Una domanda su Dio
Estratto da G. Ravasi, “Il
Libro di Giobbe”, Rizzoli, Milano 1989,
(Introduzione pp.
26-31).
«L’uomo, breve di giorni, sazio di inquietudine...»
Il mistero dell’uomo è la radice della ricerca teologica e poetica di
Giobbe. La sua è innanzitutto la storia di un uomo, di un credente, di
un sofferente. È la storia di un uomo: da questo capolavoro biblico
si può ricostruire un vero e proprio profilo antropologico, spesso affidato
alla forza dei simboli. C’è un senso fortissimo del limite umano: «l’uomo,
nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come fiore sboccia e
subito è avvizzito, come ombra svanisce e mai s’arresta» (14, 1-2). Egli
abita «case di fango» ed è «cementato nella polvere» (4, 19), «l’uomo,
questo verme, l’essere umano, questo lombrico» (25,6). Non è solo un limite
metafisico ma anche morale: «Può il mortale essere giusto dinanzi a Dio,
puro l’uomo dinanzi al suo Creatore?» (4, 17). «Chi può estrarre il puro
dall’impuro? Nessuno!» (14,4). L’uomo, infatti, è nit'ab e ne’elah
(15, 16:
Bibbia CEI, abominevole e corrotto):
i due aggettivi evocano due simboli piuttosto realistici; il primo
sottintende la reazione istintiva psicofisica di fronte a qualcosa di
ripugnante e disgustoso; il secondo, invece, significa “acido”, “alterato” e
indica perciò una sopravvenuta corruzione e deformazione (vedi gli argomenti
a fortiori sulla corruzione dell’uomo in 4, 17-19 e 15, 14-16 e 25,
4-6).
Giobbe è la storia di un credente.
In ogni istante della sua vicenda drammatica, anche di fronte alla più cupa
disperazione e alle più dure bestemmie, Giobbe non cessa di essere un
credente. Anzi, la sua storia è per eccellenza quella della ricerca di Dio,
evitando tutte le scorciatoie della teologia codificata e semplificata. Egli
non abbandona mai questo filo anche nel silenzio più totale di Dio,
nell’abisso dell’assurdo; ed è per questo che alla fine Dio, ignorando le
bestemmie e le proteste, preferisce la sua fede nuda alla compassata
religiosità dei suoi avvocati difensori teologi: «La mia ira si è accesa
contro di te e i tuoi due amici perché non avete parlato di me con
fondamento come il mio servo Giobbe» (42, 7). Il cammino di Giobbe è,
quindi, quello di un credente che attraverso l’oscurità vuole giungere
all’approdo della luce e del dialogo con il suo Signore.
Ma Giobbe è anche e ininterrottamente la storia di un sofferente.
Per tutte le teologie mature, il dolore è il banco di prova della fiducia in
Dio e nella vita. Famoso è lo status quaestionis posto da Epicuro in
un frammento conservato dal De ira Dei di Lattanzio (cap. 13): se Dio
vuole togliere il male e non può, allora e debole (e quindi non Dio); se può
e non vuole, allora è radicalmente ostile nei confronti dell'uomo; se non
vuole e non può, allora è debole e ostile; se vuole e può, perché esiste il
male e perché esso non viene eliminato da Dio? Le tentazioni dualistiche, le
proposte moniste o pessimistiche od ottimistiche, le soluzioni
esistenzialiste costellano tutta l'avventura del pensiero umano. La stessa
Bibbia ci offre uno spettro molto variegato di soluzioni che tentano di
circoscrivere qualche faccia di questo mistero. Giobbe usa questo
campo di battaglia, il più difficile per la fede, proprio per esaltare la
necessità della fede.
La cittadella del male
Giobbe
non desidera certo risolvere “razionalmente" il grande interrogativo del male
che abita la storia, Nella Bibbia c'è lo sforzo di penetrare in questa
cittadella inafferrabile: c'è una proposta etica propria della storiografia
soprattutto deuteronomistica, c’è una visione profetica, c’è una lettura
caratteristica del libro del Deuteronomio fondata sulla funzione
pedagogica del dolore, c’è un’interpretazione apocalittica, c'è una
presentazione salmica legata alle suppliche, c’è la visione del dolore
espiatorio dei peccato altrui sollevata dal «quarto carme del Servo del
Signore» (Is 55); c'è poi la grande proposta neotestamentaria, vincolata alla
morte di Cristo e alla sua pasqua.
Giobbe
contrasta soprattutto la proposta sapienziale codificata nella teoria della
retribuzione, che largo spazio avrà nella teologia di Israele.
Secondo questa teoria ogni sofferenza è sanzione di peccati personali. La
sua applicazione può rivestire forme differenti: retribuzione terrena e
personale (Pr 11, 21.31; 19,17; Gb 22, 2), retribuzione
collettiva (Sir 11,20-28;
Qo 9, 5), retribuzione
immediata retribuzione differita (Sal 37, 10;
49, 17; 73, 18-19; Gb 8, 8
sgg.; Sir 11,26-28), retribuzione escatologica (Sap 3). Giobbe
rifiuta questo schema semplificatorio moralistico come insufficiente a
spiegare storia ed esistenza. Assume la realtà del male lasciandola nella
sua forza di scandalo, nella sua provocazione bruta vanamente coperta dai
veli retributivi.
La sua polemica nei confronti della soluzione sapienziale classica ha lo
scopo di sgombrare il terreno da ogni soluzione ipocrita e semplicistica. Su
questo terreno del male, «la roccia dell’ateismo», come diceva Georg Büchner
(Drammaturgo tedesco 1813-1837),
egli vuole aprire una nuova riflessione che coinvolga Dio in modo positivo.
Per Giobbe il mistero del male, che viene fatto balenare in tutta la
sua tragica violenza e verità, deve condurre al vero Dio in un modo
molto più genuino di quanto lo faccia l’esistenza del bene. Il poeta biblico
è fermamente convinto che il male, proprio perché mistero, non può essere
razionalizzato e addomesticato attraverso un facile teorema teologico. Il
male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo.
Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una
‘esah (38, 2), una «razionalità» da mistero, cioè superiore e totale,
quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo
sembra invece debordare ogni progetto.
«Il libro di Giobbe
tutto intero è il nome divino»
Philippe Nemo
(Filosofo francese n. 1949)
nel suo libro Giobbe e l'eccesso del male ha dato questa felice
definizione: «Il Libro di Giobbe tutto intero è il nome divino». Il
vertice, infatti, dell’itinerario non è la soluzione di una questione umana,
ma è nel «vedere Dio con i miei occhi» rifiutando tutto il «sentito dire»
(42, 5). Per questo il messaggio dell'opera, anche se si snoda
dall’intreccio tra l'uomo, il mondo, il male, la società e Dio, ha come meta
ultima Dio, la sua parola, la sua teofania, la sua contemplazione, il suo
mistero.
Siamo giunti, così, al vero cuore del
libro. Giobbe è uno scritto “teologico” nel senso pieno del termine.
Fondamentale è l'oscillazione tra la ricerca spasmodica di Dio dei capp.
3-27 e l’esaltante esperienza di Dio dei capp. 38-39/40-42. Giobbe resta
contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo
conduce “logicamente” la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di
lode a cui lo conduce la scoperta di Dio. Dio vuole far balenare
l’impossibilità di ridurre il suo «progetto» a un semplice schema. Davanti
alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio, Giobbe riconosce
di non essere in grado di sondarne che qualche particella microscopica
mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza e onnipotenza.
Lo sfidato, Dio, sfida a sua volta l'uomo, facendogli intuire che la
“logica” di Dio è onnicomprensiva e ben più autentica di quella limitata
della creatura che continuamente si sente insensata e inceppata nel suo
procedere. Alla fine agli occhi di Giobbe non appare, perciò, l'incastro
perfetto del male nella trama della storia e dell’essere, ma il volto di
colui che questo incastro realizza secondo il suo disegno trascendente.
Giobbe allora si abbandona a questo disegno: «Se pure corressi per mari
stranieri tornerò sempre a far naufragio nel tuo, Signore» (Mario Pomilio,
scrittore 1921 - 1990).
Il Libro di Giobbe diventa, in questa luce, una grande catechesi
sulla fede pura e sul vero volto di Dio contro ogni compromesso e
contraffazione apologetica. Come si è detto, per Giobbe è
insufficiente ogni lettura antropocentrica; l’analisi del mistero dell’uomo
e del male dev'essere condotta in modo funzionale rispetto al vertice
tematico autentico che è teologico.
La centralità del “vero Dio misconosciuto dall’uomo vecchio” (D. Barthélemy,
biblista domenicano, 1921-2002)
è giustificabile nel Libro di Giobbe a livello letterario e tematico.
A livello esterno, letterario, perché Dio è sempre presente nell'opera come
atteso, come interlocutore desiderato anche se assente, come parte in causa:
«Oh, se sapessi dove incontrarlo, come arrivare sino al suo trono! Esporrei
davanti a Lui la mia causa con la bocca colma di argomenti. Conoscerci
finalmente con quali discorsi mi replica, capirei che cosa mi deve
comunicare» (23, 3-5). La stessa struttura del libro rivela questa tensione
di fondo: la teofania e i discorsi finali di Jhwh sono la conseguenza logica
e l’esito risolutivo del dialogo e della sfida che l’uomo-Giobbe lancia nel
capitolo 31. Lo stesso “mediatore” sognato da Giobbe perché funga da arbitro
neutrale nella contesa tra l’uomo e Dio non può che essere Dio stesso.
La centralità della questione teologica si rivela però soprattutto nella
struttura interna dell’opera. Come dice Jean Jean Lévêque (teologo
carmelitano n. 1930),
Giobbe vive la sua prova «come una domanda su Dio ed è solo a Dio che vuole
porla». Il senso ultimo di questo itinerario a delta ramificato non è quello
di rendere ragione del mistero del dolore in sé preso, ma piuttosto quello
di dire «cose rette» su Dio (42, 7). La questione centrale dell’opera non è
il male di vivere, ma come poter credere e in quale Dio credere nonostante
l'assurdo della vita. Contro il razionalismo etico della teoria retributiva,
contro il razionalismo teologico degli amici, Giobbe ribadisce la necessità
del «credere in Dio per nulla» (1,9), cioè della gratuità della fede, e
l'esigenza del «vedere» attraverso un’autentica esperienza di fede (cfr. Sal
73, 17).
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23 aprile 2020 a cura di Alberto "da Cormano" Bibbia@ora-et-labora.net