanto. La prima nasce dalla collera che si estingue, da un danno sofferto, da un desiderio impedito; l’altra deriva da ansietà di spirito o da irragionevole perdita della speranza.
Due sono ancora i generi di accidia. Uno fa cercare vogliosamente il sonno, l’altro spinge a fuggire dalla cella e a starne lontani.
La vanagloria prende molti aspetti e si distingue in molte specie, noi però ne enumeriamo due soltanto. La prima specie è quella che si gonfia per le cose carnali e capaci d’impressionare i sensi, la seconda si compiace nel desiderio di una rinomanza legata a beni spirituali e ultrasensibili.
XII - In che cosa consista l’utilità della vanagloria
In un caso la vanagloria può essere utile, almeno ai principianti, cioè a coloro che sono ancora esposti ai vizi della carne. Facciamo un esempio. Mentre la tentazione impura li stimola più crudelmente, questi monaci alle prime armi, ripensano alla dignità sacerdotale che voglion raggiungere, o al giudizio comune fra gli uomini, secondo il quale sono stimati santi e senza peccato. Potrà così avvenire che gli stimoli impuri della concupiscenza appaiano turpi e indegni sia della stima che godono da parte degli uomini, sia del sacerdozio al quale aspirano, e questo pensiero farà sì che si difendano dall’assalto impuro. In tal modo un vizio minore — come la vanagloria — serve a difenderli da uno più grande, come la lussuria. È certamente meglio subire i danni della vanagloria che cadere nel fuoco dell’impurità, da dove l’anima non può uscire, o può uscire a stento.
Il profeta ha espresso felicemente questo concetto quando ha detto, parlando a nome di Dio: « Per amore del mio nome, nel mio furore sarò longanime, e per la mia gloria, ti tratterò con raffrenato sdegno affinché tu non perisca » (Is 48,9). Ciò significa: ti frenerò affinché, incatenato dalle lodi che son care alla vanagloria, tu non vada a precipitarti nell’inferno e a seppellirti in esso commettendo il peccato mortale.
Non ci deve meravigliare che la vanagloria abbia il potere di trattenere qualcuno sull’orlo del peccato impuro. E' provato da una esperienza lunghissima che quando la vanità ha inoculato a qualcuno il suo veleno, quello diventa così insensibile ai richiami della carne che può digiunare perfino due o tre giorni di seguito senza risentirsene. Molti monaci di questo deserto hanno fatto esperienza di ciò e lo hanno candidamente confessato. Nel tempo in cui vivevano nei monasteri di Siria essi riuscivano senza difficoltà a prender cibo ogni cinque giorni; ora invece la fame li tormenta fin dall’ora di terza, cosicché durano una gran fatica a rimandare il pasto quotidiano fino all’ora di nona.
C’è a questo proposito una profonda risposta dell’abate Macario. Un tale gli domandò perché mai nel deserto fosse tormentato dalla fame fin dall’ora di terza, mentre quando stava nel cenobio riusciva a digiunare settimane intere senza bisogno di nutrirsi. Macario rispose: « Qui nel deserto il tuo digiuno non ha alcun testimone che ti nutra e ti sostenga con le sue lodi; nel cenobio, invece, l’ammirazione di coloro che ti segnavano a dito t’ingrassava con la refezione della vanagloria ».
Nel libro dei Re si legge un’allegoria bella ed espressiva per dimostrare che all’arrivo della vanagloria deve ritirarsi la lussuria. Nacao, re d’Egitto, tiene prigioniero il popolo d’Israele, ma sopraggiunge Nabucodonosor, re d’Assiria, che trasferisce gli ebrei dalle regioni d’Egitto a quelle del suo regno. Costui non li restituisce alla libertà o al suolo natale, ma li conduce nella sua terra, in una regione che per gli ebrei era più lontana dello stesso Egitto (2 Re 24,7-16). Questa figura risponde perfettamente al nostro argomento. La schiavitù della vanagloria è certamente più leggera di quella della lussuria, ma è più difficile sottrarsi alla tirannia della vanagloria. Un prigioniero condotto in terre lontanissime trova maggior difficoltà a ritornare nella terra natale e nella patria in cui si vive liberi. A quel prigioniero si rivolge giustamente il rimprovero del Profeta: « Perché sei invecchiato in terra straniera? » (Bar 3,11). È veramente un « invecchiare in terra straniera » il non potersi « rinnovare » spogliandosi dei vizi terrestri.
Finalmente esistono due forme di superbia. La prima è carnale, la seconda è spirituale. Questa è la più pericolosa perché si attacca soprattutto a coloro che son progrediti in qualche virtù.
XIII - Guerra di varia natura che ci muovono i vizi
Questi otto vizi capitali fanno guerra a tutto il genere umano; i loro attacchi, però, non sono uguali in tutti i casi. In un caso tiene il posto d’onore lo spirito di fornicazione; in un altro predomina l’ira; in un terzo è la vanagloria a prendersi i primi onori, in un quarto caso la superbia è padrona incontrastata. Pur essendo certo che ciascun di noi deve sostenere l’attacco di tutti i vizi, non siamo tutti assaliti allo stesso modo e con lo stesso ordine di successione.
XIV - II combattimento contro i vizi deve proporzionarsi al loro assalto
Ecco ora quale dovrà essere la tattica da adottare nella guerra che intraprenderemo contro i vizi. Ognuno, dopo aver riconosciuto il suo vizio, incomincia soprattutto con quello il suo combattimento, e studia con la più grande attenzione possibile i suoi movimenti offensivi. Contro quel vizio indirizza — a modo di frecce — i suoi quotidiani digiuni; contro quello rivolge ogni momento le armi dei suoi sospiri e dei suoi gemiti; contro quello impiega le fatiche, le veglie, le meditazioni della mente; senza mai stancarsi rivolge a Dio lacrime e preghiere per implorare da lui la fine di questi assalti del vizio. È impossibile trionfare sopra una qualsiasi passione se prima non si comprende che la nostra industria e la nostra fatica, senza l’aiuto di Dio, non possono procurarci la vittoria. Con tutto questo però l’opera della nostra purificazione chiede a noi impegno e sollecitudine costante, sia di giorno che di notte.
Quando il monaco è certo che il vizio è sconfitto, non riposi. Torni a investigare, con la stessa attenzione, le parti più segrete del suo cuore per individuare, fra le altre passioni che vi rimangono, quella più pericolosa, poi si rivolga contro di essa con tutte le armi dello spirito. Così, dopo aver superato di volta in volta il nemico più forte, sarà facile riportar vittoria su tutti, perché l’anima sentirà aumentare la sua forza col moltiplicarsi delle sue vittorie; e davanti ad avversari che si fanno sempre più deboli, la sua vittoria diventerà sempre più facile. Così avviene anche tra i gladiatori che nella lotta detta « pancarpo », col richiamo di ricchi premi, sono infiammati a combattere, davanti ai re della terra, contro ogni genere di fiere. Quei gladiatori, dopo aver compreso quali sono le bestie più temibili per la loro forza, o più rabbiose per la loro ferocia, assalgono per prime proprio quelle. Dopo che le hanno uccise, atterrano più facilmente le altre, che sono meno terribili e meno furiose. Così noi, dobbiamo affrontare e superare per prime le passioni più forti e passare poi alle più deboli; con questo metodo otterremo, senza il minimo rischio, la più completa vittoria.
Né dobbiamo credere che, orientando i nostri sforzi contro un vizio in particolare, ci esporremo al pericolo di qualche ferita imprevista, quasi che ponessimo mente soltanto ai colpi che vengono da una parte.
Questo male non c’incoglierà. È impossibile che un uomo, il quale si dà premura di purificare il suo cuore, e per questo convoglia tutte le potenze dell’anima contro un vizio particolare, non coinvolga gli altri vizi in un sentimento globale di odio, e non stia in guardia contro di essi. Come potrebbe conseguire la vittoria sulla passione che tanto lo inquieta, chi si mostrasse indegno della vittoria con l’abbandonarsi alle brutture degli altri vizi?
Ma quando avremo preso come scopo della nostra vita la lotta contro un vizio determinato, noi pregheremo con una attenzione, una sollecitudine, un fervore speciale, per meritare la grazia di una vigilanza più delicata a proposito del vizio che ci preme sradicare e per ottenere una pronta vittoria.
Il Legislatore del popolo ebraico ci suggerisce di seguire una simile tattica nei nostri combattimenti, pur raccomandandoci di non aver fiducia in noi stessi: « Tu non avrai paura di loro, perché il Signore Dio tuo sta in mezzo a te, Dio grande e terribile. Egli sterminerà nel tuo cospetto queste nazioni e poco per volta. Non le distruggerà tutte insieme, perché non abbiano a moltiplicarsi a tuo danno le bestie feroci. Il Signore Dio tuo metterà quei popoli in tuo potere, e li farà perire sinché siano affatto sterminati » (Dt 7,21-24).
XV - Senza l’aiuto di Dio, niente potremmo contro i vizi: nelle vittorie ottenute su di essi non dobbiamo esaltarci
Ma lo stesso Mosè ci avverte anche di non insuperbire delle nostre vittorie. Egli dice: « Dopo aver mangiato ed esserti satollato, dopo aver edificato belle case ed avervi abitato, dopo aver avuto armenti di bovi e greggi di pecore, abbondanza d’argento e d’oro e d’ogni cosa, non s’insuperbisca il tuo cuore, e non dimenticare il Signore Dio tuo, che ti trasse dall’Egitto, dal luogo di schiavitù, e fu tua guida nel deserto grande e terribile » (Dt 8,12-15). E Salomone dice nei Proverbi: « Della caduta del tuo nemico, non te ne rallegrare, e della sua rovina non ti goda il cuore. Ché il Signore non veda e gli dispiaccia e da lui storni l’ira sua » (Pr 224,17-18).
E questo va inteso così: evita che il Signore, vedendo che il tuo cuore si è insuperbito, cessi di combattere il tuo nemico, e tu — abbandonato da Dio — sia nuovamente tormentato dal vizio sul quale la sua grazia ti aveva fatto trionfare. E il profeta non avrebbe mai detto a Dio, nella sua preghiera: « Non abbandonare alle bestie, o Signore, l’anima di coloro che ti lodano » (Sal 73,19), se non avesse conosciuto che molti, a causa della superbia del loro cuore, sono nuovamente abbandonati a quei vizi che avevano vinti, affinché, così, siano umiliati.
Così la nostra esperienza e le testimonianze innumerevoli delle Scritture ci istruiscono e ci persuadono che le nostre sole forze, senza quell’aiuto che Dio solo può dare, non sarebbero capaci di superare nemici tanto potenti. Per questo noi dobbiamo riferire ogni giorno a Dio l’onore delle nostre vittorie. Questo avvertimento ci ripete il Signore per bocca di Mosè: « Quando il Signore Dio tuo li avrà sterminati dalla tua presenza, non dire: Per i miei meriti mi ha condotto il Signore a posseder questa terra, come per le loro empietà sono state distrutte queste nazioni. Non pei tuoi meriti, né per la rettitudine del cuor tuo, entrerai al possesso delle loro terre, ma perché esse avevano operato empiamente sono state distrutte al tuo arrivo » (Dt 9,4-5). Di grazia, come si poteva parlare più chiaramente contro la funesta opinione e la presunzione che ci fa attribuire tutto ciò che facciamo al nostro libero arbitrio e alla nostra industria? « Non dire — raccomanda il Signore — quando il tuo Dio avrà distrutto quelle nazioni alla tua presenza, non dire: per la mia giustizia il Signore mi ha condotto a posseder questa terra ».
Per chiunque ha gli occhi dell’anima aperti ed ha le orecchie capaci d’intendere, è come se dicesse chiaramente: quando la vittoria avrà coronato i tuoi sforzi contro i vizi della carne, quando ti sarai liberato dalle loro brutture e dalla vita del mondo, non attribuire la vittoria alla tua virtù e alla tua sapienza, come se fossero stati i tuoi sforzi, il tuo zelo, il retto uso della libertà, ad ottenerti la vittoria sulle potenze del male e sui vizi della carne. È certissimo che non avresti potuto vincere alcuna occasione se Dio non fosse venuto a soccorrerti e a proteggerti.
XVI - Senso mistico delle sette nazioni sulle quali il popolo ebreo, entrato nella terra promessa, riportò vittoria. Perché talvolta si dice che quelle nazioni erano sette, altra volta si dice che erano molte?
Questi vizi sono i sette popoli le cui terre il Signore promette ai figli d’Israele, usciti che siano dall’Egitto. Secondo l’Apostolo tutto ciò che capitò agli Ebrei era una figura dei tempi messianici; noi dunque dobbiamo osservare questi fatti e sentirli scritti per la nostra istruzione. Dice dunque il Libro sacro: « Quando il Signore Dio tuo ti avrà introdotto nella terra di cui devi diventare possessore, ed avrà fugate dinanzi a te molte genti, l’Heteo, il Gergeseo, l’Amorreo, il Cananeo, il Ferezeo, l’Heveo, e il Gebuseo, sette popoli molto più numerosi e più forti di te, ed il Signore Dio tuo te li avrà abbandonati, li sterminerai fino all’ultimo » (Dt 7,1-2).
Perché è detto che queste nazioni sono molto più numerose? Perché il numero dei vizi è più grande di quello delle virtù. Il catalogo enumera sette nazioni, ma quando si tratta della loro disfatta non si fa più menzione di un numero determinato. Dice la Scrittura: « Quando Dio avrà annientato molte nazioni davanti a te ». Il popolo dei vizi carnali che nasce da queste sette radici è assai più numeroso del popolo d’Israele. Di là nascono gli omicidi, le contese, le eresie, i furti, le false testimonianze, le bestemmie, gli eccessi nel mangiare, le ubriachezze, le maldicenze, i sollazzi, i discorsi osceni, le bugie, gli spergiuri, i discorsi sciocchi, le scurrilità, l’inquietudine, la rapacità, la scontentezza, il frastuono, lo sdegno, il disprezzo, la mormorazione, la tentazione di Dio, la disperazione e molti altri vizi che sarebbe troppo lungo elencare.
Siccome questi vizi a noi sembrano leggeri, ascoltiamo ora che cosa ne pensa l’Apostolo e quale giudizio ne formula: « Non mormorate come alcuni di loro mormorarono, e perirono per opera dello sterminatore » (1 Cor 10,10), e della tentazione di Dio: « Non tentiamo il Cristo, come fecero alcuni di loro, che perirono morsi dai serpenti » (1 Cor 10,9). Della detrazione è scritto: « Non voler dire male degli altri, per non essere sradicato » (Pr 20,13). Della disperazione è detto: « Essi, perduta ogni speranza, si son dati alla dissolutezza, così da operare ogni impurità nella loro cupidigia di possesso » (Ef 4,19). Che il frastuono, l’ira, lo sdegno, la bestemmia siano da condannare ce lo afferma s. Paolo quando insegna: « Ogni acrimonia e animosità e ira e clamore e maldicenza sia bandita da voi insieme con ogni malizia » (Ef 4,31). E si potrebbe continuare ancora.
Benché sia vero che il numero dei vizi supera di gran lunga quello delle virtù, tuttavia, poiché tutti derivano dagli otto vizi capitali, vinti che siano questi, tutti gli altri si afflosciano e scompaiono in una stessa morte. Dalla gola nascono gli eccessi nel mangiare e le ubriachezze; dalla lussuria nascono il turpiloquio, la scurrilità, i doppi sensi osceni, lo spergiuro, il desiderio di guadagni illeciti, le false testimonianze, le violenze, la crudeltà, la rapacità; dall’ira nascono gli omicidi, il clamore, la disperazione; dall’accidia nascono l’ozio, la sonnolenza, l’importunità, l’inquietudine, il vagabondaggio, l’instabilità della mente e del corpo, la ciarla e la curiosità; dalla vanagloria nascono le dispute, le divisioni, la millanteria, l’amore delle novità; dalla superbia nascono: il disprezzo, l’invidia, la disobbedienza, la bestemmia, la mormorazione, la detrazione.
Questi vizi funesti non sono soltanto più numerosi delle virtù, sono anche più forti, come sentiamo bene dagli assalti che ci muove la nostra stessa natura. Nelle nostre membra è più forte il richiamo delle passioni carnali che il gusto delle virtù. Queste si acquistano a prezzo di una grande fatica dello spirito e del corpo.
Se poi si considera con gli occhi della fede la schiera innumerevole di nemici che il beato Apostolo descrive quando dice: « La nostra lotta non è contro il sangue e la carne, ma contro i Principi e le Podestà, contro i dominatori del mondo delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’ira » (Ef 6,12); se si considera quel che è detto nel Salmo 90 a proposito dell’uomo giusto: « Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra » (Sal 90,7), apparirà chiaramente che questi nemici sono molto più numerosi e più forti di noi. Noi siamo carnali e terreni, ai nostri nemici è stata concessa una sostanza spirituale e sottile come l’aria.
XVII - Domanda sulle somiglianze tra le sette nazioni e gli otto vizi
Germano — Come mai sono otto i vizi capitali che ci fanno guerra, mentre Mosè enumera soltanto sette nazioni che si sono opposte al popolo d’Israele? E in qual senso è bene per noi possedere le terre occupate dai vizi?
XVIII - Risposta: agli otto vizi corrispondono otto nazioni
Serapione: Otto sono i vizi che fanno guerra al monaco: questa è la sentenza comune e assoluta. Se la sacra Scrittura non ce li presenta tutti, sotto il nome dei popoli che li contengono in figura, si deve al fatto che gli Ebrei son già usciti dall’Egitto e liberati da una nazione potentissima, quando Mosè, anzi il Signore stesso per bocca di Mosè, fa udir la sua voce nel Deuteronomio.
La figura delle sette nazioni vale perfettamente anche per noi, che ci siamo liberati dai lacci della « gastrimargia », la quale è una specie di pazzia dello stomaco e della gola. Ormai anche noi abbiamo da combattere contro sette vizi: il primo, essendo già vinto, non conta più.
C’è poi da notare che il territorio di questo popolo — la regione della gastrimargia — non viene assegnato da Dio al popolo d’Israele. Anzi, un comando espresso del Signore ordina di uscire per sempre da quella terra. Da questo siamo ammaestrati a regolare i nostri digiuni in maniera tale da non causare un indebolimento o una malattia della carne che ci risospingano verso l’Egitto, vale a dire, verso la concupiscenza del ventre e della gola, con la quale rompemmo i rapporti allorché rinunciammo al mondo. Qualcosa di questo genere capitò — in figura — agli Ebrei, i quali, usciti dall’Egitto per entrare nel deserto delle virtù, rimpiangevano le pentole piene di carne davanti alle quali stavano assisi in Egitto.
XIX - Perché Dio domanda di risparmiare una nazione e di annientare le altre sette
Perché, nei riguardi del popolo tra il quale Israele è nato, l’ordine di Dio non è di sterminarlo, ma soltanto di abbandonare il territorio? Perché, invece, nei riguardi degli altri sette popoli il comando divino è di sterminio completo? La ragione è questa: qualunque sia il fervore di spirito col quale siamo entrati nel deserto delle virtù, non possiamo fare a meno della vicinanza, del ministero e del quotidiano incontro con la gastrimargia 2) Il desiderio di mangiare è innato nell’uomo, è un bisogno naturale e rimarrà sempre, nonostante ogni nostro sforzo per rintuzzarne gli appetiti e i desideri superflui. Siccome quegli appetiti non si possono distruggere completamente, li dovremo evitare con molta cura, per non essere da loro dominati. È quanto c’insegna la Scrittura che dice: « Non abbiate cura della carne così da destarne le concupiscenze » (Rm 13,14).
Se conserviamo un naturale affetto per le necessità della nostra carne, se quelle necessità devono esser moderate ma non distrutte, è chiaro che noi non abbiamo distrutto la nazione egiziana ma ci siamo separati da lei con una chiara divisione. Noi intendiamo rinunciare al pensiero di cibi troppo abbondanti e delicati, per contentarci — come dice l’Apostolo — del vitto quotidiano e di un vestito. Questo è il comando simbolico che ci rivolge la Legge: « Non considererai come abominevole l’egiziano, poiché abitasti come forestiero nella sua terra » (Dt 23,7).
Rifiutare al corpo il nutrimento necessario sarebbe lo stesso che ucciderlo, e sarebbe anche un aggravare l’anima di peccato.
Ma i movimenti degli altri sette vizi, dato che sono totalmente malvagi, bisogna bandirli in modo assoluto dai penetrali dell’anima nostra. Ecco come la Scrittura parla di essi: « Ogni acrimonia e animosità e ira e clamore e maldicenza sia sbandita da voi insieme con ogni malizia » (Ef 4,31). E ancora: « Fornicazione poi e qualsiasi impudicizia o avidità di possedere, non siano neppur nominate tra voi, e così niente disoneste parole, o buffonerie o scurrilità » (Ef 5,3-4).
Potremo dunque estirpare quei vizi che sono sovrapposti alla nostra natura, ma è impossibile troncarne ogni rapporto con la gola. Sia pur altissima la perfezione da noi raggiunta, non potremo mai cessare di essere quelli che ci ha fatti la natura. È questa una verità che ci vien ricordata non solo dalla nostra condizione di infanti della vita spirituale, ma anche dalla vita di coloro che hanno raggiunto la perfezione. Costoro hanno per sempre messo a tacere le sollecitazioni degli altri vizi, hanno raggiunto il deserto per vivervi nel pieno fervore dello spirito e nel più completo spogliamento, ma non possono fare a meno di pensare al pane quotidiano e di procurarsi le provviste per l’annata.
XX - II vizio della gola paragonato all’aquila
La condizione di un monaco che è costretto a pensare al cibo, nonostante l’altissimo grado di perfezione raggiunto, si può illustrare col paragone dell’aquila.
Il nobile uccello, dopo essersi sollevato al disopra delle nubi più alte, dopo essersi nascosto alla vista dell’uomo e a tutta la terra, è costretto dalla fame a riprender terra, a scendere nel fondo delle valli, a prender contatto con i corpi degli animali morti. Tutto ciò prova chiaramente che la potenza della gola non si può completamente troncare o spegnere come quella di altri vizi. Basterà contenerne gli stimoli e frenarne i moti smodati con la virtù dell’animo nostro.
XXI - La resistenza della gola: disputa tra i filosofi
Un vecchio discuteva con alcuni filosofi sul vizio della gola: i filosofi credevano d’aver a che fare con un uomo d’ingegno incolto, data la sua semplicità di cristiano, e pensavano di metterlo a mal partito. Ma il vecchio propose una specie di indovinello elegantissimo riguardante la natura della gola. Disse dunque: « Mio padre mi lasciò alle prese con molti creditori. Io li ho tutti liquidati e mi son liberato dalle loro importune richieste, ma ce n’è uno col quale non ho potuto far pari neppur pagandolo tutti i giorni ». I filosofi, non riuscendo a raccapezzarsi, domandarono al vecchio la soluzione. Quello disse: « Fin dalla mia nascita io ero legato a una catena di vizi, ma il Signore mise nel mio cuore il desiderio della libertà e io, rinunciando al mondo e ai beni che mi eran venuti in eredità, giunsi al punto di soddisfare tutti i miei petulanti creditori e di liberarmene completamente. Ma quanto alla gola, io non sono riuscito a liberarmi dal suo pungiglione. Pur avendola ridotta a proporzioni minime, non mi libero dai suoi quotidiani assalti. Sempre torna ad esigere e io devo pagarle una tassa che non ha né fine né tregua, è come un debito che non si estingue mai ».
Allora i filosofi, che in principio lo avevano disprezzato come un sempliciotto e un rozzo, dissero che quel vecchio eccelleva nella parte più importante della filosofia, che è l’etica o scienza dei costumi. Furono anche pieni di meraviglia quando s’accorsero che costui aveva raggiunto, naturalmente e senza scuola, una scienza che essi, con tanta pratica e lunghi studi, non avevan potuto procurarsi. Ma è tempo di metter fine al nostro discorso sul vizio della gola.
Torniamo all’argomento, già incominciato e poi sospeso, della parentela stretta che esiste fra tutti i vizi.
XXII - Perché Dio profetizzò ad Abramo che il popolo d’Israele avrebbe vinto dieci nazioni
C’è una difficoltà sulla quale non mi avete interrogato: quando il Signore parlò del futuro con Abramo, non enumerò sette nazioni ma dieci, e promise che avrebbe dato ai discendenti d’Abramo le terre di tutti quei popoli. La difficoltà si risolve facilmente: se si aggiungono agli otto vizi già elencati, l’idolatria e la bestemmia, che prima della conoscenza di Dio e del battesimo accompagnano, là nell’Egitto dello spirito, i pagani empi e i giudei bestemmiatori, il numero di dieci è raggiunto. Supponiamo ora che, mosso dalla grazia di Dio, uno rinunzi al mondo, esca dall’Egitto, trionfi sul vizio della gola e venga nel deserto spirituale. Costui è già vittorioso sugli attacchi di tre nazioni, gli rimane da combattere soltanto con le sette nazioni elencate da Mosè.
XXIII - È utile per noi entrare in possesso di quella zona del nostro essere che era dominata dai vizi
Quanto al comando di possedere le terre già occupate da questi popoli terribili, ecco come va inteso. Ogni vizio ha una particolare regione nel nostro cuore: di lì cerca di sterminare Israele, vale a dire la contemplazione delle cose celesti, e non si ritiene mai dal fargli guerra. Vizi e virtù non possono stare insieme: « Che cosa ha a che fare la giustizia con l’iniquità? Quale accordo può esservi tra Cristo e Belial? Quale comunanza tra la luce e le tenebre? » (2 Cor 6,14).
Ma quando i vizi son vinti dal popolo d’Israele, cioè dalle virtù ad essi opposte, allora la regione che nel nostro cuore era occupata dallo spirito di concupiscenza e di fornicazione passa alla castità; la pazienza occupa il territorio dell’ira; alla tristezza che produceva morte, subentra una tristezza salutare e piena di gioia; dove l’accidia produceva le sue devastazioni incomincia a costruire la virtù della fortezza; l’umiltà innalza ciò che la superbia si metteva sotto i piedi.
Così, ad ogni vizio messo in fuga, succede la virtù contraria, che ne prende il posto. Queste virtù si chiamano giustamente « Figlie di Israele », cioè dell’anima che vede Dio. Ma poi, a voler essere esatti, quando le virtù scacciano i vizi non si deve dire che esse s’impossessano di un territorio straniero, è meglio dire che rientrano in possesso di ciò che loro appartiene.
XXIV - Le terre dalle quali furono espulsi i Cananei furono assegnate ai discendenti di Sem
Un’antica tradizione insegna che la terra di Canaan (in cui furono introdotti i figli d’Israele) all’epoca della divisione del mondo, era toccata in sorte ai figli di Sem. Soltanto più tardi vi penetrarono con la forza e con la violenza i discendenti di Cam e la possedettero col diritto degli invasori. Ma qui appare il giusto giudizio di Dio che scaccia gli usurpatori dai luoghi ingiustamente occupati e restituisce al popolo d’Israele la terra dei loro padri, quella terra che era stata loro assegnata nella divisione del mondo. E qui c’è una figura che ha certamente in noi la sua realizzazione. La volontà di Dio assegnò il dominio del nostro cuore alle virtù, non ai vizi, ma dopo la prevaricazione di Adamo, questi cananei che sono i vizi cacciarono le virtù dalla loro terra. Ecco però che, ristabilite nei loro diritti per i nostri sforzi e le nostre fatiche, le virtù rientrano, con la grazia di Dio, nei loro possedimenti, né si può dire in alcun modo che occuparono terre straniere.
XXV - Diversi testi riguardanti gli otto vizi capitali
Anche il Vangelo parla di otto vizi capitali. Ecco in qual modo: « Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, se ne va per luoghi aridi in cerca di riposo, e non trovandolo, dice: Tornerò nella mia casa donde sono uscito. E quando vi giunge la trova vuota, spazzata e ornata. Allora va a prendere altri sette spiriti peggiori di lui i quali vi entrano e vi si stabiliscono, al punto che la condizione ultima di quell’uomo diventa peggiore della prima » (Mt 12,43-45). Nel Deuteronomio si parla di sette nazioni e si sottace l’Egitto dal quale gli ebrei erano usciti; qui si parla di sette spiriti immondi che tornano nella casa e si sottace quello che ne era uscito prima. Nel libro dei Proverbi Salomone parla così della radice dei setti vizi: « Se il nemico ti chiamerà a gran voce, non gli dare ascolto poiché sette scelleratezze sono nel suo cuore » (Pr 26,25). Vale a dire: se il vizio della gola, dopo essere stato sconfitto, incomincia a implorare dal fondo della sua umiliazione e vi supplica di rilassare un poco il vostro primo fervore, per non oltrepassare i limiti di una ragionevole austerità, non vi lasciate ingannare dal suo aspetto di sconfitto, né ritenetevi al sicuro dalle sue offese per il fatto che gli assalti della carne sembrano un po’ calmati. Chi si fida rischia di ricadere nello stato di rilassamento e nella concupiscenza della gola. Questa ricaduta potrebbe far dire allo spirito che avete vinto: « Tornerò nella casa dalla quale sono uscito ». E aggiungendosi a lui altri sette spiriti perversi, la vostra nuova passione diventerà molto più acre di quella che avevate superata e vi condurrà presto a peccati peggiori di quelli che commettevate per l’innanzi.
XXVI - Dopo la vittoria sul vizio della gola, occorre applicare tutte le forze all’acquisto delle altre virtù
Dobbiamo perciò stare attenti affinché, dopo esserci impegnati nel digiuno e nella mortificazione, e dopo aver vinto il vizio della gola, non lasciamo l’anima nostra priva di quelle virtù che la devono abitare. Dobbiamo invece far occupare dalle virtù tutti gli angoli del nostro cuore per evitare che lo spirito di concupiscenza, al suo ritorno, non ci trovi vuoti e sprovveduti. Se così ci trovasse, non si accontenterebbe di entrare da solo nell’anima nostra, ma introdurrebbe pure il suo corteggio di sette vizi e farebbe diventare la nostra nuova condizione peggiore di quella precedente. Colui che si vanta di aver rinunciato al mondo ha maggior ragione di arrossire, se accetta la tirannia dei vizi; la sua anima è più immonda e merita un castigo più severo di quello che avrebbe meritato se fosse rimasto nel secolo e non avesse scelto di far vita da monaco, o di portarne il nome.
Si dice che questi sette spiriti sono peggiori del primo, perché la gola presa in sé sarebbe quasi innocua, se non si tirasse dietro altri vizi più gravi, come la lussuria, l’avarizia, l’ira, la tristezza, la superbia, che senza alcun dubbio sono mortalmente dannosi all’anima. Perciò non speri di ottenere la purezza dei perfetti colui che la chiede solo alla mortificazione o al digiuno corporale. Bisogna guardare più lontano e proporsi di voler usare la mortificazione del corpo come strumento per meglio assalire gli altri vizi, senza essere — in questo combattimento — attardati dall’insolenza di un corpo riempito fino alla saturazione.
XXVII - L’ordine da seguire, nel combattere i vizi, non è lo stesso che si trova nella lista dei vizi stessi
Ricordiamo bene però che l’ordine da seguire in questo combattimento non è uguale per tutti. L’assalto non si presenta in modo uniforme: ciascuno deve fare i suoi piani di battaglia secondo il nemico che più lo tormenta. Uno dovrà forse combattere per primo quel vizio che nel nostro elenco sta al terzo posto, un altro avrà da liberarsi prima dal quarto o dal quinto.
Così regoleremo la nostra tattica tenendo conto dei vizi che sono in noi più potenti e badando al modo in cui ci assalgono. Una tattica intelligente ci otterrà vittoria e trionfo, e ci farà giungere alla purezza del cuore e alla pienezza della perfezione.
Qui terminò il discorso dell’abate Serapione, sugli otto vizi capitali. Fino a quel momento noi eravamo stati incapaci di conoscere la sorgente e la parentela che lega tra loro le passioni nascoste nel nostro cuore. Ne avevamo però conosciuta la guerra dall’esperienza quotidiana. Ora, dopo che l’abate aveva gettato su quelle passioni una luce tanto abbondante, ci pareva di vederle davanti ai nostri occhi come riflesse in uno specchio.
Note:
1) Questa enumerazione ottonaria dei vizi capitali non si accorda con quella settenaria ora in uso nella Chiesa. Per capire la differenza fra le due enumerazioni, si rifletta che Cassiano si limita a riferire una dottrina comune, ai suoi tempi, presso i moralisti del chiostro.
Prima che il monachesimo prendesse vigore i peccati più gravi si chiamavano semplicemente « mortali »; furono i monaci a parlare di peccati capitali e a cercare di darne una classificazione. I primi elenchi non ebbero un numero e un ordine fisso; pare sia stato Evagrio Pontico — un monaco vissuto lungamente in Egitto, sul monte Nitro, e nel deserto delle Celle, durante la seconda metà del secolo III — a ridurre a sette i vizi capitali.
L’enumerazione ottonaria che abbiamo letta in Cassiano è identica a quella di Evagrio Pontico, come si può riscontrare nella Storta Ecclesiastica di Socrate al capo 23 del libro IV. (P. G. 67, 516). San Giovanni Climaco (vissuto nel secolo VII sul monte Sinai) ridusse a sette i vizi capitali, basandosi sull’autorità di san Gregorio Nazianzeno e di altri, che però non ricorda espressamente. (Scala Paradisi grado 22; P. G. 88, 948).
Dopo il Climaco tutti accettano il numero settenario e riducono vanagloria e orgoglio ad uno stesso vizio: la superbia, di cui la vanagloria è il principio e l’orgoglio è la completa consumazione, o grado supremo.
2) Tra la "gastrimagia" e la gola si stenta a trovare una differenza: la gola non è altro che la nostra traduzione del termine greco "gastrimagia". Ma Cassiano aveva da accordare gli otto vizi capitali della morale monastica con le sette nazioni di cui parla la sacra Scirttura e lo fece giocando sul termine gastrimagia, come vediamo in questo capitolo della quinta conferenza.
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23 maggio 2016 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net