Il Cristo di Giovanni
Alberto Maggi
Estratto da " La follia di Dio" -
Cittadella Editrice - Assisi
INTRODUZIONE
Gesù non è come Dio
Per molti, in passato, la Chiesa commise un errore nell’annoverare tra i vangeli
canonici anche quello di Giovanni.
La diffidenza verso una teologia così diversa da quella degli altri evangelisti,
con la radicale opposizione a ogni forma di istituzione religiosa e al tempio
(Gv 4,21) e, per di più, con l’accoglienza degli eretici samaritani, non solo
rendeva ripugnante per i Giudei la comunità nata dal vangelo di Giovanni, ma la
faceva ritenere sospetta agli occhi della Chiesa nascente.
Sotto il pontificato di papa Zefirino (199-217) ci fu persino chi, come il prete
romano Gaio, rigettò il vangelo attribuendolo non a Giovanni, ma all’eretico
Cerinto. Di fatto, il più antico commento al vangelo di Giovanni lo scrisse
Eracleone, un discepolo di Valentino, fondatore di una conosciuta setta
gnostica.
Il vangelo di Giovanni fu infatti accolto da gnostici ed eretici, ma visto con
diffidenza dai circoli ecclesiastici più ortodossi, che sospettavano fosse un
vangelo antistituzionale, che prendeva le distanze dalla struttura gerarchica
che nella Chiesa andava formandosi.
La comunità di Giovanni è infatti formata da “un gregge, un Pastore” (Gv 10,16):
l’esistenza della comunità dei credenti (gregge) contiene in sé la presenza del
Signore (pastore) e forma il nuovo santuario da cui si irradia l’amore di Dio
per tutta l’umanità (Gv 17,22-23).
Compito della comunità-santuario è quello di andare incontro a coloro che sono
stati scacciati dall’istituzione religiosa (Gv 9,22.35; 12,42; 16,2) e di
accogliere quanti, per la loro condizione, si sentono indegni di avvicinarsi al
Signore.
A tutti costoro il Signore e il suo gregge fanno risuonare la parola del
Pastore, che invita a unirsi in un’unica comunità nella quale i componenti non
sono servi del Signore, ma suoi amici (Gv 15,15), fratelli tra loro (Gv 21,23),
e dove vige un solo comandamento, quello dell’amore vicendevole (Gv 13,34).
Ritenuto poco idoneo a disciplinare la vita dei credenti, quello di Giovanni fu
classificato come “vangelo spirituale ”
già verso il 200 da Clemente d’Alessandria (Eusebio da Cesarea, Storia
Ecclesiastica 1,6,14,7). Un vangelo celestiale ad uso e consumo dei mistici, e
non alla portata del popolo, adatto per quanti sono attratti dalle cose del
cielo e non per quelli che si sporcano le mani con le cose della terra.
Sicché il vangelo di Giovanni fu accompagnato nei secoli dalla nomea di un’opera
difficile, riservata come nutrimento per le persone “spirituali”, e si
neutralizzava così l’impatto deflagrante che questo vangelo può provocare nella
vita dei credenti conducendoli alla piena libertà (“Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi”, Gv 8,32).
L’emarginazione dalla vita della Chiesa del vangelo di Giovanni continua
tuttora. Infatti, a differenza degli altri vangeli, questo non ha un suo anno
liturgico, ma viene offerto solo a frammenti in maniera incompleta e lacunosa.
Eppure, in questo vangelo la comprensione di Gesù viene formulata nella maniera
più profonda di tutto il Nuovo Testamento. Se infatti gli altri evangelisti
presentano Gesù come il Figlio di Dio
(Mt 14,33; Mc 1,1; Lc 1,35), Giovanni è l’unico che attribuisce il termine
Dio a Gesù (“Mio Signore, e mio Dio!”, Gv
20,28).
Ma quale Dio?
“Dio nessuno lo ha mai visto” dichiara in maniera perentoria Giovanni (Gv 1,18;
5,37; 6,46), invitando il credente a fissarsi solo su Gesù, “l’unico figlio, che
è Dio ed è in seno al Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).
Quando Filippo chiederà a Gesù di mostrargli il Padre, Gesù risponderà “Chi ha
visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9).
Per Giovanni Gesù non è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù.
L’evangelista invita il lettore a sbarazzarsi di ogni immagine o concezione di
Dio che non trovi riscontri nella figura di Gesù, nella sua vita e nel suo
insegnamento.
Ogni immagine di Dio, nata dalla tradizione religiosa, dalla spiritualità, che
non coincide con Gesù va eliminata, in quanto incompleta, limitata o falsa.
Il Dio che Gesù rivela non si può conoscere attraverso la dottrina, ma mediante
le sue opere (“Credetemi: Io Sono nel Padre e il Padre è in me, se non altro
credetelo per le opere stesse”, Gv 14,11).
L’unico criterio di veridicità della divinità del Cristo sono le sue opere, le
stesse del Padre. E le opere di Gesù sono tutte a favore dell’uomo, della sua
vita e della sua felicità.
Attraverso le tematiche della Creazione (Genesi)
e della Liberazione (Esodo), Giovanni
presenta Gesù come il pieno compimento delle speranze dell’antica alleanza. Il
Cristo viene infatti annunciato come pienezza di vita e di luce (“In lui era la
vita e la vita era la luce degli uomini”, Gv 1,4).
Nella sua opera l’evangelista presenta un crescendo di questa vita e di questa
luce “che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), attraverso opere che restituiscono,
comunicano e arricchiscono la vita di ogni persona, indipendentemente dalla sua
condizione morale o religiosa.
La vita-luce che Gesù trasmette, massima risposta al desiderio di pienezza di
vita che ogni uomo porta in sé, si diffonde sempre più e “splende nelle tenebre”
(Gv 1,5), liberando definitivamente gli uomini dal dominio delle tenebre-morte.
Il crescendo di luce sarà a un certo momento talmente abbacinante da essere
intollerabile per quelli che vivono nelle tenebre (Gv 3,20) e sono essi stessi
tenebre: i capi religiosi. Saranno costoro infatti che non sopporteranno
l’intensità della luce che emana da Gesù, l’uomo-Dio, “Luce del mondo” (Gv
8,12; 9,5), e urleranno a Pilato: “Toglilo! Toglilo!, Crocifiggilo!” (Gv 19,15).
“Colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) è stato tolto dal mondo dai
complici di questo peccato: il Figlio di Dio non è morto perché questa era la
volontà del Padre, ma per la convenienza della casta sacerdotale al potere (Gv
11,50).
La follia del Messia
Per Giovanni in Gesù, l’Uomo-Dio, si manifesta la pienezza dell’amore del
Padre, un Dio-Amore che non è un rivale dell’uomo, ma suo alleato, che non lo
domina, ma lo potenzia, non lo assorbe, ma si fonde con l’uomo per comunicargli
la pienezza della sua vita divina (Gv 17,22).
Un Dio che non chiede offerte perché è lui che si offre (Gv 4,10), che non vuole
essere servito perché è lui che serve gli uomini (Gv 13,14), che chiede un nuovo
rapporto con lui, non già come servi, ma come figli.
Questa offerta non verrà accolta e il Cristo tanto atteso sarà rifiutato,
contestato, calunniato e infine assassinato (“Venne tra i suoi, ma i suoi non lo
hanno accolto”, Gv 1,11).
La volontà di Dio, che ogni uomo diventi suo figlio (Gv 1,12) sarà infatti
considerata una bestemmia, un crimine meritevole di morte da parte delle
autorità religiose, che rigetteranno Gesù e il suo messaggio in nome della Legge
divina: “Noi abbiamo una Legge, e secondo questa Legge deve morire, perché si è
fatto Figlio di Dio” (Gv 19,7).
Ma per l’evangelista la Legge di Dio non può manifestare la ricca realtà di un
Dio che è Amore (1 Gv 4,8), e l’amore non si può esprimere attraverso le leggi,
ma solo con opere che comunicano vita alle persone.
Tra l’amore del Padre e la Legge di Dio non è possibile alcuna conciliazione.
Per Gesù, la Legge invocata dai capi del popolo non è che un vuoto contenitore
che nasconde la pretesa di dominio e di potere da parte delle autorità
religiose: la prova è che essi non invocano mai la Legge divina a favore degli
uomini, ma sempre a proprio esclusivo vantaggio (Gv 7,19).
La Legge di Dio viene adoperata dai capi religiosi per difendere traballanti
teorie spacciate per volontà divina, per opprimere e spadroneggiare sul popolo
che non può permettersi di avere altra opinione che non sia quella da loro
espressa (Gv 7,48).
Gesù non si rifà mai alla Legge di Dio, ma sempre all’amore del Padre.
In nome della Legge, fosse pure quella divina, si possono far soffrire e anche
uccidere gli uomini (Gv 16,2), in nome dell’amore del Padre si può solo
alleviare la sofferenza e restituire vita a ogni persona.
Le autorità avrebbero potuto tollerare un profeta riformatore delle istituzioni
religiose, un inviato da Dio per purificare il tempio, il sacerdozio, il culto e
anche la stessa Legge, ormai diventata ingarbugliata e impraticabile, ma Gesù
no, non era accettabile.
Lui non è un profeta né un inviato divino, non si muove nell’ambito del sacro,
ma ne esce. Il Cristo è la manifestazione stessa di Dio tra gli uomini e non è
venuto a purificare le istituzioni religiose ma a eliminarle, denunciando che
tutto quell’insieme di credenze e di culti chiamato
religione non solo non permette la
comunione con Dio, ma è proprio quello che l’impedisce.
È troppo.
Rifiutato dalla famiglia, al punto che “neppure i suoi fratelli credevano in
lui” (Gv 7,5), e abbandonato da gran parte dei suoi seguaci (“molti dei suoi
discepoli si allontanarono e non andavano più con lui”, Gv 6,66), per le
autorità giudaiche Gesù è solo un pazzo, un ossesso.
L’accusa dei capi del popolo, che Gesù fosse un samaritano (“Non diciamo bene
noi che sei un samaritano e hai un demonio?”, Gv 8,48), non racchiude solo il
disprezzo che gli ebrei nutrivano verso “quel popolo stupido che abita a Sichem”
(Sir 50,26), ma manifesta l’allarme per la pericolosità di Gesù, che andava
combattuto ed eliminato in quanto nemico di Dio (indemoniato) e del popolo
(samaritano).
Solo un matto, un samaritano indemoniato, poteva infatti denunciare i capi
religiosi quali figli del diavolo e assassini (Gv 8,44) e auspicare la fine
dell’istituzione religiosa che si credeva voluta da Dio stesso.
Per questo contro il Cristo si coalizzeranno tutte quelle forze che vedono
nell’uomo, che si “fa uguale a Dio” (Gv 5,18), un pericolo per il loro dominio,
le loro ambizioni e la loro sicurezza.
I mortali avversari di Gesù, Figlio di Dio, saranno proprio i capi religiosi,
coloro che hanno fatto della religione il sistema per appagare le proprie
frustrate ambizioni e di Dio il piedistallo al proprio desiderio di prestigio.
Giovanni ha scritto il suo vangelo “perché crediate che Gesù è il Cristo, il
Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31),
assicurando che le tenebre non avranno la meglio sulla luce (“la luce splende
nelle tenebre e le tenebre non l’hanno sopraffatta”, Gv 1,5) e invitando ogni
credente a collaborare attivamente con colui che ha detto: “Io ho vinto il
mondo” (Gv 16,33), perché la vita sarà sempre più forte della morte.
UN DIO INNAMORATO
“In principio creò Dio i cieli e la terra...” (Gen 1,1). Con questa formula
solenne inizia la Bibbia. Giovanni però non è d’accordo, e comincia il suo
vangelo correggendo la concezione teologica della Genesi, indicando quale fu il
vero inizio: “In principio c’era [già] la Parola” (Gv 1,1).
Con il termine greco logos usato da Giovanni, e qui tradotto con
Parola, s’indica la potenza della Parola creatrice che doveva realizzare
l’opera di Dio (“Dio disse: «Sia luce!» E luce fu” Gen 1,3), guidata dalla
Sapienza divina che esisteva prima ancora della creazione: “Fui stabilita fin
dall’eternità, dal principio, prima che la terra fosse” (Pr 8,23).
L’evangelista non osa correggere solo la Scrittura, ma anche la Tradizione
tramandata dai Padri, secondo la quale “con dieci parole fu creato il mondo”
(P. Ab. 5,1).
Per l’evangelista il mondo non è stato creato per le dieci parole, il decalogo
(Es 34,28) espressione della Legge, ma per un’unica Parola, sola rivelazione
della volontà divina.
Paradiso perduto
Con la rivendicazione dell’unicità della Parola, l’evangelista comincia la sua
opera iniziando la serie di sostituzioni dei pilastri dell’antica alleanza con
la figura di Gesù e il suo messaggio: “la Legge fu data per mezzo di Mosé, ma la
grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17).
Quando si conosce la Parola, tutte le altre parole perdono la loro forza e le
dieci parole di Mosé, che si basavano su un rapporto con Dio fondato
sull’obbedienza alla sua Legge, vengono sostituite da una nuova relazione col
Padre basata sull’accoglienza del suo amore.
Per mezzo di Gesù, il Padre mostra all’umanità un amore che non nasce dal
bisogno dell’uomo, ma che lo precede, un amore che sarà formulato in un unico
comandamento: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri;
come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Quest’unica Parola, che conteneva e formulava il progetto che Dio aveva
sull’umanità prima ancora della creazione, sorpassava ogni possibilità
d’immaginazione da parte dell’uomo: “E [un] Dio era la Parola” (Gv 1,1).
Giovanni afferma che il progetto di Dio consiste nell’elevare l’uomo al suo
stesso livello e dargli la condizione divina.
L’importanza di questo progetto è tale che l’intera creazione è finalizzata
alla sua riuscita, tutto è stato creato per mezzo di questa Parola e senza di
lei “nulla di ciò che esiste è stato fatto” (Gv 1,3).
Il creato pertanto non è un rivale con cui l’uomo deve continuamente lottare, un
avversario che deve soggiogare e dominare (Gen 1,28), ma un prezioso alleato col
quale collaborare al processo che porterà alla piena realizzazione dell’umanità.
Per Giovanni il racconto della creazione del Libro della Genesi (Gen 1-3) non è
la descrizione di un paradiso perduto, ma la profezia del mondo che sarà, alla
cui costruzione l’uomo è tenuto a collaborare (Gv 5,17).
Non c’è da rimpiangere una condizione irrimediabilmente persa, ma lavorare
attivamente per realizzare quella pienezza alla quale l’uomo e il creato sono
insieme chiamati, perché “la creazione stessa attende con impazienza la
manifestazione del vero volto dei figli di Dio... per entrare nella libertà
della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
Pieno compimento del progetto di Dio sull’umanità sarà Gesù: “la Parola si fece
carne” (Gv 1,14).
La condizione divina del Cristo non sarà un suo privilegio esclusivo (Fil 2,6),
ma, accogliendo Gesù come modello della propria esistenza, ogni uomo potrà
nascere da Dio per il dono dello Spirito e diventare anch’egli suo figlio: “A
quanti l’hanno accolto, ha dato la capacità di diventare figli di Dio” (Gv
1,12).
Con questa importante affermazione, posta da Giovanni al centro del Prologo al
suo vangelo (Gv 1,1-18), l’evangelista dichiara che Dio non è disgustato
dell’umanità, ma innamorato: “Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato
il Figlio suo unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la
vita eterna” (Gv 3,16).
Il Prologo è l’inno dell’amore di Dio per l’uomo, il canto dell’ottimismo col
quale il Creatore guarda la sua creatura e la chiama a collaborare alla sua
creazione attraverso opere che infondano vita in misura sempre crescente (Gv
14,12).
In quest’incontro con Dio l’uomo non si sente schiacciato dalla sua pochezza,
ma innalzato dalla sublimità dell’amore che il Padre gli dimostra.
Sacro e profano
Gesù, il “Figlio di Dio” (Eb 4,14), inaugura un nuovo rapporto tra dei figli e
il loro Padre incompatibile con quello di Mosé, “servo di Dio” (Ap 15,3), che
aveva imposto una relazione tra dei servi e il loro Signore.
La condizione dell’uomo nei riguardi di Dio, infatti, non è più quella del servo
verso il suo padrone (Ger 3,14), ma del figlio verso il Padre (Ef 1,5).
Con Gesù ogni uomo è chiamato alla dignità della condizione divina, come è
stato ben compreso e formulato nella Chiesa delle origini da Padri come Atanasio
(“Il Verbo di Dio si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio”,
L’incarnazione del Verbo, 54,3) o Ignazio (“L ’inizio è la fede, la fine
l’amore: quando questi si fondono in un’unica cosa esiste un Dio ”, Lettera
agli Efesini, 14,1).
Con Gesù, Dio dimora tra gli uomini: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (Gv
1,14). La tenda di Dio, il santuario dove il Signore abitava in mezzo agli
uomini e manifestava la sua gloria (Es 40, 34-35) è ora un uomo, che si può
ascoltare, vedere e toccare (1 Gv 1,1). Con questo l’evangelista annuncia
l’eliminazione del tempio e di qualsiasi altro luogo sacro (Gv 4,20-24).
Gesù sarà il nuovo santuario (Ap 21,22) e, come la vecchia tenda dell’esodo,
camminerà insieme col suo popolo (Gv 14,6).
Con Gesù, il divino (Parola) si fa umano (carne) e termina la
distinzione tra sacro e profano, lo spazio riservato a Dio e quello separato da
lui: la pienezza della gloria di Dio risplende in Gesù, in un uomo mortale.
Il Dio di Gesù è profondamente umano: più l’uomo si umanizza, più accoglie il
divino che è già in lui.
Per incontrare e conoscere Dio non occorre andare in un luogo particolare, ma
entrare nella sfera dell’amore. Se non tutti possono o vogliono accedere al
tempio, a tutti è possibile accogliere l’amore e amare.
Questa teologia si discosta assolutamente da quella del giudaismo, che aveva
tracciato un abisso invalicabile tra l’assoluta santità di Dio e la miseria
dell’uomo, considerato un verme (“L’uomo, questo verme, l’essere umano, questo
bruco!”, Gb 25,6) o una nullità (“Gli uomini sono tutti terra e cenere”, Sir
17,27).
L'Altissimo
veniva presentato lontanissimo e inaccessibile, collocato dalla teologia
rabbinica nel “settimo cielo ” e, secondo i calcoli rabbinici, la
distanza tra un cielo e l’altro corrispondeva a ben cinquecento anni di cammino,
per cui si credeva che Dio fosse lontano dall’uomo la “distanza
corrispondente ad un viaggio di tremilacinquecento anni” (Midr. Ps. 103,1;
217). Praticamente irraggiungibile.
L’impossibilità per l’uomo di accedere a un Dio sempre più lontano veniva
costantemente alimentata dall’immagine di un Signore profondamente pessimista
nei riguardi dell’uomo e della sua stessa creazione. Un Dio che, disgustato del
creato, non esita a sterminare “ogni essere che era nella terra; con gli uomini,
gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo” (Gen 7,23).
La sfiducia del Creatore verso la sua stessa creazione viene così espressa nel
Salmo 14: “Yahvé dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio:
se c’è uno che cerchi Dio. Tutti hanno traviato, sono tutti corrotti; più
nessuno fa il bene, neppure uno...” (Sal 14,2-4).
Lo scoraggiamento di Dio in realtà non è altro che una proiezione dello
scetticismo degli uomini nei confronti dei propri simili: “Salvami Signore! Non
c’è più un uomo fedele; è scomparsa la fedeltà tra i figli dell’uomo” (Sal
12,2).
Il progetto di Dio,
espressione dell’ottimismo sulla creazione e tendente a eliminare l’abisso che
separa Dio dall’uomo, verrà però considerato un pericolo per l’istituzione
religiosa e una bestemmia da parte di quelle autorità religiose che avrebbero
dovuto far conoscere al popolo la volontà di Dio.
Per la casta sacerdotale, che si ergeva come unica mediatrice tra Dio e gli
uomini, era assolutamente blasfemo pensare che un uomo potesse giungere ad
avere la condizione divina: “diventare come Dio” è l’invito fatto dal serpente a
Eva per incoraggiarla a mangiare il frutto dell’albero (Gen 3,4).
Tutta l’avversione e l’ostilità verso Gesù, annunciatore e realizzatore del
progetto di Dio, sono dovute al fatto che l’istituzione religiosa giustifica la
sua indispensabile presenza proprio per la distanza esistente tra Dio e l’uomo,
che non può accedere direttamente alla divinità e ha bisogno di mediazioni che
permettano questo incontro. Mediazioni che vanno identificate in spazi, tempi,
modalità e persone che garantiscano la relazione con la divinità, secondo un
codice comportamentale rigorosamente fissato e immutabile.
Nel caso sciagurato (per l’istituzione religiosa) che Dio prendesse l’iniziativa
di scavalcare tutte queste mediazioni e iniziasse un rapporto diretto con
l’uomo, fondendosi con lui per innalzarlo al suo livello (Gv 17,21-23), l’uomo
non solo non avrebbe bisogno di mediazioni, ma il ricorrervi, anziché
facilitare, ostacolerebbe la comunicazione con il suo Signore.
Di fronte all’irruzione nella storia di un Dio non più relegabile in templi (At
17,24), un Signore che anziché essere vanamente cercato prende lui l’iniziativa
di cercare gli uomini (Gv 4,23), all’istituzione religiosa non resta che
scomparire, a meno che non si sbarazzi del suo Dio e si sostituisca a lui.
Lasciar Gesù libero d’agire significa infatti la bancarotta dell’istituzione
religiosa.
Se la gente crede in Gesù, smetterà di credere nelle autorità. “Se lo lasciamo
fare... tutti crederanno in lui!” (Gv 11,48), diranno allarmati sommi sacerdoti
e farisei a tutto il sinedrio e non esiteranno, pur di mantenere intatto il
loro potere, a tradire il loro Dio: “Non abbiamo altro re che Cesare!” (Gv
19,15). Accetteranno di essere dominati per poter continuare a dominare.
Per ora tutto il mondo religioso, dai capi religiosi ai farisei, dai sacerdoti
ai leviti, è all’erta, pronto a cogliere i primi segnali della venuta
dell’atteso Messia.
Per eliminarlo.
(Seguono gli interessanti capitoli di commento al vangelo di Giovanni. N.d.R.)
Conclusione?
Quel che è stato scritto e offerto dall’evangelista è frutto dell’esperienza
della sua comunità. Ora accogliendo questo vangelo, la buona notizia di Gesù,
ogni comunità cristiana è chiamata a scrivere la sua, e farsi buona notizia per
tutti gli uomini.
“Vi sono ancora molte altre cose compiute
da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non
basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,25).
20 aprile 2018 a cura di Alberto "da Cormano" Bibbia@ora-et-labora.net