IL LIBRO DI GIOBBE
INTRODUZIONE
Prima parte: l'opera biblica
Estratto da "S.
Tommaso d'Aquino – Commento al libro di Giobbe", a cura di Lorenzo
Perotto O.P., Edizioni Studio Domenicano 1995
Un libro di rottura
Il fascino e l'attualità del Libro di Giobbe sta nel fatto che ogni
suo capitolo e versetto è una freccia scagliata su tutto e su tutti, sui
buoni e sui cattivi e,
a quanto potrebbe a volte
sembrare, sullo stesso Dio. Il tema del male, già di per sé tragico ed
esplosivo, è trattato qui con una linguistica dirompente. Le polemiche che
si agitano in questo scritto spezzano ogni tradizione di perbenismo, i
formalismi accettati e le rassegnazioni scontate, la superbia ostentata e
l’umiltà paurosa. Il Giobbe malato cronico, e spogliato di tutto nella
desolazione del letamaio, si rivela più forte e travolgente del ricco e
prestigioso Giobbe degli anni felici: è così che egli sovverte ideologie e
autorità indiscusse, collocando la sua nuda umanità in un rapporto autentico
e leale con il Signore che egli non vede, e che resta muto ai suoi appelli
infuocati e strazianti. In questo senso il Libro di Giobbe si
presenta innanzitutto come un libro di rottura, e per questo lo sentiamo
anche un po' nostro.
La pazienza atipica di Giobbe
Chi si accosta a questa lettura con atteggiamento religioso, spinto magari
dall’elogio che l’apostolo Giacomo ha fatto della pazienza di Giobbe (Gc
5, 11), già proverbiale all’inizio dell'era
cristiana, può sentirsi turbato nello scoprire che la pazienza del
protagonista non si identifica con la rassegnazione tranquilla e spesso
sorridente di cui leggiamo in molte agiografie di mistici e santi, né con il
coraggio baldanzoso dei martiri, tanto meno con la freddezza di chi sopporta
“stoicamente” un dolore.
Al contrario, infatti. Giobbe si lamenta continuamente, e pur conservando la
fede in Dio,
anzi proprio per questo, si ribella alla sua misera sorte, lancia verso il
Cielo espressioni che rasentano la bestemmia, e giunge a sfidare Dio in un
tribunale irreale, per dimostrargli giuridicamente la propria innocenza.
Il male è un fatto reale
Chi vive la difficoltà di conciliare il dolore umano con la bontà divina può
pensare di trovare una conferma alle perplessità del proprio pessimismo,
forse anche agnostico, nelle antinomie e nelle contraddizioni che Giobbe
solleva contro la proclamata
giustizia di Dio. Anche S. Tommaso osserva che la constatazione del
giusto-disgraziato può mettere in crisi il concetto stesso di “provvidenza
divina”.
La
teoria retributiva
Giobbe rompe con la concezione ebraica dell’epoca: essa s’illudeva di
spiegare il male dilagante su questa terra con la teoria meccanica della
‘‘giustizia retributiva”: se uno soffre, è perché ha peccato; se invece è
giusto, la sua vita scorrerà serena nel benessere con cui Dio premia la sua
virtù. Mancando agli Ebrei
del tempo la dottrina dell'immortalità personale,
cioè di un aldilà di premio o castigo giusti e definitivi, tale proposta si
rivelava ancora più angusta.
Giobbe avverte questo limite e, con la dichiarata
certezza d’incontrare prima o poi il suo Dio, incrina il muro perimetrale
dell’esistenza terrena, e prepara in qualche modo alle luci dell’oltretomba.
Inoltre, la teoria retributiva di fatto stendeva un velo sullo scandalo che
da sempre, nella storia, rende perplesso l’uomo: l’ingiustizia registra
soltanto tonfi sporadici, ma in generale essa premia e trionfa: i malvagi,
persino quando muoiono - dice Giobbe - hanno la gratificazione di splendidi
funerali! Perché allora Dio permette tutte queste ingiustizie? Savonarola
aveva ragione a definire quest’opera “un libro di guerra”.
Il
problema rimane aperto
Chi, filosoficamente o teologicamente interessato, legge questo poema
letterariamente splendido, resterà deluso nel constatare che Giobbe, anche
se segna una svolta radicale nell’impostare il problema della sofferenza
umana, è ben lungi dal fornirne la soluzione. Chi confida nella logica di
Dio, tirato direttamente in causa dalla dialettica aggressiva di Giobbe,
sarà sconcertato trovando, nei capitoli finali dedicati appunto ai “Discorsi
di Dio”, che il Signore non dà una risposta precisa alle tormentate domande
di Giobbe.
Questa insuperata lirica del dolore ha tutti i pregi di uno scritto
umanissimo, in cui le idee brillano di meravigliosa concretezza, ma alla
fine si rivela non riducibile a un unico messaggio ben definito che spieghi
chiaramente il perché delle illogicità per cui si è protestato; non per
nulla S. Girolamo (IV sec. d.C.), esperto biblista, avverte che presumere di
capire Giobbe è come tenere in mano un’anguilla: “più stringi la mano, e più
ti scivola via".
In effetti, la parte centrale dell’opera,
che ci dà un saggio di come si svolgeva una disputa presso i Semiti,
registra una progressione logica irruente ma contorta, in cui è
difficile individuare gli atteggiamenti di una
corretta psicologia e di una lucida e rigorosa dialettica. I tre amici di
Giobbe sono venuti per consolare Giobbe; ben presto però, invece di
confortarlo, lo aggrediscono insultandolo, e dandogli dell'insipiente,
accusano di irreligiosità proprio lui, il pio e potente Orientale caduto in
disgrazia, attribuendogli peccati che egli non ha commesso, e atteggiandosi
a difensori di Dio contro Giobbe.
Questi reagisce amareggiato, ma soprattutto non si arrende mai, e
contrattacca sempre con variegata durezza. L’ironia e il sarcasmo sono
ricorrenti sulle labbra di tutti i personaggi, Dio compreso. Quest’ultimo
sentenzierà che gli amici hanno avuto torto con Giobbe, ma che Giobbe ha
avuto torto con Dio.
La strana santità di Giobbe
Con tutto ciò,
gli studiosi riconoscono che l’Autore del libro tratteggia,
negli episodi vissuti da un Giobbe storicamente mai esistito, anche gli
spezzoni di vita di un santo, e tale lo recepisce la tradizione cristiana:
soltanto un santo, intendendo con tale termine un ostinato “amante di Dio”,
poteva conservare la fede sopportando la tragedia immane di cui è vittima
innocente nella desolata solitudine dell’incomprensione generale; così pure,
la stessa ribellione che contrassegna certe espressioni verbali di Giobbe
non è quella satanica a cui lo spinge la moglie sconvolta, ma esprime la
ricerca appassionata del criterio a cui si
ispira la giustizia del suo Creatore, di cui peraltro
Giobbe non dubita.
Per capire l’angoscia che travaglia il tormentato Giobbe, rimane infatti
fondamentale ciò che noi leggiamo nella prima pagina: il Signore permette
che Satana metta a dura prova la religiosità di Giobbe, che Dio sa essere
disinteressata,
“per niente” (Bibbia CEI,
Gb 1,9: «Satana rispose al
Signore: «Forse che Giobbe teme Dio "per nulla"?»), come leggiamo nell’ebraico; ma
che si tratti di una prova, Giobbe non lo sa,
e lo ignorano anche i suoi tre amici teologi.
Un santo strano dunque, perché polemico, lamentoso e ribelle; ma un santo
emblematico, uomo-simbolo di chi,
come diciamo noi, è ingiustamente perseguitato
dalla sfortuna che non viene mai sola, prototipo antico del dolore
innocente: pensiamo ai bambini vittime delle guerre e agli handicappali
fisici e mentali, che costituivano un problema teologico anche per i
discepoli di Gesù: «Chi ha peccato, se quest’uomo è cieco dalla nascita?» (Gv
9. 1-3).
Data della composizione
Tra il 600 e il 450 a.C., cioè ai tempi dell’imminente rovina di Gerusalemme
nel 587, dell’esilio del popolo ebraico in Babilonia,
e dell’editto di Ciro del 538,
che apre la possibilità del ritorno in patria.
Lo
stile
È uno tra i poemi drammatici più celebri e suggestivi della letteratura
mondiale, per i vertici d’ispirazione poetica che tocca, per l’umanità che
trasuda, e per l’accuratissima forma espressiva.
La risorsa stilistica del “dialogo” serve all'Autore per dare vivacità a
tematiche fondamentalmente dottrinali,
e per giustificare le posizioni antitetiche, e a
volte estremiste, degli interlocutori.
IL TESTO
La redazione in lingua ebraica è in versi, eccetto il Prologo e l'Epilogo
che sono in prosa. L'originale ebraico ospita molti aramaismi ed è giunto a
noi assai corrotto: oltre alle vicende storiche, ciò si deve alla censura di
cui sono stati
oggetto quei brani in cui il linguaggio di Giobbe verso Dio è contrassegnato
da una violenza ritenuta, all’epoca, blasfema e scandalosa. Le difficoltà
testuali, che provocano problemi anche all’evoluta e attrezzatissima esegesi
contemporanea, erano già state evidenziate da S. Girolamo: traducendo la
Bibbia in latino, diceva che per questa lingua “Giobbe è ancora sul
letamaio, coperto dai vermi dell'errore”.
Il genere letterario
Nella Bibbia, il libro di Giobbe è considerato uno dei cinque “Libri
Sapienziali”. La sapienza che qui ritroviamo è immune dalle formulazioni
astratte e filosofiche della Grecia classica, mentre invece risente degli
antichi concetti di sapienza più pratica sviluppatisi specialmente in Egitto
e in Mesopotamia,
fin dal 3000 a.C.. Se ne differenzia tuttavia per l’ispirazione religiosa che
da essa emana, pur conservando formulazioni chiare e concrete. L’Autore sa
di rivolgersi a una popolazione di pastori rozzi e duri, per cui ricorre
spesso a similitudini anche grossolane ma incisive, a paradossi e a
riflessioni brevissime: nozioni tutte di facile comprensione e
memorizzazione.
Giobbe però cerca una sapienza umana più illuminata e profonda, capace di
essere veramente equa nei confronti dei singoli individui: sono loro i
protagonisti veri della vicenda umana; scoprirà però che la sapienza
autentica è soltanto in Dio. Il fascino di questa ricerca risiede nel
costituire un coinvolgimento personale, e non una fredda analisi statistica
o scientifica, come il termine “ricerca” potrebbe appunto suggerire.
L'autore
È un israelita palestinese, ispiratissimo poeta, dotto, profondamente
religioso, ricco di esperienze acquisite in viaggi compiuti fuori della sua
terra, specialmente in Egitto.
Il
protagonista: Giobbe
Il nome “Giobbe" si trova anche in precedenti testi non-biblici; esisteva
pure un antico poema babilonese del “giusto-sofferente”: si trattava di una
leggenda elaborata in forma letteraria per costruire il prototipo dell'uomo
retto, tormentato dalle disgrazie. È logico quindi che l’Autore,
al fine di non urtare la sensibilità della tradizione d’Israele, che dava
per scontata la dottrina retributiva, abbia utilizzato quel canovaccio
antico e straniero, facendo del protagonista un Orientale non ebreo, ricco
ma pio, e così pure abbia volutamente collocato in un ambiente
extra-nazionale, l'Arabia,
anche gli amici di Giobbe e le discussioni, a volte esasperate, che
costituiscono la parte più ampia e rilevante del poema.
Tale stratagemma letterario non ha però evitato la censura postuma
dell’ambiente ebraico alle scandalose proteste di Giobbe contro Dio. Il
testo quindi ha subito tagli e correzioni; se non fosse però per certe
difficoltà di comprensione che ne derivano, forse non ce ne accorgeremmo
nemmeno: il lamento urlato o fievole del Giobbe sofferente giunto a noi ha
conservato un’incandescenza espressiva in cui il tradizionale “rispetto”
verso Dio si salva appena, mentre è rimasta intatta la sua forza
coinvolgente ogni essere umano, che
prima o poi deve affrontare l'“ora della prova”:
sia essa delusione, distacco, tradimento,
dolore o tragedia.
Proprio per questo la letteratura su Giobbe è stata e continua a essere
ricchissima, scavalcando il recinto degli interessi puramente biblici, per
entrare nelle varie culture: il nome di questo protagonista, di per sé,
evoca i problemi, epidermici o profondi, della finitudine umana, e li amplia
in una ricerca di “perchè” a cui le categorie terrene non sanno dare una
risposta definitiva.
(Nota del redattore del sito: Il libro prosegue con un'ampia introduzione al
commento al Libro di Giobbe di s. Tommaso d'Aquino e con il testo di s.
Tommaso)
Riflessioni conclusive
Il testamento di Giobbe
Il
Libro di Giobbe
è terminato, ma il problema da cui è scaturito rimane aperto: l'esperienza
spirituale di Giobbe è indubbiamente ricca di luci; il messaggio che essa ci
trasmette, però, va integrato con la Rivelazione esaltante dei Vangelo: essa
infatti fornisce indicazioni più mature e penetranti sui tratti salienti del
dramma biblico (utilizziamo qui alcune “Voci” del
Dizionario di Teologia Biblica
di Leon Dufour).
La fede
Giobbe ha sempre
creduto all'amore di Dio per lui; questa certezza nella giustizia divina
espressa in forma martellante è giunta a squarciare i limiti del suo
orizzonte terreno, al confine dell'aldilà (c. 19).
Gesù “primogenito
tra i morti”, l'esperienza pasquale, e il “Vangelo della risurrezione” che
caratterizza la predicazione apostolica hanno poi fissato dei punti chiari e
rasserenanti sul disegno eterno di bontà che la provvidenza ha realizzato
per l'uomo: la fede nel Cristo risorto significa che il tempo presente va
misurato e vissuto nella prospettiva dell'eternità. Tommaso commenta: «la
vita del Cristo che risorge si diffonderà con la risurrezione a tutti gli
uomini» (19, 25).
La preghiera
Questo filo,
lamentoso o incandescente, che lega Giobbe al suo Dio onnipotente non si è
mai spezzato, anche quando la tentazione della sua inutilità era pressante.
Il "Padre Nostro" di Gesù ci ha insegnato che a Dio dobbiamo rivolgerci non
soltanto come al nostro Creatore, ma come a colui che ci avvolge con un
amore paterno; per ricuperarci, il Padre ha inviato suo Figlio a meritarci
la grazia, cioè la
partecipazione della sua stessa vita, garantendoci che veniamo ascoltati:
«chiedete ed otterrete» (Lc 11.
9).
La Potenza di Dio, esaltata quasi in ogni capitolo di questo libro, è
identificata dal Vangelo come l’ambito specifico del cristiano orante,
che vede quanto la provvidenza abbia cura persino degli uccelli dell'aria e
dei gigli del campo: dunque, «cercate prima il regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7.
33).
Tommaso precisa che è proprio il concetto di provvidenza ad assicurarci «il
frutto della preghiera» (5, 8).
Il senso del peccato
Protestando con ostinazione la propria innocenza,
Giobbe dimostra che ciò a cui soprattutto egli anela è di risultare “giusto”
davanti a Dio. Gesù, quale innocente Servo di Jhavé (Is
53, 4), darà la vita per la redenzione
«della moltitudine dei peccatori» (Mc
10. 43; Mt 20. 26).
L’Aquinate sottolinea l'importanza, per l’uomo, di evitare la «deviazione
dalla legge del Signore» (obliquatio,
11. 33), in cui consiste l’alienazione etica del peccato.
Il dolore
Il dramma di Giobbe si consuma nell’ignorare il
senso di “prova” che hanno le sue disgrazie. Nel giudizio finale descritto
dal Cristo, l'ammalato assurge alla dignità di testimone decisivo della
carità o dell’emarginazione di cui egli è stato oggetto: ero «malato e mi
avete visitato» (Mt 25, 36). S. Paolo giunge a prospettare al
cristiano la dimensione di salvezza universale della sofferenza,
rallegrandosi di completare nella sua carne «ciò che manca ai patimenti di
Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
La provvidenza
Impostato il problema in termini rigorosamente razionali di dare/avere
terreni, la soluzione non si trovava.
I “Discorsi di Dio” (38-41) non forniscono
risposte precise ai “perchè" umani urlati dal protagonista, ma spostano il
dibattito sulla “teologia dell’abbandono”,
che è quella della fede e della speranza: se la sapienza autentica si
identifica con Dio, soltanto l’abbandono
fiducioso in Lui ci rende accettabile il mistero delle sofferenze anche più
irrazionalizzabili che spesso ci
sconcertano.
Gesù spiega che l’unica richiesta sensata che l’uomo può fare al Padre
celeste è che sia fatta la sua volontà «in cielo come in terra» (Mt
6,10).
Agli Apostoli che lo interrogano sull’innocenza del cieco dalla nascita,
prima di guarirlo il Maestro rivela: «è così, affinché si manifestassero le
opere di Dio» (Gv 9,3).
Tommaso accetta sin dall’inizio la gravità del problema (Prologo).
Ribadisce però reiteratamente che la provvidenza divina, sia pure senza che
noi lo vediamo (secrete), “governa” anche i particolari più minuti
del nostro cammino (11,6); come quelli di Giobbe, certi nostri quesiti,
ispirati a una logica puramente terrena, alla fine si dimostrano imprudenti:
il mistero esige umiltà, come ci insegnano le ultime parole di Giobbe (42,
5-6).
La prosperità di Giobbe
Si identifica con la benedizione di Dio,
a cui corrisponde, nel protagonista, una
gestione virtuosa e misericordiosa del benessere ricevuto. Difatti,
terminata la prova, il Signore «benedisse la nuova condizione di Giobbe»,
raddoppiandogli le fortune del suo “autunno” felice di un tempo (42, 12).
L’A.T. non considera però la ricchezza come un bene supremo: meglio la pace
dell’anima e la giustizia. Il più delle volte, infatti, l’uomo è portato a
gestire il successo mondano con un protagonismo superbo ed egoista,
arrogandosene il merito.
Gesù quindi rivoluzionerà in modo brutale il rapporto con il benessere:
«guai a voi,
o ricchi, perché avete la vostra consolazione» (Lc
6,24). In realtà, tutto ciò che l'uomo ha
è un dono del Cielo destinato a tutti, per
cui il Cristo esorta i suoi discepoli a testimoniare la provenienza divina
di ciò che hanno e di quanto riescono a realizzare: «gratuitamente avete
ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
S. Paolo concluderà che la vera ricchezza non è quella che si possiede, ma
quella che si dà, perché questo dono richiama la generosità di Dio,
e unisce nel ringraziamento colui che dà e
colui che riceve (2 Cor 9,11).
Tommaso, di famiglia nobile e benestante, spiega la singolare virtù di
Giobbe nella gestione della sua ricchezza: egli ne attribuiva l’origine «non
alla fortuna, né alla propria intraprendenza, ma all’aiuto divino» (29,2).
Qualche anno dopo (1270), trattando della Riconoscenza, l'Aquinate
trarrà da Seneca (4-60 d.C.) il principio che il ricco deve
''incessantemente” dare ai bisognosi, e costoro devono sempre ringraziare (I
Benefici 4,5): in
sintonia con il pensiero di Paolo cui abbiamo accennato, si dà così vita a
un ciclo ininterrotto di donazione-gratitudine che sublima la virtù
cristiana della giustizia;
non
quella dei codici e dei tribunali,
ma
quella della
prospettiva
dei figli di Dio, umilmente coscienti di aver ricevuto tutto dal Signore, al
fine di costituire a loro volta il tramite di tale generosità gratuita verso
i loro fratelli.
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23 aprile 2020 a cura di Alberto "da Cormano" Bibbia@ora-et-labora.net