Cristo:
amico, maestro e modello d’amicizia
in Aelredo di Rievaulx
Don Simone M. Fioraso, Abate o. cist. (Abate emerito dell’Abbazia di Santa Croce in Gerusalemme, Roma)
Estratto da “Vita Nostra” – n. 1/2010 – Prima serie (Dal sito vitanostra-nuovaciteaux.it)
Da
poco si è celebrato a Tolosa un convegno a memoria di S. Aelredo [18 - 21 marzo
2010] e naturalmente
in quella sede sono state dati nuovi contributi per capirne meglio la
personalità, l’umanità. Nel mio articolo mi soffermo in modo particolare a parlare
dell’amicizia spirituale: un grande valore forse ancora poco apprezzato nei
nostri monasteri.
Biografia
Aelredo, abate di Rievaulx, santo.
Nacque a Hexam (Northumberland, Inghilterra) nel 1109 o 1110 da nobile famiglia.
Trascorse la sua giovinezza come paggio alla corte del re David I di Scozia,
dove divenne compagno di studi e di giochi di Enrico, figlio del sovrano, dando
meraviglioso esempio di pazienza e di carità.
Durante una missione (1135) compiuta a Rievaulx (Yorkshire) per
incarico del re, entrò, nonostante i consigli contrari degli amici, in quel
monastero cistercense, allora in pieno fiore e il secondo per importanza in
Inghilterra, fondato (1131) dal nobile
signore Walter Espec sotto gli auspici di S. Bernardo.
Ne era allora abate Guglielmo, discepolo di Bernardo.
Aelredo fece grandi progressi nella pietà, facendosi ammirare
specialmente per la carità pura e sincera verso i suoi confratelli. Come egli
stesso scrisse nel suo libro
De spirituali amicitia,
molto gli giovò l’esempio e la conversazione del confratello Simone, morto nel
1142 in concetto di santità nello stesso monastero.
Maestro dei novizi nel 1141, l’anno seguente Aelredo fu inviato
quale primo abate con dodici compagni a Revesby (Lincolnshire),
monastero appena fondato dal conte William e dipendente da Rievaulx.
Nel 1146 fu promosso abate di quest’ultimo monastero,
che allora era già in piena prosperità contando trecento monaci.
L’abate di Rievaulx era capo di tutti gli abati cistercensi in
Inghilterra, carica che costrinse spesso il santo a intraprendere lunghi viaggi
per visitare i monasteri dell’Ordine nell’isola. Pare che grande fosse la sua
influenza anche nella vita civile di quel paese, specialmente sul re Enrico II
nei primi anni del suo regno. Si dice che sia stato lui ad indurre il re ad
unirsi a Luigi VII di Francia per incontrare a Toucy, nel 1162, papa Alessandro
III.
Sollecitato ad accettare l’episcopato, al quale diverse volte era
stato designato anche per l’interessamento del re David e di suo figlio Enrico,
Aelredo costantemente rifiutò per amore della vita religiosa. Partecipò in
Francia al Capitolo generale del suo Ordine, assistette il 13 ottobre 1163 al
trasferimento delle reliquie di S. Edoardo il Confessore nell’abbazia di
Westminster e nel 1164 partì in missione per convertire i Pitti del Galloway,
dove il 20 marzo di quell’anno a Kirkcudbright lo stesso capo di quei barbari,
mosso dall’esortazione del santo, entrò in monastero.
Affranto dalle malattie (gotta e calcoli), che lo avevano afflitto
negli ultimi dieci anni, mori il 12 gennaio 1166 o 1167 in concetto di santità e
fu sepolto a Rievaulx. Il suo culto iniziò subito dopo la morte. Fu canonizzato
probabilmente da Celestino III nel 1191. Il Capitolo generale Cistercense del
1250 lo iscrisse tra i santi dell’Ordine al 12 gennaio.
Aelredo scrisse molte opere, per la gran parte giunte fino a noi.
[...] Non è stata mai fatta un’edizione completa di tutte le opere del santo: le
opere teologico-spirituali sono state pubblicate la prima volta da R. Gibbons
(Douai 1631), con qualche frammento delle opere storiche. Una migliore edizione
fu fatta dal Tissier (in
Bibliotheca Cisterciensis,
1662, I), dalla quale furono inserite nella Patrologia
Latina, vol.
CXCV.
Negli ultimi anni sono state fatte delle traduzioni in inglese e in
francese di alcune opere ascetiche ed è fiorita una letteratura piuttosto
abbondante, che potrebbe significare una rivalutazione o un maggiore
apprezzamento del pensiero ascetico del santo, che grande influsso aveva nella
vita spirituale del Medio Evo.
Egli, del resto, è stato sempre conosciuto soprattutto per le sue
opere ascetiche, pervase di profonda conoscenza della S. Scrittura e delle opere
di S. Agostino e di S. Bernardo, dei quali, specialmente del secondo, può
considerarsi discepolo, a tal punto da essere considerato in Inghilterra e tra i
cistercensi l’eguale di S. Bernardo
(Bernardo prope par Aelredus
noster).
In tutte le sue opere si riconosce la sua anima affettiva. Egli
cerca di muovere il sensibile per condurre ad amare ed imitare il Cristo.
Un monaco, che porta in sé l’immagine di Dio, si sforza di renderla
sempre più visibile in se stesso; il suo scopo è di giungere a una così profonda
esperienza spirituale che sia il preludio del possesso definitivo di Dio nel
cielo.
Perciò le opere ascetiche di Aelredo, sebbene destinate ai monaci,
possono servire a qualunque fedele, per aiutarlo a coltivare in se stesso questa
rassomiglianza con Dio e ad evitare gli ostacoli che si oppongono alla
perfezione cristiana.
Qualche dato
sull’antropologia in Aelredo
Non c’è in essa nulla di originale e l’essenziale lo troviamo nella
tradizione patristica e in particolare in S. Agostino. Tuttavia malgrado questa
assenza di originalità, questa antropologia dà i fondamenti della Teologia
Spirituale di Aelredo tant’è vero che non si può definire ciò che deve essere
l’uomo per Dio senza sapere ciò che è l’uomo in se stesso nella sua struttura
antropologica. La conoscenza che i nostri padri cistercensi avevano al riguardo
era molto viva: per essi spiritualità e antropologia sono due realtà
indissociabili.
In tutti i nostri padri cistercensi non troviamo alcuna
preoccupazione di redigere sotto una forma o sotto un’altra, un
De natura
Hominis o un
De anima. Questa congiunzione resta sicuramente e deve essere
costitutiva di tutta la dottrina spirituale, anche se la prospettiva, nella
quale è vista oggi, è differente da quella a cui ricorrevano i nostri anziani.
Infatti il primo piano che occupa l’uomo nel pensiero contemporaneo, possiamo
chiamarlo antropologia ascendente, che parte dall’uomo prigioniero della sua
condizione umana per elevarsi, nel migliore dei casi, all’uomo secondo la sua
vocazione spirituale e divina. I nostri padri cistercensi, situano le loro
riflessioni sul piano teologico e ci offrono di fatto un’antropologia
discendente: non si tratta più di partire dall’uomo per elevarsi a Dio (della
sociologia, della psicologia, antropologia sociale e culturale), ma di
determinare bene in che cosa la vocazione divina dell’uomo - come è iscritta
nella rivelazione cristiana - deve formare l’agire morale dell’uomo.
a) L’uomo, un
essere di desideri
Per rendere più naturale l’accesso al pensiero di Aelredo, noi ci
permettiamo di rendere diritto alla mentalità contemporanea e di percorrere in
senso inverso l’analisi che Aelredo propone nel libro primo
Du miroir.
Alla questione di sapere ciò che è l’uomo risponde che è un essere capace di
beatitudine e che ordina l’insieme dei suoi desideri e dei suoi atti alla quiete
del suo fine ultimo. Secondo i valori umani o mondani, questa beatitudine può
rivestire diverse forme: c’è da una parte la ricerca della ricchezza, il
desiderio degli amici del mondo, la soddisfazione immediata dei piaceri carnali:
tutte forme di beatitudine che non sono nella realtà ma delle contraffazioni e
lasciano nell’uomo un sentimento di insoddisfazione perpetuo. In ultima analisi
bisogna dunque riconoscere che l’uomo è più grande dei suoi desideri, o meglio
ancora, che è abitato da un desiderio di infinito che non può trovare nei soli
beni di questo mondo.
Per raggiungere la condizione di beatitudine l’uomo instaura una
battaglia e, ben lontano dal trovare il riposo che è scontato, si trova nel
vortice della molteplicità dei suoi desideri. Egli instaura così ciò che
Aelredo, dopo S. Bernardo, chiama il circuito degli empi.
b) Ciò che è alla sommità
L’uomo deve ancora scoprire il bene supremo, ciò che Aelredo
definisce
«ciò che è alla sommità, ciò che è il meglio, ciò che nulla sorpassa né in
grandezza né in splendore». Si tratta di determinare ugualmente la
causa di questa cecità che impedisce all’uomo di vedere ciò che deve fare per
arrivare alla beatitudine.
Per Aelredo la risposta è di una estrema semplicità: questa cecità
proviene dall’ignoranza sulla sua vera dignità nella quale l’uomo si trova.
L’antichità classica ci ha lasciato diverse testimonianze di questa ricerca:
l’oracolo di Delfo
«conosci te stesso», Platone nel trattato che consacra la
questione sull’immortalità dell’anima (Il Fedone).
Per Aelredo e per la tradizione cistercense questa istanza
rivelatrice e creatrice della libertà umana non è altro che la Sacra Scrittura
il cui ruolo consiste nel rafforzare la memoria deficiente (ignoranza)
dell’uomo. Siate santi, proclama il Levitico. Siate perfetti, insegna il Cristo.
Due formulazioni differenti di una identica esortazione fondata su un «come»:
«Come il vostro Dio e come il Padre celeste è perfetto». Questo
«come» per Aelredo stabilisce sotto una forma
incantatoria una
identità di natura e una parentela tra Dio e l’uomo che non cesserà mai di
affascinare. La beatitudine dell’uomo può dipendere dall’accoglienza che l’uomo
stesso riserverà a questo appello di Dio.
c) L’uomo: un’immagine di Dio da restaurare
Il peccato originale, dice Aelredo, ha allontanato dall’uomo
l’immagine di Dio alterandone la memoria, la conoscenza, la volontà e solo lo
Spirito può riprodurre in lui la vita divina per fare dell’uomo un solo Spirito
con Dio. Aelredo ricorda a diverse riprese ciò che il desiderio di Dio, o questo
amore ordinato da Dio, è un amore inculcato per la
ratio:
è essa che ci insegna (docere) e ci spinge all’amore di Dio e del prossimo.
Aelredo non esclude che si possa raggiungere l’amore di Dio solo con la ragione,
ma anche con
l’affectus spiritalis che rende dolce questa esigenza dell’amore
di Dio e del prossimo. Aelredo sottolinea inoltre la conversione dell’amore da
cupiditas
a
caritas. Non posso non ricordare l’enciclica di Benedetto XVI
Deus caritas
est. L’uomo - dice Aelredo - sa che deve partecipare alla vita
divina e con l’aiuto della Grazia, è pronto a mobilitare tutte le sue energie
per aderire a Dio. La questione per Aelredo è: come avverrà ciò? E per questo
l’uomo ha bisogno di un modello da imitare.
La Cristologia in
aiuto dell’antropologia
Le diverse scienze umane sottolineano l’importanza del fenomeno di
mimetismo o di imitazione, ricordo semplicemente che ciascuno di noi va alla
ricerca di un idolo o di un eroe nel quale identificare e incarnare un ideale a
cui egli stesso aspira. È a questo punto che Aelredo propone l’idolo o l’eroe:
per noi - dice Aelredo - c’è l’incarnazione di Cristo.
«L’uomo deve
seguire solo Dio, non può seguire un altro uomo... Dio si fa uomo, affinché
l’uomo abbia un modello umano alla sua portata e il beneficio di divenire come
Dio. Il Cristo vero uomo e vero Dio ha rivestito con la sua incarnazione la
similitudine della nostra carne di peccato con la Gloria del Padre (Col 2,9)».
Aelredo, all’antropologia fondata sull’immagine e somiglianza, risponde con una
Cristologia fondata sulla duplice natura di Gesù che lo rende partecipe e
dell’umanità creata chiamata alla divinizzazione e della divinità
(divinizzazione già pienamente realizzata in lui).
Dalla devozione all’umanità
di Cristo all’imitazione della croce
In ultima analisi, ciò che legittima dunque la devozione
all’umanità del Cristo, nella Spiritualità Cistercense primitiva, è la dottrina
della mediazione che le ricerche teologiche attualmente tendono a rimettere in
valore, dottrina fondata sul dogma Cristologico definito dal Concilio di
Calcedonia del 451. Tutta l’esistenza terrena di Gesù è in questo senso un
sacramento offerto agli occhi della fede,
Sacramentum Fidei, di
questa immersione del divino nell’umano. Questo
Sacramentum -
sottolinea Aelredo - è
l'exemplum da imitare. L’autore dell’Epistola agli Ebrei
sottolinea questa mediazione del Cristo sulla croce quale unica opera di
salvezza per l’umanità. È il Sacramentum- exemplum per eccellenza. Aelredo lo
esprime in una sola frase:
«Che la
croce di Cristo sia come lo specchio del cristiano» e
«la croce
ingrandisce l'amore». Scrive Aelredo sulla contemplazione della
croce:
«Che il mio
animo ti contempli, crocifisso; che si abbeveri del tuo dolcissimo sangue
nell'attesa che la mia memoria sia occupata a meditare e ad assaporare queste
cose... Non voglio conoscere altro se non il mio Signore e il mio Signore
crocifisso...... Questa è la pedagogia di salvezza di
Aelredo e questa prospettiva stabilisce l’ascesi nelle
sue dimensioni spirituali: «L’ascesi non si giustifica - per Aelredo - né per la
dottrina della sofferenza redentrice, né per una penitenza riparatrice, né per
una
catarsis
preparatoria all’azione contemplativa, ma solamente con l’amore al Cristo e la
carità».
Dopo aver compreso l’antropologia di Aelredo possiamo parlare di
amicizia e condivisione affettiva che è la partecipazione ai sentimenti di
Cristo, quasi una identificazione con il suo stesso modo di sentire, di amare,
di appassionarsi, di vibrare interiormente dinanzi alle bellezze e bruttezze
della vita, ma significa la nostra libertà di legarci profondamente all’altro da
provare i suoi stessi sentimenti al punto dall’essere un cuor solo e un’anima
sola.
Ritengo che solo la condivisione affettiva con Cristo consente e
favorisce la condivisione affettiva con i fratelli. Anzi la condivisione
fraterna, di per sé è un modo di partecipare ai sentimenti di Cristo ed è vera e
autentica solo a partire dal coinvolgimento totale di essi. Spesso i sentimenti
rappresentano un’area che resta ai margini della vita spirituale, a volte si
contrappongono ad essa, quasi un’isola spontanea dove regnano l’istinto e
l’attrazione spontanea. In realtà la nostra vita è un itinerario di progressiva
assimilazione dei sentimenti di Cristo ed è grazie a questa esperienza che si
può entrare nella vita del fratello, condividendo i suoi sentimenti. Per Aelredo
per vivere un’amicizia sono necessari alcuni passi:
• sblocco personale:
avere un buon rapporto con i propri sentimenti. Se non liberate i vostri
sentimenti non vi potrà essere nessun coinvolgimento, né con Cristo né con i
fratelli. Non dovete temere i vostri sentimenti, non dovete subirli, essi non
sono segno di debolezza, non dovete ucciderli in quanto venite uccisi anche voi.
• area comune:
costituita da quell’insieme di valori e convinzioni che si possiedono in comune
e che sono strettamente legati alla medesima realtà carismatica. Condividere il
carisma significa avere in comune la stessa identità ideale, lo stesso progetto
su di sé, gli stessi sogni sognati da Dio per
ognuno e per tutti (creazione di affinità che viene
dall’alto, non fatta da mani d’uomo ma da un misterioso progetto divino).
• stima: la stima è la
carità dello spirito per Aelredo, è fare dono all’altro di un giudizio
estremamente positivo. Se non giungete alla stima reciproca siete fuori dalla
verità e la stessa vita comunitaria è una falsità. Il fratello è sempre amabile
per quel che è nel profondo della sua identità ove è riconoscibile il piano di
Dio su di lui, responsabilità e bisogno dell’altro: siamo responsabili l’uno
della crescita dell’altro. Lo siamo non per una forzatura, ma è una conseguenza
naturale e inevitabile del vivere insieme nel nome del Signore. C’è un profondo
vincolo nella professione che ci lega di fronte a Dio, nel bene e nel male nella
santità da costruire assieme e nella debolezza da portare assieme; su questo
vincolo saremo interrogati.
L’amicizia monastica
Aelredo nel parlarci dell’amicizia non ci parla di amicizia di
coppia, né di gruppi scelti, omogenei, ma di amicizia fra coloro che coltivano
la nostalgia di essere e di fare famiglia, radicata nella grande famiglia di
Dio, e che siano capaci di rendere sinceri, continui e fecondi i rapporti
reciproci, in modo che siano personali non esclusivi, permanenti non episodici,
condivisi non sospetti, pacificanti non conflittuali; protesi a comunione di
vita, che stimolano non appiattiscono, che favoriscono la concentrazione del
desiderio sul fine, non distolgono da esso, risvegliano la memoria della meta
comune, non la distraggono; liberano la generosità e lo slancio missionario, non
lo devitalizzano; che non si sottraggono alla responsabilità del vivere e
alimentano la convinzione che/span>
l’amicizia che si coltiva è di tutti e per tutti e l’amicizia mai lascia soli i
suoi fedeli, li attira e li dona gli uni agli altri. Dunque l’amicizia fraterna
nella vita monastica è vocazione di tutti e per tutti, in quanto è strettamente
legata all’amicizia personale con il Signore e proprio per questo porta alla
condivisione degli affetti.
Se siamo capaci di avere Gesù come amico, ciò vuol dire che
possiamo avere come amici i nostri fratelli. Dobbiamo avere degli amici, è
necessario possedere un cuore esercitato nell’amicizia verso i fratelli, per
essere capaci della solitudine che porta a Dio. Nessuno di voi resti solo con se
stesso. Siate amici gli uni degli altri: non siate soltanto fratelli, ma amici.
Non vi chiamo più... ma amici. [Cfr. Gv 15,9-17]
Spartite ciò che è in voi: desideri, difficoltà, gioie e pene con un fratello
che sia amico e siate abbastanza attenti per permettere anche a loro di spartire
tutto con voi. Non credo che possiamo trovare il Signore se viviamo separati dai
nostri fratelli.
Esempio di amicizia
nell’Antico Testamento
1 Sam
17,57-18,4: Nascere dell’amicizia tra Davide e Gionata: evento improvviso e
totale, inaspettato e anche un po’ inspiegabile.
Prova dell’affetto di Gionata per Davide
1 Sam
19,1-7 (Gionata ama Davide perché intercede presso il Padre);
1 Sam
20 (sfida l’ira del padre favorendo la fuga di Davide - testo molto bello pieno
di vivacità, 14-17).
1 Sam
22,7-8: Amicizia dei due giovani: oggetto di critica da parte del re, la
risposta è la fedeltà di Gionata a tutte e due.
1 Sam
23,15-18: Incontro segreto tra Gionata e Davide. Nel primo incontro Gionata
aveva ceduto a Davide i suoi indumenti e le armi. Gesto importante ma forse ci
dice semplicemente che Davide ne aveva bisogno. Ora in questo nuovo patto c’è di
più, una specie di profezia di Gionata che sa cogliere i disegni di Dio.
2 Sam
1,25-26: Amicizia non solo vissuta, ma cantata nella elegia pronunciata per la
morte di Gionata e Saul.
Faccio tre
considerazioni:
• Caso di singolare amicizia nella scrittura. Caso commovente in
quanto tutte e due sono re: Gionata è l’erede legale, Davide è il re eletto,
grande amicizia tra due grandi personaggi. Ciascuno considera l’altro più
importante di sé. Esempio di umanità in tempo di crudeltà e violenza.
• Da questa amicizia traspare il motivo centrale della storia di
Davide. L’amore di Dio che lo ha amato e scelto è così grande da riversarsi
persino sui suoi avversari. Gionata che avrebbe dovuto essere l’avversario per
eccellenza di Davide viene investito di amore per lui. Stupenda intuizione
profetica di Gionata dell’economia di salvezza, della messianicità davidica.
• Bellezza di un patto di amicizia che rende le persone sensibili
l’una all’altra, capaci di sacrificarsi, di prevenire i desideri. Realtà buona
agli occhi di Dio e per questo raccontata con parole commoventi, belle. La
possibilità di un patto fatto tra persone, che non sia né politico, né
economico, né coniugale è volutamente sottolineata dalla Bibbia come una realtà
autentica, un valore a sé.
Gesù ci ha voluto amici e i suoi stessi discepoli sono suoi amici
Mc
10,17-22: Gesù intuisce la bellezza profonda di quell’uomo
[il giovane ricco]
e si è commosso. Difficile è capire perché l’uomo non
ha risposto a quello sguardo di amore. Questo sguardo è il riflesso del primo
sguardo che Dio posa sull’uomo. L’uomo che non accoglie, che non comprende di
essere amato è un infelice perché non conosce il suo destino.
Gv
11,3-5: Marta, Maria e Lazzaro sono amici di Gesù. Siamo un po’ sorpresi in
quanto di Lazzaro non si è mai parlato e tanto meno conosciamo perché Gesù lo
amasse e quale tipo di rapporto ci fosse tra loro. Quello che conta è che Gesù
piange per l’amico Lazzaro, consola le sue amiche Marta e Maria, che amava. Esse
nell’amicizia affermano:
«Se tu fossi stato qui Lazzaro non sarebbe morto» (Lc 10,38-42),
ci dice che Gesù si trovava bene con loro e l’ultimo banchetto prima della
Pasqua Gesù lo fa proprio lì a Betania. La grande familiarità di Gesù.
È interessante vedere come i tempi di Gesù coincidono con la nostra
vita: tempo per Dio (la preghiera nelle lunghe notti), tempo per l’azione
pastorale (tempo per gli altri - la gente), tempo per l’amicizia (Gesù risuscita
Lazzaro esponendosi alla morte - scribi e farisei si convincono della necessità
di ucciderlo amicizia fedele fino alla fine).
Gv
13,23-26: Tra Gesù e Giovanni amicizia piena di confidenza, senza segreti.
Gv
19,26-27 e
Gv
20,2-4 e
Gv 21,7: Il discepolo che Gesù amava. Amicizia entrata pienamente
in Cristo. Giovanni è il discepolo della prima ora, è colui che ha immerso lo
sguardo nella profondità del cuore di Cristo e ha compreso come Gesù uomo amasse
gli uomini con il cuore di Dio. Questa esperienza di amicizia ha dato vita al
vangelo dell’amore.
Leggete ancora
Lc
23,41-44: stupendo
patto di amicizia al momento della morte.
Gv 13,34-35 e
Gv
15,12-15 Gesù si propone come esempio di amicizia. Chiamata esplicita di Gesù a
vivere l’amicizia.
Ho cercato in parole povere di suscitare in voi la conoscenza di
Aelredo, ma soprattutto ho una speranza: essere riuscito a farvi percepire
quanto è bello crescere nella vita umana e spirituale alla scuola di chi ci ha
preceduto: i Dottori della Chiesa, i Padri, i Fondatori... che con tenacia,
passione, sacrificio hanno messo nero su bianco tutto il loro mondo di
esperienze, conquiste intellettuali e spirituali. E scoprire che cambiano i
secoli, cambiano i gusti, gli stili, le mode, ma che gli uomini continuano a
dare voce alle stesse domande di senso e che belle risposte lo Spirito ha dato
nei secoli.
Si dice che l’Abate Aelredo non abbia mai allontanato nessuno dal
monastero, credo che il segreto è proprio questo: la capacità di vedere ogni
monaco come amico di Cristo e disposto a seguire il grande amico di cui ha fatto
esperienza.
Spunti di riflessione:
• Amicizia dono divino, gratuito, non si può esigerla, programmarla
rigorosamente. Dono dall’alto e va accolta con atteggiamenti di bontà,
benevolenza, cortesia, umanità verso gli altri.
• L’amicizia è bella, dà sapore alla vita, la illumina, arricchisce
i rapporti, cambia le persone. In questo senso è un grandissimo valore.
• Amicizia è fedeltà nelle prove fino alla morte. Gesù afferma che
l’amicizia è dare la vita. Per questo è un dono difficilissimo e raro. Non va
confusa con il cameratismo.
• L’amicizia va oltre la morte
(2 Sam
9,1ss).
L’Eucarestia segno dell’amicizia di Gesù nella morte e oltre la morte.
L’Eucarestia è il momento culminante della contemplazione dell’amicizia: in essa
c’è fedeltà, perseveranza, rischio della vita, amore.
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21 ottobre 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net