CAPITOLO PRIMO

 CONCEZIONI ANTROPOLOGICHE DALLA GENESI ALLA SAPIENZA

estratto da " L'UOMO SECONDO LA BIBBIA" - A. Gelin - Edizioni Ligel 1968

(Libera traduzione del testo francese)

(Link al file PDF)



Tratteremo, in questo primo capitolo, delle concezioni antropologiche che troviamo nella Bibbia. Si rilevano, infatti, molte concezioni sull'uomo, a seconda che si prevedi il pensiero propriamente ebraico o il contributo greco nella Bibbia.

 

I. L'ANTROPOLOGIA EBRAICA

 

1. Un unico organismo psico-fisiologico a due componenti.

 

La Bibbia ebraica ci mette sempre davanti ad un organismo psico-fisiologico che comprende due componenti: la néfèsh ed il basar (1).

a) La néfèsh (l’anima). Ciò che designa questa parola nella Bibbia è complesso: la parola “anima” non ne rende l’esatto contenuto.

- La “néfèsh”, in un primo significato, è la gola. Giona, in fondo al mare, grida la sua angoscia verso Yahvé: “Le acque hanno montato fino alla mia néfèsh” (Gn 2,6); in altre parole:

Io soffoco, non posso più respirare, poiché ne ho fino alla gola!

Per metonimia, “néfèsh” designa il soffio, la respirazione, come la gola da dove passano

- Di là si scorre al significato di: desiderio, appetito.

Esempi: “Il giusto si preoccupa della néfèsh (= dell'appetito) del suo bestiame; ma le viscere del cattivo sono crudeli“ (Pr 12,10). “La néfèsh (= il desiderio) dei cattivi si alimenta di violenza“ (Pr 13,2). Non ci si sorprenderà se, nella parola “néfèsh“, c'è sempre qualcosa di patetico.

- Nella Bibbia ebraica, “néfèsh“ finisce per significare: l’io che vive, l'essere vivente. È il caso di:

Sal 103,1: “Mia néfèsh, benedici Yahvé …“ si traduce spesso: anima mia. Diciamo piuttosto: mio essere.

Sal 84,3: “La mia néfèsh anela e desidera gli atri di Yahvé“. Si tratta del pellegrino che vuole andare a Gerusalemme e che vi si dispone prima stimolando il suo desiderio: “Il mio essere languiva (più esattamente che: la mia anima)“. Il mio essere: ciò che c'è di più profondo in me.

 

1 Sam 18,1: “La néfèsh (l'anima, la vita) di Giònata si era legata alla néfèsh (l’anima, la vita) di Davide, e Giònata lo amò come  la sua néfèsh, (come il suo essere, come sé stesso”.

- Così la “néfèsh” è il dinamismo stesso dell’essere vivente. C'est l’essere vivente stesso, la persona. “Yahvé prese dell'argilla del suolo, vi soffiò sopra e divenne una néfèsh (= un essere vivente)” (Gn 2,7). Quando si vuole dire “la persona vivente“, si dice semplicemente la “néfèsh“; così quando, in Gn 12,5, ci si mostra Abramo che si incammina dal paese dell'Est fino a Canaan, si dice che c'erano con lui delle “néfèsh“, cioè della gente, delle persone.

- Occorre andare più in là. La “néfèsh“ esiste ancora nello shéol (2), dove ci si trova completamente indeboliti, ridotti allo stato d'ombra di sé stessi (Cf.  Num 6,6): ma si dice, nel caso degli abitanti dello shéol, che la loro “néfèsh” è “morta”.  La “néfèsh”, è dunque il centro di coscienza, il centro di unità del potere vitale, è la persona concreta animata del suo dinamismo di fondo. Non dimentichiamo che non si fa filosofia nella Bibbia: ci viene dato del concreto, dell'esistenziale.

Per concludere, diremo che “la mia néfèsh” (il mio essere) sarebbe tanto ben reso in italiano dal pronome personale rafforzato “me stesso” (con quest'idea d'insistenza ed a volte d'orgoglio che si trova suggerita).

 

b) Il basar (la carne (3)). La seconda componente, è il “basar” (il corpo, la carne). Non si trova mai separata dalla “néfèsh”.

In ebreo, il “basar” è la manifestazione concreta della néfèsh. L'ebraico ci mette sempre davanti ad un organismo fortemente sintetico, allo stesso tempo fisico e psichico.

Si trova la “néfèsh” attraverso il “basar”, attraverso la carne. Le diverse parti del corpo saranno considerate, in numerosi testi, come corrispondenti a diverse “facoltà”, che riguardano e riassumono la “néfèsh”. Queste “facoltà” non sono altra cosa che il “basar” (il corpo) che concentra per un momento tutta la persona:

- Il cuore è un elemento molto importante nell'Antico Testamento come nel Nuovo (Cf. Mt 15,19, ad esempio: i propositi malvagi provengono dal cuore …) il cuore è praticamente l'equivalente della “néfèsh”, ma della néfèsh incarnata. Dio vede ciò che è nel cuore, e questo cuore non deve essere “un cuore di pietra” (Ez 36,26), ma un cuore di carne, cioè un cuore permeabile. Geremia sembra avere per primo utilizzato l'espressione “la circoncisione del cuore” per significare che occorreva togliere dal cuore “il prepuzio” che gli impedisce di aprirsi a Yahvé.

- I reni. Reni e cuori vanno insieme. “Dio sonda i reni ed i cuori”: è ancora Geremia, ci sembra, che ha trovato questa espressione. I reni servono a designare la facoltà dei pensieri segreti, delle sensibilità e delle volontà nascoste.

- Il fegato, è la facoltà delle sensazioni elementari. Da ravvicinare all'espressione italiana “mangiarsi il fegato”, “si riversa per terra la mia bile”, dice il Geremia delle lamentazioni (Lam 2,11).

- Altri elementi del corpo sono utilizzati per tradurre la persona. Il Salmo 16 ci mette davanti questo insieme di facoltà:

 

Io benedico Yahvé che mi ha dato consiglio; anche di notte, i miei reni (Bibbia CEI: il mio animo) mi istruiscono

...........................................

Per questo gioisce il mio cuore, le mie viscere (Bibbia CEI: la mia anima) esultano, e la mia carne (basar)(Bibbia CEI: il mio corpo) riposa al sicuro …

(Sal 16, 7-9)

 

Vedere anche il salmo 84. Quando si dice in Malachia 2,7: “Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza”, la personalità del sacerdote interamente concentrata e riassunta nelle sue labbra, poiché la sua funzione è di essere colui che parla, il messaggero di Yahvé. Ugualmente ancora, in Sal 35,9-10, si legge: “La mia néfèsh (il mio essere) (Bibbia CEI: l’anima mia) esulta in Yahvé … tutte le mie ossa dicano: Yahvé, che è simile a te?“.

Il sangue, l'orecchio, le ossa: altrettante “facoltà” che possono manifestare in modo concentrato tutta la personalità.

2. Ciò che dà la sua consistenza al compostonéfèsh-basar”: la “ruah” (lo spirito).

Ecco l'elemento che è forse il più interessante, che vi apparirà come il più nuovo: la “ruah” (spirito). Senza la “ruah” il complesso psicofisiologico “néfèsh-basar” non vivrebbe, non avrebbe consistenza. La “Ruah” è una forza vitale prestata dall'alto che mantiene in piedi l’essere vivente.

In Gn 2,7 noi vediamo Dio soffiare, inviare una “ruah”, uno spirito, sull'argilla che ha appena lavorato. E questa “ruah” dà consistenza all'uomo, fa dell'argilla modellata una “néfèsh” viva, un essere vivente.

Nella Bibbia, la malattia è presentata come una perdita di ruah: quando si è malati, è lo spirito (ruah) che ci abbandona più o meno, “si versa la propria anima”, dice la Bibbia. La malattia è uno squilibrio, mentre che il recupero della salute suppone che ci si “ricarichi” di “ruah”, o più esattamente che Dio ci “ricarichi” del soffio, del suo soffio.

Presso gli Ebrei, tra la malattia e la morte, non c’è che una semplice differenza di più o di meno: la malattia è un inizio di morte. La morte, è la privazione quasi totale di “ruah”, di soffio. - Diciamo che alla morte, la “néfèsh” è “scaricata” al massimo, essa non è altro che una specie di borsa vuota, che non sta più in piedi. Ma nello shéol, non si ha tuttavia una cancellazione totale dell’essere - altrimenti non si sarebbe potuta pensare, venuto il giorno, la resurrezione. Nello shéol si ha una vita, ma una vita diminuita, sotto una forma molto debole; si è in una situazione di perdita quasi completa di energia vitale - si è nella situazione inversa di quelle persone che il salmista vede di mal occhio e che sono “piene” di vita e di grasso (Cf. Sal 73).

Il sonno anche è una perdita di “ruah”. Il Salmo 104 evoca gli esseri viventi (gli uomini, gli animali) che vanno a dormire: allora lo spirito li lascia (poiché anche gli animali hanno la “ruah”). Ma la mattina, ecco che con il sole, Yahvé invia il suo spirito in tutti gli esseri viventi, e questi si rimettono sui loro piedi, si tengono in piedi (Sal 104,29-30).

 

3.Osservazioni sulla portata di questa concezione antropologica.

 

a) La nozione di resurrezione. La resurrezione è stata pensata biblicamente in questa prospettiva antropologica. È nel libro di Daniele che si trova, per la prima volta, l’affermazione della resurrezione. Questo libro è stato scritto nel 165 A. C. ; rappresenta il pensiero ebraico, il pensiero più “ebraico” anche di quest'epoca: è “il manifesto” dei “Sapienti” ebrei di quel tempo. L'autore che si mette sotto l'egida di Daniele elogia i martiri; egli stesso è candidato al martirio. Ed afferma che i martiri saranno risuscitati per partecipare al Regno di Dio che si instaurerà sulla terra a Gerusalemme: Dio invierà loro la sua “ruah” che li farà stare in piedi (qûm).

Nello shéol, esistono coloro che la Bibbia chiama dei “refaïm”: dei deboli, delle persone completamente “svuotate”; e tuttavia sono sempre delle “néfèsh” (delle néfèsh “met”, cioè morte). E grazie a questa persistenza - in uno stato indebolito – della “néfèsh”, il Signore può infondere loro nuovamente del soffio (ruah), “ricaricarle” del suo spirito. E’ così la resurrezione ha potuto essere pensata; è il concetto di “néfèsh” che, per quanto imperfetto sia, è stato il mezzo per salvaguardare la persistenza della persona.

 

b) Il concetto di ruah. Questo concetto è di un'importanza primordiale. Claude Tresmontant  lo ha mostrato molto bene (4). È un concetto che attesta la relazione essenziale dell'uomo: l'uomo è costituito nel suo valore di uomo dal suo legame di dipendenza rispetto a Dio.

È sempre tra le mani di Dio. Si ha ragione di ringraziare Dio ogni mattina della vita che ci custodisce.

La “ruah” è all'origine della consistenza normale dell'uomo. Ma è anche una forza divina che rende l'uomo “morale”, che fa gli eroi ed i santi. Ad esempio, Giosuè ci viene presentato (Num 27,18) come un uomo “in cui è lo spirito”, un uomo della “ruah”. Quando Ezechiele sogna, per l'epoca messianica, di una “ripresa” dell'uomo, vede Yahvé re-infondergli la sua “ruah” (Ez 36,27): “Porrò la mia ruah in voi (= la mia forza, la mia capacità. Bibbia Cei: il mio spirito) e vi farò vivere secondo le mie leggi …” Si confronti anche Sal 51,13: “Non privarmi del tuo santo spirito “.

Il Messia, messia-re (Is 11,2) e messia-profeta, sarà anche lui pieno di “ruah”: Ecco il mio servo … ho posto il mio spirito su di lui” (Is 42,1; vedere anche Is 61,1).

Il concetto di “ruah” include dunque, nello stesso tempo, qualcosa di “soprannaturale”.

c) Infine questa antropologia si avvicina sotto molti aspetti all'antropologia moderna: vi si collegano molto strettamente il mondo fisico e quello psichico.

 

II. L'INFLUENZA GRECA

 

1.Il libro della Sapienza (5).

Il libro della Sapienza è stato scritto tra il 100 e il 50 A. C. ad Alessandria. Questa città, fondata da Alessandro sul finire del IV ° secolo, era in questa epoca una nuova Atene. C'era ad Alessandria una vita intellettuale molto attiva, al passo con i tempi. Vi si faceva dell’urbanistica, ma anche dell'erudizione: dizionari, ricerche storiche, memorie, edizioni dei grandi tragici greci, ed anche della letteratura.

In quest'ambiente ellenico viveva una colonia di 100.000 Ebrei. Vi si tradusse la Bibbia in greco (versione nominata “La Settanta”). È là anche che fu scritto questo libro della Sapienza, che è una dei pezzi scelti di tutta una letteratura che si può ben dire “missionaria”.

 

2.L'antropologia della Sapienza.

L'autore anonimo della Sapienza tratta soprattutto della felicità e dei fini ultimi. Si era in un periodo di antologie (6). Ha letto Platone in queste antologie; in particolare il Fedone, questo grande libro di Platone che tratta dell'immortalità dell’anima.

Il genio di Israele è un genio assimilatore, il suo carattere provvidenziale è quello di essere “un filtro” per tutto ciò che l'umanità ha trovato. Ad Alessandria, lo spirito ebreo assimila in quest'epoca il contributo greco classico (7). E l'autore della Sapienza, pertanto, ci dona un'antropologia che non coincide esattamente con l'antropologia ebraica.

Sarà un'antropologia più semplice, quella che si cercava presso i Greci a partire dagli Orfici. Costoro erano seguaci dell’Orfismo, una setta religiosa che conobbe la sua più grande estensione durante i secoli VIII°  e VII° A. C. e che influenzò Platone. Per gli Orfici “il corpo è una tomba”. Utilizzavano un gioco di parole: “Sôma Sèma” (Sôma = corpo; Sèma = tomba). Siamo lontani dalla concezione ebraica del corpo considerato come la manifestazione dell’anima. Nei greci - si troverà ciò in Cartesio - c'è una dicotomia tra il corpo e l’anima, e l'unione del corpo e dell’anima è considerata in un modo più “estrinseco” (“come il cavaliere è unito alla sua montatura”)…

L’anima soltanto importa. La Sapienza conferisce all’anima “una densità particolare, un destino proprio” (C. Larcher). Il corpo appesantisce l’anima alla quale è legata la personalità.

 

3. Due testi della Sapienza.

Qui sono soprattutto da prendere in considerazione:

- Sap 9,15: “Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la sua dimora terrestre (Bibbia CEI: la tenda d’argilla) opprime una mente piena di preoccupazioni. “

- Nell'altro testo (Sap 8, 19-20), si suppone che sia Salomone a parlare. È il portavoce del Sapiente perché egli ha fatto tutte le esperienze. Il Salomone che parla qui è un Salomone straordinario; è lui che viene opposto alla saggezza ellenistica. Salomone sa tutto: “Comprende la struttura del mondo e la forza dei suoi elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l’alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, i cicli dell’anno e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle bestie selvatiche, la potenza degli spiriti (Bibbia CEI: la forza dei venti) e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici (la farmacopea! …)” (Sap 7, 17-20). È il saggio per eccellenza.

Ecco la sua ottica antropologica (Sap 8, 19 - 20): “Ero un ragazzo venuto bene” (cioè, ben formato, in sensi fisico: si dice ciò soltanto del corpo presso i Greci) (Bibbia CEI: di nobile indole). “Ebbi in sorte un’anima buona”. Così, sembra dare inizialmente la precedenza al corpo, quindi si corregge al v. 20: “O piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia“. L’ “io“ che qui è soggetto, concentra, presso i Greci, l'essere umano; e la personalità vi è collegata all’anima. L'autore rimane ebreo tutto sommato: sottolinea il primato dell’anima, e che è senza macchia.

 

4. Conseguenze della nostra analisi.

a) la presenza di questa doppia antropologia (ebraica e della Sapienza) ci permette di pensare che non c’è un'antropologia biblica; ce ne sono due - ed ancora non abbiamo esaminato l'antropologia di cui potrebbe bene testimoniare la versione greca della Bibbia. Infatti, questa versione è stata fatta per degli Ebrei assimilati: la loro tendenza, traducendo in greco, non sarà stata quella di semplificare le distinzioni ebraiche che abbiamo visto prima e di proiettare su questi elementi dell'uomo concreto i loro schemi ideali?

 

b) Conseguenze dell'antropologia della Sapienza quanto alla visione dei fini ultimi.

Per l'autore ciò che importa è che, una volta arrivata la morte (questa morte che è soltanto un’evenienza, dopo tutto) l’anima va verso Dio, è presa da Dio (immagine del rapimento divino), essa è nella pace, nel tempio di Dio, nell'amore (8).

Ma non si dice nulla sulla resurrezione. Non siamo ancora arrivati al termine della Rivelazione. Nello svolgimento storico di questa, succede che ci siano anche tentativi in diverso senso. Ci basta che ciò non contraddica l'idea di resurrezione: e non può contraddirla, poiché non se ne parla.

Come “stereotipi”, guardiamo:

- quello di Daniele 12,2 (165 A. C.): Dio “che ricarica” del suo “ruah” la “néfèsh” dei martiri facendoli ricomparire,

- quello dell'antropologia di tipo platonico dove l’anima non vivrà in pienezza che quando sarà liberata della sua “crosta” corporale.

 

III. PROSPETTIVA SULL'ANTROPOLOGIA ALL'EPOCA DEL NUOVO TESTAMENTO

 

Per comprendere l'antropologia del Nuovo Testamento, pensiamo che occorra partire dal saggio (contemporaneo del N.T.) del filosofo e storico ebreo Giuseppe.

 

1. Il saggio di antropologia di Giuseppe.

Giuseppe fece la guerra di liberazione (che fallì) nel 70 D. C. . Pubblicò i suoi due lavori: Le antichità giudaiche e La guerra giudaica, per fare conoscere il suo popolo e farne l’apologia. Ed è a questo titolo che spesso è portato a parlare delle opinioni in corso presso i Giudei di allora, ed innanzitutto della sue opinioni (egli  era fariseo).

La sua antropologia rappresenta una specie di compromesso, una prova di sintesi tra le due linee che abbiamo riconosciuto prima. Questo compromesso si situa dopo la morte, nell'escatologia individuale.

“Le anime pure, dice, sussistono dopo la morte. Esse raggiungono un luogo molto santo del cielo”.  Eccoci dunque nel pieno nella linea della Sapienza, nella prospettiva ellenistica dell'immortalità felice. Ma continua: “Di là, all'ora del cambiamento dei secoli (il grande cambiamento atteso, l'escatologia), riprenderanno possesso di corpi santificati“. Noi vediamo dunque come “recupera” la dottrina della resurrezione. È probabile che sia questa stessa ottica che si trova nei Vangeli ed in san Paolo.

 

2. Negli scritti del Nuovo Testamento.

 

Ci accontentiamo qui di segnalare alcuni testi per indirizzare la ricerca:

- Lc 16,19-31. È il resoconto del povero Lazzaro e del malvagio ricco. Si vede che Lazzaro, dopo la sua morte, sussiste anche senza il suo corpo. È “nel seno di Abramo”.

- Lc 23,43. È la risposta di Gesù al brigante buono sulla croce: “Oggi sarai con me in paradiso“.

- Fil 1,23: “Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo”.

- 2 Cor 5,1-8: Dopo la morte “Riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci (9) della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita … Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo … preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore …”, ecc.

- Ap 6,9: I martiri che sono sotto l'altare nell’attesa di resuscitare. Non sono ancora resuscitati: c'è dunque uno stato intermedio.

Tutti questi testi suppongono che la nozione di “anima” abbia assunto una certa densità. C'è qualcosa di cambiato rispetto alla vecchia antropologia giudaica: si sono messi gli occhi sul versante greco. Ma questa valorizzazione dell’anima si è prodotta perché si è preso in considerazione soprattutto il mistero di Cristo. I morti cristiani sono “con Cristo”, in attesa della resurrezione finale che lui ci ha meritato.

 

NOTE

 

(1). Mi scuso di usare parole della lingua ebraica. Impossibile cavarsela differentemente: il senso di questi termini - lo vedrete - non coincide esattamente con nessuna parola francese (e italiana Ndt) .

(2). Non è l'inferno: quest'ultimo include una sanzione.; nello shéol non vi è nessuna sanzione. È un luogo d'attesa dove non si attende nulla, dove si conduce una vita diminuita.

(3). La parola “carne” che utilizziamo qui non deve essere presa nel significato peggiorativo. Ha significato peggiorativo - e neanche sempre - soltanto in san Paolo. Il Vecchio Testamento non conosce, riguardo alle realtà terrestri e carnali, quest'orrore che troviamo in un certo giansenismo e già in un certo montanismo. Il Signore, durante i diciotto secoli del Vecchio Testamento ci ha fatto apprezzare le realtà terrestri e “la terra dei viventi”.

(4). Cf. Claude TRESMONTANT, Essai sur la pensée hébraïque, Parigi, 21956, pp, 109 SS.

(5). Noi diciamo “Libro della Sapienza” (in francese: Livre de la Sapience) preferibilmente a “Libro della Saggezza” (in francese: Livre de la Sagesse), per evitare di designare - come lo fa la liturgia - tutti i libri sapienziali: Cantico dei Cantici, Proverbi, ecc.

(6). In questo modo, è con le antologie fatte ad Alessandria in quest'epoca che un certo numero di tragedie greche (quelle di Eschilo, ad esempio) ci sono conosciute.

(7). Sulla questione del genio “assimilatore” del popolo Giudaico, vedere Dom H. DUESBERG, Les scribes ispirés, Parigi, 1939, specialmente pp. 441-592.

(8). Nel “refrigerium” , dirà la nostra liturgia della messa. (A questo schema, si apporteranno complementi e sfumature utili consultando P. GRELOT, “L'eschatologie de la Sagesse et les Apocalypses juives”, in A la rencontre de Dieu. Mémorial Albert Gelin, Mappus, 1961, pp. 165-178. Sembra proprio, infatti, che sotto la sua terminologia “greca”, l'escatologia della Saggezza non differisca, essenzialmente, da quella dell'apocalittica “giudaica”. Nota degli editori).

(9). Notare la “teologia dell'abito” sottostante a tutto questo passaggio. Vedere a proposito le note e rinvii della Bible de Jérusalem; R. FEUILLET, «La demeure céleste et la destinée des chrétiens ». Exégèse de 2 Co. 5, 1-10 e « Contribution à l'étude des fondements de l'eschatologie paulinienne », in Recherches de Science Religieuse, 44, 1956, pp. 161-192 et 360-402.

 

BIBLIOGRAFIA

 

C. TRESMONTANT, Essai sur la pensée hébraïque, Êd. du Cerf, Paris, 21956.

G. PIDOUX, L'homme dans l'Ancien Testament, Delachaux et Niestlé, Paris-Neuchâtel, 1953.

O. CULLMANN, Résurrection ou immortalité, Delachaux et Niestlé, Paris-Neuchâtel, 1956.

E. DHORME, L'emploi métaphorique des noms de parties du corps en hébreu, 1923.

C. SPICQ, Dieu et l'homme selon le Nouveau Testament, coll. « Lectio divina », n° 29, Êd. du Cerf, Paris, 1961.

P.VAN IMSCHOOT, Théologie de l'Ancien Testament.

L'homme, Êd. Desc1ée et Cie, Paris, 1956.

Lumière et Vie, n= 24: «De l'immortalité de l'âme »,

L'Ami du Clergé, 1954, pp. 547-48.

 


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4 dicembre 2014   a cura di Alberto "da Cormano" Grazie dei suggerimenti alberto@ora-et-labora.net