L'amicizia spirituale secondo Aelredo di Rievaulx
di
José Rovira C.M.F.
(Cordis Mariae Filius). Missionari Clarettiani
Estratto da “Unita' e Carismi”: 2/2007– Città Nuova Editrice
Una profonda e originale indagine sull'amicizia umana e spirituale come
una strada verso la pienezza dell'amore cristiano.
Un modo di vivere l’amore di Dio per un cristiano è sicuramente
l’amicizia spirituale. Basta pensare che nella Parola di Dio l’amicizia
ci viene presentata come un dono divino (un chàrisma); Dio premia
il giusto dandogli un amico: “Un amico fedele è una protezione potente,
chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non
c’è peso per il suo valore. Un amico fedele è un balsamo di vita, lo
troveranno quanti temono il Signore” (Sir 6, 14-16).
Gesù, poco prima della sua passione e morte, cosciente che il tempo che
gli restava per stare con i suoi era ormai quasi scaduto, volendo
lasciare loro quelle parole-testamento che nascono dal profondo del
cuore e che non dovranno mai più essere dimenticate, si manifestò loro
come un amico tra amici: l’icona dell’amico. Non come un fratello,
perché tra fratelli ci può essere sicuramente amore, ma anche disistima,
indifferenza, persino odio; tra amici no, sarebbe una contraddizione.
Queste furono le sue parole: “Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che
io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello
che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho
udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me,
ma io ho scelto voi…” (Gv 15, l3-16).
Parole in cui troviamo tutti gli elementi tipici dell’amicizia: la
scelta, il numero ridotto, la confidenza, l’apertura totale, l’essere
disposti a dare la vita per l’altro. Quando Dio si è fatto come uno di
noi, in carne e ossa, e ha voluto esprimersi in un modo intelligibile
alla nostra esperienza umana, ci ha detto che era un amico fedele fino
alla morte.
Nella storia della Chiesa sono stati molti, sin dai primi tempi, coloro
che hanno vissuto questa esperienza umano-divina dell’amicizia.
Ricordiamone alcuni più conosciuti: Agostino, Francesco d’Assisi,
Tommaso d’Aquino, Teresa d’Avila, Carlo de Foucauld, Pio da Pietralcina,
ecc., tanto per limitarci a qualche esempio e a cristiani riconosciuti
dalla Chiesa come santi o beati, cioè, modelli sicuri. Ma, ne potremmo
citare molti di più. E poi ci sarebbe l’infinito numero di altri
cristiani, famosi o non, dei secoli passati o dei nostri giorni, anche
se non hanno avuto, almeno finora, il riconoscimento ufficiale della
loro santità.
Vorrei soffermarmi ora su un caso particolarmente significativo: il
beato Aelredo di Rievaulx, abate cistercense. È un caso speciale perché,
caso rarissimo nella storia della spiritualità cristiana, soprattutto
della Vita consacrata, scrisse tutto un libro sull’amicizia tra i suoi
monaci come cammino verso la santità: De spiritali amicitia
(Sull’amicizia spirituale)
[1]. Ricordarlo noi, che veniamo da un’epoca in cui
soltanto nominare il tema dell’amicizia nella vita comunitaria faceva
pensare alle peggiori conseguenze spirituali e morali, è quanto mai
importante
[2].
Cenni di storia
Aelredo, chiamato “il Bernardo inglese”, nacque a Hexham (Scozia) nel
1110, da una famiglia di preti cattolici. A Hexham e poi a Durham,
studiò latino e frequentò le prime amicizie. Nel 1124 cominciò una
brillante carriera alla corte del re David I di Scozia. Nel 1132, a 22
anni, era già economo generale della corte. Diventò presto confidente
del re e amico dei suoi figli. In questo periodo lesse il Lelio di
Cicerone
[3]. La sua competenza, amabilità ed esuberante
affettività, gli procurarono un successo straordinario nell’ambiente di
corte. Il futuro si presentava quanto mai promettente. Fu il suo periodo
“mondano”.
A motivo di una missione diplomatica a York, visitò due volte l’abbazia
cistercense di Rievaulx, da poco fondata. Restò molto impressionato
della povertà e fraternità che regnava tra i monaci e vi entrò come
novizio. Seguirono sette anni dedicati allo studio e alla preghiera, in
cui intrecciò le prime amicizie monastiche (Simone, Ugo, Gualtiero…).
Nel 1142, rientrando da un viaggio a Roma, dove era andato con una
delegazione per trattare col Papa la questione del nuovo arcivescovo di
York, a 32 anni fu nominato maestro dei novizi; rimase in carica due
anni.
Fu in questo periodo che, su ordine di san Bernardo, scrisse la sua
opera più importante, Speculum caritatis (Lo specchio della
carità), e iniziò un primo abbozzo dell’opera più celebre, L’amicizia
spirituale, la cui stesura definitiva vedrà la luce dopo vent’anni. Nel
1144, a 34 anni, venne eletto abate della nuova fondazione di san
Lorenzo di Rivesby, filiale di Rievaulx, nel Linconshire. Nel 1147, a 37
anni, fu eletto abate di Rievaulx, ufficio nel quale rimase per
vent’anni, fino alla morte, avvenuta il 12 Gennaio 1167, a 57 anni.
Dopo la sua morte, la fama di santità si diffuse presto; e sulla tomba,
molto venerata, fu scritto: “Et cito quam legitur, tam cito relegitur”
(appena lo leggi, subito lo rileggi): una grande lode per uno scrittore!
Un’intensa attività
La sua attività fu enorme; non solo perché la comunità abbaziale era
grandissima (giunse fino a 640 membri!), ma anche per i suoi contatti
con la Chiesa e la società del suo tempo. Ebbe rapporti con vescovi,
politici, abati, scrittori… Aveva la fama di essere dolce, equilibrato,
buon predicatore ed amministratore, saggio direttore spirituale, tutto
quanto mescolato a un grande senso dell’umorismo (il che non guasta!).
Nei suoi studi, le fonti furono: la Bibbia, Agostino, Bernardo,
Guglielmo di St. Thierry. Possiamo dire che fu l’esempio dell’umanista
cistercense. Come padre dei monaci, potremmo riassumere così la sua
azione: portare alla perfezione della carità attraverso l’amicizia
vissuta
[4].
A volte, Aelredo è stato accusato di essere stato troppo ottimista nelle
sue affermazioni, quasi un illuso. Sta di fatto che alcuni anni dopo la
sua morte, l’abbazia passò, a quanto sembra, per una grave crisi, con
molte defezioni. Da alcuni documenti del tempo, emanati dalla Santa
Sede, risulta persino l’ordine di allontanare dalle parrocchie gli
ex-monaci provenienti da Rievaulx.
È difficile, però, sapere se questa crisi si debba attribuire al metodo
aelrediano, un po’ troppo idealista, oppure a ragioni di altra indole.
Come, ad esempio, la sua malattia: gravi disturbi renali con
dolorosissimi calcoli, che afflissero l’abate per lunghi anni, ai quali
si aggiunsero negli ultimi dieci anni una forma di artrite e, l’ultimo
anno, una tosse secca e insistente
[5]. O piuttosto al numero troppo grande e cresciuto
troppo in fretta dei monaci, che non potevano essere ben formati, ecc.
Due trattati fondamentali
Di Aelredo scrittore ci restano circa 180 manoscritti, a cui
bisognerebbe aggiungere diverse centinaia di lettere che però sono
andate perdute. Per capire il suo trattato sull’amicizia spirituale
bisogna collegarlo a Lo specchio della carità, scritto tra il 1142-1143
[6]. Almeno per due ragioni: perché è l’opera prima e
fondante, che contiene le linee maestre del suo pensiero, e soprattutto
perché è un passaggio obbligato per comprendere L’amicizia spirituale
[7]. Lui stesso dice che lo Specchio finisce con un
inno all’amicizia che bisognava approfondire ulteriormente
[8].
Lo Specchio, infatti, che è una collezione di conferenze ai novizi, deve
essere letto come la parte prima, teologica e psicologica, del trattato
dell’amicizia spirituale
[9]. Quindi, L’amicizia spirituale va considerata come
un tentativo di mettere assieme la Bibbia e Cicerone; però, mentre
quest’ultimo resta in una visione terrena, Aelredo vedrà l’amicizia
umana come una strada verso l’amicizia divina
[10].
Lo specchio della carità è una vera “storia dell’amore”, divisa in tre
libri: 1) eccellenza della carità; 2) obiezioni e ostacoli alla carità;
3) psicologia e pratica della carità. Si conclude con l’affermazione che
l’amore perfetto si godrà soltanto in cielo; però, già sulla terra, se
ne può avere la gioia, quando si ama con la ragione e con il sentimento,
come succede con gli amici. A immagine di Dio, tale fruizione degli
amici deve realizzarsi con saggezza (senza vanità), con santità (senza
peccato) e con giustizia (senza adulazione). A tali condizioni,
l’amicizia sarà “la perfezione della carità sulla terra”
[11]. L’amicizia dunque diventa non solo “uno”, ma “il
miglior modo” di vivere la carità.
L’amicizia spirituale, riscritto e completato verso il 1160, per
rispondere alle richieste dei suoi monaci, è quindi una vera seconda
parte de Lo specchio. In quest’ultimo si parla dell’amore di Dio; in
quello, dell’amore al prossimo. È formato da tre dialoghi o libri. Fu
largamente imitato, copiato e sunteggiato da autori medioevali. Aelredo
cerca di dare un’impostazione teologica all’amicizia umana. Le fonti
dell’opera sono: il Lelio di Cicerone, la Bibbia, i Padri (tra i quali,
Agostino è il preferito, e poi Bernardo, Ambrogio, Gerolamo) e Lo
specchio
[12].
Passiamo ora a vedere le principali affermazioni di Aelredo ne
L’amicizia. Dopo un breve Prologo, in cui racconta di aver letto il
Lelio già prima di essere monaco e di aver cercato di vivere
cristianamente l’amicizia, aiutato della lettura della Bibbia e dei
Padri (nn. 3-6), cominciano i tre libri.
Libro I: Natura e origine dell’amicizia
Il dialogo tra Aelredo e Ivo, un novizio, comincia con la sintesi della
sua visione umano-cristiana dell’amicizia: “Aelredo: Eccoci io e tu e,
lo spero, terzo tra noi Cristo” (I 1)
[13]. Eco delle parole di Cristo: “Dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). È chiaro
dunque, sin dal principio, che, sebbene terrà conto di Cicerone,
l’amicizia non potrà giungere alla sua pienezza se non dentro una
visione e un’esperienza cristiana. Cicerone sarà come il pedagogo che
condurrà fino a un certo punto verso Cristo; ma, l’amicizia perfetta la
si potrà soltanto raggiungere in Cristo. Ivo chiede allora di sapere
cosa sia l’amicizia (I 5) e, più teologicamente, come essa debba essere
intesa: “Tra noi cominci in Cristo, si sviluppi in Cristo e ponga in
Cristo il suo fine e la sua perfezione” (I 8; cf. II 20)
[14].
Già nel primo dialogo e fin dall’inizio del medesimo, Cristo appare come
la chiave per capire l’amicizia cristiana. Due volte ripete tutta la
spiegazione: l’amicizia spirituale nasce in Cristo, si conserva nella
conformità con Lui, ha Lui come fine e perfezione (I 8); o, come dirà
poco più avanti, nasce in Cristo, cresce in Cristo, termina in Cristo (I
10). E, se l’amicizia deve essere “cristiana”, non può non essere
“trinitaria”, perché Cristo è immagine del Padre, Sua Parola, e il Loro
amore è stato comunicato a noi dallo Spirito Santo (cf. Rm 5, 5; 2 Pt 1,
4). Perciò si potrà dire che l’amicizia umana, vissuta cristianamente, è
un riflesso in questo mondo dell’amore intra-trinitario.
La definizione di amicizia, dunque, data da Cicerone
[15] non basta, perché non ha conosciuto Cristo.
Aelredo dà una sua prima definizione: “L’amicizia è quindi quella virtù
che lega gli animi con una dolce alleanza d’amore e di più cose fa
un’intima unione” (I 21).
Chiarisce subito che carità e amicizia non s’identificano. L’orizzonte
della carità è più vasto, perché ci obbliga ad amare anche i nemici e
non esige la confidenza e reciprocità che, invece, suppone l’amicizia:
“Amici invece sono solo coloro a cui non temiamo di aprire il nostro
cuore e ciò che vi è in esso. Ed essi a loro volta si stringono a noi
con la stessa legge sicurissima della fedeltà” (I 32).
Neanche qualsiasi amicizia umana è vera amicizia. Lo è solo l’amicizia
spirituale, cioè, quella che ha luogo tra i buoni. Infine, Aelredo così
riassume e completa la definizione ciceroniana: “L’amicizia spirituale
tra i buoni sorge da somiglianza di vita, di costumi e desideri, cioè è
accordo nelle cose divine e umane con benevolenza e carità. Definizione
che mi pare sufficiente ad esprimere l’amicizia, qualora si intenda la
carità secondo il nostro modo” (I 46-47).
Cioè, come vita divina in noi (1 Gv 4, 8.16; Rm 5, 5; 2 Pt 1, 4),
l’amicizia cristiana dunque è la forma più perfetta della carità, anche
se la carità - come dicevamo - ha un orizzonte più vasto, perché non si
limita al suo frutto più perfetto. In conseguenza, l’amicizia umana
vissuta in caritate (secondo ciò che significa e suppone l’amore
cristiano) è il vero traguardo, il più sublime, sia dell’amore in genere
che dell’amicizia umana stessa.
La sorgente dell’amicizia è la natura; poi l’esperienza non ha fatto
altro che accrescere questo sentimento; e, infine, l’autorità della
legge lo ha Regolato (I 51). Iddio, facendo l’uomo socievole (Gn 2, 18),
ha messo nel suo cuore la base della carità e dell’amicizia sin
dall’inizio (I 57). Purtroppo, il peccato fin dal principio ci ha fatto
distinguere tra carità e amicizia, poiché a tutti, compresi i nemici,
dobbiamo carità ma l’amicizia è possibile soltanto tra i buoni, non con
i cattivi (I 58-59).
In conclusione, se l’amicizia vera si trova solo fra coloro che si amano
secondo virtù, si può dedurre che, se Dio è amore, Dio è amicizia?
Aelredo non accetta né rifiuta la risposta affermativa: “È una
espressione non usata, né ha l’appoggio specifico della Scrittura.
Tuttavia ciò che viene scritto della carità non dubito di applicarlo
all’amicizia, perché: chi vive nell’amicizia, vive in Dio e Dio in lui
(1 Gv 4, 16)” (I 69-70).
Più tardi, san Tommaso d’Aquino concepirà, invece, tutta la vita
spirituale del cristiano come un certo rapporto di amicizia
soprannaturale con Dio. E santa Teresa d’Avila vedrà la vita di
preghiera come un discorrere di amicizia restando spesso da soli con
Colui che sappiamo ci ama
[16]. Aelredo dunque lo pensa, ma non osa dirlo
apertamente.
Libro II: Vantaggi, limiti e meta dell’amicizia
Il nuovo colloquio si svolge fra Aelredo, Gualtiero e poi Graziano,
parecchi anni dopo il primo. Il maestro comincia con un commosso ricordo
dell’amico Ivo (II 5-6), ora morto.
Vantaggi dell’amicizia
Aelredo inizia facendo il più grande elogio dell’amicizia: “Quaggiù non
c’è nulla di più santo da desiderare, nulla di più utile da cercare,
nulla più difficile da trovare, niente più dolce da provare, niente più
fruttuoso da conservare dell’amicizia” (II 9).
Più ancora: “Essa dà sapore a tutte le virtù; con la sua forza reprime i
vizi: tempera le avversità e modera la prosperità; così tra i mortali
nulla può essere piacevole senza un amico. Si può paragonare ad una
bestia chi non abbia uno con cui gioire nelle ore liete e piangere nelle
tristi; uno con cui sfogare ciò che pesa nel cuore, a cui comunicare le
idee straordinarie e sublimi che gli venissero. ‘Guai a chi è solo:
quando cade non avrà chi lo sollevi’ (Qo 4, 10). Ed è proprio solo, chi
non ha un amico” (II 10-11).
Non si poteva dire di più: non è umana la vita di colui che non ha un
amico! E non dimentichiamo che sta parlando a monaci e sulla vita
monastica. E non parla di un affetto (l’amicizia) rivolto a tutti in
genere; del resto sarebbe impossibile in un monastero con centinaia di
membri.
E aggiunge: “Quale felicità, invece, quale sicurezza e gioia avere uno
‘con cui parlare come a te stesso’ (cf. Cicerone, Laelius, cit.,
p. 22); uno a cui non temi di confessarti se sei caduto; cui non
arrossisci di rivelare i progressi nelle cose spirituali, uno al quale
puoi affidare tutti i segreti del cuore e scoprirne i progetti! Che c’è
di più bello che unire cuore e cuore, fare di due una sola cosa, senza
temere violenza, senza sospetti? Senza che uno si lamenti d’essere
corretto dall’altro, e l’uno debba rimproverare l’altro di lodare per
adulazione….
‘L’amico, dice il Sapiente (Sir 6, 16), è una medicina di vita’. Come è
vero! Non c’è infatti medicina più forte o più efficace o più eccellente
per le nostre ferite, in tutte le cose terrene, che avere chi soffra con
noi in ogni sventura, e goda nei successi. Così che, come dice
l’Apostolo (Gal 6, 2), ‘unendo le loro spalle portano insieme i loro
pesi, o meglio ognuno trova più leggera l’offesa fatta a sé che quella
fatta all’amico’.
L’amicizia rende dunque la prosperità più splendida e l’avversità più
leggera (Cicerone, op. cit., p. 22), dividendola un po’ ciascuno.
L’amico è dunque la medicina migliore della vita…, l’amico è
necessario….
Per questo gli amici, come dice Cicerone (Cicerone, op. cit., p. 23),
anche lontani sono presenti, anche poveri sono ricchi, anche se invalidi
sono robusti e, quel che è ancora più difficile, anche morti sono vivi.
L’amicizia è dunque la gloria dei ricchi, la patria degli esuli, la
fortuna dei poveri, la medicina dei malati, la vita dei morti, il vigore
dei sani, la forza dei deboli e il premio dei robusti. È così grande
l’amore, il ricordo, la lode e il desiderio che si ha degli amici
(Cicerone, op. cit., p. 23), che la loro vita è giudicata degna di lodi
e la loro morte preziosa. Ancor più, l’amicizia è un gradino prossimo
alla perfezione che consiste nell’amore a Dio e del prossimo; in modo
che l’uomo da amico dell’uomo diviene amico di Dio: come dice il
Salvatore nel vangelo (Gv 15, 15), ‘Ormai non vi dico più servi, ma
amici’” (II 11-14).
Ma, in quale senso “l’amicizia è la migliore scala alla perfezione” (II
15), o “l’amicizia è un gradino all’amore e alla conoscenza di Dio”? (II
18). Di nuovo Aelredo distingue fra carità e amicizia: la carità si
rivolge a tutti e, con essa, la benevolenza e la beneficenza.
L’amicizia, invece, suppone corrispondenza, reciprocità e intimità,
confidenza, che non vengono esigite dalla carità giustamente vissuta.
In altre parole, l’amicizia cristiana è sempre carità; ma, la carità non
sempre si manifesta come amicizia. Proprio per questo, però, l’amicizia
appare come la migliore realizzazione della carità, perché aggiunge alla
carità in genere, degli elementi più profondi e personali di comunione
(cf. II 18-20).
E, in tutto questo, Cristo è il centro dell’amicizia per due ragioni:
perché è Lui a promuovere, ispirare e perfezionare l’amicizia umana
vera, e perché Lui stesso ci si è presentato come amico da amare (II
20). Così, l’amico che ama l’amico: “nello spirito di Cristo, diventa
con lui un solo cuore e una sola anima (cf. At 4, 32). E, salendo i
gradini dell’amore verso l’amicizia di Cristo, diventa un solo spirito
con lui, in un mistico bacio” (II 21).
Bacio spirituale, non fatto di contatto fisico, ma di affetto del cuore;
non unendo le labbra, ma mescolando gli spiriti (III 26); gli amici
credono di essere “quasi un’anima sola in diversi corpi” (II 26).
L’amicizia umana è così un cammino verso l’amicizia con Cristo; e
l’amicizia spirituale diventa un dono dello Spirito, un carisma.
Limiti e meta dell’amicizia
L’amicizia - dicono Graziano e Gualtiero - non significa, però,
un’identità di volontà con l’amico fino al punto di peccare, né
ricambiare ogni servizio o beneficio, né comportarsi con lui come con se
stesso (II 28-31). E Aelredo aggiunge: “Cristo stesso ha stabilito il
confine dell’amicizia dicendo: ‘Nessuno ha amore più grande di chi dà la
vita per coloro che ama’ (Gv 15, 13). Ecco fin dove deve tendere l’amore
tra amici, che vogliano morire uno per l’altro” (II 33).
Il confine positivo dunque è morire per l’amico, dare per lui la vita;
il confine negativo è di mai peccare per compiacere l’amico (II 69). Il
confine è chiaro: non è quello della semplice identità con l’amico,
bensì quello tra il bene e il male. Ecco perché, l’amicizia vera non può
esistere tra i cattivi o i pagani; ma, soltanto: “Può sorgere tra i
buoni, progredire tra i migliori, consumarsi tra i perfetti” (II 35-41).
Questo, però, non significa che l’amicizia sia possibile solo tra i
perfetti, ma sì tra coloro che hanno percorso ormai un certo pezzo di
strada e continuano a correre verso la perfezione, anche se ancora non
l’hanno raggiunta.
Libro III: La “grammatica” dell’amicizia
Il dialogo ha luogo all’indomani di quello precedente e con gli stessi
interlocutori. Ha un carattere eminentemente pedagogico e usa ampiamente
le osservazioni di Cicerone. Comincia con un preambolo: qual è la fonte
o la sorgente dell’amicizia? La risposta è un po’ diversa da quanto ha
detto nel Libro I, perché suppone ormai quanto finora detto: “La fonte e
la sorgente dell’amicizia è l’amore: infatti ci può essere amore senza
amicizia, ma non amicizia senza amore” (III 2). Un amore che, per essere
spirituale, dovrà trovare il suo solido fondamento nell’amore di Dio e
le sue esigenze (III 5). Si ritorna alla base: la carità cristianamente
intesa; questa sarà la fonte di una amicizia giusta.
E si domanda di nuovo: dobbiamo ricevere nella nostra amicizia tutti
quelli che amiamo? No, risponde, perché non tutti ne sono capaci: si
deve amore a tutti, ma non amicizia. Per trovare la persona capace di
amicizia perfetta, bisognerà salire quattro gradini: “Il primo è la
scelta (electio), il secondo la prova (probatio), il terzo
l’accettazione (admissio), il quarto è il perfetto accordo (summa
consensio) sulle cose divine e umane con carità e benevolenza” (III
8).
Poi approfondisce, riassumendo praticamente nella “scelta” e nella
“prova” i quattro gradini. Riguardo alla “scelta”, non va fatta con
facilità, perché certi difetti rendono poi difficile l’amicizia. Vanno
evitati: gli iracondi, a meno che non si sforzino di vincersi; una
volta, però, fatta amicizia, vanno tollerati e rimproverati (III 15-18).
Anche gli instabili e sospettosi, perché non hanno fedeltà, pace,
fiducia (III 28-29). I chiacchieroni (III, 30). Infine, gli scandalosi,
traditori, impuri, avari, ambiziosi e criminali (III 23-25, 28-30, 46,
59).
Anche se, realista come è, Aelredo dice che bisogna escludere solo gli
incorreggibili. Perciò la correzione fraterna ha una parte importante
nella pedagogia dell’amicizia, secondo lui. Ma, se questi difetti
appaiono una volta iniziata l’amicizia? Va usata ogni cura perché si
correggano; non ci si deve allontanare dagli amici, a meno che non
succedano delle grandi offese, e, casomai, pian piano (III 40-41). Con
l’ex-amico, poi, va mantenuta ad ogni modo la carità (III 44). La scelta
dell’amico, per ultimo, deve cadere su uno che non sia troppo dissimile
nel modo di vivere o troppo differente di carattere (III 30, 54-59).
Per quanto concerne la “prova”, nell’amico si debbono provare quattro
cose (III 60-73): la fedeltà, perché è nell’avversità che si vede il
vero amico; l’intenzione, per vedere cosa lui cerca in te; il criterio,
cioè, il modo di pensare e giudicare, per capire cosa si debba dare o
chiedere all’amico; la pazienza, per non addolorarlo, né fargli perdere
l’amicizia.
E sulla “pratica” dell’amicizia, Aelredo avverte che gli amici siano tra
loro semplici, comunicativi, arrendevoli e appassionati delle medesime
cose. Si guardino dal sospetto. Siano amabili, sereni. Creino una certa
uguaglianza, se uno è superiore all’altro in qualcosa (III 88-97). Siano
generosi e benevoli, solleciti l’uno dell’altro, preghino
vicendevolmente, soffrano e gioiscano l’uno per l’altro (III 99-102).
Non dimentichino che il rispetto e la riservatezza sono ottimi compagni
dell’amicizia; anche se questo non toglie che gli amici, proprio perché
ognuno vuole il bene dell’altro, si devono ammonire e persino
rimproverare, usando magari dolcezza e moderazione (III 102-108):
“Nessuna esitazione dunque tra amici, nessuna finzione, che ripugna
moltissimo all’amicizia. All’amico si deve dire la verità; senza di essa
il nome di amicizia non vale più nulla” (III 109).
Alle volte sarà forse doverosa la dissimulazione, cioè, saper differire
la pena o la correzione, senza approvare internamente la mancanza, a
seconda del luogo, del tempo e delle persone; ma, mai tollerare la
simulazione, cioè, consentire a qualcosa di inaccettabile (III 110-112).
Riguardo alle cariche e agli onori, va seguita sempre la ragione, non il
sentimento; cioè, vanno affidati a coloro che vediamo più atti a
portarli. Ma, se la virtù è pari “non disapprovo che l’affetto faccia il
suo gioco” (III 114-116). Nessuno dunque pensi di non essere amato
perché non è promosso: il Signore amava di più Giovanni, e ciò
nonostante affidò la Chiesa a Pietro (III 117).
Poi, Aelredo racconta due delle sue esperienze di profonda amicizia. Qui
si vede come le sue teorie non sono altro che il risultato della sua
esperienza personale (III 126-127).
Congedandosi, l’abate ricorda che, chi non ama se stesso, non può amare
un altro: perché l’amore di se stesso è la Regola con cui ordinare
l’amore del prossimo (cf. Lv 19, 18; Mt 22, 39). Perciò bisogna
cominciare da se stessi a operare il bene e a purificarsi (III 128-129).
Conclusione
In conclusione, l’amicizia è possibile, anzi necessaria, anche tra i
monaci. Partendo dalla sua base umana, deve essere vissuta secondo il
modello che è Cristo con i suoi discepoli, e in tensione verso la
pienezza dell’amore di Dio. Senza dimenticare che in questo mondo
l’amicizia non è possibile con tutti, lo sarà però nell’eternità (III
133-134).
Nel maestro Aelredo, la storia umana, cristiana e monastica, ci ha
lasciato una testimonianza quanto mai ricca di amicizia vissuta e
approfondita, una sintesi di vita e pensiero, di ricchezza umana e
soprannaturale. Un esempio anche per noi, uomini e donne, cristiani e
religiosi del ventunesimo secolo.
|
[1]
Aelredo Di Rievaulx, L’amicizia spirituale, Introduzione,
traduzione e note di Domenico Pezzini, Ed. Paoline, Milano 1996.
[2]
A questo proposito, vorrei segnalare un articolo recente sul tema
dell’amicizia nella vita consacrata: J. Rovira, L’amicizia nella Vita
Religiosa secondo i principali documenti del Magistero recente. Dal
Concilio Vaticano II al “Ripartire da Cristo”, in “Vita Consacrata”,
43 (2007). Su Aelredo si è scritto molto, anche di recente. Si veda, ad
esempio, H. Thibout De Morembert, Aelredo di Rievaulx, in
Dizionario degli Istituti di Perfezione (DIP), I, Ed. Paoline, Roma
1974, coll. 126-128; J.L. Lekai, Rievaulx, in DIP, cit., VII,
Roma 1983, coll. 1714-1715; A. M. Fiske, Friends and friendship in
the Monastic Tradition, Centro Intercultural de Documentación,
Cuernavaca, México 1970; M. Powicke, The Life of Aelred of Rievaulx
by Walter Daniel, Oxford 1978; P.M. Gasparotto, La amistad
cristiana según Aelredo de Rievaulx (1110-1167), Universidad
Pontificia de México, México 1987; B.P. McGuire, Friendship and
Community. The monastic experience, 350-1250, Cistercian
Publications, Kalamazoo 1988, pp. 296-338; R. Wanner, Aelred of
Rievaulx; Twelfth-Century Answers to Twentieth-Century Questions, in
RfR,46 (1987), pp. 914-930; A. Montanari, L’amicizia nei monasteri
cistercensi del XX secolo, in “Rivista Cistercense”, 14 (1997), pp.
255-290; M. Baldini, La storia dell’amicizia, Armando, Roma 2001;
B. Olivera, Amistades transfiguradas.
Amigos y amigas por el Reino,
Madrid 2000; Id., Amistades heterosexuales, in AA.VV., Suplemento
al Diccionario Teológico de la Vida Consagrada, Publicaciones
Claretianas, Madrid 2005, pp. 28-54; J.M. Gueullette, L’amitié une
épiphanie, Cerf, Paris 2004, pp. 105-166, 204-211.
[3]
M.T. Ciceronis, Laelius, seu de amicitia.
[4]
Cf. P.M. Gasparotto, op. cit., p. 27.
[5]
Si è parlato anche della sua psicologia, cf. McGuire, op. cit.,
pp.302-304, 307, 331-333), M. Powicke, op. cit.,LXV), A. Montanari, op.
cit., p. 281); si veda anche C. Nardi, L’eros nei Padri della Chiesa,
Montespertoli 2000, pp. 104-117; J. Boswell, Cristianesimo,
tolleranza, omosessualità, Milano 1989, pp. 275-279; B.P. McGuire,
Sexual Awareness and Identity in Aelred of Rievaulx (1110-1167),
in “The American Benedicine Review”, 45 (1994), pp. 184-226; J.M.
Gueullette, op. cit., pp. 245-252.
[6]
Cf. Introduzione al volume Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della
Carità, a cura di P. - M. Gasparotto, Edizioni Cantagalli, Siena
1985.
[7]
Cf. Aelredo Di Rievaulx, L’amicizia spirituale, cit., p. p. 30.
[8]
Cf. Id., Lo specchio della Carità , cit., III, pp. 109-113.
[9]
Cf. Ibid., p. 7.
[10]
Cf. P. Lain Entralgo, Sobre la amistad, Revista de Occidente,
Madrid 1972, pp. 78-79.
[11]
Aelredo di Rievaulx, Lo specchio della carità, cit., III, p.111.
[12]
A continuazione, i numeri romani si riferiranno alle varie parti o libri
dell’opera; e i numeri arabi a quelli dell’edizione critica a cui si
adatta il Gasparotto nella terza edizione dell’opera. Si veda anche
Aelredo Di Rievaulx, L’amicizia spirituale, cit., pp.54-77.
[13]
Aelredo Di Rievaulx, L’amicizia spirituale, cit., I 1: “Ecce: ego
et tu, et spero tertius inter nos Christus”.
[14]
Ibid. (I 8): “In Christo inchoatur, per Christum promovetur, in Christo
perfecitur”.
[15]
Laelius, seu de amicitia,
cit., 6, 20: “L’amicizia non è altro che un perfetto accordo nelle cose
divine e umane, accompagnato di benevolenza ed affetto” (“Est enim
amicizia nihil aliud, nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum
benivolentia et caritate consensio”).
[16]
Si veda quanto dirà dopo San Tommaso D’Aquino: “L’amicizia è quanto vi è
di più perfetto tra ciò che concerne l’amore. È in questo genere supremo
che bisogna porre la carità, che è una certa amicizia dell’uomo con Dio
mediante la quale l’uomo ama Dio e Dio l’uomo. E così si compie una
certa associazione dell’uomo verso Dio, come è detto in Giovanni (1 Gv
1, 7)” (III Sent. Dist. 27 q. 2 a. 1). Anche più tardi, nella Somma,
ripeterà che la è carità una specie di amicizia (amicitia quaedam)
dell’uomo con Dio (cf. STh II-II q. 23 a. 1c). Cf. S. Teresa D’Avila,
Vita, 8, 2.
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2 dicembre 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net