L’Apocalisse di Paolo: un’introduzione
di Claudio
Zamagni
Estratto da “Cristianesimo
e dintorni” – sito "letterepaoline.net" 16 dicembre, 2011
L’Apocalisse
di Paolo (da non confondersi con l’omonimo scritto di Nag
Hammadi, V, 2) è un testo apocrifo scritto originariamente in greco ed ora
perduto nella sua redazione originaria, pur se sussistono due distinte
tradizioni in lingua greca abbreviate e recenti. La scomparsa della versione
originale in greco non è casuale, in quanto si tratta di un testo che non
ebbe molta diffusione nel mondo orientale antico, almeno rispetto a quella
che ebbe lungo il medioevo occidentale; il testo infatti ebbe una notevole
fortuna specialmente in lingua latina, nella quale sono attestate dozzine di
recensioni testuali diverse. Ed è proprio tra queste tradizioni latine che
troviamo quel che rimane della forma primitiva dell’opera (la cosiddetta
recensione L1).
Chiusa la stagione delle edizioni classiche, tra seconda metà dell’Ottocento
e primi decenni del Novecento, molte edizioni e traduzioni di questo
apocrifo sono apparse negli ultimi venti anni, in particolare un’edizione
critica parziale curata da Claude Carozzi (1994), un’edizione
semi-diplomatica curata da Theodore Silverstein e Anthony Hilhorst (1997) e
un’ultima edizione semi-diplomatica curata da Lenka Jiroušková (2006). Anche
se si tratta di una serie di edizioni molto interessanti, si sente ancora,
tuttavia, la mancanza non solo di una vera edizione critica o di un vero
commento, ma anche di una convincente analisi della storia della tradizione
di questo testo.
La narrazione gioca con i canoni del romanzo ellenistico: Paolo racconta i
dettagli della sua ascesa al paradiso, cui si allude in 2Corinzi 12,2-4:
«So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori
del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che
quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito
in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare».
Questo passo paolino è stato chiaramente l’ispiratore di tutto il testo, ed
è addirittura utilizzato come epigrafe introduttiva in diversi manoscritti
dello stesso.
Diverse possono sono le definizioni di testo apocrifo, e questo riempie
certamente una delle più chiare: è scritto (o meglio pretende di esserlo) da
un autore del periodo apostolico. E in questo caso si tratta proprio
dell’Apostolo tout
court. Il lettore, anche quello antico, riconosce tuttavia
perfettamente il carattere fittizio di tale pretesa, ed è per questo che
l’autorialità pseudoepigrafica non pone alcun problema ai testi già
canonizzati.
La trama è raccontata dallo pseudo-Paolo autore in prima persona. Nella
prima parte del libro, Paolo assiste alle manifestazioni degli elementi
della creazione (acqua, terra, etc.), che si dichiarano stufi di sopportare
l’umanità, e chiedono a Dio il permesso di distruggerla con la loro forza. A
ognuna di queste invocazioni, Dio risponde pazientemente che occorre
attendere e vedere se l’umanità sarà in gradi di convertirsi. Paolo osserva
quindi la morte di due uomini, un giusto e un malvagio, e assiste al loro
giudizio e al rispettivo premio o sanzione. Quindi ascende al terzo cielo,
ove ammira la porta d’ingresso, che reca iscritti i nomi dei giusti che
abitano sulla terra; oltre la porta, incontra Elia ed Enoch. Non ci racconta
tuttavia il resto della sua visita, seguendo il richiamo al silenzio di 2Cor
12,4. Paolo si reca quindi al firmamento, dove contempla la terra promessa,
che si trova a est del mondo abitato e, come la Gerusalemme di Ap 21,2 che
discende dal cielo, sarà rivelata solo dopo la distruzione della terra
attuale, quando al suo ritorno il Cristo instaurerà il suo regno di mille
anni prima del giudizio finale.
La descrizione di questo luogo segue i canoni topici del locus
amoenus biblico, come la presenza del fiume di latte e miele, o
dei frutti innumerevoli che Dio riserva «a chi ne è degno» (cf. anche Ap
22,2). Paolo contempla anche la Città del Cristo, circondata da dodici
cerchie di mura, luogo riservato ai vergini e a pochi altri eletti. Dopo
aver visitato diverse parti della città, recatosi a ovest del mondo, Paolo
può infine perlustrare l’inferno, di cui ci descrive una serie di vari tipi
di peccatori e di pene. Si tratta della parte più nota di questa apocalisse,
e la maggior parte delle decine di tradizioni testuali latine di questo
testo che circolarono nel medioevo erano di fatto ridotte a questa sola
sezione.
Dapprima Paolo attraversa un antinferno costituito da un fiume infuocato nel
quale stanziano, immersi in misura diversa, coloro che non sono stati in
vita né giusti né peccatori, ma hanno alternato giorni di preghiera a giorni
di peccato. Paolo descrive quindi le pene inflitte ai dannati, che sono
commisurate alla gravità dei loro peccati. Paolo si commuove a tale visione
e i dannati, vedendolo piangere, iniziano a invocare Dio, affinché abbia
pietà di loro; ed ecco che giunge l’arcangelo Michele, accompagnato da altri
angeli, a rimproverare i dannati che troppo tardi invocano la misericordia
divina. Anche Paolo però prega perché si abbia pietà dei dannati, ed ecco
apparire Gesù stesso il quale, dopo aver a sua volta ammonito i dannati,
concede loro la domenica come giorno di riposo dalle pene (il medesimo ruolo
di mediazione è svolto dalla Vergine in certe versioni del Transito
di Maria). Infine, Paolo contempla il paradiso, che è distinto
dal terzo cielo precedentemente descritto, trattandosi in effetti del
paradiso già abitato dai protoplasti. Qui egli vede la Vergine Maria e i tre
patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe, e poi Mosè, i profeti e altri
personaggi della Scrittura ebraica: Lot, Giobbe, Noè, Elia ed Eliseo. Sono
tutti personaggi positivi: Paolo non riconosce chiaramente né parla con
alcun personaggio malvagio. Il testo si chiude poi in maniera brusca, mentre
la versione copta contiene una lunga aggiunta che tratta di nuovo del terzo
cielo e del paradiso, brano che è stato spesso considerato come originario,
ma che è invece probabilmente tardivo.
Lungo il suo viaggio, Paolo è accompagnato da un angelo che lo guida
spiegandogli quel che sta vedendo, a volte impedendogli di ripetere una
parte della visione, in ossequio alla tradizione canonica di 2Cor 12,4.
Anche la descrizione di un terzo cielo distinto dal paradiso si rifà al
testo di 2Cor 12, che non spiega esattamente se l’esperienza mistica paolina
sia una e unica o se la visione del terzo cielo e del paradiso siano due
esperienze differenti. Pur apparendo evidentemente pseudoepigrafo, e anzi
direttamente ricavato dai silenzi del passo canonico, il testo tenta
pertanto di sviluppare il passo citato di 2Cor nei minimi dettagli, per
quanto possibile, e non soltanto evitando di contraddirlo troppo riguardo al
silenzio che il Paolo reale volle mantenere sulla sua visione.
A tal proposito occorre analizzare attentamente una parte fondamentale del
testo, che è stata ampiamente studiata da Pierluigi Piovanelli, ovvero il
suo prologo. Il testo contiene infatti un prologo che racconta la scoperta
del testo alla fine del IV secolo (probabilmente nel 388), nella casa che
era stata dell’apostolo Paolo a Tarso. Secondo questo prologo, questa
visione scritta da Paolo sarebbe quindi rimasta nascosta nella sua casa per
secoli prima della sua scoperta miracolosa. Quasi ogni dettaglio del prologo
è topico: dall’inventio fino
alla narrazione stessa del prologo che la racconta. Qualunque lettore, anche
nel IV secolo, avrebbe facilmente potuto intendere il carattere fittizio di
un tale prologo e dell’intera apocalisse.
Anche per questo, nel mondo del medioevo latino questa Visio
Pauli ebbe una grande diffusione, come testimoniano i 113
manoscritti latini esistenti. Si tratta del testo probabilmente più antico
che era rimasto in circolazione, e sicuramente uno tra i maggiormente
diffusi, tra quelli riguardanti le visioni dell’aldilà, un genere molto
fortunato all’epoca e che trova nella Commedia di
Dante Alighieri il suo capolavoro letterario. Non è certamente un caso che
Francesco Buti, uno dei primi commentatori di Dante (XIV sec.), segnali che
il testo di Inferno II,
28-33 faccia riferimento proprio alla nostra apocalisse apocrifa.
Una delle ragioni del successo dell’Apocalisse
di Paolo è stata appunto notata in particolare da Pierluigi
Piovanelli, e sta nel fatto che il giudizio finale è differito in un futuro
molto distante, posticipato sine
die, mentre è già presente l’idea, certo non primitiva, che
esista un giudizio immediato che segue immediatamente la morte e che dà
luogo ad immediata pena o ricompensa. Al contrario di altri apocrifi
veramente antichi, come l’Apocalisse
di Pietro, un testo del II secolo, che, in ossequio alla
tradizione canonica, preconizza un giudizio finale prossimo e ovviamente non
si pone il problema di un giudizio immediato post
mortem né quello di un’immediata applicazione di tale giudizio.
Poiché si tratta di un tratto profondamente caratterizzante l’Apocalisse
di Paolo, esso costituisce anche un elemento molto importante per
la sua datazione.
Si può inoltre notare che molti dei testi apocrifi più antichi abbiano
rapidamente perso la loro influenza, e questo è dovuto proprio alla loro
concorrenza diretta con i testi canonici. Si tratta ovviamente dei testi
apocrifi che sono più letti e studiati oggigiorno, in quanto contengono – o
possono contenere – tradizioni antiche parallele a quelle che troviamo nei
testi canonizzati.
Al contrario, i testi apocrifi scritti nei secoli successivi, come l’Apocalisse
di Paolo, restano più facilmente sulla breccia proprio perché non
contengono alcuna tradizione veramente antica. Sono testi che hanno una
coerenza teologica con le idee ormai consolidate (il caso del giudizio
immediato dell’anima), ma sono anche testi che non costituiscono una reale
concorrenza a quelli canonici. Testi che non contengono tradizioni antiche,
ma che sviluppano le narrazioni canoniche, coprendo le parti, non
necessariamente narrative, che sono da queste lasciate aperte, completandoli
evitando accuratamente di contraddirli.
Tali considerazioni sono ovviamente importanti nel dibattito riguardo alla
datazione del testo. Per la maggior parte del XX secolo, la totalità degli
studiosi ha seguito le tesi di Robert Casey, pensando che l’Apocalisse
di Paolo fosse un testo databile alla prima parte del III secolo
(se non della fine del II). Secondo questa ipotesi, il prologo sarebbe il
frutto di una vera e propria riscrittura del testo eseguita a fine IV
secolo, la sola rimastaci, fondata però su un testo più antico. Gli
argomenti principali che sostenevano questa ipotesi erano sostanzialmente
esterni, partendo dalle allusioni al testo che si troverebbero in Origene e
in altri autori. Si tratta però di allusioni che non appaiono minimamente
probanti in sé, come risulta chiaro, a mio avviso, anche dai dibattiti che
si sono fatti su di esse.
Ma la questione può e deve essere affrontata anche da un altro punto di
vista. Il contenuto del testo, la sua teologia e le idee che intende
trasmettere, ci permettono di definire abbastanza chiaramente il suo lettore
modello. Lo schema narrativo è infatti anche un’ossatura per diffondere le
nuove credenze sul giudizio di cui si è detto e che sono inimmaginabili
prima del IV secolo: il testo presuppone quindi un lettore implicito nei cui
confronti ha anche delle funzioni “educative”.
Vediamo meglio come. Da un lato, il testo non può essere troppo recente, a
causa del suo evidente millenarismo. Come ho indicato sopra, Paolo può
contemplare il luogo dove verrà stabilito il regno millenario del Cristo.
Tale credenza, molto diffusa nei primi secoli del cristianesimo, proviene da
una comprensione letterale del capitolo 20 dell’Apocalisse canonica,
al punto che, sul finire del IV secolo, si tratta già di un tratto teologico
antiquato. O che sopravvive in ambiti non molto avanzati.
Ma ciò che più importa qui è che l’Apocalisse
di Paolo si dimostra un serbatoio formidabile di informazioni
sulla spiritualità, sul culto e sulla teologia che sono soggiacenti al
testo. E ognuno di questi indicatori punta direttamente verso una datazione
bassa.
L’Apocalisse
di Paolo sembra presupporre un lettore ecclesiastico, un prete o,
ancor più, un monaco. Nella descrizione della Città di Gesù, i monaci sono
menzionati assieme ad altre importantissime categorie di fedeli, mentre
cantano salmi a Dio. Ugualmente significativa è la disposizione riservata ai
fedeli rimasti vergini per obbedienza ai loro voti: essi sono presentati,
com’è ovvio, in una posizione di rilievo tra gli altri beati. La parte
interessante è tuttavia l’ampia discussione riservata al caso di coloro che
abbiano a un certo punto tradito i propri voti e che si siano poi
sinceramente pentiti, oppure al caso di coloro che si sono convertiti e
hanno preso i voti avendo già perduta la propria verginità: se tutti costoro
hanno dimostrato il loro sincero pentimento e la loro reale conversione,
essi, così come ogni altro peccatore, vengono equiparati ai monaci vergini e
rimasti tali lungo tutta la loro vita. Anche a eremiti e monaci ignoranti
vengono riservate posizioni d’importanza: a questi ultimi, in particolare, è
riservato il luogo più prestigioso all’interno della Città di Gesù. E dei
monaci ignoranti potevano ben essere rimasti fedeli al millenarismo anche un
secolo e mezzo dopo Origene. In tale contesto occorre invece notare come
siano completamente dimenticati i martiri: essi non solo non sono segnalati
tra i beati, ma non sono neppure menzionati i loro persecutori nell’inferno.
Tutto questo depone chiaramente a sfavore di una datazione alta per il
testo.
Il dettaglio è chiarificatore qualora consideriamo la già citata Apocalisse
di Pietro, testo certamente più antico, nel quale, al contrario,
non solo vengono menzionati i persecutori tra i peccatori, ma non è
naturalmente segnalata la presenza di alcun monaco. Non per nulla, uno dei
più antichi riferimenti all’Apocalisse
di Paolo, il passo di Sozomeno, Storia
ecclesiastica, VII, 19,9-11, confronta entrambe queste apocalissi
apocrife e afferma che l’Apocalisse
di Pietro è stata condannata già nei tempi antichi (in quanto
apocrifa), mentre l’Apocalisse
di Paolo è un testo apocrifo nuovo (Sozomeno scrive circa nel
433), letto soprattutto «da un gran numero di monaci»! Attraverso tale
testimonianza scopriamo quindi che i monaci avevano una grande
considerazione dell’Apocalisse
di Paolo, almeno quanto questa ne mostra verso il monachesimo.
Il lettore ideale del testo è quindi certamente formato da ecclesiastici, e
anche un’analisi dei vari gruppi di peccatori puniti nell’inferno lo
conferma. Secondo questa Apocalisse,
l’inferno non è ben strutturato come lo è ad esempio la Città di Gesù.
Sembra invece piuttosto come un grande spazio, dove tutti i peccatori
vengono puniti insieme. Vi troviamo diversi tipi di peccatori, con le loro
particolari punizioni ma, diversamente che per i vari gruppi di beati della
Città di Gesù, le punizioni dell’inferno sono minutamente descritte.
L’intento è anche quello di inoculare un carattere penitenziale al testo, di
incitare il lettore a una vera conversione attraverso le raccapriccianti
descrizioni delle pene. Quasi tutti i peccatori sono in qualche modo lambiti
dal fiume di fuoco che attraversa l’inferno, vi sono poi in particolare (1)
fosse profondissime riempite dalle anime di chi non confida in Dio; (2) un
sacerdote tormentato da alcuni angeli (così vengono sempre qui chiamati
anche i demoni); (3) un vescovo trascinato da quattro di questi demoni nel
fiume infuocato e lapidato; (4) un diacono fornicatore e ladro, con mani
sanguinanti e vermi che gli escono dalla bocca e dalle narici; (5) un
lettore cui sono recise labbra e lingua; (6) gli usurai, divorati da vermi;
(7) uomini che rodono la loro lingua all’interno di una muraglia di fuoco,
spregiatori della parola di Dio; (8) i fattucchieri, immersi in una fossa di
sangue; (9) gli adulteri, in una fossa di fuoco; (10) delle vergini che
profanarono la loro purezza segretamente, trascinate da demoni con catene
infiammate; poi (11) gli oppressori di orfani e vedove, tra ghiaccio e neve,
con mani e piedi tagliati, e divorati da vermi; (12) coloro che rompono i
digiuni, puniti un po’ come nel mito di Tantalo: hanno la gola secca, ma
sono sospesi su un canale d’acqua, davanti a frutti che non possono
cogliere; (13) persone appese per capelli e sopracciglia, gettate nel fuoco
(coloro che furono adulteri ma resistettero al loro consorte); poi (14) gli
abitanti di Sodoma e Gomorra, coperti di polvere, in una fossa di pece,
zolfo e fuoco; (15) i pagani che fecero l’elemosina, accecati in una fossa;
(16) gli uccisori dei loro figli neonati, che stanno su un obelisco di fuoco
lacerati da bestie; quindi (17) i cattivi monaci, «quelli che sembrarono
rinunciare al mondo, indossando il nostro abito» (cap. 40), vestiti con
indumenti impregnati di pece e zolfo in fiamme, tormentati da draghi e
demoni; (18) gli eretici che negano l’umanità del Cristo, la verginità di
Maria, la presenza del corpo e del sangue del Cristo nell’eucarestia,
gettati in un pozzo fetido sigillato e contenente globi di fuoco, e di loro
non è più fatta memoria alla corte divina; e infine (19) i negatori della
resurrezione, collocati in un luogo gelido ove dimora anche un enorme verme
a due teste. Come si può vedere, molte delle diciannove pene descritte
riguardano ecclesiastici o direttamente monaci. Comprendendo il gruppo che
staziona nell’antinferno, c’è un totale di venti tipi di punizione, anche se
alcuni riguardano dei gruppi (anime che si sono macchiate dello stesso
peccato), altri invece descrivono la pena comminata a singoli peccatori.
Claude Carozzi, nello studio che accompagnava la sua edizione, aveva
descritto la struttura del testo come zeppa di inconsistenze, seppure
plausibili all’interno di una tradizione apocalittica consolidata, e forse
dovute alla tormentata tradizione testuale del testo (Carozzi segue la tesi
della riscrittura di un testo antico databile al II secolo). È vero che vi
sono una sequenza di parti narrative apparentemente disconnesse, a partire
dalla lunga sezione introduttiva contenente la lamentazione degli elementi,
fino alla ridondanza delle descrizioni separate riservate al terzo cielo e
al firmamento, a sua volta suddiviso tra terra promessa, Città di Gesù e
paradiso.
Il testo, tuttavia, non è senza struttura, e la duplicazione apparente dei
luoghi paradisiaci deriva direttamente dal testo canonico di 2 Cor 12. Ma
anche altri elementi sembrano indicare un’opera ben strutturata. In
particolare, è possibile ricavare per l’insieme dei luoghi paradisiaci una
struttura in parte speculare a quella dell’inferno poiché, dopo aver
descritto la soglia del terzo cielo, con i nomi dei giusti (1) e la terra
promessa che deve essere abitata dai beati comuni, che non sono però
descritti (2), e dopo il gruppo di coloro che attendono di entrare, vengono
menzionati i quattro gruppi di santi corrispondenti ai quattro fiumi di
miele, di latte, di olio e di vino che scorrono nella Città di Gesù, ovvero
i profeti, i santi innocenti, i patriarchi e coloro che cantano Salmi a Dio
con cuore puro, ovvero i monaci (3-6); mentre altri giusti sono collocati,
in relazione al loro grado di purificazione, in corrispondenza delle dodici
cerchie di mura della Città, le quali simboleggiano dodici gradi di gloria e
identificano una crescente purificazione dello spirito da maldicenza,
invidia e orgoglio (7-18); David risiede al centro della Città e, presso un
grande altare, canta continuamente «alleluia», termine ebraico di cui il
Paolo personaggio (dopo secoli la memoria si logora!) chiede il senso
all’angelo che pazientemente (fantasiosamente) spiega (19). Aggiungendo il
gruppo di coloro che devono ancora entrare si ha un totale (anche se si
potrebbe calcolare diversamente) di venti personaggi singoli o gruppi di
beati, esattamente come nella descrizione dell’inferno.
In conclusione, l’Apocalisse
di Paolo sembra proprio un apocrifo databile non prima della fine
del IV secolo, costruito sviluppando attentamente la rapida allusione del
testo canonico di Paolo, senza utilizzare nessuna tradizione veramente
antica, ma al contrario abbracciando coscientemente e risolutamente
posizioni escatologiche moderne (ad eccezione del millenarismo), quali
l’idea del giudizio immediato post
mortem e del rinvio sine
die del giudizio finale, contribuendo non solo a diffondere
queste idee presso il suo pubblico, ma anche a spingerlo alla conversione
proprio in forza di esse e, soprattutto, della descrizione delle pene che
sarebbero toccate a coloro che non si fossero pentiti.
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3 dicembre 2023
- a cura di Alberto "da Cormano"