Al di là dell'ovvio
Estratto da
"Le parabole evangeliche"
di Bruno Maggioni – Vita e Pensiero 2003
Gesù ha raccontato parabole non soltanto perché, come tutti gli
uomini geniali, amava i paragoni, e neppure perché, da buon maestro, voleva che
il suo messaggio fosse chiaro e accessibile. Ha parlato in parabole perché a
proposito di Dio e del suo mistero non è possibile diversamente. Dio è al di
sopra dei nostri pensieri e delle nostre parole: per parlare di Lui dobbiamo
utilizzare le esperienze che abbiamo a disposizione. Così, per aiutarci a
comprendere qualcosa dell’amore di Dio e del suo perdono, Gesù prende spunto da
un’esperienza che tutti sono in grado di comprendere: «Un padre aveva due
figli...».
Le parabole non sono alla periferia del Vangelo, ma al centro.
Forse più di altre pagine esse riescono a metterci in contatto con Gesù di
Nazaret: la sua personalità, il suo modo di parlare, la concezione che aveva di
Dio, di se stesso e dell’uomo, le situazioni in cui si è trovato coinvolto e i
dibattiti che ha sostenuto. Inoltre, le parabole riescono ancora - sia pure fra
le righe, quasi in trasparenza - a farci intravvedere i problemi e
l’ambiente delle prime comunità cristiane, il loro modo di ricordare le parole
di Gesù e di attualizzarle, i loro interrogativi nei confronti di un Regno che
si dice presente e che però la storia pare continuamente smentire.
Ma il fascino delle parabole è forse ancora un altro: quantunque
profondamente legate al contesto in cui furono dette, è come se non fossero
datate; intatta è, infatti, la loro forza di stupire e di interrogare; sono
pagine sempre aperte che nessuna esegesi riesce a chiudere una volta per tutte.
Il parlare figurato appartiene a ogni linguaggio, in particolare
alla narrativa popolare, e la sua finalità è prevalentemente
didattica, almeno in apparenza. Si ricorre al parlare
figurato per spiegare e al tempo stesso per tenere desta l’attenzione
dell’ascoltatore. Le immagini non vogliono solo informare, ma anche trasmettere
calore. E giustamente si è notato che «il successo della predicazione di Gesù
non si basa solo su ciò che dice, ma anche sul modo in cui lo dice»
[1].
Tuttavia, si è già rilevato che il parlare per figure nasce soprattutto da
un’esigenza teologica, cioè dal fatto che non si può discorrere direttamente del
Regno di Dio, ma solo
parabolicamente, mediante paragoni tratti dalla vita. Per parlare
di Dio non si può fare altro che partire dalla nostra esperienza.
Ed è proprio da questa origine che derivano le tre proprietà che
caratterizzano il linguaggio parabolico. Si tratta di un linguaggio
inadeguato,
perché desunto dal vissuto quotidiano, eppure pretende di esprimere qualcosa di
ulteriore e di più profondo. Nello stesso tempo è un linguaggio
aperto,
capace certo non di esprimere il Regno ma di alludervi: perché se è vero che il
Regno non si identifica con la nostra storia, rimane altrettanto vero che ha una
intrinseca relazione con essa. Ed è un linguaggio che
costringe a
pensare: non definisce, non è un traguardo riposante, ma allude,
provoca, invita ad andare oltre l’ovvio, rende pensosi. La parabola è un
racconto che lascia intatto il mistero del Regno, mostrandone però, con forza,
l’impatto con 1’esistenza dell’uomo; fa pensare, inquieta e interroga.
Da qui deriva
l’ambivalenza delle parabole: esse sono
luminose e oscure, svelano e nascondono. Richiedono uno sforzo di
interpretazione e di decisione. Lasciano trasparire il mistero di Dio a chi ha
occhi penetranti e cuore pronto: rimangono oscure per chi è distratto e ha cuore
appesantito.
La comunicazione parabolica non avviene attraverso una luce che
acceca, ma attraverso un lampo che insieme mostra e cela. Questo non
semplicemente perché ciò che si intende comunicare è un mistero tanto grande da
non poter essere detto altrimenti, ma perché la sua accoglienza deve appartenere
davvero all’uomo, essere risposta e non frutto di sopraffazione. Una evidenza
che acceca non coinvolge. La parabola invece crea lo spazio per una libera
adesione e sollecita l’intelligenza dell’ascoltatore a intuire e a proseguire.
La parabola riunisce i singoli elementi narrativi attorno a un solo
punto che rappresenta il culmine della parabola stessa. E in tal modo «la
parabola, rivolta all’uomo, lo fa concentrare su se stesso e lo conduce, tutto
assorto in sé (un tipo distratto mai potrebbe intendere una parabola!), al punto
finale che lo riguarda e che a sua volta deve diventare il culmine della sua
esistenza»
[2].
La parabola - lo si comprende facilmente - non è riducibile a una
tesi da essa ricavabile. Né a un tema, anche se ogni parabola ha un suo tema. La
parabola ha una fisionomia propria che va rispettata.
Bastano già queste poche note a far comprendere che la lettura di
una parabola evangelica richiede qualcosa di più della semplice erudizione
filologica o della tecnica esegetica, anche la più raffinata. Per capire una
parabola occorre sempre, alla fine, un’intuizione globale, più vicina alla
percezione artistica che alla deduzione scientifica. L’ultimo passo
interpretativo («chi ha orecchi per intendere, intenda!») introduce
un’eccedenza, un salto che spezza la catena delle semplici deduzioni. Si possono
affermare molte cose su una parabola, tutte esatte, senza tuttavia coglierne il
senso.
Annuncio o dialogo?
Molto si discute non soltanto, com’è ovvio, sul senso di ciascuna
parabola, ma anche, e forse troppo, sulla parabola in sé, come figura del
linguaggio. Per molti determinare la natura della parabola è condizione preliminare per una
corretta lettura delle singole parabole. Personalmente sono convinto che sia
meglio invertire il percorso. Che cosa sia una parabola è questione da porre
alla fine, dopo aver considerato tutte le parabole con l’unica preoccupazione di
leggere ciascuna di esse nella sua individualità. Diversamente, si corre il
rischio di scolorire la peculiarità della singola parabola per costringerla
sempre entro la griglia di un genere.
Fatta questa premessa, restano ugualmente necessarie alcune
annotazioni di carattere generale. Per lo più Gesù ricorre alle parabole per
condurre i suoi ascoltatori da un modo di vedere a un altro, dalla loro
mentalità alla sua. La forza della parabola sta nel mostrare l’ovvietà
di un comportamento antitetico a quello abituale. Una nuova ovvietà viene
affermata contro quella dominante
[3].
Per operare questo cambiamento occorre una forza, si deve far leva su qualcosa.
In molte parabole questa forza è
l’esperienza
comune, il patrimonio collettivo di sapienza, quei valori o atteggiamenti che si
impongono a tutti: per esempio, il padre che fa festa se il figlio ritorna, e
vuole che la sua gioia sia condivisa (Lc 15,11
ss.). Gesù utilizza l’esperienza umana - quella genuina, semplice, popolare,
sedimentatasi in massime e proverbi, o anche la reazione schietta dell’uomo
quando la sua umanità è più fortemente provocata (per esempio, il padre nei
confronti del figlio che ritorna) - come una risorsa per illustrare il suo
pensiero o anche per condurre a ‘nuove’ posizioni verso Dio e gli uomini. Questo
spessore umano può addirittura aprire un passaggio verso la novità del Vangelo,
può offrire lo spunto per superare gli stereotipi teologici.
È il caso, per esempio, della parabola del prodigo a cui ho già
accennato: Gesù rinvia i suoi ascoltatori all’esperienza dell’amore paterno,
capace di accogliere con gioia il figlio che ritorna. Questa autentica e forte
esperienza umana, certo condivisa da molti ascoltatori, serve a Gesù per indurli
a superare la loro gretta concezione della giustizia di Dio. Nella parabola
l’esperienza umana (là dove è particolarmente intensa e vera, com’è il caso
appunto dell’amore paterno) diventa uno spiraglio che permette di intravvedere
il mistero di Dio e, quindi, di aprirsi alla novità evangelica, disincagliandosi
dalle strettoie di certe anguste, e abituali, visioni religiose. La parabola è
una forma di dialogo, ma per far capire, non per polemizzare o colpire o
difendersi. Il suo scopo è di ‘rivelare’. Il parabolista cerca un
terreno comune
al suo ascoltatore, non sempre per assumerlo, ma talvolta anche per
capovolgerlo. Lo scopo delle parabole, infatti, non è soltanto di mostrare che
Gesù ha ragione, ma anche di rendere l’ascoltatore consapevole delle sue
contraddizioni. La parabola fa esplodere le incoerenze nascoste di un certo modo
di essere religiosi.
Proprio perché fortemente radicata nell’esperienza umana, la
parabola evangelica ha una duplice valenza: esprime lo specifico cristiano e nel
contempo parla a ogni uomo.
Ma se si insiste esclusivamente, o quasi, sul carattere dialogico e
argomentativo della parabola, si corre il rischio di dimenticare la sua forza di
rivelazione. Nel suo parlare in parabole Gesù non assume semplicemente la figura
del sapiente, ma quella del rivelatore. Sapiente perché si riferisce
all’esperienza dell’uomo per aprire un cammino verso Dio. Rivelatore perché
parla di un Dio che non deduce dall’esperienza dell’uomo, bensì da una
conoscenza propria, immediata.
In tal senso, la parabola non è solo dialogo, ma anche una forma
particolare di annuncio. In rapporto a quest’ultimo la parabola ha la funzione
di spianargli la via rimuovendo pregiudizi e ostacoli, e insieme di suggerire il
‘punto di vista’ da adottare, o il diverso piano in cui collocarsi, per poter
intuire che la novità evangelica, così sconcertante, ha una sua logica interna,
una propria coerenza, persino
una sua ‘ovvietà’.
Nella parabola l’annuncio non è mai semplicemente supposto per
parlare d’altro, ma è sempre - direttamente o indirettamente - proclamato. Anche
quando una parabola si sofferma su un comportamento concreto, non è mai soltanto
per mostrare che esso discende come logica conseguenza dal Vangelo, ma per
sottolineare che è una trascrizione visibile, esperienziale, del Vangelo
stesso. Anche in questo caso la parabola non è solo morale, bensì anche
teologica: rivelatoria, oltre che argomentativa.
La conclusione è che lo spazio della parabola è il luogo in cui la
novità dell’evento cristologico e l’esperienza dell’uomo si incontrano. L’evento
cristologico è libero, gratuito e indeducibile. Non lo si ricava dall’esperienza
dell’uomo; esso piuttosto la tocca e qui si fa conoscere. La parabola è a
servizio di questa manifestazione: il suo scopo è di aiutare l’ascoltatore a
cogliere con un colpo d’occhio la
novità
e la
continuità
della rivelazione di Dio.
Il testo, l’autore e il lettore
Una buona interpretazione di un testo richiede sempre uno sguardo
in tre direzioni: al testo in sé, all’autore e al lettore. Nessuna delle tre
direzioni va privilegiata al punto da lasciare in ombra le altre. Né esse vanno
separate. Il segreto di una vera interpretazione sta nella genialità della
percezione complessiva. Questo vale per ogni scritto. Anzi, nel caso delle
parabole evangeliche occorre essere ancora più attenti.
Come ogni racconto, lungo o breve che sia, la parabola ha in se
stessa gli elementi per la sua comprensione. Un narratore intelligente imprime
la sua intenzione nel racconto: nelle strutture della narrazione, nel rapporto
fra i personaggi e le loro azioni, nell’ordine delle sequenze ecc.. Il senso di
una parabola va anzitutto cercato nelle pieghe del testo: è lì che l’autore l’ha
deposto. Nessun autore affida il senso di ciò che vuole comunicare unicamente al
contesto o all’ambiente culturale. Per capire una parabola, si deve
pazientemente analizzarne la forma letteraria. Ho già rilevato che le parabole
di Gesù sono state molto studiate, e catalogate, nella loro forma narrativa, che
quindi rischia di essere indebitamente irrigidita.
Certo, le parabole appartengono a un genere, ma gli
autori intelligenti non restano prigionieri del genere che scelgono. Sanno
animarlo e variarlo.
Tuttavia, lo sguardo al testo non può fare a meno dello sguardo
all’autore. Separato dall’autore che l’ha scritto, qualsiasi testo perde lo
spessore singolare che lo caratterizza. Il rischio è ancora più grave per le
parabole evangeliche, che tutto devono alla
singolarità
del loro autore e dell’evento che questi ha vissuto. Staccate da Gesù, le
parabole diventerebbero di colpo una sorta di illustrazione di una verità
generale, e nulla più. Se a raccontare le parabole fosse stato, per esempio, un
sapiente, esse sarebbero semplicemente un’intelligente riflessione sull’uomo e
su Dio, sulla vita, sui comportamenti. Nient’altro. Se si leggono le parabole
dimenticando chi le ha dette, le sue inaudite pretese, la sua vita, i suoi
miracoli e la sua croce, esse perdono il loro colore. Le parabole non sarebbero
quello che sono se non parlassero di Dio
parlando di Gesù.
Esse riflettono la singolarità di Gesù e della sua rivelazione. Per questo sono,
a loro volta, singolari.
Nella parabole Gesù coinvolge se stesso, parla di sé, della nuova
esistenza che egli vive e che l’uomo, a sua volta, è chiamato a vivere. Ma nelle
parabole Gesù soprattutto rivela chi è Dio, come Dio si pone davanti all’uomo,
non soltanto o anzitutto come l’uomo debba stare davanti a Dio.
Perciò la parabola non va disgiunta da colui che l’ha raccontata.
Molte parabole parlano del regno di Dio, ma la grande parabola del Regno è Gesù:
«L’uomo Gesù è la parabola di Dio»
[4]. Il
«Crocifisso è risorto»: questa è la parabola delle parabole, un evento
‘singolare’ e ‘aperto’. E in forza della sua peculiarità che questo evento
diventa la chiave di lettura - la parabola, dunque - di tutta la storia. Nella
sua storia singolare Gesù ha rivelato il senso della storia intera. E le
parabole sono aperte, sempre attuali, proprio perché riflettono la singolarità
della storia di Gesù. Avulse da questa, perderebbero
subito la loro attualità.
L’autore delle parabole evangeliche, oltre che Gesù, è anche -
ovviamente in misura diversa e su un piano differente - la comunità di fede che
le ha conservate, rilette, messe per iscritto e attualizzate. Le parabole che
noi oggi leggiamo hanno tutte questa impronta ecclesiale.
Non è solo questione di aggiunte, omissioni, adattamenti,
spostamenti di accento. Tali aspetti vanno valutati volta per volta, ma sono di
superficie. L’essenziale è la nuova prospettiva che la parabola ha globalmente
assunto, pur rimanendo immutata nella sua forma. Gesù ha raccontato le parabole
guardando avanti, verso la croce/risurrezione. La comunità le ha raccontate
guardando indietro, verso la croce/risurrezione. Gesù ha raccontato le parabole
alludendo al Regno
di Dio, la comunità le ha raccontate nella ferma certezza che il Regno si è
svelato nella storia di Gesù. Cambia dunque l’orizzonte, non l’oggetto, che
resta sempre la rivelazione di Dio nella storia di Gesù. L’origine della
parabola è prepasquale, la loro piena comprensione è invece postpasquale. Non
cambia l’oggetto, ma si approfondisce il modo di osservarlo.
Questo nuovo orizzonte - in continuità rispetto al precedente e
tuttavia diverso - non annulla la forza delle parabole, anzi l’aumenta. Non
spegne la domanda che soggiace ad esse, ma la reduplica.
In un certo senso, è sempre lo sconcerto davanti alla croce che -
anche dopo la risurrezione - si ripropone, rovesciandosi. Se il Crocifisso è
risorto, e dunque è il Signore, perché il Regno nella storia continua a essere
rifiutato, apparentemente sconfitto? Il Crocifisso è risorto, ma sembra ancora
mostrare il suo volto di crocifisso. E così la domanda
- che
è la ragione vera della parabola - resta intatta.
Queste ultime osservazioni spostano lo sguardo in direzione
dell’ascoltatore delle parabole. Fra l’ascoltatore del tempo di Gesù, la
successiva comunità e noi stessi si interpone una discontinuità che determina un
radicale cambiamento di senso della parabola, o c’è invece una continuità grazie
alla quale essa rimane sostanzialmente se stessa? A qualificare la fisionomia
dell’ascoltatore - e quindi a decidere se si debba parlare di discontinuità o di
continuità - è la domanda che egli pone. Essa, come si è visto, è la medesima. E'
la questione posta a Gesù dagli avversari e dai discepoli, dai cristiani della
prima generazione e da noi. Se le parabole - e questo è un dato di fatto -
parlano ancora oggi, non è perché sono talmente generali da adattarsi a ogni
epoca e domanda, ma perché sono talmente precise - ‘singolari’, appunto - da
riproporre in ogni tempo la medesima e unica domanda.
Cinque regole di lettura
La parabola è un racconto e, come ogni racconto, richiede
un’accurata analisi letteraria che ne evidenzi la struttura, le insistenze, il
movimento, i personaggi, i contrasti. Tutto questo deve condurre a scoprire il
punto che dà significato all’insieme e che il lettore non può assolutamente
lasciarsi sfuggire.
Ma a questo proposito non è raro incontrare nei commentatori
qualche rigidezza. E vero, per lo più, che le parabole hanno un solo punto sul
quale cade il peso dell’intera narrazione. Tuttavia, ritenere che questo punto
sia sempre afferrabile da un solo lato è probabilmente un’illusione. Il centro
della parabola può aprirsi in varie direzioni. È anche vero che i particolari
narrativi di una parabola sono generalmente funzionali al suo centro, senza una
propria consistenza. Nulla vieta però che in qualche parabola ci siano dettagli
che - pur funzionali al significato centrale - introducono nel racconto
significati collaterali.
Le parabole di Gesù sono inserite nell’ambiente del tempo,
raccontano casi di vita e di costume, utilizzano un linguaggio che la gente di
Palestina poteva comprendere. Per interpretare una parabola è perciò utile una
conoscenza dell’ambiente sociale e religioso del tempo. Tutto ciò è corretto,
purché non
ci si irrigidisca in eccessive pretese di
verosimiglianza. La parabola non è mai una fotografia della realtà.
L’enfatizzazione, l’inverosimiglianza, il ricorso a tratti sconcertanti possono
essere strumenti narrativi di grande efficacia.
Si è detto che uno dei mezzi utilizzati da Gesù per aprire i suoi
ascoltatori alla ‘novità’ di cui egli era portatore, sono state le parabole.
Ricostruire questi aspetti di novità è indispensabile per una buona lettura
delle parabole. Per lo più non è possibile ricostruire le situazioni precise che
hanno provocato le singole parabole; è però possibile - partendo dai loro stessi
elementi - ricostruire le situazioni tipiche generali in cui esse si
inseriscono. Ecco, a titolo esemplificativo, le principali.
Gesù ha proclamato il
Regno di Dio, ne ha annunciato
l’avvento, ma ai suoi ascoltatori esso appariva continuamente contrastato,
sempre piccolo, persino sconfitto.
Gesù ha detto di essere messia e figlio di Dio, ma il suo destino è
stato il fallimento della croce. Quale intelligibilità può avere l’evento
sconcertante di un messia crocifisso?
La prassi pastorale di Gesù è stata difforme dalle abitudini
religiose consolidate e dal modo consueto di immaginare Dio. Gesù ha cercato i
poveri, gli esclusi, i peccatori. Che significato ha questo comportamento di
Gesù?
Gesù è stato rifiutato dal suo popolo: come è possibile? Che senso
hanno la fedeltà di Dio e l’elezione di Israele? Perché il popolo di Dio non ha
capito, mentre i pagani sì?
Il cristiano deve essere vigilante in attesa del ritorno del
Signore, e insieme deve impegnarsi nella storia senza concedersi evasioni. Come
vivere questa tensione?
Il Vangelo suggerisce - a partire dall’annuncio del Regno - una
serie di comportamenti morali non privi di tratti paradossali e inattesi:
atteggiamenti nei confronti della ricchezza, dei nemici, di Dio stesso. Sono
comportamenti assurdi o ragionevoli?
Come ora si trovano scritte nei vangeli, le parabole sono il punto
terminale di una storia lunga e complessa: la parabola è
stata raccontata da Gesù per rispondere alle domande
dei suoi interlocutori, successivamente tramandata nella predicazione della
comunità per rispondere ai propri bisogni, e infine collocata dall’evangelista
all’interno
della propria prospettiva teologica. Ricostruire le diverse tappe di questa
storia è interessante, ma i risultati sono molto opinabili. Questo eccessivo
tasso di opinabilità mi impedisce di scegliere questo percorso - come invece
fanno molti - per la comprensione della parabola. Lo scopo dichiarato - e
limitato - di queste mie letture è di capire la parabola nella sua definitiva
stesura. Quindi non mi soffermerò sul processo di formazione del testo, anche se
non trascurerò di notare eventuali strappi, scuciture o altri segnali che
tradiscono una rielaborazione
[5].
Ma sono segnali da non enfatizzare né da leggere frettolosamente in una sola
direzione.
Accostarsi a una parabola del vangelo a motivo del fascino che essa
esercita, per me non basta. Occorre confrontarsi con la parabola, specchiarsi in
essa, perché il suo scopo è di risvegliare la nostra coscienza. La regola
fondamentale è di lasciarsi ancora ‘sorprendere’. Solo così si può capire la
parabola.
[1]
J. Ernst, Marco. Un ritratto, Morcelliana, Brescia 1990, p.42.
[2]
E. Jüngel, Paolo e Gesù,
Paideia, Brescia 1978, p. 168.
[3]
Cfr. E. Jüngel, Dio mistero
del mondo, Queriniana, Brescia 1982, p. 461.
[4]
E. Jüngel, Dio mistero del
mondo, cit., p. 377.
[5] Per approfondire - anche in altre direzioni e secondo ottiche differenti
- la natura e la funzione della parabola, si vedano: V. Fusco,
Parabola, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline,
Cinisello B. 1988, pp. 1081-1098; Id., Oltre la parabola.
Introduzione alle parabole di Gesù, Borla, Roma 1983; G. Segalla,
Cristologia implicita nelle parabole di Gesù, «Teologia», 1 (1976),
pp. 297-337; J. Dupont, Il metodo parabolico di Gesù, Paideia,
Brescia 1978; P. Ricoeur, Ermeneutica biblica. Linguaggio e simbolo
nelle parabole di Gesù, Morcelliana, Brescia 1978; AA.VV. Segni e
parabole. Semiotica e testo evangelico, ElleDiCi, Leumann (Torino)
1982; E. Linnemann, Le parabole di Gesù. Introduzione e
interpretazione, Queriniana, Brescia 1982, pp. 19-68 (si vedano
anche gli appunti di G. Segalla, pp. 5-13); H. Weder, Metafore del
Regno, Paideia, Brescia 1991, pp. 17-123.
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Sacra Bibbia | 21 novembre
2017
a cura di Alberto "da Cormano"
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