Il Vangelo secondo Marco

Gianfranco Ravasi

Alcuni capitoli estratti da "I Vangeli" - EDB - Edizioni Dehoniane Bologna 2017

 

Il primo e il più breve dei vangeli

 

Una delle acquisizioni della scienza esegetica moderna è che Marco costituisce il capostipite della sequenza evangelica.

Il Vangelo di Marco è composto in greco di 11.229 parole (come abbiamo già indicato, il Vangelo più lungo, quello di Luca, è di 19.404 parole e quello di Matteo è di 18.278 parole), per cui esiste una discrepanza anche quantitativa evidente rispetto agli altri testi evangelici, discrepanza che si rivela subito anche qualitativa, perché il testo di Marco, a una lettura immediata e spontanea, si mostra più essenziale e quasi «prosciugato». In alcuni punti appare persino non solo sobrio - ed è già una gran dote -, ma anche apparentemente secco, di una semplificazione che sembra, a prima vista, quasi infastidire e creare qualche difficoltà. È per questo motivo che, per molto tempo, Marco è stato sottovalutato: si sono sempre considerati soprattutto i vangeli più estesi, con pagine più affascinanti.

Questo giudizio negativo è stato soprattutto siglato da sant'Agostino, che ha contribuito non solo a raccogliere un’eredità precedente, ma anche ad aprire una specie di tradizione, poi costante, nel giudicare abbastanza negativamente Marco, definendolo un vangelo secondario. Infatti, il grande padre della Chiesa era solito dire che Marco era il «valletto» di Matteo, era cioè semplicemente il «compendiatore» di Matteo, per cui, in ultima analisi, bastava leggere Matteo. Definiva Marco «il più divino degli abbreviatori», cioè colui che ha avuto soltanto la funzione di sintetizzare il messaggio degli altri e quindi si riteneva che fosse un vangelo successivo a Matteo.

Con questo giudizio i 16 capitoli di Marco sono restati su un binario morto, dove nei secoli sono rimasti quasi «parcheggiati». I commenti dei padri della Chiesa al Vangelo di Marco sono in pratica inesistenti. Il primo commento abbastanza completo che possediamo è di un autore dell’antico Oriente cristiano, vissuto attorno al IX secolo: Eutimio Zigabeno. Prima abbiamo soltanto brandelli di lettura patristica: il Vangelo di Marco scivola così in secondo piano. È la scienza esegetica moderna a dedicarsi particolarmente a questo Vangelo con un’attenzione straordinaria, riportandolo ancora in primo piano. Anzi, lo ha ricondotto proprio alla radice degli altri vangeli.

È per questo motivo che negli ultimi decenni sono apparsi su Marco una bibliografia sterminata e una serie di commenti fondamentali che sono stati tradotti anche in italiano: dal commento di Gnilka, al vasto commento di Pesch, un esegeta laico di un’università tedesca; dal volume «classico» dell’inglese Taylor a quello altrettanto classico ed essenziale di Schweizer, testi che indicheremo nella bibliografia finale.

Marco usa un linguaggio piano, essenziale, ridotto spesso a una sequenza semplificata di vocaboli e a una struttura che si potrebbe definire «paratattica», cioè basata sulla congiunzione greca kai, «e», continuamente reiterata. Infatti, questa particella kai viene martellata costantemente un po’ come nel testo di uno scrittore semplice, il quale non ha ancora la capacità di costruire una ramificazione del discorso o di dare origine a subordinate. Il discorso di Marco è immediato, ma proprio questa immediatezza diventa alla fine un pregio.

Gli studiosi usano questa espressione: l’evangelista ha dei «tratti marciani». Questi caratteri tipici diventano lo stile specifico del suo Vangelo: Marco riesce a scrivere in maniera brillante, in molte situazioni, pur servendosi del minor numero possibile di vocaboli. Sa talora essere folgorante e spesso riesce anche a fermarsi sui particolari, pur nella povertà del lessico. Ad esempio, dovendo descrivere la trasfigurazione di Cristo, differentemente dagli altri due evangelisti che si soffermano sulla figura di Cristo che diventa sfolgorante, splendida, brillante, egli aggiunge una pennellata vivacissima. Scrive:

 

«le vesti di Gesù erano così bianche come nessun lavandaio sulla terra riuscirebbe a farle diventare».

 

Sono questi tratti marciani che rendono il Vangelo di Marco un testo che ha un suo fascino, soprattutto se si tiene conto di un grande principio che dovrebbe guidare tutti coloro che annunciano un messaggio: la capacità di riuscire a comunicare la sostanza, anche dei temi difficili, in un linguaggio il più possibile piano e non noioso. La chiarezza del linguaggio e l’essenzialità dell’espressione riflettono una limpidità che si è conquistata interiormente. Non esiste questione anche molto ardua che non si possa esprimere in maniera chiara, pur riconoscendo che in quel caso si procede per approssimazione e «divulgazione».

Il Vangelo di Marco riflette veramente la teologia della cristianità delle origini, ma con un «indice di leggibilità» essenziale; è per questo che il testo marciano è un Vangelo da dare in mano a tutti coloro che per la prima volta si accostano al messaggio di Cristo, perché riesce a offrire tutto quanto è necessario, ma nella forma più piana e diretta, con l’indice di leggibilità più alto possibile.

Anche il suo costruire le frasi senza articolazioni, con una sequenza fatta quasi di tanti segmenti, è un modo per far sì che l’ascoltatore e il lettore restino coinvolti in un percorso semplice, non elaborato, ma pur sempre indispensabile, necessario e sufficiente.

 

Questione letteraria

Diamo ora uno sguardo introduttivo al Vangelo di Marco attraverso una serie di cerchi concentrici.

 

L'autore

Iniziamo dal cerchio più largo. Guardiamo più da lontano il Vangelo e chiediamoci chi è Marco. Gli studiosi di oggi non sono più preoccupati, come lo erano una volta, di identificare questa figura; c’è ormai un certo accordo (anche se non del tutto decisivo, perché la titolazione Vangelo secondo Marco è posteriore) nell’identificare Marco con quel famoso Giovanni Marco di cui parlano gli Atti degli apostoli.

Egli entra in scena per la prima volta quando Pietro, dopo la liberazione miracolosa, si reca

 

«nella casa di Maria madre di Giovanni, detto anche Marco» (At 12,12).

 

Lo ritroviamo ancora in scena in Atti 13,5.13 come accompagnatore di Paolo. Questa notizia è confermata dall’apostolo quando, alla fine della Lettera ai Colossesi, annota:

 

«Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni; se verrà da voi fategli buona accoglienza» (Col 4,10).

 

Un’altra conferma proviene da un biglietto paolino: è citato nei saluti finali della Lettera a Filemone (v. 24). Probabilmente Marco è stato anche accompagnatore di Pietro, perché nella Prima lettera di Pietro leggiamo:

 

«Vi saluta anche Marco, mio figlio» (1 Pt 5,13).

 

Questa espressione indica probabilmente non solo il discepolo, ma forse colui che è venuto alla fede attraverso l’opera dell’apostolo. Paolo, ad esempio, usa questa espressione quando parla di uno che egli ha personalmente battezzato.

Questa è la figura di Giovanni Marco come appare nel Nuovo Testamento. Ma abbiamo su di lui un’altra notizia, offerta da un vescovo dei primissimi tempi della cristianità, già incontrato quando abbiamo parlato di Matteo: Papìa di Gerapoli.

Gerapoli, oggi Pamukkale, era un’elegantissima e ricchissima città greco-romana dell’Asia Minore. Ebbene Papìa, ricordando ciò che gli aveva insegnato un tale «presbitero» di nome Giovanni, scrive attorno al 130:

 

«Marco, divenuto interprete di Pietro, mise per iscritto rutto ciò che si ricordava, senz’ordine però, sia le parole, sia le opere del Signore».

 

È una notizia interessante sul rapporto fra Marco e Pietro, che poi diventerà popolare nella tradizione. Delle due informazioni connesse a questo dato solo una è esatta:

 

«mise per iscritto [...] le parole e le opere del Signore»;

 

il Vangelo è appunto un racconto dell’azione e dell’insegnamento di Gesù. L’altra nota è, invece, discutibile, anzi, errata:

 

«mise per iscritto [...] senza ordine [ou men tàxei]».

 

Affiora già quella specie di sfiducia in Marco che poi, come si è visto, dominerà: è stato un raccoglitore, un epitomatore, un compilatore non particolarmente felice, il che non è vero, soprattutto se si compie un’analisi più accurata del suo testo.

 

I destinatari

Marco scrive certamente per una comunità che è agli inizi della sua esperienza cristiana e che egli vuole condurre per mano fino alla pienezza della fede. È infatti opinione comune che Marco abbia scritto per una cristianità di origine pagana, che intraprendeva il suo percorso di fede: è un vero e proprio catechismo essenziale.

Gli studiosi pensano si tratti di qualche Chiesa magari della Galilea o della Decapoli, dove cerano città ellenistiche. Altri pensano alla Siria; altri ancora ipotizzano che questo Vangelo sia stato scritto per la Chiesa di Roma, per i cosiddetti cristiano-gentili o etnici, che provenivano dal paganesimo e non dal giudaismo.

Sicuramente Marco ammicca ai romani. Ad esempio, quando in 12,42 la vedova mette i due spiccioli nella cassa delle offerte al tempio, egli parla in greco di leptà, ma subito aggiunge che equivalgono a un «quadrante», parola trascritta dal latino in greco: ora, il quadrante era una moneta romana. Abbiamo perciò il riferimento a un contesto abbastanza circoscritto, quello della cultura romana con persone che non avevano una grande esperienza del mondo biblico e giudaico.

 

La datazione

Possiamo anche arrischiare una data. Si usa dire che Marco è il primo degli evangelisti, ed è per questo motivo che molti studiosi hanno pensato di usare - come per tutti i vangeli - una discriminante, una linea di frontiera: il 70, l’anno della distruzione di Gerusalemme, collocando Marco al di qua di questa linea di frontiera.

Qual è il motivo per cui si può usare questa linea di frontiera del 70 d.C.? Nei vangeli sinottici è presente un discorso di Gesù detto «escatologico», cioè sul destino ultimo della storia. Per descrivere questa meta si assume a simbolo ed elemento di partenza probabilmente la distruzione di Gerusalemme. Gli evangelisti - e in particolare la cosa è evidente in Luca - probabilmente hanno rielaborato la descrizione della distruzione del tempio, che era una delle immagini apocalittiche per eccellenza, ricorrendo a quello che avevano visto o a quello che le loro orecchie avevano sentito narrare, cioè l'effettiva distruzione di Gerusalemme e del tempio sotto le armate romane. Si cerca, quindi, di individuare qualche allusione a quell’evento tragico del 70, allorché Tito rase al suolo Gerusalemme.

In Marco sembra che la descrizione sia la meno precisa, la più generica e stereotipata, meno attenta a riferire elementi storici puntuali. Altri, invece, sono di avviso diverso e collocano dopo il 70 anche Marco. Ormai da pochi è sostenuta l’identificazione con un passo marciano di un esile frammento con poche lettere rinvenuto a Qumran, tra i manoscritti di quella comunità giudaica e, quindi, destinati ad anticipare di molto la datazione del Vangelo. Di questo abbiamo ampiamente parlato nell’introduzione generale.

Possiamo dire, allora, che il Vangelo di Marco è databile immediatamente prima o immediatamente dopo il 70 d.C.; è comunque di sicuro il primo, cronologicamente parlando, e questo lo si afferma sulla base di una serie di considerazioni soprattutto di ordine filologico e di critica interna.

 

Il testo

Restringiamo il nostro orizzonte per giungere a un cerchio più circoscritto. Ci fermiamo sul testo cominciando a individuarne le qualità generali. Iniziamo con l'elemento fondamentale: è quasi come la grande tesi letteraria e ideale che regge l’opera. Marco ha probabilmente inventato il genere letterario «vangelo», in greco euanghélion, cioè «buona novella o notizia». Prima di allora forse era esistito qualcosa di simile, ma non la forma «vangelo» così come è giunta fino a noi. Come sappiamo, probabilmente erano stati già elaborati un racconto della passione e un racconto dell’infanzia di Gesù. All’interno di questo nucleo si era cercato di riassumere un po' tutta la biografia di Gesù: il Gesù bambino, infatti, era già delineato come il Cristo risorto. In quella piccola figura si cercava di concentrare il suo destino successivo. Anche il racconto della passione e della morte del Cristo è un po’ tutta la sua storia precedente e anche tutto il significato della sua persona.

Ebbene, Marco è il primo che inventa lo schema che sarà alla base non solo degli altri vangeli, ma di tutte le vite di Gesù che si sono costruite nella storia e che sono anche per tradizione nella mente di tutti. La vita di Gesù si snoda in alcuni momenti fondamentali che partono dal Giordano, dal suo battesimo, e approdano alla risurrezione. All’interno c’è una sequenza cronologicamente distribuita, anche se non in maniera strettamente storiografica. Marco per primo, e gli altri evangelisti poi, hanno cercato di costruire un canovaccio cronologico, storicamente un po’ libero, dal battesimo alla risurrezione, passando attraverso il duplice ministero pubblico di Gesù in Galilea e in Giudea. È questa la trama caratteristica di Marco, che gli altri evangelisti successivamente imiteranno.

Egli, quindi, può essere considerato come l’inventore del genere letterario «vangelo». Un genere letterario che nella storia non sarà mai più ripreso da nessuno e non verrà più applicato a nessun altro grande della storia, anche se si elaboreranno ancora biografie di eroi, di santi, di personaggi straordinari; ma non li si chiameranno mai «vangeli». La «buona notizia» è solo quella di Gesù di Nazaret.

Tuttavia gli studiosi hanno identificato quasi con certezza l’esistenza anche di un altro modo di «fare vangelo», un’altra forma letteraria simile a quella evangelica e preesistente a Marco. Si tratta di un ipotetico testo che gli studiosi definiscono con un termine tedesco, Quelle, che significa «fonte», a cui abbiamo già accennato. Convenzionalmente si parla, perciò, di «fonte Q», visibile in filigrana, quasi in «radiografia», in certi passi dei vangeli. Un’analisi letteraria accurata mostra, infatti, che i vangeli conoscevano questa specie di «proto-vangelo». Esso era costruito solo su frasi di Gesù, era un’antologia delle sue parole, e qualche studioso ha ipotizzato che questo Vangelo, andato perduto secondo l’opinione comune, sia in realtà restato a noi in un'edizione riveduta, corretta e scorretta, che circolava probabilmente nel mondo del cristianesimo gnostico egiziano: si tratterebbe del Vangelo apocrifo di Tommaso. Questo scritto, infatti, è composto di una serie di frasi di Gesù, alcune riportate nei vangeli canonici, altre inedite, e spesso suggestive. Ora, secondo alcuni sarebbe questa la fonte «Q», ossia il primo tentativo di proporre un testo «evangelico».

È, comunque, certo che il Vangelo di Marco sia il primo che è giunto a noi, anche se non del tutto intatto: non possediamo, infatti, la finale di questo Vangelo, o perlomeno ne abbiamo più di una, una breve e una più lunga. L’originale arriva sicuramente fino a 16,8: le donne incontrano l’angelo della risurrezione e ne ascoltano il messaggio. Alla fine - forse è questa l'ultima riga di Marco - in greco si legge: «ephoboúnto gar [avevano infatti paura]». Finire con un «gar = infatti» è, però, incomprensibile e strano. Proprio per questo si hanno diverse finali negli antichi codici, su cui ritorneremo più avanti.

Il modo di ricostruire la figura di Gesù secondo Marco è diverso da quello della fonte «Q» e da quegli ipotetici «proto-vangeli» andati perduti (riguardanti la nascita e la passione-risurrezione). Egli ha intrecciato nel suo racconto soprattutto i fatti e le parole di Gesù. Da un lato abbiamo l’agire di Gesù e dall’altro il suo dire: mani e labbra, miracoli e discorsi. Questo sarà anche lo schema permanente degli altri evangelisti Matteo e Luca.

Facendo questa operazione, Marco non è partito dal nulla. Oltre agli ipotetici proto-vangeli di cui ha usato solo il racconto della passione e della risurrezione, ignorando quello dell'infanzia, si è servito anche di altre fonti. Ad esempio, al capitolo 2 incontriamo una serie di controversie e di dispute di Gesù che hanno come sfondo la Galilea; su di esse forse esisteva già un testo che le aveva raccolte. Un altro esempio è nel capitolo 4: le parabole. Il libretto delle parabole si trova in tutti e tre gli evangelisti sinottici. Poteva essere una sintesi per presentare il cuore della predicazione di Gesù, cioè il regno di Dio; era una specie di mini-catechismo preesistente ai sinottici. Nel capitolo 10 gli studiosi rintracciano i segni di una serie di norme per la comunità: siamo ancora una volta forse in presenza di un «foglio» che poteva servire per il governo e lo stile di vita della comunità cristiana delle origini. Al capitolo 13 troviamo l’«apocalisse di Marco», o «discorso escatologico». È questo un testo che sicuramente aveva una fonte precedente, perché il tema aveva interessato ardentemente le comunità cristiane primitive che vivevano in tensione verso l’arrivo pieno del Regno, verso la grande liberazione e redenzione della storia umana. E da ultimo una fonte riguardava la passione e la risurrezione, come già si è detto.

 

Un vangelo narrato e creduto

A questo punto il nostro cerchio, che si è ristretto sul Vangelo vero e proprio, può essere sottoposto a un'altra puntualizzazione. Dopo aver visto che Marco è colui che ha elaborato il genere «vangelo», un genere che si compone di detti e di fatti di Gesù, possiamo trarre una conclusione teologica di rilievo.

C’è sempre stata e c’è ancora ai nostri giorni una tentazione, quando si parla di Gesù Cristo: quella di proporre solo la sua fisionomia umana, e continuando a fissare gli occhi in questo volto - che è riconosciuto da tutti, credenti e non credenti, come affascinante e straordinario anche dal punto di vista umano - si resta conquistati. In tal modo la figura umana di Cristo per alcuni diventa l’unico dato reale dei vangeli.

Questa preoccupazione di cercare solo la storia di Gesù appartiene a quelli che leggono la figura di Gesù, ad esempio, solo come un rivoluzionario, come un contestatore del tempo, un grande profeta e così via, o anche a quelli che vogliono ricostruire a tutti i costi una precisa vita di Gesù usando i vangeli come un libro di storia in senso stretto. La vita di Gesù in senso storico e biografico rigoroso non la si può ricostruire dai vangeli.

Altri, invece, affermano che il profilo della figura storica di Gesù e la sua fisionomia ci interessano relativamente, in quanto dobbiamo essere conquistati solo dal suo messaggio e dalla sua realtà trascendente. Egli era Figlio di Dio, e a noi deve interessare il mistero celato all’interno della sua figura umana: essa è solo un involucro che deve essere messo da parte per far brillare lo splendore della divinità. Dobbiamo cercare nei vangeli solo il kérygma, cioè il messaggio pasquale, e il Cristo divino della fede.

Come si è puntualizzato nell’introduzione generale, alcune scuole teologiche protestanti (pensiamo a Bultmann, ad esempio) affermavano che del Gesù di Nazaret non sappiamo nulla, e che dai vangeli conosciamo solo il Cristo, il Figlio di Dio. Si ha una specie di schermo opaco tra il Gesù storico e il Cristo della fede, e noi conosciamo solo il mistero del Cristo attraverso l’adesione alla fede.

Queste due alternative sono sbagliate se isolate ed esclusive; sono profondamente vere se unite insieme. Il Vangelo di Marco dimostra questa unità, forse ancora meglio degli altri evangelisti. Il suo, infatti, è un testo narrato, quindi con eventi e detti di Gesù, ma è al tempo stesso una testimonianza «creduta». La sua è una storia santa, una storia predicata, una storia professata. Il suo è un annuncio pasquale, ma in forma di racconto di eventi storici autentici.

Marco ci riporta all’importanza della narrazione anche in catechesi. Quanta catechesi, quante meditazioni, omelie ed elementi di spiritualità sono svolti in maniera astratta! Il Vangelo è invece la narrazione di una storia, una storia santa, perché ha in sé un'anima di trascendenza: è un annuncio di fede. Secondo l’espressione usata dall’esegeta Rudolf Pesch, il Vangelo di Marco è una storia «epifanica»: di per sé è una storia modesta, nella quale però continuamente appare, quasi in dissolvenza, l’epifania del mistero di Dio.

Perciò, dire che il Vangelo di Marco è uno scritto kerygmatico, cioè un Vangelo dell’annuncio di fede, è vero solo parzialmente. In realtà è un Vangelo «storico-kerygmatico», in cui i dati storici parlano anche di mistero, in cui gli eventi sono anche «simbolici», in quanto carichi di altre risonanze, di altri significati; non si riducono a una mera cronaca ma sono «rivelazione».

 

Contenuto

Domandiamoci, a questo punto, quale sia la struttura letteraria di questo Vangelo. È proprio vero, come diceva il citato vescovo Papìa, che si tratta di un Vangelo disordinato, casuale? Questa lettura è ormai rifiutata da tutti; Marco è uno scrittore rigoroso, ha una sua idea progettuale ben chiara in mente. Segue un piano narrativo molto stimolante e suggestivo che potrebbe essere adottato ancor oggi da coloro che vogliono proporre un percorso cristiano iniziale.

È stato detto che il Vangelo di Marco è simile a un ingresso in una chiesa avvolta nell'oscurità. All’inizio si entra quasi a tentoni; fuori cera la luce abbagliante del sole: una volta entrati, non si riesce a intravedere se non qualche lume. Si avanza lentamente, e si vedono immagini grandiose e delle figure in fondo. A metà del percorso si individuano meglio queste figure dell’abside. Solo quando si è giunti davanti all'altare, si vede che è il Cristo glorioso. È un percorso dall’oscurità alla luce.

Marco ha costruito il suo Vangelo come un vero e proprio itinerario o viaggio che conta tappe precise di svelamento della realtà di Gesù Cristo. Evochiamole insieme.

 

Il titolo

È il primo versetto del capitolo 1. Probabilmente non è di Marco, ma esprime molto bene la sua tesi. La prima parola è «inizio», in greco arché: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». En arché ên o Lógos dice Giovanni, «In principio era il Verbo». Anche la prima frase della Bibbia è Bereshît baraElohim, «In principio Dio creò». C’è, perciò, un rimando all’inizio assoluto che è il Cristo. Si ha, poi, il contenuto del Vangelo che è innanzitutto «Gesù»: un nome comunissimo, che ha delle varianti nei nomi di Osea, Isaia, Giosuè, nome comune portato facilmente anche dagli ebrei di allora e persino oggi dagli spagnoli; è un nome che rivela un personaggio storico.

Segue, però, il termine «Cristo» che è già molto di più: è la figura messianica; tuttavia in Israele il Messia era sempre una creatura umana. Ecco, infine, «Figlio di Dio», l’ultimo elemento, quello decisivo, che costituisce l'approdo terminale dell’itinerario proposto dal Vangelo.

Partendo da questo titolo iniziale, entriamo nel Vangelo e nelle sue prime pagine, i primi otto capitoli. Qui il lettore si incontra solo con la figura di un «Gesù» uomo che ha, però, qualcosa di misterioso.

Ci sono, infatti, esseri diabolici, cioè il male demoniaco, che chiamano Gesù «Figlio di Dio». Egli, però, li fa tacere. Rimane sempre «Gesù», un uomo che compie segni diversi, strani, ma permane nel nostro orizzonte umano, anzi vuole proprio che si sappia solo questo di lui e nient’altro.

 

La via e la sequela

Si giunge così a un picco decisivo del Vangelo, che funge quasi da cerniera del passaggio alla seconda tappa dello scritto marciano:

 

«Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: “Chi dice la gente che io sia?". Essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”. Ma egli replicò: “E voi chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”» (8,27-30).

 

Si noti la differenza con Matteo, che scrive:

 

«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

 

Marco ha solo «il Cristo», che era la seconda definizione del titolo che abbiamo sopra presentato. Gesù è Messia con quella messianicità che in Israele era ancora «carnale» e umana. Da questo momento in avanti si dipana un filo narrativo suggestivo, espresso attraverso una sequenza di testi che descrivono percorsi spaziali.

 

«Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo e per via interrogava i suoi discepoli» (8,27).

«Giunsero a Cafarnao; quando fu in casa chiese loro: “Di che cosa stavate parlando lungo la via?”. Ed essi tacevano; lungo la via avevano infatti discusso fra loro chi fosse il più grande» (9,33-34).

«Mentre usciva per mettersi in viaggio un tale gli corse incontro» (10,17).

«Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro, ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore» (10,32).

 

Suggestiva è questa scena di movimento: Gesù è davanti, solenne; dietro, pieni di timore, gli apostoli.

 

«Giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico, Bartimeo cieco [...] Gesù gli disse: '‘Va’, la tua fede ti ha salvato”. Subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada» (10,46.52).

 

Domina quindi il tema della «via» e del movimento. Anzi, questo tema è talora accompagnato da un altro vocabolo: «seguire» Gesù. Non è un camminare soltanto dietro Gesù, ma si tratta di un viaggio spirituale:

 

«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (8,34).

 

La strada è faticosa, è la via crucis.

E ancora, al ricco:

 

«Gesù fissatolo lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi”» (10,21).

 

Significativo è Pietro, che si autodefinisce così:

 

«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (10,28).

 

Tutta la seconda parte del Vangelo di Marco, dunque, è dominata da un «cammino», dalla sequela che approda a quella scena che per Marco è il punto finale, quando, ai piedi della croce, il centurione romano - si noti ancora il riferimento ai destinatari del Vangelo - pronuncia la professione di fede che il titolo del Vangelo aveva annunciato. Perciò, arrivato fino alla croce, il fedele non dice: «Veramente quest’uomo era grande» e nemmeno: «Veramente quest’uomo era il Cristo», ma professa:

 

«Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (15,39).

 

E il Vangelo in pratica si chiude davanti a questa scena e si conclude anche l'itinerario del lettore: la meta è raggiunta, la professione piena nella divinità di Gesù Cristo.

 

Il segreto messianico

Il Vangelo di Marco è, dunque, un viaggio dall’oscurità alla luce della fede. Marco suppone idealmente che siamo tutti come bambini che devono scoprire lentamente la realtà piena di questa strana figura.

Questa «lentezza» nella rivelazione è espressa da Marco attraverso una tecnica che probabilmente era stata usata da Gesù stesso e che ora mettiamo in luce attraverso una serie di passi intenzionalmente selezionati. Sono come un filo rosso che percorre le pagine di Marco. A livello generale:

 

«Guarì molti che erano afflitti da gravi malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare perché lo conoscevano» (1,34).

 

Quando guarisce il lebbroso:

 

«“Guarda di non dire niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato a testimonianza per loro”. Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto a tal punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori in luoghi deserti e venivano a lui da ogni parte» (1,44-45).

 

Davanti al demoniaco presente nella storia:

 

«Gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si gettavano ai piedi gridando: “Tu sei il Figlio di Dio”. Ma egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero» (3,11-12).

 

Nell’episodio della guarigione della figlia di Giairo:

 

«E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni...» (5,37).

 

Sempre nella stessa scena:

 

«Egli, cacciati fuori tutti...» (5,40).

 

La scena è conclusa, la bambina è in piedi:

 

«Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo» (5.43).

 

Nel miracolo del sordomuto:

 

«Lo portò in disparte dalla folla» (7,33),

 

 e rivolto a lui, intima:

 

«“Non dire niente a nessuno"; ma più egli raccomandava più essi ne parlavano» (7,36).

 

Nel caso del cieco di Betsaida, per guarirlo:

 

«Presolo per mano, lo condusse fuori dal villaggio...» (8,23);

 

suggestiva questa rappresentazione di Gesù che lo prende per mano perché è cieco e quindi prosegue a tentoni. Ecco, poi, la finale dello stesso episodio:

 

«Lo rimandò a casa e gli disse: “Non entrare nemmeno nel villaggio”» (8,26).

 

Dopo la professione di Pietro:

 

«Impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno» (8,30).

 

Dopo la trasfigurazione scendendo dal monte:

 

«Ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto se non dopo la risurrezione» (9,9).

 

Questa sequenza di testi mette in luce quello che è stato chiamato convenzionalmente il «segreto messianico», un’espressione suggestiva per indicare il silenzio di Gesù sulla sua realtà più profonda. L’espressione non è molto felice, perché non si tratta solo del segreto sul messianismo, bensì sul mistero globale di Gesù. Questo «segreto» riguarda, però, soprattutto la prima parte del viaggio: Gesù non vuole che si dichiari subito in maniera sfolgorante il suo mistero trascendente.

L’intenzione di Marco è chiaramente pedagogica, ossia egli vuole portare il lettore lentamente alla conoscenza di Gesù. Questo sembra essere stato anche il comportamento concreto del Gesù storico. Detto in altri termini, Marco vuole rispondere a due domande che non piacciono - ancora ai nostri giorni - a coloro che sono presi da smania di trionfo della fede, di grande manifestazione, di successo e di potenza del cristianesimo, a tutti coloro che sono posseduti da visioni teocratiche.

La prima: perché Gesù è stato, per tutta la sua vita, un Messia nascosto? Ha fatto miracoli, ma perché cercava il più delle volte di non dare spettacolo? Per rispondere a questo interrogativo, occorre una particolare visione della religione e della fede, e una particolare visione di Gesù che il Vangelo di Marco vuole proporre.

La seconda domanda a cui Marco vuole rispondere e a cui già Gesù voleva replicare è: perché il regno di Dio è simile a un seme nascosto o a un piccolo chicco di senape? La risposta sta nel fatto che la forza del cristianesimo non è quella di un’armata e di una forza sociopolitica visibile, ma è quella che agisce segretamente nella storia, dall’interno, come lievito e sale.

 

Custodire il Vangelo

Proprio per questo, tutti i cristiani devono ritornare più spesso alle pagine del Vangelo, conoscendole e leggendole realmente, e non accontentarsi di rivelazioni di seconda mano. Molti conoscono il Vangelo perché hanno sentito qualche frase nelle prediche oppure hanno letto dei libri spirituali in cui ci sono citazioni o elementi tratti dal Vangelo.

Il famoso scrittore francese ottocentesco Victor Hugo, nella sua opera L’arte di essere nonno, racconta l’episodio della visita con il suo nipotino allo zoo. Il bambino vede tutti gli animali esotici a lui ignoti e, giunto di fronte alla fossa dei coccodrilli, esclama:

«Guarda, nonno, quell'animale è fatto tutto di borsellino!».

Tante volte continuiamo a scambiare il messaggio cristiano con altre proposte che sono soltanto delle schegge o delle derivazioni. Dobbiamo ritornare più spesso al testo sacro, amandolo, leggendolo, studiandolo in sé. Scopriremo tanti segreti che hanno un loro fascino e una loro sorpresa; ascoltati in altre versioni o rielaborazioni sembrano artefatti, composti di materiale esterno, non sembrano vivi. Nella realtà del testo, invece, ci incontriamo con tanti elementi che non avremmo mai immaginato che potessero esistere fra le pieghe di un’opera apparentemente semplice.

 

(Ndr. Ho tralasciato i capitoli esplicativi del testo del Vangelo di Marco)

  

Piste di approfondimento

 

1. Il Vangelo di Marco offre l’occasione per lo studio della tradizione evangelica nelle sue tappe fondamentali, dal Gesù storico alla predicazione apostolica, fino al testo scritto evangelico. Si affrontano, così, i problemi della storicità ma anche quelli del cosiddetto kérygma, cioè dell’annunzio di fede. Storia e fede pasquale si intrecciano in questo itinerario e, se i criteri di storicità identificano il nucleo di partenza della tradizione, la teologia riesce a far penetrare in pienezza il senso degli eventi, la loro dimensione trascendente. Le cosiddette «introduzioni ai vangeli» di solito offrono dati sufficienti per delineare quell’itinerario, le sue tappe e il nesso tra storia e kérygma.

 

2. Il Vangelo di Marco offre anche un modello di catechesi e di proclamazione del messaggio cristiano, il suo progetto articolato nei momenti dell’umanità (Gesù), messianicità (Cristo) e divinità (Figlio di Dio) può essere una trama ideale per ricomporre il vero volto di Cristo con una progressione pedagogica. Marco diventa, così, maestro sia di un primo annunzio (o kérygma) cristiano, sia di catechesi. Ci suggerisce come calibrare un cammino di maturazione nella fede. E questo itinerario implica pazienza, sequela perseverante, superamento delle crisi, attesa dell’epifania di Dio.

 

3. Il Vangelo di Marco offre anche l’occasione per un approfondimento della cristologia tenendo ben compaginate le due dimensioni, l’umana e la divina, che costituiscono la realtà di Gesù Cristo. La struttura stessa dell’opera rende necessaria l’attenzione all’umanità di Gesù come base insostituibile, ma al tempo stesso sotto quell’aspetto affiora sempre il mistero trascendente del Cristo. A queste domande sulla vera realtà di Gesù si associano altri interrogativi teologici da affrontare: che cos’è il regno di Dio? Che cosa significa il discepolato? Che cosa implica la via della croce? Qual è la catechesi dei miracoli che tanto spazio occupano nel Vangelo di Marco? Qual è la prospettiva con cui Marco legge la Pasqua del Signore?

 

4. Il Vangelo di Marco, con l'ampiezza riservata ai miracoli nei confronti degli indemoniati, apre una questione sempre drammatica, quella del mistero del male. Il nesso peccato-libertà-Satana e quello positivo grazia-fede-Cristo sono carichi di spunti vivi e spesso laceranti che potrebbero essere affrontati con un rigoroso studio teologico.

 


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27 febbraio 2023               a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti  Bibbia@ora-et-labora.net