SULLA STRADA DOVE CI GUIDA IL VANGELO
tratto dal libro "Sendero de vida" di Gabriel M. Brasò, O.S.B. - Ed.
Monte Casino - Zamora - Spagna
(traduzione libera - Testo originale in fondo alla pagina)
Per ducatum evangelii - Sotto la guida del Vangelo (Prol.)
Nel suo discorso sul pane di vita, come Giovanni ci ha tramandato, Gesù, come
la Sapienza dell'Antico Testamento, invita tutti gli uomini al suo banchetto.
Per Giovanni, Gesù è la Sapienza di Dio che offre se stesso quale cibo della
nostra nuova vita. Egli è il Pane di Vita: come Parola di Dio conosce i segreti
di Dio e li rivela a tutti quelli che vengono a lui affamati di verità; e, quale
vittima offerta in sacrificio, con il suo corpo e il suo sangue, è veramente
cibo e bevanda per chi vuole vivere per sempre.
Vista la reazione dei Giudei, Gesù afferma: «Nessuno può venire a me, se non lo
attira a sé il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha
udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (Gv 6,44-45). Verso la fine
della sua vita Gesù avrebbe chiarito questo insegnamento ai suoi apostoli: «lo
Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi
ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. » (Gv 14,26). «Quando però verrà lo
Spirito di verità egli vi guiderà alla verità tutta intera perché non parlerà da
sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi
glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà» (Gv 16,13-14).
Questo insieme di testi appena ricordato ci offre un compendio della vita
monastica se la si vuole considerare per quel che è: una vocazione cristiana. Il
Padre ci attira verso Cristo e ci dona il suo Spirito in modo che annunciamo
queste cose a venire e glorifichiamo Cristo in noi, rendendoci parte della
Sapienza di Dio. Tuttavia – era la conclusione che promanava da Nostro Signore
Gesù Cristo-, «Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me» (Gv
6,45).
Sì, il frutto più prezioso della vita monastica è la scoperta di una persona che
è per noi infinita e ineffabilmente vicina, che esercita con tutto il suo essere
un'attrazione irresistibile, dandoci la intima convinzione che in lei, e in lei
sola, saranno colmate tutte le aspirazioni della nostra anima. Questa persona è
Gesù, il Figlio di Dio.
Quando la ricerca di Dio è reale porta alla scoperta personale di Cristo: Cristo
così come è, Dio e uomo, Figlio del Padre e nostro fratello, manifestazione
vivente dell'amore di Dio attraverso le vibrazioni del suo cuore di carne,
attraverso gli eventi della sua vita e le relazioni della sua Persona. Lo stesso
capita a noi, così come ai suoi contemporanei: che ci sentiamo irresistibilmente
attratti dal suo fascino.
Qui ci sono due uomini, Simone e Andrea, che, lavorando nel loro mestiere di
pescatori, gettano le reti in mare. Gesù si avvicina a loro e dice: «Seguitemi,
vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.
Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo
fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le
reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono»
(Mt 4,19-22). Un altro giorno «Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al
banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e
lo seguì» (ibid. 9,9).
A noi colpisce, forse ci dà fastidio, la spontaneità e il poco ragionamento
nell’atteggiamento dei discepoli, che lo seguono così all'improvviso, senza
condizioni. In effetti, almeno nel primo caso, Gesù non si era manifestato
ancora pubblicamente, nel senso che ancora non aveva fatto miracoli. Ma è
proprio questo il punto: non sono i miracoli o la dottrina che insegnava a
causare questa attrazione così forte. Era lui stesso, era la sua persona, nella
quale si incarnava la dottrina che comunicava e la grazia di salvezza che
derivava da lui.
Gesù è venuto per annunciare che Dio è Padre e che nel suo disegno ha voluto
fare di tutti gli uomini dei figli. Quel messaggio non lo annunciava come
avrebbe fatto un predicatore o un profeta. Era lui stesso che comunicava
contemporaneamente l'annuncio e la presenza di questa realtà. Era il Figlio del
Padre, presente nel mondo, ed era per questo motivo che il suo essere umano,
molto al di sopra di quello degli altri uomini, poteva essere tanto attraente:
perché incarnava perfettamente la realtà divina che veniva ad annunciare. E l'ha
incarnata precisamente facendosi uomo, come uno di noi, entrando in relazione
personale con noi, da uomo a uomo, da fratello a fratello, per garantire a
ognuno di noi che d’ora in poi ogni accesso alle realtà che annunciava sarebbe
stata davvero possibile. E nessuno è escluso da questo messaggio e da questa
grazia, perché la natura umana nella sua universalità ha accesso alla divinità:
gentili, greci ed ebrei, circoncisi e incirconcisi, senza esculdere i poveri,
gli afflitti, i peccatori; o coloro che erano considerati impuri o anatemi agli
occhi della religione ufficiale. Basta accettare il suo messaggio accogliendo la
sua persona con cuore aperto.
Forse erano giustamente questi piccoli, i più miserabili, i più poveri tra gli
uomini, che si aprivano a lui con maggior
semplicità e fiducia ed arrivavano così a penetrare nel vero senso del
suo vangelo. Nessuno, al contrario, era più attento dei farisei nell'ascoltare
la sua parola, per scrutare il suo messaggio;
nessuno più di loro preoccupato di vedere il dettaglio dei suoi miracoli,
per analizzarli scrupolosamente. Tuttavia, preoccupati soprattutto di sviscerare
il significato della sua dottrina o del valore apologetico dei suoi prodigi,
senza accettare in anticipo la sua persona, rimasero nelle tenebre. Avevano gli
occhi, ma non vedevano; avevano orecchie, ma non sentivano. La loro anima rimase
nel dubbio e nell'angoscia. Davanti ai prodigi di Gesù, si domandavano: «Chi è
dunque costui che dà ordini ai venti e all'acqua e gli obbediscono?». (Lc 8,25).
San Giovanni ci narra le reazioni della folla e degli ebrei alla dottrina e ai
miracoli del Signore. «All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano:
«Questi è davvero il profeta!». Altri dicevano: «Questi è il Cristo!».
Sono le persone più semplici. Ma altri, che si consideravano più
intellettuali in materia di dottrina e più religiosi, rispondevano allora: «Il
Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo
verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?».
(Gv 7,40-42). Gli Ebrei, i Farisei che rimanevano sempre nel dubbio, gli
chiedevano: «Chi sei?». Più tardi sono i medesimi che ancora vengono a
domandargli: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo,
dillo a noi apertamente». (Gv 10, 24). La stessa domanda gli fa il sommo
sacerdote davanti al sinedrio, riunito per il suo processo: «Se tu sei il
Cristo, diccelo». (Lc 22,67).
Forse abbiamo dei farisei e dei capi religiosi del tempo di Gesù un’idea
sbagliata, anche peggiorativa, come se fossero sempre stati suoi nemici o suoi
oppositori senza valido motivo, per invidia o gelosia. Un tale giudizio non
sarebbe giusto. Molti di loro - e il caso di Nicodemo è chiaro - erano uomini
profondamente religiosi, pieni di zelo per la Legge di Dio. E se su questo o
quel punto la loro richiesta poteva sembrare eccessiva, era solo una
manifestazione del loro fervore religioso. Quando lo zelo religioso entra in
gioco, è molto difficile mantenere un equilibrio; di ciò abbiamo attualmente
molte prove. E’ tanto facile, in nome dell’interesse della Legge e
dell’ortodossia, raggiungere eccessi simili a quelli che Gesù poteva
rimproverare ai farisei del suo tempo! Gli stessi si sentivano i guardiani della
Legge fino al punto di considerare sé stessi come un'incarnazione vivente, tanto
che ogni mancanza verso la Legge diventava un'offesa personale a loro stessi. E
così il circuito dello zelo si chiudeva sopra loro stessi senza lasciare posto
alla corrente altruistica dell'amore. Essi non amavano, o non amavano
abbastanza, perché non sentivano alcun bisogno di essere perdonati.
Al contrario, le persone più semplici hanno saputo lasciarsi guidare dal cuore.
San Pietro per primo, uno dei primi a seguirlo, con quella spontaneità che lo
caratterizza, ha dichiarato un giorno la ragione di questa adesione, senza
riserve: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo
creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». (Gv 6,68-69). Un altro tra i
primi chiamati diceva di Gesù: «In lui era la vita
e la vita era la luce
degli uomini» (cf. Gv 1,4). Lo stesso apostolo Giovanni ci trasmette devotamente
le dichiarazioni solenni del Signore: «Io sono la luce del mondo; chi segue me,
non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita,… Io sono la via, la
verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete
me, conoscerete anche il Padre» (Gv 8,12; 14,6-7). Lui per primo. In lui si
incontrano la luce e la vita, la dottrina e la redenzione.
Ciò che si cerca soprattutto quando si cerca veramente Dio, non è la dottrina di
Gesù, non è la sua grazia di redenzione o santificazione, è lui stesso:
«nel quale - secondo le parole di S. Paolo - sono nascosti tutti i tesori
della sapienza e della scienza» (Col 2,3). E’ lui lo stesso «che per opera di
Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (cfr.
1 Cor 1,30-31). La scoperta di Cristo non è quindi una questione di erudizione,
di riflessione teologica, di meditazione, di pratica della virtù, di fedeltà a
principi morali o ascetici. Né si tratta di una questione di sentimenti, bensì
di incontro vivo. Gli elementi intellettuali, psicologici e ascetici possono
essere utilizzati alla preparazione dell’incontro, così come possono distrarre
dalla presenza del Signore. Poco importa se siamo saggi o ignoranti, freddamente
intellettuale o, al contrario, uomini di grande sensibilità, portati
all’ascetismo o piuttosto inclinati a godere della libertà dello spirito.
Cosa non manca mai nel fondo di ogni vero incontro con Cristo, è ciò che Paolo
ci ha detto: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie
sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). Questo è sempre il
frutto, il segno e la garanzia della vera scoperta di Cristo.
Questa frase di San Paolo ci dona una luce decisiva. La scoperta personale di
Cristo suscita un dinamismo interiore che non può degenerare nella routine, nel
quietismo, nella devozione, o in uno qualsiasi di questi atteggiamenti
spirituali che sono una distorsione della vera ricerca di Dio e finiscono per
negarla. Il contatto personale con Cristo ci porta a scoprire e dimostrare che
Cristo è l’uomo nuovo che, nella sua
nuova struttura, integra e riunisce tutti gli uomini.
E’, quindi, un nuovo mondo, una nuova
creazione. Dal momento in cui il Figlio di Dio è penetrato nella vecchia
creazione, si genera un influsso decisivo dello Spirito Santo che rinnova tutte
le cose: «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.»
(Sal 103, 30). La venuta di Cristo nel mondo e la redenzione che ha portato a
termine sono fatti storici; ma i frutti della sua presenza in mezzo a noi e la
sua opera sono ancora presenti e permanenti. Se ci limitiamo solo al fatto
storico, ci sarà possibile vedere l'influenza che Gesù e il suo Vangelo hanno
esercitato fino al punto di dare alla luce una nuova morale, una nuova cultura,
una nuova civiltà. Ma il risultato sarebbe quindi piuttosto piccolo, si potrebbe
dire che il corso del mondo non è stato trasformato: in un certo modo ha
continuato il suo ritmo normale. Ma guardando a ritroso questo fatto come una
presenza sempre presente risulta evidente che è come un lievito che è penetrato
e penetra nei singoli individui e nella società. Questa presenza è una garanzia
di vittoria, di lenta e progressiva trasformazione del mondo. Finché il mondo
esisterà, Cristo rimarrà presente: continuerà piangendo in esso, facendo il
bene, avendo compassione delle moltitudini; deve inclinarsi su tutti quelli che
sono morti, su quelli che soffrono o stanno sperando nella redenzione, deve
consacrare tutto quello che è opera dell'intelligenza, del cuore e delle mani
dei suoi fratelli, gli uomini. Questa presenza e questa azione, Cristo la
realizza ora tramite il suo Spirito e in un modo «sacramentale», per mezzo
dell'Eucaristia, della Chiesa e anche di tutti i cristiani che si sono aperti
alla nuova vita, che sono animati dallo Spirito e che, rivolti verso Cristo, ne
riflettono la vita e la irradiano attraverso la propria esistenza e con tutte le
loro azioni.
E’ triste ammetterlo: facciamo fatica ad accettare nella pratica questo fatto
capitale senza il quale la nostra vita monastica e la nostra vita cristiana, e
anche la nostra esistenza di uomini, non avrebbe alcun senso. Direi che questa è
la grande tentazione di tutti i tempi, ma in certi momenti, come la nostra in
cui l'umanesimo tende a prevalere, si fa sentire più forte. Sembra che ci siano
molti cristiani, anche pastori ministeriali, per i quali l'ideale morale è
quello di vivere onestamente, secondo le esigenze di un’onestà e di una
giustizia naturale che già si trovavano nel Vecchio Testamento. Ma tutto questo
non supera il livello di giustizia morale che si poteva incontrare nella fase
pre-cristiana dell'umanità. Per ripristinare e garantire il rispetto dei diritti
umani, per stabilire la giustizia sociale, compreso il raggiungimento della
perfezione morale dei «poveri di Yahvé», in assoluto non sarebbe stato
necessario che Cristo fosse venuto. La venuta di Gesù nel nostro mondo ha
cambiato fin nel più profondo le prospettive precedenti. Nella nostra vita
personale come nella storia dell’umanità, tutto è cambiato nel momento in cui
tutto è stato «ricapitolato» in Cristo (Ef 1,10): la nostra esistenza
individuale si è trasformata in «una nuova creatura in Cristo» nello stesso
tempo che la storia del mondo è stata inserita nella storia della salvezza.
Arrivare ad essere una nuova creatura significa avere un nuovo dinamismo vitale
e muoversi sotto il suo impulso. Non basta sapere che tu sei un cristiano,
battezzato membro del Corpo di Cristo, chiamato ad una maggiore intimità con lui
nella vita monastica, forse partecipe del suo sacerdozio, se tutto ciò rimane
nel piano delle categorie intellettuali o , se si vuole, delle convinzioni
religiose. Tutti i titoli della nostra appartenenza a Cristo ci chiedono di
essere uomini nuovi, rinnovati nella propria struttura e nella propria capacità
di partecipare all'essere di Dio. «In verità, in verità ti dico, se uno non
rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio… se uno non nasce da acqua e
da Spirito, non può entrare nel regno di Dio» Gv 3,3.5).
D'ora in poi, i nostri atti personali sono vincolati con quelli di Cristo e i
suoi con la nostra vita. Cristo è là dove siamo noi; la sua presenza ci penetra,
ci rende «ciò che siamo», ripara e
riscatta da ciò che noi non siamo veramente; tramite ciò che siamo irradia e si
diffonde intorno a noi, così che non è la nostra azione personale, ma la
presenza di Cristo in noi, accolta con amore e trasmessa con entusiasmo
attraverso le azioni umane, che ha un valore di messaggio, di testimonianza, di
redenzione.
Inoltre, la novità di vita genera una
nuova società, crea nuovi mutui rapporti tra gli uomini. Non siamo soli, non
viviamo in isolamento dai nostri simili. Il nostro destino personale si inscrive
nella storia di un mondo che si evolve, nello stesso tempo che noi ci integriamo
nel mistero inalterabile della vita divina che, tramite l'incarnazione, è venuta
nel nostro mondo per consacrarlo: «Adventu suo piissimo universum mundum
consecravit», si cantava alla
vigilia di Natale. Il mondo intero deve essere colmato di questa vita nuova,
come l'annuncia san Paolo:. «La creazione stessa attende con impazienza la
rivelazione dei figli di Dio… geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto…
e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio»
(Rm 8,19.22.20.21). Ogni cristiano ha una certa responsabilità in questa
trasformazione del mondo e dell'intero universo.
L’atteggiamento più assurdo, più anormale , è l'isolamento. L'isolamento è la
reazione malsana della nostra psicologia, e può verificarsi a qualsiasi età, in
circostanze molto diverse e per mille ragioni, perfino di spiritualità; ma è
sempre una reazione egoista che si traduce in uno spirito d’indipendenza o nella
paura dell'altro. Dal momento in cui Cristo ha fatto irruzione nella nostra vita
individuale e collettiva siamo vitalmente collegati gli uni con gli altri: «Come
infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur
essendo molte, sono un corpo solo,... Non può l'occhio dire alla mano: “Non ho
bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1 Cor 12, 12.21)
Tale è la base del dialogo cristiano: abbiamo bisogno di ricevere e dare,
dobbiamo essere accettati, ma anche accettare: ognuno necessita del suo fratello
per entrare in una speciale comunione con il Cristo che porta con sé. La
situazione personale di ciascuno nella storia e nel mondo è condizionata dal
luogo che, secondo il disegno di Dio, deve infine occupare nel Corpo del Cristo
totale e glorioso, « In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,…
predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo
il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia» (Ef
1 ,4-5). La nostra singola esistenza in unione con tutti gli uomini e
intimamente connessa con alcuni di loro, sviluppa la nostra personalità
cristiana, destinata ad irradiare nell’eternità e in particolare nel Corpo
mistico di Cristo un aspetto singolare della perfezione infinita di Dio.
Ma nel nostro tempo, dominato dal secolarismo, il cristiano è lì a testimoniare
che la vita di Cristo, nato dalla stirpe umana come capo della nuova umanità, è
entrata nella nostra storia. Così che questa è diventata cristiana, non solo per
il fatto dell'Incarnazione, ma soprattutto poiché questo uomo-Dio, Gesù, che è
nato ed è vissuto in un certo punto della nostra terra e in un momento del
nostro tempo, «ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose»
(Ef 4,10). «E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa» (1 Cor 15,28).
Il monaco, che, secondo san Benedetto, «nulla antepone all’amore di Cristo» (RB
4), è un cristiano che crede che la sua persona dedicata completamente al
Signore incarni la sua presenza in modo tale che diventa a sua volta come Cristo
e in Cristo, presenza e messaggio di vita nuova nella Chiesa e nel mondo.
Consapevole di questo fatto, si sforza di approfondirlo e tradurlo nella sua
vita personale. In seguito, per lui, la sua condotta non sarà regolamentata in
base ai concetti di applicazione e di trasgressione della legge, ma sul
fondamento delle sue relazioni con la nuova vita che germoglia in lui tramite la
presenza di Cristo e l’azione del suo Spirito. Se il peccato ha cancellato a
volte questa presenza o, più spesso, ha portato il monaco a sottrarsi a ciò che
gli veniva richiesto, il ritorno sul sentiero della coscienza retta e la pace
dello spirito si basa sul desiderio di «tornare attraverso la solerzia
dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della
disobbedienza» (Prol.). E’, quindi, un ritorno a Cristo per trovare in lui
questa redenzione che egli portò a termine un giorno e che d'ora in poi noi
possediamo, per cui ci apriamo ad essa per amore o per lo meno per la
contrizione e la volontà.
Aprirsi alla redenzione significa non solo accettare i frutti del mistero
pasquale del Signore, ma riprodurre questo mistero nella propria vita. Mentre
siamo in questo mondo e la nostra redenzione non è pienamente realizzata,
dobbiamo sempre essere pronti a «spogliarsi dell'uomo vecchio con le sue azioni
e rivestire il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del
suo Creatore» (Col 3,9-10). Lungo questa linea di spiritualità evangelica e
pasquale, san Benedetto offre al monaco un mezzo di un innegabile efficacia:
«perseverare fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua
dottrina, per partecipare con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo»
(Prol.). Si potrebbe, senza forzare nulla nel testo, applicare in modo
particolare al monaco ciò che Pietro afferma di tutti i cristiani: «A questo
infatti siete stati chiamati, poichè anche Cristo patì per voi, lasciandovi un
esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2,21). Tale è il senso pieno della
parola «Vangelo» che ci esprime l'invito di San Benedetto: «sotto la guida del
Vangelo, incamminiamoci per le sue vie» (Prol.). Questa dovrebbe essere, allora,
la prima base della formazione monastica: lo studio del Vangelo, fonte di tutta
la vita cristiana.
Il «Vangelo», in effetti, è la «buona novella», l'annuncio che «Dio, infatti,
ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede
in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.» (Gv 3,16). E’ il messaggio pasquale
che trasmette san Paolo come «il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete
ricevuto,…e dal quale anche ricevete la salvezza»; vale a dire; «Cristo morì per
i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo
giorno secondo le Scritture» (1 Cor 15, 1-4), o scrive ai Romani: «Gesù nostro
Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato
risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25). Chi accetta Cristo e il
suo Vangelo così come Paolo lo predica non può adottare altro atteggiamento che
quello a cui invita l'Apostolo: prendere la direzione di una «vita nuova» (Rm
6,4), in cui «quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è
morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,15). Fino a vibrare di entusiasmo come
l'Apostolo stesso «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20 ); e di
conseguenza orientare la propria vita in Cristo, là dove lo si incontra seduto
alla destra del Padre, e di «cercare le cose di lassù, ... non quelle della
terra….la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!» (cfr Col 3,1-3).
La Regola insegna al monaco a camminare per le vie del Vangelo con
determinazione e senza ostacoli. Non in un modo disincarnato ma, come insegna
san Paolo, «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio»
(cf. Gal 2,20).
Il monachesimo cristiano non avrebbe senso se non fosse fondato sulla piena
accettazione del mistero pasquale del Vangelo in tutte le sue ultime
conseguenze. La vita monastica non è giustificata solo come un servizio al
Vangelo, per accoglierlo con una fede più pura, per rimuovere i principali
ostacoli al suo compimento, per suscitare una disponibilità totale, in modo che
il Vangelo si imponga alla vita del monaco per suo proprio dinamismo. Allora,
grazie alla forza del Vangelo, il monaco si converte in una «nuova creatura» in
modo che, prendendo senza sosta la direzione di Cristo, finisce per esclamare
con san Paolo: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Appartiene al monaco come frutto della sua missione il contribuire a rendere
presente l’azione di Cristo, in primo luogo a livello della sua vita personale e
poi, attraverso questa, in tutto il mondo. Tutto ciò che esiste nel cielo e
sulla terra deve essere «ricapitolato» in Cristo, in modo che tramite lui tutti
gli esseri siano riconciliati e trovino la pace, l'ordine e la felicità nella
propria sottomissione a Dio e al Suo piano. Il monaco si propone di realizzare
questo nel microcosmo della sua esistenza. Rimanda tutto a Cristo; è in lui che
cerca la spiegazione di tutte le cose, anche del bene e del male che vede in sé,
delle sue aspirazioni soddisfatte e di quelle inappagate.
Nella misura in cui unifica più profondamente la propria esistenza in
Cristo, impara ad apprezzare tutti gli eventi della storia riferendoli a Cristo,
li chiarisce alla luce di Cristo, coglie in essi le disposizioni relative al
compimento della redenzione totale in Cristo. E’ in Cristo che coglie meglio il
male ed i mali del mondo in tutta la loro profondità, in quanto è in Cristo che
coglie meglio la gravità del proprio peccato. È anche in Cristo che mette a
fuoco il termine finale verso il quale il mondo si sta dirigendo. Si potrebbe
dire che il monaco coglie il senso del mondo alla luce più veritiera del suo
punto alfa e del suo punto omega. E’ la visione di san Benedetto lungo la sua
intera Regola, ed è soprattutto la visione che ebbe alla fine della sua vita,
quando «fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto
sotto un unico raggio di sole» (san Gregorio Magno, Dialoghi, II, 35).
Forse è in questa comprensione del mistero di Cristo, appreso dalle Sacre
Scritture tramite la «lectio divina», e nell'Eucaristia tramite la spiritualità
liturgica, che possiamo incontrare le caratteristiche della spiritualità
monastica in ciò che la distingue da quella di altri religiosi, consacrati, come
il monaco, a cercare Dio attraverso la più rigorosa fedeltà al Vangelo. Come
frutto normale della sua vocazione, il monaco ha un accesso spontaneo, quasi
innato, al mistero di Cristo, che lo rende di norma contemplativo. Agli occhi di
alcuni, il monaco passa per un contemplativo; altri ne fanno un liturgista.
Fondamentalmente tutti esprimono la stessa realtà: è la penetrazione mediante la
fede nel mistero di Cristo, ritrovato nella vita quotidiana attraverso gli
eventi più normali. E’ la visione delle nuove relazioni tra gli uomini, la
visione di un mondo nuovo che si costruisce ogni giorno tra le doglie del parto.
La vita del monaco radicata in Cristo lo conduce a un equilibrio, a un
ottimismo, a una discrezione che sono il risultato di questa visione di fede, di
questa mutua compenetrazione con Cristo, in comunione con i suoi sentimenti e
nella visione che egli ha di tutte le cose. Ed è questo insieme di qualità umane
e soprannaturali che fa di lui nella Chiesa un «uomo di Dio».
POR EL CAMINO POR DONDE NOS GUIA EL EVANGELIO
Per ducatum evangelii (Pról.)
En su discurso sobre el pan de vida, tal como san Juan nos lo ha transmitido,
Jesús, al igual que la Sabiduría del Antiguo Testamento, invita a todos los
hombres a su banquete. Para san Juan, Jesús es esta Sabiduría de Dios que se
ofrece a si mismo para ser alimento de nuestra vida nueva. El es el Pan de Vida:
como Palabra de Dios, pues conoce los secretos de Dios y los revela a todos
aquellos que vienen a el ávidos de verdad; y como Víctima ofrecida en
sacrificio, que por su cuerpo y su sangre es verdaderamente comida y bebida para
los que quieren vivir para siempre.
Ante la reaccion de los judíos, Jesús precisa: «Nadie puede venir a mi si el
Padre que me ha enviado no lo atrae...
Está escrito en los profetas: Serán todos enseñados por Dios.
Todo el que escucha a mi Padre y aprende su enseñanza, viene a mí» (Jn 6,44-45).
Hacia el fin desu vida, Jesús aclararía esta enseñanza a sus apóstoles: «el
Espíritu Santo, que el Padre enviará en mi nombre, os lo enseñará todo y os
recordará todo lo que yo os he dicho» (Ip I4;26). «Cuando venga él, el Espíritu
de la verdad, os guiará hasta la verdad completa; pues no hablará por su cuenta,
sino que hablará lo que oiga, y os anunciará lo que ha de venir. El me dará
gloria, porque recibirá de lo mío y os lo comunicará a vosotros» (Jn 16,13-14).
Este conjunto de textos que acabo de recordar nos ofrece un compendio de la
vida monástica si se la quiere considerar tal cual es: una vocación cristiana.
El Padre nos atrae hacia Cristo y nos da su Espíritu a
fin
de que éste nos anuncie las cosas que han de venir y glorifique
a Cristo en nosotros, haciéndonos participar de la Sabiduría de Dios.
Ahora bien -era la conclusión que sacaba de eso Nuestro Señor Jesucristo -,
«todo el que escucha a mi Padre y aprende su enseñanza, viene a mí» (Jn 6,45).
Sí, el fruto más precioso de la vida monástica es el descubrimiento de una
Persona que nos es infinita e inefablemente próxima, que ejerce con todo su ser
un atractivo irresistible, dándonos la íntima convicción de que en ella, y en
ella sola, serán colmadas todas las aspiraciones de nuestra alma. Esta Persona
es Jesús, el Hijo de Dios.
Cuando la búsqueda de Dios es auténtica, conduce al descubrimiento personal de
Cristo: Cristo tal cual es, Dios y hombre, Hijo del Padre y hermano nuestro,
manifestación viva del amor de Dios a través de las vibraciones de su corazón de
came, a través de los acontecimientos de su vida y las relaciones de su Persona.
Nos sucede a nosotros lo mismo que a sus contemporáneos: que nos sentimos
irresistiblemente atraídos por su encanto.
He aquí a dos hombres, Simón y Andrés, trabajando en su oficio de pescadores y
echando su red al mar.
Jesús pasa cerca de ellos y les dice: «Venid en pos de mí y os haré pescadores
de hombres». Y ellos al instante, dejando las redes, le siguieron. Siguió
adelante y vio otros dos hermanos, Santiago el de Zebedeo y su hermano Juan, que
estaban en la barca con su padre Zebedeo arreglando sus redes; y los llamó.
Y ellos, al instante, dejando la barca y a su padre, le siguieron» (Mt 4,19-22).
Otro día. «al pasar vio Jesús a un hombre llamado Mateo, sentado en el despacho
de impuestos, y le dice: “Sígueme”. El se levantó y le siguió» (ibid. 9,9).
A nosotros nos choca, tal vez nos molesta, lo que hay de espontaneidad, de poco
razonamiento en la actitud de los discípulos, siguiéndole así de repente,
incondicionalmente. En
efecto, al menos en el primer caso, Jesús no se había manifestado aún
públicamente en el sentido de que todavía no había hecho milagros. Pero ahí está
precisamente lo importante: no son sus milagros, o la doctrina que predicaba lo
que provocaba esta atracción tan fuerte. Era el mismo, era su persona, en quien
se encarnaba la doctrina que venía a transmitir y la gracia de curación que
emanaba de él.
Jesus venía a anunciar que Dios es Padre y que en su designio queria hacer de
todos los hombres hijos.
Pero este mensaje no lo anunciaba como lo haria un predicador o un profeta. Era
él mismo el que ostentaba a la vez el anuncio y la presencia de esta realidad.
Era el Hijo del Padre, presente en el mundo, y era por eso por lo que su ser
humano, muy por encima del de los demás hombres, podía ser tan atrayente: porque
encarnaba perfectamente la realidad divina que venía a anunciar. Y él lo
encarnaba precisamente haciéndose hombre, semejante a uno de nosotros, entrando
en relaciones personales con nosotros, de hombre a hombre, de hermano -a
hermano, para asegurar a cada uno que el acceso a las realidades que anunciaba
sería verdaderamente posible en adelante. Y nadie es excluido de este mensaje y
de esta gracia, porque en él la naturaleza humana en su universalidad tiene
acceso a la divinidad: gentiles, griegos y judíos, circuncisos o incircuncisos,
sin exceptuar a los más pobres, a los afligidos, a los pecadores; o a aquellos
que eran declarados impuros o anatemas a los ojos de la religión oficial. Basta
con aceptar su mensaje acogiendo a su persona con corazón disponible.
Tal vez eran justamente estos pequeños, los más miserables, los más pobres entre
los hombres, quienes se abrían a él con mayor simplicidad y confianza y llegaban
así a penetrar en el verdadero sentido de su evangelio. Nadie, por el contrario,
era más atento que los fariseos para escuchar su palabra, para escrutar su
mensaje; nadie más preocupado de ver el detalle de sus milagros, para
analizarlos escrupulosamente. Sin embargo, como se preocupaban ante todo de
darse cuenta del sentido de su doctrina o del valor apologético de sus
prodigios, sin aceptar por anticipado su persona, permanecieron en las
tinieblas. Tenían ojos, pero no veían; tenían oídos, pero no oían. Su alma
permanecía en la duda y la angustia.
Ante los prodigios de Jesús, se preguntaban: «¿Quién es éste, que impera a los
vientos y al agua, y le obedecen?» (Lc 8,25).
San Juan nos cuenta las reacciones de las multitudes y de los judíos ante la
doctrina y los milagros del Señor.
«Entre la gente, muchos que le habían oido decían: `Este es sin duda el
profeta`. Otros decían: “Este es el Cristo`››. Son las gentes
más sencillas. Pero otros, los que se consideraban más intelectuales en materia
de doctrina y más religiosos, respondian entonces: «¿Acaso va a venir de Galilea
el Cristo? ¿No dice la Escritura que el Cristo vendrá de la descendencia de
David y del pueblo de BeIén?» (Jn 7,40-42). Los judios, los fariseos que
permanecían siempre en la duda, le dicen entonces: «¿Quién eres tú?››. Más tarde
son ellos los que todavía vienen a preguntarle: «¿,Hasta cuándo nos vas a tener
pendientes?
Si eres el Cristo, dínoslo claramente» (Jn 10,24). La misma pregunta le hace el
sumo sacerdote ante el sanedrin reunido para su proceso: «Si eres el Cristo,
dínoslo» (Lc 22.67).
Tal vez nos hacemos de los fariseos y de los responsables religiosos del tiempo
de Jesús una idea falsa, demasiado peyorativa, como si ellos hubieran sido
siempre sus enemigos o sus contrarios, sin razón válida, por envidia o celos.
Tal juicio no sería justo. Varios de entre ellos -y el caso de Nicodemo es
claro- eran hombres profundamente religiosos, muy celosos de la Ley de Dios.
Y si sobre tal o cual punto su exigencia era excesiva, no era más que una
manifestación de su fervor religioso. Cuando el celo religioso entra en juego,
es muy difícil guardar un justo equilibrio; de ello tenemos actualmente muchas
pruebas.
¡Es tan fácil, en nombre del interés de la Ley y de la ortodoxia, llegar a
excesos semejantes a los que podía reprochar Jesús a los fariseos de su tiempo!
Eran los celadores de la Ley hasta el punto de hacerse ellos mismos como una
encarnación viviente, tanto que toda falta a la Ley llegaba a ser para ellos una
ofensa personal. Y así el circuito de su celo se cerraba sobre ellos mismos sin
dejar ya lugar a la corriente altruista del amor. Ellos no amaban, o no amaban
bastante, porque no sentían necesidad de ser perdonados.
Por el contrario, las gentes más sencillas han sabido dejarse llevar del
corazón. San Pedro por lo pronto, uno de los primeros en seguirle, con aquella
espontaneidad que le caracterizaba, declaró un día la razón de esta adhesión
total, sin reservas: «Señor, ¿dónde vamos a ir? Tú tienes palabras de vida
etema, y nosotros creemos y sabemos que tú eres el santo de Dios» (Jn 6,68-69).
Otro entre los primeros llamados afirmaba de Jesús: «El era la vida, y la vida
era la luz de los hombres (cf. Jn 1,4). El mismo apóstol Juan nos transmite con
devoción las solemnes declaraciones del Señor: «Yo soy la luz del mundo. Quien
me sigue no caminará en tinieblas, sino que tendrá la luz de la vida.,.
Yo soy el camino, la verdad y la vida,.. Nadie va al Padre sino por mí... Si me
conocéis a mí conoceréis también a mi Padre» (Jn 8,44; 14,6-7).
Primero él. En él se encuentran la luz y la vida, la doctrina y la redención.
Lo que se busca por encima de todo cuando se busca a Dios en verdad, no es la
doctrina de Jesús, no es su gracia de redención o santificación, es a él mismo:
«en el cual -según la expresión de san Pablo - están ocultos todos los tesoros
de la sabiduria y de la ciencia» (Col 2,3). Es él, él mismo «quien ha venido a
semos de parte de Dios, sabiduría, justicia, santificación
y redención» (cf. 1 Cor 1,30-31). El descubrimiento de Cristo no es, pues,
cuestión de erudición, de reflexión teológica, de meditación, de práctica de
virtudes de fidelidad a principios morales o ascéticos.
No es tampoco una
cuestión de sentimiento, sino de encuentro vivo. Los elementos intelectuales,
psicológicos y ascéticos pueden servir para preparar un encuentro, como pueden
dístraemos de la presencia del Señor. No importa que seamos sabios o ignorantes,
friamente intelectuales o, por el contrario, hombres de viva sensibilidad,
llevados a entregarnos a la ascesis o más bien inclinados a disfrutar de la
libertad del espíritu.
Lo que no falta nunca en el fondo de
todo verdadero encuentro con Cristo, es lo que nos ha anunciado san Pablo: «El
que está en Cristo es una nueva creación; pasó lo viejo, todo es nuevo» (2 Cor
5,17). Este es siempre el fruto, el signo y la garantía del verdadero
descubrimiento de Cristo.
Esta frase de san Pablo nos da una luz decisiva. El descubrimiento personal de
Cristo suscita un dinamismo interior que no puede degenerar en rutina, en
quietismo, en devocionismo, o en una cualquiera de estas actitudes espirituales
que son una deformación de la verdadera búsqueda de Dios y terminan por
reducirla a la nada. El contacto personal con Cristo nos conduce a descubrir y a
comprobar que Cristo es el hombre nuevo
que, en su estructura nueva, integra y reúne a todos los hombres.
Hay, pues, un mundo nuevo, una
creación nueva. Desde el momento en que el Hijo de Dios ha penetrado en la vieja
creación, se produce un influjo decisivo del Espíritu Santo que lo renueva todo:
«Envías tu soplo, y son creadas, y renuevas la faz de la tierra» (Sal 103,30).
La venida de Cristo al mundo y la redención que ha llevado a cabo son hechos
históricos; pero los frutos de su presencia entre nosotros y de su obra son
todavía actuales y permanentes. Si nos limitamos únicamente al hecho histórico,
nos será posible notar la influencia que Jesús y su Evangelio han ejercido hasta
el punto de dar origen a una nueva moral, a una nueva cultura, a una nueva
civilización. Pero el resultado sería entonces bien pequeño, pues podría decirse
que el curso del mundo no ha sido trastornado: ha continuado en cierto modo su
ritmo normal. Pero si miramos por el contrario este hecho como una presencia
siempre actual, es como una levadura que ha penetrado y penetra en los
individuos y en la sociedad. Esta presencia es una garantía de victoria, de
lenta y progresiva transformación del mundo.
Mientras el mundo exista, Cristo permanecerá presente: continuará llorando en
él, haciendo el bien, teniendo compasión de las multitudes; tiene que inclinarse
sobre todos aquellos que han muerto, sobre los que sufren o están esperando la
redención, tiene que consagrar todo lo que ha de ser obra de la inteligencia,
del corazón y de las manos de sus hermanos los hombres. Esta presencia y esta
acción, Cristo las realiza ahora por su Espíritu y de una manera «sacramental»,
por medio de la Eucaristía, de la Iglesia y también de todos los cristianos que
se han abierto a la vida nueva, que son animados por el Espíritu y que, vueltos
hacia Cristo, reflejan la vida y la irradian a través de su existencia y con
cada una de sus acciones.
Es triste tener que confesarlo: nos cuesta mucho en la práctica aceptar este
hecho capital sin el que nuestra vida monástica y nuestra vida cristiana, e
incluso nuestra existencia como hombres, no tendrían ningún sentido. Yo diría
que se trata de la gran tentación de todos los tiempos, pero que en ciertas
épocas, como la nuestra en la cual el humanismo tiende a predominar, se hace
sentir con más fuerza. Da la impresión de que hay muchos cristianos, e incluso
pastores, para quienes el ideal moral consiste en vivir honradamente, según las
exigencias de una honradez y de una justicia naturales, que se encuentran ya en
el Antiguo Testamento. Pero en todo esto no se sobrepasa el nivel de la justicia
moral tal como podría encontrársela en el estadio pre-cristiano de la humanidad.
Para restablecer y hacer respetar los derechos del hombre, para instaurar la
justicia social, incluso para llegar a la perfección moral de los «pobres de
Yahvé», no habría sido en absoluto necesario que hubiera venido Cristo. La
venida de Jesús a nuestro mundo ha modificado hasta lo más profundo las
perspectivas anteriores. En nuestra vida personal como en la historia de la
humanidad, todo ha cambiado desde el momento en que todo ha sido «recapitulado››
en Cristo (Ef 1,10): nuestra existencia individual se ha convertido en «una
nueva creatura en Cristo» al mismo tiempo que la historia universal se insertaba
en la historia de la salvación.
Llegar a ser una nueva creatura significa disponer de un nuevo dinamismo vital y
moverse bajo su impulso. No basta con saber que se es cristiano, bautizado,
miembro del Cuerpo de Cristo, llamado a una mayor intimidad con él en la vida
monástica, participe tal vez de su sacerdocio, si todo eso se queda en el plano
de las categorías intelectuales, o, si se quiere, de las convicciones
religiosas.
Todos los títulos de nuestra pertenencia a Cristo exigen que seamos hombres
nuevos, renovados en sus estructuras y en su capacidad de participar en el ser
de Dios.
«En verdad te digo: el que no nazca de lo alto no puede ver el reino de Dios...
el que no nazca del agua y del Espíritu no puede entrar en el reino de Dios» (Jn
3,3.5).
En adelante, nuestros actos personales están comprometidos con los de Cristo y
los suyos con nuestra vida. Cristo está allí donde estamos nosotros; su
presencia nos penetra, nos hace ser «lo que somos», repara y rescata de aquello
que no es nosotros verdaderamente; a través de lo que somos, irradia y se
transmite alrededor de nosotros, de tal suerte que no es nuestra acción personal
sino la presencia de Cristo en nosotros, acogida con amor y transmitida con
entusiasmo a través de los actos humanos, la que tiene valor de mensaje, de
testimonio, de redención.
Por otra parte, la novedad de vida engendra una
sociedad nueva, crea nuevas
relaciones mutuas entre los hombres. Nosotros no estamos sološ, no vivimos
aislados de nuestros semejantes.
Nuestro destino personal se inscribe en la historia de un mundo que está en
evolución, al mismo tiempo que nos integramos en el misterio inconmovible de la
vida divina que, por la encarnación, ha venido a nuestro mundo para
consagrarlo : «Adventu suo piissimo universum mundum consecravit», se cantaba en
la vigilia de Navidad. El mundo entero tiene que ser colmado de esta vida nueva,
como lo anuncia san Pablo: «expectante, la creación, desea vivamente la
revelación de los hijos de Dios... gime hasta el presente y sufre dolores de
parto... en la esperanza de ser liberada de la servidumbre de la corrupción para
participar en la gloriosa libertad de los hijos de Dios» (Rm 8,19.22.20.21).
Todo cristiano tiene su parte de responsabilidad en esta transformación del
mundo y del universo entero.
La
actitud más absurda, la más anormal, es el aislamiento. El aislamiento es una
reacción malsana de nuestra psicología, y puede darse en todas las edades, en
circunstancias muy diversas y por mil razones, hasta de espiritualidad; pero es
siempre una reacción de egoísmo que se traduce en un espíritu de independencia o
de temor a los demás.
Desde el momento en que Cristo ha irrumpido en nuestra vida individual y
colectiva, estamos vitalmente ligados unos a los otros: «del mismo modo que el
cuerpo es uno... y todos los miembros del cuerpo, no obstante su pluralidad, no
fonnan más que un solo cuerpo... y no puede el ojo decir a la mano: 'No te
necesito`. Ni la cabeza a los pies: “No os necesito'›› (1 Cor 12, 12.21). Tal es
la base del diálogo cristiano: nos es necesario recibir y dar; debemos ser
aceptados, pero también aceptar; cada uno tiene necesidad de su hermano para
entrar en una comunión especial con el Cristo que lleva en sí. La situación
personal de cada uno en la historia y en el mundo está condicionada por el lugar
que según el designio de Dios debe ocupar al fin en el Cuerpo del Cristo total y
glorioso, «por cuanto nos ha elegido en él antes de la creación del mundo...
destinándonos de antemano a ser sus hijos adoptivos por medio de Jesucristo,
según el beneplácito de su voluntad, para alabanza de la gloria de su gracia»
(Ef 1,4-5). Nuestra existencia singular en el conjunto de los hombres y en
íntima relación con algunos de ellos, desarrolla nuestra personalidad cristiana,
destinada a irradiar en la eternidad y sobre todo el Cuerpo místico de Cristo un
aspecto singular de la infinita perfección del Señor.
Pero también dentro de nuestra época, dominada por el secularismo, el cristiano
está ahí para testimoniar que la vida de Cristo, nacido de la raza humana como
Jefe de la nueva humanidad, ha penetrado en nuestra historia. De suerte que ésta
se ha hecho cristiana, no solamente por el hecho de la Encamación, sino sobre
todo porque este Hombre-Dios, Jesús, que ha nacido y ha vivido en un punto de
nuestra tierra y en un momento dado de nuestro tiempo, «subió por encima de
todos los cielos, para llenarlo todo» (Ef 4,10). «Cuando hayan sido sometidas a
él todas las cosas, entonces también el Hijo se someterá a Aquel que ha sometido
a él todas las cosas» (1 Cor 15,28).
El monje, que, según san Benito, «no antepone nada al amor de Cristo» (RB 4), es
un cristiano convencido de que su persona entregada completamente al Señor
encarna de tal manera su presencia, que llega a ser a su vez como Cristo y en
Cristo, presencia y mensaje de vida nueva en la Iglesia y en el mundo.
Consciente de este hecho, se afana en profundizarlo y traducirlo en su vida
personal. En lo sucesivo, para él, su conducta no se regulará ya sobre los
conceptos de ley, de cumplimiento y de transgresión, sino sobre el fundamento de
sus relacíones con la vida nueva que brota en él por la presencia de Cristo y la
acción de su Espíritu. Si el pecado ha borrado a veces esta presencia, o, con
más frecuencia, ha llevado al monje a sustraerse a sus exigencias, el retomo al
camino de la conciencia recta y de la paz del espíritu se apoya sobre el deseo
de «volver por el trabajo de la obediencia a Aquel de quien se había apartado
por la desidia de la desobediencia» (Pról.). Es, pues, un retomo a Cristo para
encontrar en él esta redención que él ha llevado un día a cabo y que en adelante
nos pertenece, tanto que nosotros nos abramos a ella por el amor o al menos por
la compunción y el deseo.
Abrirse a la redención no significa solamente aceptar los frutos del misterio
pascual del Señor, sino también reproducir este misterio en la propia vida.
Mientras estamos en este mundo y nuestra redención no está completamente
realizada, debemos estar siempre dispuestos a «despojarnos del hombre viejo con
sus obras, y revestimos del hombre nuevo que se va renovando hasta alcanzar un
conocimiento perfecto según la imagen de su Creador» (Col 3,9-10). En esta línea
de espiritualidad evangélica y pascuãl, san Benito ofrece al monje un medio de
una eficacia indiscutible: «perseverar en el monasterio hasta la muerte, para
compartir en él por la paciencia los sufrimientos de Cristo» (Pról.). Se podría,
sin forzar en nada el texto, aplicar particularmente al monje lo que san Pedro
afirma de todos los cristianos: «para esto habéis sido llamados, ya que también
Cristo sufrió por vosotros, dejándoos ejemplo para que sìgáis sus huellas» (1 Pe
2,21). Tal es el sentido pleno de la palabra «Evangelio›› cuando san Benito nos
invita a «marchar adelante por el camino del Evangelio siguiendo los senderos
que el Señor nos trace» (Pról.). Tal debería ser, pues, la primera base de la
fomación monástica: el estudio del Evangelio, fuente de toda vida cristiana.
El «Evangelio››, en efecto, es la «Buena Nueva», el anuncio de que «Dios ha
amado tanto al mundo que le dio a su único Hijo, para que todo el que crea en él
no perezca sino que tenga la vida eterna» (Jn 3,16). Es el mensaje pascual que
san Pablo transmite como «el Evangelio que habéis recibido... por el cual seréis
salvados»; es decir; «que Cristo murió por nuestros pecados, según las
Escrituras; que fue sepultado y que resucitó al tercer día según las Escrituras»
(1 Cor 15,1-4), o según escribe a los Romanos: «que nuestro Señor Jesús fue
entregado por nuestros delitos, y fue resucitado para nuestra justificación» (Rm
4,25). Quien acepta a Cristo y su Evangelio tal como lo predica san Pablo no
puede adoptar otra actitud que aquella a la que invita el Apóstol: tomar el
rumbo de una «vida nueva» (Rm 6,4), en la cual «los que vivan no vivan ya para
sí sino para Aquel que murió y resucitó por ellos» (2 Cor 5,15). Hasta vibrar de
entusiasmo como el Apóstol mismo: «me amó y se entregó a si mismo por mí» (Gal
2,20); y en consecuencia orientar su vida hacia Cristo, allí donde se encuentra
sentado a la derecha del Padre, y «buscar las cosas de arriba, no las de la
tierra, pues la vida del cristiano está en adelante escondida con Cristo en
Dios» (cf Col 3,1-3).
La Regla enseña al monje a caminar por las rutas del Evangelio con decisión y
sin obstáculos. No de una manera desencarnada sino como san Pablo, «viviendo de
la fe en el Hijo de Dios, aunque al presente vivo en la came» (cf Gal 2,20).
El monaquismo cristiano no tendría sentido si no estuviera fundado sobre la
aceptación integral del misterio pascual del Evangelio hasta en sus últimas
consecuencias. La vida monástica no se justifica mas que como servicio al
Evangelio, para acogerla con una fe más pura, para suprimir los principales
obstáculos a su cumplimiento, para suscitar una disponibilidad total, a fin de
que el Evangelio se imponga así a la vida del monje por su dinamismo propio.
Entonces, por el poder del Evangelio, el monje se convierte en «creatura nueva»
en la medida en que tomando sin cesar la dirección de Cristo, termine por poder
exclamar como san Pablo: «vivo, pero no yo, sino que es Cristo quien vive en mí»
(Gal 2,20).
Pertenece al monje como fruto de su misión contribuir a hacer presente la acción
de Cristo a nivel de su vida personal primero, luego, a través de ésta, en el
mundo.
Todo lo que existe en el cielo y en la tierra debe ser «recapitulado» en Cristo,
a fin de que por él todos los seres sean reconciliados y encuentren la paz, el
orden y la felicidad en su sumisión a Dios y a su plan. El monje se propone
realizar eso en el microcosmos de su existencia. Lo refiere
todo a Cristo; es en él en quien busca la explicación de todas las cosas,
incluso del bien y del mal que ve en si, de sus anhelos satisfechos y de sus
aspiraciones frustradas. A medida que unifica
más profundamente su existencia en Cristo, aprende a apreciar todos los
acontecimientos de la historia con referencia a Cristo, los aclara a la luz de
Cristo, capta en ellos las disposiciones en relación con el cumplimiento de la
redención total en Cristo. Es en Cristo en quien comprende mejor el mal y los
males del mundo en toda su profundidad, como es en Cristo en quien capta mejor
la gravedad de su propio pecado.
Es también en Cristo en quien enfoca el término final hacia el cual se encamina
el mundo. Se podría decir que el monje capta el sentido del mundo a la luz más
verdadera desde su punto alfa y desde su punto omega. Es la visión que tiene de
él san Benito a lo largo de toda su Regla, y es sobre todo la visión que tuvo al
fin de su vida, cuando «apareció ante sus ojos todo el mundo como resumido en un
rayo de sol» (S. Gregorio, Diálogos, II, 35).
Es
tal vez en esta inteligencia del misterio de Cristo, sacada de la Sagrada
Escritura por la «lectio divina», y en la Eucaristía por la espiritualidad
litúrgica, donde podríamos encontrar las características de la espiritualidad
monástica, en lo que la distingue de la de los demás religiosos, consagrados,
como el monje, a buscar a Dios por la vía de la más estricta fidelidad al
Evangelio. Como fruto normal de su vocación, el monje tiene una penetración
espontánea, casi connatural, del misterio de Cristo, la cual le hace normalmente
contemplativo.
A los ojos de algunos, el monje pasa por un contemplativo; otros hacen de él un
liturgista. En el fondo todos expresan la misma realidad: es la penetración por
la fe en el misterio de Cristo, redescubierto en la vida de cada día a través de
los acontecimientos más corrientes. Es la visión de las relaciones nuevas que
existen entre los hombres, la visión de un mundo nuevo que se construye cada día
entre dolores de parto. La vida del monje enraizada en Cristo le conduce a un
equilibrio, a un optimismo, a una discreción, que son el fruto de esta visión de
fe, de esta compenetración mutua con Cristo, en comunión con sus sentimientos y
en la visión que él tiene de todas las cosas. Y es este conjunto de cualidades
humanas y sobrenaturales el que hace de él en la Iglesia un «hombre de Dios».
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net