CAPITOLO PRIMO
Tratteremo, in questo primo capitolo, delle concezioni antropologiche che
troviamo nella Bibbia. Si rilevano, infatti, molte concezioni sull'uomo, a
seconda che si prevedi il pensiero
propriamente
ebraico o il contributo greco nella
Bibbia.
I. L'ANTROPOLOGIA EBRAICA
1. Un unico organismo psico-fisiologico a due componenti.
La Bibbia ebraica ci mette sempre davanti ad un organismo psico-fisiologico
che comprende due componenti: la néfèsh ed il basar (1).
a) La néfèsh (l’anima). Ciò che designa questa parola nella Bibbia è
complesso: la parola “anima” non ne rende l’esatto contenuto.
- La “néfèsh”, in un primo significato, è la gola. Giona, in fondo al
mare, grida la sua angoscia verso Yahvé: “Le acque hanno montato fino alla mia
néfèsh” (Gn 2,6); in altre parole:
Io soffoco, non posso più respirare, poiché ne ho fino alla gola!
Per metonimia, “néfèsh” designa il soffio, la respirazione, come la gola
da dove passano
- Di là si scorre al significato di: desiderio, appetito.
Esempi: “Il giusto si preoccupa della néfèsh (= dell'appetito) del suo
bestiame; ma le viscere del cattivo sono crudeli“ (Pr 12,10). “La néfèsh
(= il desiderio) dei cattivi si alimenta di violenza“ (Pr 13,2). Non ci si
sorprenderà se, nella parola “néfèsh“, c'è sempre qualcosa di patetico.
- Nella Bibbia ebraica, “néfèsh“ finisce per significare: l’io che vive,
l'essere vivente. È il caso di:
Sal 103,1: “Mia néfèsh, benedici Yahvé …“ si traduce spesso: anima mia.
Diciamo piuttosto: mio essere.
Sal 84,3: “La mia néfèsh anela e desidera gli atri di Yahvé“. Si tratta del
pellegrino che vuole andare a Gerusalemme e che vi si dispone prima stimolando
il suo desiderio: “Il mio essere languiva (più esattamente che: la mia anima)“.
Il mio essere: ciò che c'è di più profondo in me.
1 Sam 18,1: “La néfèsh (l'anima, la vita) di Giònata si era legata alla
néfèsh (l’anima, la vita) di Davide, e Giònata lo amò come
la sua néfèsh, (come il suo essere, come sé stesso”.
- Così la “néfèsh” è il dinamismo stesso dell’essere vivente. C'est
l’essere vivente stesso, la
persona. “Yahvé prese dell'argilla del suolo, vi soffiò sopra e divenne
una néfèsh (= un essere vivente)” (Gn 2,7). Quando si vuole dire “la
persona vivente“, si dice semplicemente la “néfèsh“; così quando, in Gn
12,5, ci si mostra Abramo che si incammina dal paese dell'Est fino a Canaan, si
dice che c'erano con lui delle “néfèsh“, cioè della gente, delle persone.
- Occorre andare più in là. La “néfèsh“ esiste ancora nello shéol
(2), dove ci si trova
completamente indeboliti, ridotti allo stato d'ombra di sé stessi (Cf.
Num 6,6): ma si dice, nel caso degli abitanti dello shéol, che la loro “néfèsh”
è “morta”. La “néfèsh”, è dunque il
centro di coscienza, il centro di unità
del potere vitale, è la persona
concreta animata del suo dinamismo di fondo. Non dimentichiamo che non si fa
filosofia nella Bibbia: ci viene dato del concreto, dell'esistenziale.
Per concludere, diremo che “la mia néfèsh” (il mio essere) sarebbe tanto ben
reso in italiano dal pronome personale rafforzato “me stesso” (con
quest'idea d'insistenza ed a volte d'orgoglio che si trova suggerita).
b) Il basar (la carne (3)). La seconda componente, è il “basar” (il
corpo, la carne). Non si trova mai separata dalla “néfèsh”.
In ebreo, il “basar” è la manifestazione concreta della néfèsh. L'ebraico
ci mette sempre davanti ad un organismo fortemente sintetico, allo stesso tempo
fisico e psichico.
Si trova la “néfèsh” attraverso il “basar”, attraverso la carne. Le diverse
parti del corpo saranno considerate, in numerosi testi, come corrispondenti a
diverse “facoltà”, che riguardano e riassumono la “néfèsh”. Queste “facoltà” non
sono altra cosa che il “basar” (il corpo) che concentra per un momento tutta la
persona:
- Il cuore è un elemento molto importante nell'Antico Testamento come nel
Nuovo (Cf. Mt 15,19, ad esempio: i propositi malvagi provengono dal cuore …) il
cuore è praticamente l'equivalente della “néfèsh”, ma della néfèsh incarnata.
Dio vede ciò che è nel cuore, e questo cuore non deve essere “un cuore di
pietra” (Ez 36,26), ma un cuore di carne, cioè un cuore permeabile. Geremia
sembra avere per primo utilizzato l'espressione “la circoncisione del cuore” per
significare che occorreva togliere dal cuore “il prepuzio” che gli impedisce di
aprirsi a Yahvé.
- I reni.
Reni e cuori vanno insieme. “Dio sonda i reni ed i cuori”: è ancora Geremia, ci
sembra, che ha trovato questa espressione. I reni servono a designare la facoltà
dei pensieri segreti, delle sensibilità e delle volontà nascoste.
- Il fegato, è la facoltà delle sensazioni elementari. Da ravvicinare
all'espressione italiana “mangiarsi il fegato”, “si riversa per terra la mia
bile”, dice il Geremia delle lamentazioni (Lam 2,11).
- Altri elementi del corpo sono utilizzati per tradurre la persona. Il Salmo 16
ci mette davanti questo insieme di facoltà:
Io benedico Yahvé che mi ha dato consiglio; anche di notte, i miei
reni (Bibbia CEI: il mio animo) mi istruiscono …
...........................................
Per questo gioisce il mio
cuore, le mie viscere (Bibbia CEI: la mia anima) esultano, e la mia
carne (basar)(Bibbia CEI: il mio corpo) riposa al sicuro …
(Sal 16, 7-9)
Vedere anche il salmo 84. Quando si dice in Malachia 2,7: “Le labbra del
sacerdote devono custodire la scienza”, la personalità del sacerdote interamente
concentrata e riassunta nelle sue labbra, poiché la sua funzione è di essere
colui che parla, il messaggero di Yahvé. Ugualmente ancora, in Sal 35,9-10, si
legge: “La mia néfèsh (il mio essere) (Bibbia CEI: l’anima mia) esulta in
Yahvé … tutte le mie ossa dicano: Yahvé, che è simile a te?“.
Il sangue, l'orecchio, le ossa: altrettante “facoltà” che possono manifestare in
modo concentrato tutta la personalità.
2. Ciò che dà la sua consistenza al composto
“néfèsh-basar”: la “ruah” (lo spirito).
Ecco l'elemento che è forse il più interessante, che vi apparirà come il più
nuovo: la “ruah” (spirito). Senza la “ruah” il complesso psicofisiologico “néfèsh-basar”
non vivrebbe, non avrebbe consistenza. La “Ruah” è una forza vitale prestata
dall'alto che mantiene in piedi l’essere vivente.
In Gn 2,7 noi vediamo Dio soffiare, inviare una “ruah”, uno spirito,
sull'argilla che ha appena lavorato. E questa “ruah” dà consistenza all'uomo, fa
dell'argilla modellata una “néfèsh” viva, un essere vivente.
Nella Bibbia, la malattia è presentata come una perdita di ruah:
quando si è malati, è lo spirito (ruah) che ci abbandona più o meno, “si
versa la propria anima”, dice la Bibbia. La malattia è uno squilibrio, mentre
che il recupero della salute suppone che ci si “ricarichi” di “ruah”, o più
esattamente che Dio ci “ricarichi” del soffio, del suo soffio.
Presso gli Ebrei, tra la malattia e la morte, non c’è che una semplice
differenza di più o di meno: la malattia è un inizio di morte. La morte, è la
privazione quasi totale di “ruah”, di soffio. - Diciamo che alla morte, la “néfèsh”
è “scaricata” al massimo, essa non è altro che una specie di borsa vuota, che
non sta più in piedi. Ma nello shéol, non si ha tuttavia una cancellazione
totale dell’essere - altrimenti non si sarebbe potuta pensare, venuto il giorno,
la resurrezione. Nello shéol si ha una vita, ma una vita diminuita, sotto una
forma molto debole; si è in una situazione di perdita quasi completa di energia
vitale - si è nella situazione inversa di quelle persone che il salmista vede di
mal occhio e che sono “piene” di vita e di grasso (Cf. Sal 73).
Il sonno
anche è una perdita di “ruah”. Il Salmo 104 evoca gli esseri viventi (gli
uomini, gli animali) che vanno a dormire: allora lo spirito li lascia (poiché
anche gli animali hanno la “ruah”). Ma la mattina, ecco che con il sole, Yahvé
invia il suo spirito in tutti gli esseri viventi, e questi si rimettono sui loro
piedi, si tengono in piedi (Sal 104,29-30).
3.Osservazioni sulla portata di questa concezione antropologica.
a) La nozione di resurrezione. La resurrezione è stata pensata
biblicamente in questa prospettiva antropologica. È nel libro di Daniele che si
trova, per la prima volta, l’affermazione della resurrezione. Questo libro è
stato scritto nel 165 A. C. ; rappresenta il pensiero ebraico, il pensiero più
“ebraico” anche di quest'epoca: è “il manifesto” dei “Sapienti” ebrei di quel
tempo. L'autore che si mette sotto l'egida di Daniele elogia i martiri; egli
stesso è candidato al martirio. Ed afferma che i martiri saranno risuscitati per
partecipare al Regno di Dio che si instaurerà sulla terra a Gerusalemme: Dio
invierà loro la sua “ruah” che li farà stare in piedi (qûm).
Nello shéol, esistono coloro che la Bibbia chiama dei “refaïm”: dei deboli,
delle persone completamente “svuotate”; e tuttavia sono sempre delle “néfèsh”
(delle néfèsh “met”, cioè morte). E grazie a questa persistenza - in uno
stato indebolito – della “néfèsh”, il Signore può infondere loro nuovamente del
soffio (ruah), “ricaricarle” del suo spirito. E’ così la resurrezione ha
potuto essere pensata; è il concetto di “néfèsh” che, per quanto imperfetto sia,
è stato il mezzo per salvaguardare la persistenza della persona.
b) Il concetto di ruah. Questo concetto è di un'importanza
primordiale. Claude Tresmontant lo
ha mostrato molto bene (4). È un concetto che attesta la relazione essenziale
dell'uomo: l'uomo è costituito nel suo valore di uomo dal suo legame di
dipendenza rispetto a Dio.
È sempre tra le mani di Dio. Si ha ragione di ringraziare Dio ogni mattina della
vita che ci custodisce.
La “ruah” è all'origine della consistenza normale dell'uomo. Ma è anche una
forza divina che rende l'uomo “morale”, che fa gli eroi ed i santi. Ad esempio,
Giosuè ci viene presentato (Num 27,18) come un uomo “in cui è lo spirito”, un
uomo della “ruah”. Quando Ezechiele sogna, per l'epoca messianica, di una
“ripresa” dell'uomo, vede Yahvé re-infondergli la sua “ruah” (Ez 36,27): “Porrò
la mia ruah in voi (= la mia forza, la mia capacità. Bibbia Cei: il mio
spirito) e vi farò vivere secondo le mie leggi …” Si confronti anche Sal 51,13:
“Non privarmi del tuo santo spirito “.
Il Messia, messia-re (Is 11,2) e messia-profeta, sarà anche lui pieno di “ruah”:
Ecco il mio servo … ho posto il mio spirito su di lui” (Is 42,1; vedere anche Is
61,1).
Il concetto di “ruah” include dunque, nello stesso tempo, qualcosa di
“soprannaturale”.
c) Infine questa antropologia si avvicina sotto molti aspetti
all'antropologia moderna: vi si collegano molto strettamente il mondo fisico
e quello psichico.
II. L'INFLUENZA GRECA
1.Il libro della Sapienza (5).
Il libro della Sapienza è stato scritto tra il 100 e il 50 A. C. ad Alessandria.
Questa città, fondata da Alessandro sul finire del IV ° secolo, era in questa
epoca una nuova Atene. C'era ad Alessandria una vita intellettuale molto attiva,
al passo con i tempi. Vi si faceva dell’urbanistica, ma anche dell'erudizione:
dizionari, ricerche storiche, memorie, edizioni dei grandi tragici greci, ed
anche della letteratura.
In quest'ambiente ellenico viveva una colonia di 100.000 Ebrei. Vi si tradusse
la Bibbia in greco (versione nominata “La Settanta”). È là anche che fu scritto
questo libro della Sapienza, che è una dei pezzi scelti di tutta una letteratura
che si può ben dire “missionaria”.
2.L'antropologia della Sapienza.
L'autore anonimo della Sapienza tratta soprattutto della felicità e dei fini
ultimi. Si era in un periodo di antologie (6). Ha letto Platone in queste
antologie; in particolare il Fedone, questo grande libro di Platone che
tratta dell'immortalità dell’anima.
Il genio di Israele è un genio assimilatore, il suo carattere provvidenziale è
quello di essere “un filtro” per tutto ciò che l'umanità ha trovato. Ad
Alessandria, lo spirito ebreo assimila in quest'epoca il contributo greco
classico (7). E l'autore della Sapienza, pertanto, ci dona un'antropologia che
non coincide esattamente con l'antropologia ebraica.
Sarà un'antropologia più semplice, quella che si cercava presso i Greci a
partire dagli Orfici. Costoro erano seguaci dell’Orfismo, una setta religiosa
che conobbe la sua più grande estensione durante i secoli VIII°
e VII° A. C. e che influenzò Platone. Per gli Orfici “il corpo è una
tomba”. Utilizzavano un gioco di parole: “Sôma Sèma”
(Sôma
= corpo; Sèma = tomba). Siamo lontani
dalla concezione ebraica del corpo considerato come la manifestazione
dell’anima. Nei greci - si troverà ciò in Cartesio - c'è una dicotomia tra il
corpo e l’anima, e l'unione del corpo e dell’anima è considerata in un modo più
“estrinseco” (“come il cavaliere è unito alla sua montatura”)…
L’anima
soltanto
importa. La Sapienza
conferisce all’anima “una densità particolare, un destino proprio” (C.
Larcher). Il corpo appesantisce l’anima alla quale è legata la
personalità.
3. Due testi della Sapienza.
Qui sono soprattutto da prendere in considerazione:
- Sap 9,15:
“Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la sua dimora terrestre (Bibbia
CEI: la tenda d’argilla) opprime una mente piena di preoccupazioni.
“
- Nell'altro testo (Sap 8, 19-20), si suppone che sia Salomone a parlare. È il
portavoce del Sapiente perché egli ha fatto tutte le esperienze. Il Salomone che
parla qui è un Salomone straordinario; è lui che viene opposto alla saggezza
ellenistica. Salomone sa tutto: “Comprende
la struttura del mondo e la forza dei suoi elementi, il principio, la fine e il
mezzo dei tempi, l’alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, i
cicli dell’anno e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto
delle bestie selvatiche, la potenza degli spiriti (Bibbia CEI: la forza dei
venti) e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà
delle radici
(la farmacopea! …)” (Sap 7, 17-20). È il saggio per eccellenza.
Ecco la sua ottica antropologica (Sap 8, 19 - 20): “Ero un ragazzo venuto bene”
(cioè, ben formato, in sensi fisico: si dice ciò soltanto del corpo presso i
Greci) (Bibbia CEI: di nobile indole). “Ebbi in sorte un’anima buona”. Così,
sembra dare inizialmente la precedenza al corpo, quindi si corregge al v. 20: “O
piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia“. L’ “io“ che
qui è soggetto, concentra, presso i Greci, l'essere umano; e la personalità vi è
collegata all’anima. L'autore rimane ebreo tutto sommato: sottolinea il primato
dell’anima, e che è senza macchia.
4. Conseguenze della nostra analisi.
a) la
presenza di questa doppia antropologia (ebraica e della Sapienza) ci
permette di pensare che non c’è
un'antropologia biblica; ce
ne sono due - ed ancora non abbiamo esaminato l'antropologia di cui potrebbe
bene testimoniare la versione greca della Bibbia. Infatti, questa versione è
stata fatta per degli Ebrei assimilati: la loro tendenza, traducendo in greco,
non sarà stata quella di semplificare le distinzioni ebraiche che abbiamo visto
prima e di proiettare su questi elementi dell'uomo concreto i loro schemi
ideali?
b) Conseguenze dell'antropologia della Sapienza quanto alla visione dei fini
ultimi.
Per l'autore ciò che importa è che, una volta arrivata la morte (questa morte
che è soltanto un’evenienza, dopo tutto) l’anima va verso Dio, è presa da Dio
(immagine del rapimento divino), essa è nella pace, nel tempio di Dio,
nell'amore (8).
Ma non si dice nulla sulla resurrezione. Non siamo ancora arrivati al termine
della Rivelazione. Nello svolgimento storico di questa, succede che ci siano
anche tentativi in diverso senso. Ci basta che ciò non contraddica l'idea di
resurrezione: e non può contraddirla, poiché non se ne parla.
Come “stereotipi”, guardiamo:
- quello di Daniele 12,2 (165 A. C.): Dio “che ricarica” del suo “ruah” la “néfèsh”
dei martiri facendoli ricomparire,
- quello dell'antropologia di tipo platonico dove l’anima non vivrà in pienezza
che quando sarà liberata della sua “crosta” corporale.
III. PROSPETTIVA SULL'ANTROPOLOGIA ALL'EPOCA DEL NUOVO TESTAMENTO
Per comprendere l'antropologia del Nuovo Testamento, pensiamo che occorra
partire dal saggio (contemporaneo del N.T.) del filosofo e storico ebreo
Giuseppe.
1. Il saggio di antropologia di Giuseppe.
Giuseppe fece la guerra di liberazione (che fallì) nel 70 D. C. . Pubblicò i
suoi due lavori: Le antichità giudaiche
e La guerra giudaica, per fare
conoscere il suo popolo e farne l’apologia. Ed è a questo titolo che spesso è
portato a parlare delle opinioni in corso presso i Giudei di allora, ed
innanzitutto della sue opinioni (egli
era fariseo).
La sua antropologia rappresenta una specie di compromesso, una prova di
sintesi tra le due linee che abbiamo riconosciuto prima. Questo compromesso si
situa dopo la morte, nell'escatologia individuale.
“Le anime pure, dice, sussistono dopo la morte. Esse raggiungono un luogo molto
santo del cielo”. Eccoci dunque nel
pieno nella linea della Sapienza, nella prospettiva ellenistica dell'immortalità
felice. Ma continua: “Di là, all'ora del cambiamento dei secoli (il grande
cambiamento atteso, l'escatologia), riprenderanno possesso di corpi
santificati“. Noi vediamo dunque come “recupera” la dottrina della resurrezione.
È probabile che sia questa stessa ottica che si trova nei Vangeli ed in san
Paolo.
2. Negli scritti del Nuovo Testamento.
Ci accontentiamo qui di segnalare alcuni testi per indirizzare la ricerca:
- Lc 16,19-31. È il resoconto del povero Lazzaro e del malvagio ricco. Si vede
che Lazzaro, dopo la sua morte, sussiste anche senza il suo corpo. È “nel seno
di Abramo”.
- Lc 23,43. È la risposta di Gesù al brigante buono sulla croce: “Oggi sarai con
me in paradiso“.
- Fil 1,23: “Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo”.
- 2
Cor 5,1-8: Dopo la morte “Riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non
costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi
gemiamo e desideriamo rivestirci (9) della nostra abitazione celeste purché
siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda
sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma
rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita … Dunque,
sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché
abitiamo nel corpo … preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il
Signore …”, ecc.
- Ap 6,9: I martiri che sono sotto l'altare nell’attesa di resuscitare. Non sono
ancora
resuscitati: c'è dunque uno stato intermedio.
Tutti questi testi suppongono che la nozione di “anima” abbia assunto una certa
densità. C'è qualcosa di cambiato rispetto alla vecchia antropologia giudaica:
si sono messi gli occhi sul versante greco. Ma questa valorizzazione dell’anima
si è prodotta perché si è preso in considerazione soprattutto il mistero di
Cristo. I morti cristiani sono “con Cristo”, in attesa della resurrezione finale
che lui ci ha meritato.
NOTE
(1). Mi scuso di usare parole della lingua ebraica. Impossibile cavarsela
differentemente: il senso di questi termini - lo vedrete - non coincide
esattamente con nessuna parola francese (e italiana Ndt) .
(2). Non è l'inferno: quest'ultimo include una sanzione.; nello shéol non vi è
nessuna sanzione. È un luogo d'attesa dove non si attende nulla, dove si conduce
una vita diminuita.
(3). La parola “carne” che utilizziamo qui non deve essere presa nel significato
peggiorativo. Ha significato peggiorativo - e neanche sempre - soltanto in san
Paolo. Il Vecchio Testamento non conosce, riguardo alle realtà terrestri e
carnali, quest'orrore che troviamo in un certo giansenismo e già in un certo
montanismo. Il Signore, durante i diciotto secoli del Vecchio Testamento ci ha
fatto apprezzare le realtà terrestri e “la terra dei viventi”.
(4). Cf. Claude TRESMONTANT,
Essai sur la pensée hébraïque,
Parigi, 21956, pp, 109 SS.
(5). Noi diciamo “Libro della Sapienza” (in francese: Livre de la Sapience)
preferibilmente a “Libro della Saggezza” (in francese: Livre de la Sagesse), per
evitare di designare - come lo fa la liturgia - tutti i libri sapienziali:
Cantico dei Cantici, Proverbi, ecc.
(6). In questo modo, è con le antologie fatte ad Alessandria in quest'epoca che
un certo numero di tragedie greche (quelle di Eschilo, ad esempio) ci sono
conosciute.
(7). Sulla questione del genio “assimilatore” del popolo Giudaico, vedere Dom H.
DUESBERG, Les scribes ispirés,
Parigi, 1939, specialmente pp. 441-592.
(8). Nel “refrigerium” , dirà la nostra liturgia della messa. (A questo schema,
si apporteranno complementi e sfumature utili consultando P. GRELOT, “L'eschatologie
de la Sagesse et les Apocalypses juives”,
in
A la rencontre de Dieu. Mémorial Albert Gelin,
Mappus, 1961, pp. 165-178. Sembra proprio, infatti, che sotto la sua
terminologia “greca”, l'escatologia della Saggezza non differisca,
essenzialmente, da quella dell'apocalittica “giudaica”.
Nota degli editori).
(9). Notare la “teologia dell'abito” sottostante a tutto questo passaggio.
Vedere a proposito le note e rinvii della
Bible de Jérusalem; R. FEUILLET, «La demeure céleste et la destinée des
chrétiens ». Exégèse de 2 Co. 5, 1-10
e « Contribution
à l'étude des fondements de l'eschatologie paulinienne », in Recherches de
Science Religieuse, 44, 1956, pp. 161-192 et 360-402.
BIBLIOGRAFIA
C. TRESMONTANT,
Essai sur
la
pensée
hébraïque,
Êd.
du Cerf, Paris,
21956.
G. PIDOUX, L'homme dans l'Ancien
Testament,
Delachaux et Niestlé, Paris-Neuchâtel,
1953.
O. CULLMANN,
Résurrection ou
immortalité,
Delachaux
et Niestlé, Paris-Neuchâtel,
1956.
E. DHORME,
L'emploi métaphorique des noms
de
parties
du corps en hébreu,
1923.
C.
SPICQ, Dieu et l'homme selon le Nouveau Testament,
coll.
« Lectio divina
»,
n° 29, Êd. du Cerf,
Paris,
1961.
P.VAN
IMSCHOOT,
Théologie
de
l'Ancien
Testament.
L'homme,
Êd.
Desc1ée et
Cie,
Paris,
1956.
Lumière
et Vie,
n= 24:
«De
l'immortalité
de l'âme
»,
L'Ami
du Clergé,
1954,
pp.
547-48.
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4 dicembre 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net